Storia degli Italiani, vol. 08 (di 15) - 16
capitano del popolo ne menò trionfo, e gli Ubaldini furono sciolti
dal bando, restituiti in possesso de’ beni allodiali nel Mugello, e
dichiarati cittadini popolani[104]. I Santafiora furono sottomessi da
Siena, il castel della Sambuca dai Pistojesi, concentrandosi così più
sempre i poteri nelle città, mentre sopra queste vigoreggiava Firenze,
che ebbe sottoposto (1390) anche Montepulciano. Vero è che la tributò
la peste rinnovatasi nel 1400[105]; ma rifattasene, comprò Cortona per
sessantamila fiorini, e tolse i possessi ai conti Guido di Dovadola e
al conte di Poppi.
I Genovesi, dolenti che Venezia acquistando Padova si fosse tanto
rinforzata in terraferma, pensavano ad elevarle qualche avversario,
e non videro miglior modo che ingrandire Firenze col farle acquistar
Pisa, a patto che guerreggiasse i Veneziani. Indussero dunque
Gabriele Maria Visconti a vendere loro quella città e Ripafratta per
ducentoseimila fiorini: ma i Pisani, indignati di vedersi mercatare
come armento, si ricordano dell’antica nobiltà, afferrano le armi
(1405) e resistono, diretti da Giovanni Gambacorti. I Fiorentini
«scandolezzati dell’alterigia pisana» non vogliono sentire nè messi nè
patti; e risoluti ad ogni estremo per domarli, destinano dieci sopra
quella guerra fratricida. I Pisani li respinsero intrepidi; ricomposero
le inestinguibili nimicizie de’ Raspanti e Bergolini, prendendo insieme
l’eucaristia e stringendo parentadi; e benchè, dispersa da una burrasca
la flotta che recava grani di Sicilia, fossero ridotti i priori a
mangiare pan di linseme, e il popolo fin la gramigna delle strade,
pur resistono allo Sforza, a Tartaglia, a’ soldati, cui i Fiorentini
prometteano, se scalassero le mura, paga doppia, mese compito, il
saccheggio della città, centomila fiorini di mancia, ed armi e vesti
a piacere. E quando, dopo lungo assedio e consumate innumere vite,
il Gambacorti capitolò ricevendo denari, essi dovettero accettare la
servitù, ma molti abbandonarono la patria per sempre.
Gino Capponi, integerrimo petto, che in quella guerra si era segnalato
come commissario de’ Fiorentini, e a gran fatica salvò Pisa dal
saccheggio promesso ai venturieri, nominatone governatore, cercò
mitigare gli ordini del Comune vincitore e i fremiti del vinto; ma non
potè risparmiare il rigore. Quanto dovettero indispettirsi i Pisani
vedendo togliersi fin la testa di san Rossore, «come quella città,
priva della libertà e degli antichi onori, fosse ancora da’ suoi santi
abbandonata, e all’incontro Firenze di pompa, di gloria, di ricchezze
e di benedizione si riempisse»[106]. Alla prima occasione, tentarono
darsi ai nemici di Firenze, la quale allora meditò repressioni atroci,
chiamare a sè i nobili e megliostanti, cacciare tutti i cittadini dai
quindici ai sessant’anni, e altri spietati ordini, i quali abbiamo
ragione a credere non fossero messi ad effetto. Anzi troviamo che
la vincitrice mandò viveri in copia, poi si industriò, per ravvivar
quella che tanto avea faticato a spegnere; scrisse lettere, istruì
ambasciadori, trattò con principi, affinchè i tanti fuorusciti
ripatriassero; per venti anni francò d’ogni gravezza i forestieri che
andassero abitarvi famigliarmente; privilegiò di esenzioni e consoli
proprj i negozianti tedeschi di quattordici città perchè con quella
mercanteggiassero[107]; vi stabilì l’Università con lauta provvisione
e risedio magnifico. V’è però un bene che nessuna concessione pareggia
nè supplisce; ed è pena d’ogni conquistatore il vedersi obbligato a
spendere nel ribadire le catene e nel fare cittadelle e fortini, il
denaro che sarebbe richiesto al pubblico vantaggio.
Il Capponi fu lieto di vedere assicurato quell’acquisto col comprare
per centomila fiorini dai Genovesi il porto di Livorno, destinato
all’importanza che Pisa perdeva, e ad aprire ai Fiorentini traffici
lontani senza dipendere da Genova o da Venezia, e così colle private
crescere la fortuna pubblica. Subito fu provvisto alla sicurezza
di quel porto; vi si creò il magistrato de’ consoli di mare, che
erano sei cittadini fiorentini, di cui quattro estraevansi dalle
cinque arti maggiori, esclusa quella de’ giudici e notari, e due
dalle minori, principalmente occupati a prosperare la mercatura e la
marina, risolvere le cause marittime, e fabbricare una galea ogni sei
mesi, col legname delle foreste delle Cerbaje, facendo franche d’ogni
rappresaglia, anche in caso di guerra, le merci trasportate su quelle
galee. Ad esempio di Venezia, si stabilì edificare due galee grosse e
cinque sottili, da spedire ad Alessandria per spezierie ed altre merci,
e per esercitare la gioventù in cotali esercizj: vi s’imbarcarono
dodici giovani di buone famiglie, e dal soldano d’Egitto s’ottenne
d’avervi console, chiesa, fondaco, bagno, statera, bastagi, scrivano
proprio, per sicurezza dei mercanti e onorevolezza della nazione.
Furono posti consoli in tutte le parti di fedeli ed infedeli; e ben
tosto Firenze possedette navi per affrontar Genova e sconfiggerla.
Internamente essa prosperava con ordinamenti buoni, cooperando ciascuno
per l’accrescimento della città. Chiunque era ammesso cittadino, dovea
fabbricare in Firenze una casa di almeno cento fiorini; le scritture
pubbliche si ridussero ne’ libri delle Riformagioni; si convertì in
legge la compilazione degli statuti; si migliorò la moneta; si creò un
nuovo Monte o vogliam dire debito pubblico; si formò il catasto col
nome di ciascun cittadino, l’età, la professione, l’importare della
sua fortuna in beni immobili e mobili d’ogni specie, tassando di mezzo
fiorino ogni cento di capitale. Valutavasi che nelle vie attorno al
Mercato nuovo fossero settantadue banchi, e girassero in contante
due milioni di fiorini d’oro. Allora si cominciò l’artifizio dell’oro
filato, si moltiplicò quello de’ drappi di seta, fu permesso a ciascuno
d’introdurre foglia di gelsi e allevare filugelli senza gabella.
Copiosissime ricchezze aveano accumulalo que’ magistrati mercanti,
e l’eguaglianza repubblicana non lasciava sfoggiarle in inutile
suntuosità, non grandi comitive di servi, non insultante sfarzo di
carrozze; a piedi andavano anche le mogli de’ primaj; leggi suntuarie
reprimevano il lusso, permettendo la magnificenza, sicchè spendeasi
in palazzi, chiese, quadri e statue, o in trarre rarità e libri dal
Levante. Si abbellì la città coll’opera dei primi artisti: fu provvisto
che ciascun’arte collocasse lo stemma proprio e la statua del santo
patrono in una delle nicchie esterne di Or San Michele, ove lavoravano
di marmo e di bronzo Donatello, Andrea del Verrocchio, Baccio da
Montelupo, Nanni del Bianco, Simone da Fiesole, Lorenzo Ghiberti: a
questo l’arte di Calimala allogò le porte di bronzo di San Giovanni,
dove riuscì sì famosamente, che fu dichiarato gonfaloniere, e infisso
il gonfalone alla sua porta in Borgallegri; mentre chiamavasi Filippo
Brunelleschi a voltare la cupola di Santa Reparata.
Per rimovere il pericolo di correre strabocchevolmente a guerre, si
prese che ad un consiglio di ducento, da rinnovarsi ogni sei mesi,
fossero fatte le proposte della Signoria, poi passate al consiglio dei
centrentuno, nel quale entravano la Signoria, i collegi, i capitani
guelfi, i dieci della libertà, i sei consiglieri della mercatanzia, i
21 consoli delle arti, e quarantotto altri cittadini; e se passassero,
doveano ancora sottoporsi al consiglio del popolo, indi a quello del
Comune; nè senza l’approvazione di questi quattro consigli veruna
provvisione avea forza. Speravasi che il dover consultare tanti
consigli indurrebbe alcuno a opporre il suo no; ma è sintomo di
debolezza il non saper rimediare che col moltiplicare i conflitti.
Insomma il governo rimaneva democratico, ingerendosi il popolo
direttamente dell’amministrazione; gran numero di cittadini v’erano
a vicenda chiamati, e i numerosi consigli pubblici erano scuola di
scienza civile: che se talvolta le passioni popolari e le fazioni
spingevano ad eccessi, in fondo la politica n’era generosa e insieme
arguta a scorgere i sottofini de’ papi e degl’imperatori, savio
ed abile il governo, civile la nazione, fida alla libertà anche a
gravissimo costo, devota alla santa Sede, non però ciecamente. Poco
valeva nelle armi, pure seppe opporre meglio che denaro alle bande di
ventura, e le avrebbe distrutte se i principotti non avessero avuto
troppo interesse a conservarle. Ella medesima se ne valse per fiaccare
i Visconti, e qualvolta cadde sotto la tirannia d’un soldato o della
plebaglia, non tardò a riscattarsene. Molti signori s’accomandavano
a Firenze, come i nobili di Guggio pe’ loro castelli nell’Imolese, i
marchesi di Lusuolo in Lunigiana, i Grimaldi di Monaco obbligandosi
a servire in persona con una galea, Gian Luigi dal Fiesco conte di
Lavagna promettendo condurre trenta lancie e ducento fanti, e ricevendo
stipendj.
Invece dei bassi o atroci delitti che insozzano le storie de’
principotti, Firenze ci tramandò i capolavori dell’arte e della
parola, i quali ne eternano la lode; le abbondarono cronisti e storici,
quali, dopo Dino e i Villani, furono Matteo Palmieri, Paolo e Giovanni
Morelli, Jacopo Salviati, Giannozzo Manetti, Amaretto Manelli, Domenico
Buoninsegna, Buonaccorso Pitti, Gino e Neri Capponi, Simone della Tosa,
Bernardo Rucellaj, Giovanni Cavalcanti, Lorenzo Buondelmonte, Filippo
Rinuccini; e la superiorità di costoro, che non soltanto raccontano più
colti e limpidi, ma giudicano ancora con grave assennatezza e spesso
con elevazione, è argomento del quanto la nazione fosse superiore alle
altre italiane nell’esaminare la politica, regolarla, sceverarla da
passioni; e come allo spirito di parte sovrastasse sempre l’amore della
patria.
Nei trentacinque anni ch’e’ presedette allo Stato, Maso degli
Albizzi mostrò abilità e coraggio; istrutto dall’avversa fortuna,
non imbaldanzito dalla benigna, strettamente alleato coi Veneziani,
tenne testa a Gian Galeazzo e a Ladislao, eppure non uscì mai dalla
condizione di privato: ma poichè la parte trionfante non seppe
astenersi nè dall’insolenza verso altrui, nè dalla sconcordia tra sè,
al morir suo le case degli Alberti, Medici, Ricci, Strozzi, Cavicciuli,
spesse volte d’uomini e di roba spogliate dai nobili popolani, e
rimosse dai pubblici uffizj, rifecero testa, e colle ricchezze e
coll’educazione mostravansi degne di amministrare lo Stato.
Giovanni di Bicci de’ Medici avea guadagnato largamente in traffici
di banco, massime durante il concilio di Costanza servendone al papa,
talchè avea credito illimitato e affari per tutto il mondo; pure
sembrò tanto benigno e scarco d’ambizioni, che si cessò d’escluderlo
dagl’impieghi. Coll’accomodare di denaro chi n’avesse bisogno, col
blandire al popolo, col mostrarsi moderato fra le esuberanze de’
parteggianti, si procacciò stima nell’universale, e più quando,
tumultuando il popolo per soverchie gravezze imposte a cagione
della guerra con Filippo Visconti, e volendo i nobili popolani
fiaccarlo collo sminuire il numero delle arti minori, egli si oppose
alla proposta, e sostenne l’alleggiamento e che si istituisse il
catasto, benchè su lui più che su altri, come maggior possidente,
dovesse gravare. Ricchi dunque e popolani studiavano trarlo dalla
loro; e malgrado l’opposizione di Nicolò da Uzzano, amico di Maso e
suo successore nel primato civile, il portarono (1421) al posto di
gonfaloniere, che con gran decoro sostenne fino a morte.
Cosmo suo primogenito ne ereditò (1429) il credito e l’importanza,
e a capo della fazione recò l’abilità e le virtù paterne, e maggior
animo nelle cose pubbliche; grave e cortese ne’ modi, liberale a
proporzione delle ingenti ricchezze; entrante, conoscitore profondo
degli uomini, longanime nello aspettar l’esito de’ disegni fermamente
concetti; franco nel manifestare i suoi pareri, eppur tenuto come
prudentissimo: inclinato alle vie dolci, ma sapendo all’uopo dar passi
robusti; francheggiato da molti amici e clienti, ai quali era sempre
disposto a fare servigio dell’aver suo. Di squisito gusto nelle arti,
di molta erudizione, di retto giudizio, favorendo le lettere e le
arti apriva nuove strade alla crescente operosità: il giro de’ banchi,
per cui non trovavansi più ridotti a miseria, legava gli sbanditi per
interesse e per gratitudine alla famiglia che più lavorava di cambio; i
condottieri deponevano presso di quella i loro avanzi, o le domandavano
anticipazioni. Più dovizioso riusciva Cosmo perchè non abbandonò mai
il vivere privato; senza sfarzo di casa che abbagliasse i cittadini,
senza comprare stranieri ministri, o scialacquare in pranzi e comparse,
o assoldar truppe, mai non dispose per sè più di quarantasei in
cinquantamila fiorini l’anno, mentre lo Sforza ne spendea trecentomila
prima di salire duca. E appunto le virtù private, i temperati consigli,
il sentimento popolare, la calma fra le burrasche fazioniere, la lauta
beneficenza furono stromenti alla potenza de’ Medici.
Lucca era stata lungamente alleata di Firenze, poi al 1314 disertò
da’ Guelfi; e dopo lo sfavillante dominio di Castruccio e d’Uguccione,
andò soggetta a vicenda a Gherardino Spinola, a Giovanni di Luxemburg,
a Mastino della Scala, a’ Fiorentini, a’ Pisani, a Carlo IV[108], dal
quale poi nel 1369 riebbe la libertà, cioè di non esser sottomessa a
verun’altra città, ma soltanto all’impero. E quel fatto di cui fecero
tanta festa i contemporanei, e tanto scalpore gli storici posteriori;
concordi nel proclamare come liberatore quel Carlo, che realmente
sottoponeva, almeno in carta, quella repubblica al dominio imperiale.
Immune da dipendenza di vicini, Lucca esercitò alla cheta le
interne emulazioni fra i discendenti di Castruccio, i Fortiguerra,
gli Spinetta e i Guinigi. Quest’ultima famiglia vi primeggiava;
ma essendo perita quasi tutta nella peste del 1400, il giovinetto
Paolo sopravissuto fu da ser Giovanni Cambi (il cronista) indotto
a farsi _signore a bacchetta_, e perciò, scostandosi da Firenze,
unirsi a Galeazzo Visconti, col cui appoggio si assicurò il dominio.
Senza tampoco rispettare le forme, come faceano i precedenti, e
togliendo ogni autorità al Comune, trent’anni egli serbò quieta la
repubblica, ma dappoco e sempre in paura di cadere, nè seppe introdur
buone istituzioni, nè farsi amici, benchè circondato di favoriti,
di parentele, d’alleanze co’ principi, e fidente nella _cittadella_
che fabbricò; mancava di quel valore che le plebi stimano più che
le qualità utili, e alle bande mercenarie, massime di Braccio, non
oppugnava che con grossissimi donativi. Firenze, da cui improvvidamente
egli avea alienato la repubblica (1429), trovò pretesto a romper seco,
e vi spedì i venturieri Nicolò Fortebraccio e Bernardino della Carda,
che squarciarono il paese. Il celebre architetto Brunelleschi suggerì
di sommerger Lucca, chiudendo l’alveo del Serchio, sicchè l’acqua
scalzasse le mura e le abbattesse. A grande spesa si alzò di fatto
l’acqua attorno alle mura, che per tre giorni furono inondate, ma poi i
contadini riuscirono a sdrucire l’argine, sicchè la piena si rovesciò
addosso al campo fiorentino (1430) con immensa jattura. Poi Francesco
Sforza, spedito dal duca di Milano, mise in isbaratto i Fiorentini, e
ne invase il territorio.
Il Guinigi col senno, e i suoi figli col braccio, aveano difeso Lucca;
eppure caddero in sospetto di volerla tradire ai Fiorentini, e furono
mandati prigioni a Milano, ripristinando il governo all’antica con un
gonfaloniere e col consiglio degli anziani. I Fiorentini, che aveano
mostrato assumer la guerra soltanto per assicurarsi dal Guinigi,
la proseguirono per sottoporre Lucca come le altre città toscane;
ma Nicolò Piccinino, stipendiato da Genova, ligio al Visconti, li
sconfisse del tutto sul Serchio, invase lo Stato, avvicinossi a Pisa,
che facea sonare le sue catene, bramosa di romperle.
Tale impresa era stata da Cosmo francamente disapprovata, sicchè
l’infelice riuscita crebbe ad esso tanta reputazione quanta ne
toglieva agli Albizzi e a Nicolò da Uzzano. Questo però repugnava dai
partiti violenti, conoscendo che una rottura aperta darebbe trionfo ai
Medici. Ma morto lui e conchiusa pace con Lucca[109], inciprignirono i
malvagi umori, e Rinaldo, figlio di Maso degli Albizzi, capoparte più
avventato, entrò in grandi pratiche di abbassare e anche cacciar Cosmo,
e ripigliarsi lo Stato. Disposte sue fila, sonò a balìa, e convocò
una di quelle assemblee in piazza, dove tutti accorrevano a onde e
deliberavano a schiamazzo, per l’urgenza del caso trascendendo le
barriere costituzionali, e pochi arruffapopolo trascinavano a decidere
secondo la fazione. Quivi si diede la balìa a ducento cittadini
indicati da Rinaldo; e Cosmo, per accusa di denaro disperso nella
guerra di Lucca, fu condannato a morte: se non che egli, comprando alla
sua volta Bernardo Guadagni gonfaloniere e gli altri che a Rinaldo
già s’erano venduti, ottenne d’essere soltanto sbandito (1433), e la
famiglia sua relegata tra le nobili.
Andossene a Padova; e allora comparve quanto egli fosse grande, caro
dov’era, desiderato ove non era. La Signoria veneta mandò onorandolo,
e il richiedeva di pareri; chiunque avesse alcun bisogno, ricorreva
ad esso, e una sua raccomandazione bastava: a lui facevano capo i
negozianti, sicchè l’avresti detto un piccolo sovrano; mentre a Firenze
artisti, poveri, trafficanti lamentavano mancato il loro sostegno.
Rinaldo, incapace a lottare coll’avversario lontano che vicino aveva
oppresso, cercava inutilmente afforzarsi col riabilitare i nobili
alle cariche, da cui già da gran tempo erano esclusi, e fin colle
armi tentò far prevalere la sua parte: non girò intero un anno, che
interponendosi papa Eugenio IV, allora quivi dimorante pel concilio,
fu senza scandali tratta una Signoria (1434 7bre) propensa a Cosmo,
questi rintegrato in patria con accoglienze meravigliose, e sbanditi
o confinati da settanta de’ suoi avversarj. Rinaldo, non essendosi
lasciato persuadere dal papa, e ignaro della virtù dell’aspettare e far
a queto, andò a sollecitare Filippo Visconti contro Firenze; e mandò
dire a Cosmo — La gallina cova»; al che questo rispose: — Mal cova
la gallina fuori del nido». Rinaldo colle bande del Piccinino (1440)
penetrò fin alla montagna di Fiesole e nel Casentino: i Fiorentini gli
opposero Francesco Sforza, rotto dal quale intieramente ad Anghiari, e
invano travagliatosi da capo per ricuperare la patria, andò a finire in
Terrasanta.
Cosmo, tornato in trionfo, salutato benefattore del popolo e _padre
della patria_, pigliò vendetta proscrivendo molti avversarj, molti
condannando al supplizio e fin senza confessione, altri assassinati,
come Balduccio, condottiere valente di fanteria toscana, che il
gonfaloniere di giustizia fece pugnalare e buttar giù dal palazzo
senza processi. Con tali colpi otteneasi docilità e svogliava
dall’opposizione, e a chi l’avvertiva come la città per tanti banditi
venisse in calo, rispondeva: — Meglio città guasta che perduta; del
resto, non vi affannate, che con due canne di panno rasato posso fare
un uom dabbene», cioè riparare con gente nuova.
Non si alterò il modo del governo e de’ magistrati di Firenze, ma tutto
dipendeva da Cosmo. Vedendo omai in ciascuna città italica dominare
una famiglia, pensò innalzar la sua in Firenze, non per armi, sibbene
coll’offrire agli ingegni attrattive e distrazioni nuove nelle arti
e nel sapere, avvivare il commercio, estendere la tela politica,
aumentare la propria importanza col darne alla patria su tutt’Italia,
e quiete a questa coll’equilibrarne gli Stati; a tal fine associò al
suo denaro la spada di Francesco Sforza, le due potenze di quell’età,
il banchiere e il condottiere. Potendo avere a disposizione tutti i
capitani di ventura, mantenne in bilancia le potenze d’Italia: alla sua
repubblica aggiunse Borgo Sansepolcro, Montedoglio, il Casentino e val
di Bagno.
Senza dunque sovvertire la costituzione e le leggi, fondava a cheto la
signoria delle ricchezze, le quali, mercè del commercio, aveano indotto
immensa disparità fra i cittadini, e procacciando ammiratori e clienti,
in pochi restringevano l’autorità, benchè durasse stato di popolo;
anzi in cinque soli fece Cosmo (1452) ridurre il diritto d’eleggere la
Signoria.
A fianco di lui figurava Neri Capponi, in consigli più sottile di Cosmo
e, ciò che questi non era, valente in armi e creduto dai soldati; il
quale, non cessando d’essergli amico, si tenne indipendente, e menò
gli affari più scabrosi. Loro mercè fu riordinata la tranquillità in
Firenze, ma insieme tolta la libertà, giacchè dal popolo, quante volte
volessero, faceano decretare una balìa dispotica, e riformare le borse,
e confinare chi li contrariava; mentre teneansi buoni gli amici col
secondarne le passioni, collocarli negli uffizj e ai governi, chiuder
gli occhi sulle arti onde s’ajutano i bassi, ligi ai potenti.
Alla morte di Neri (1455) parea dovesse ingrandire Cosmo, sciolto
da quest’ultimo contrappeso; ma il contrario gli accadde per averne
perduto l’appoggio. Gli avversarj pensano umiliarlo coll’abolire
le balìe, e tornare alla sorte l’elezione del gonfaloniere e della
Signoria; e il popolo va in gavazze, come di ricuperata libertà. Cosmo
però non discende pur d’un grado dalla ottenuta grandezza, perchè
temperatamente usata, e perchè gli uomini nuovi imborsati erano avvinti
a lui per interesse e mercatura, o ligi per gratitudine e speranze;
laddove non essendo più gl’impieghi concentrati in mano di pochi,
gl’inimici suoi si sottigliavano; i quali, avvedutisi dello sbaglio,
cercavano si ripristinasse la balìa. Cosmo, prima d’assentirvi, lasciò
che gustassero i frutti della loro inesperienza; ma quando (1458)
sortì gonfaloniere Luca Pitti, e’ lasciò tastassero la riforma. Il
Pitti, animoso e temerario, teneva col terrore un governo pigliato
colla forza: chiunque avesse bisogni o reclami, a lui ricorreva, alla
sua casa tutti i malviventi; e coi regali ricevuti, che vorrebbonsi
far ammontare a ventimila fiorini, e col dare sicurezza ai malfattori
che vi lavorassero, fabbricò il palazzo a Rusciano, e un altro in
città che maestoso grandeggiava sul _poggio_, mentre al piano i Medici
conservavano la ricca e pur semplice magione in via Larga.
Ritirato in questa, Cosmo appariva più grande dacchè non ritraeva
lustro che dal merito personale. Gliela abbellivano con dipinti frate
Angelico, Pippo, Masaccio; Donatello il consigliò a radunarvi capi
d’arte antichi; nelle corrispondenze sue non chiedeva solo merci e
denaro, ma codici, e mandava a trascriverne; accoglieva letterati,
massime quelli fuggiti di Costantinopoli; la biblioteca Laurenziana
ebbe origine dai libri di esso; un’altra ne collocò nella badia da lui
finita a piè del monte di Fiesole; una ne lasciò al convento di San
Giorgio in Venezia, dov’era stato ricoverato; comprò quella ove Nicolò
Niccoli avea radunato ottocento manoscritti, e la fece pubblica in
San Marco de’ Domenicani, fondazione sua non meno che San Girolamo a
Fiesole, San Francesco del Bosco in Mugello, e San Lorenzo in città,
ove pure cappelle a Santa Croce, all’Annunziata, a San Miniato,
negli Angeli, architettate dal Brunelleschi, da Michelozzo e da altri
eccellenti. Pie istituzioni avea lasciato a Venezia, un ospedale a
Gerusalemme, un acquedotto ad Assisi; onde non è meraviglia se fuori
veniva considerato come un gran principe, in patria vivendo tuttavia da
privato. Di sue ricchezze chi potrebbe levare il conto? I suoi poderi
di Careggi e Caffagiuolo poteano servire di modelli; aveva in proprio
o a fitto tutte le cave d’allume d’Italia, e per una sola in Romagna
pagava centomila fiorini annui; per Alessandria mercatava coll’India,
nè era città ove non tenesse banchi; prestò somme al re d’Inghilterra,
ne anticipò al duca di Borgogna. In questo riposo le gelosie della
libertà cadevano; i Fiorentini, come gli altri Italiani, si abituavano
a vedere grandezza altrove che nella politica; e l’artista, il
letterato, il grosso negoziante onoravansi d’andar esenti dalle
cariche, quanto un tempo d’esservi assunti.
Ma di due figliuoli rimastigli, il prediletto Giovanni morì a
quarantadue anni (1403); Pietro era rattratto di corpo e debole di
spirito; fanciulli i due costui figli, onde Cosmo cadente faceasi
portare pel vasto palazzo esclamando: — Troppo grande per sì piccola
famiglia». Di settantacinque anni morì (1464 1 agosto) nella sua
villa di Careggi, dopo stato trent’anni capo della repubblica e non
tiranno. E diceva a’ figliuoli: — Vi lascio infinite ricchezze che la
mia fortuna mi ha concedute, e vostra madre mi ajutò a conservare;
mantenetevi la grazia di ogni buon cittadino e della moltitudine;
e se non isviate dai costumi de’ maggiori, sempre il popolo vi
sarà larghissimo donatore di dignità. Perchè ciò avvenga, siate
misericordiosi ai poveri, graziosi e benigni agli abbienti, e solleciti
ad ajutarli nelle avversità: non consigliate mai contro la volontà del
popolo: non parlate a modo di dar parere, ma di amorevole ragionamento:
del palazzo non fate bottega, anzi aspettate d’esservi chiamati:
procurate di tener in pace il popolo e doviziosa la piazza: schivate
d’andare ai tribunali, per non impacciar la giustizia. Vi lascio netti
di macchie, eredi di gloria, e me ne parto lieto, e più lieto partirei
se vi vedessi in sajo anzichè in seta. Fatevi segno al popolo il men
che potete. Siavi raccomandata la Nanina madre vostra, e fate, dopo la
mia morte, di non mutarle stanza e trattamento. Pregate Dio per me, e
abbiatevi la mia benedizione»[110]. Fu compianto dagli amici pel bene
ricevuto, dai nemici pei mali che prevedevano quand’egli cessasse di
tenere in rispetto i potenti.
Di fatto Luca Pitti, d’ambizione e di talenti superiore, che già nella
vecchiezza di Cosmo avea fatta rivalere l’oligarchia, tiranneggiò
allora a baldanza, disponendo dell’erario e degli uffizj, mal
contrastato da Pietro Medici. Le famiglie di Firenze erano state
interessate a sostenere Cosmo, in grazia dei prestiti coi quali egli
soccorreva ai loro bisogni, persin talora prevedendone la domanda: ma
Pietro, volendo rimediare alle scosse date a’ suoi negozj dalle ingenti
spese e da fallimenti, e accorgendosi che andavano sempre in peggio da
che non v’attendeva in persona, ridomandò improvvisamente i capitali
per investirli in terreni: Pensate quanti dissesti! i fallimenti
susseguiti furono imputati a sua colpa, e tristo paragone faceasi colla
liberalità paterna. Si tramò dunque di togliergli la riputazione e
lo stato, e rintegrare la libertà; e pei maneggi del Pitti cassata la
balìa, si rimisero alla sorte le elezioni, e fu salutato gonfaloniere
Nicolò Soderini, a gran gioja del popolo. Lealissimo repubblicano ma
debole, domandava d’essere condotto, invece di saper condurre; quando
mise mano a riformare lo Stato per vie legali, si trovò attraversato
dalla fazione dei Pitti, speranti nello scompiglio; ond’egli uscì di
carica senz’essere a nulla approdato.
Moriva in quello stante (1466 8 marzo) il migliore amico de’ Medici,
Francesco Sforza; e Galeazzo Maria, figlio di quello, mandò chiedendo
fosse a lui continuato il soldo che retribuivasi a suo padre come
a condottiero della Repubblica. Quelli del Poggio, cioè i Pitti,
fissaronsi al no, e ordinarono cogli Acciajuoli, i Neroni, i Soderini,
facendo sottoscrivere tutti coloro che volessero salvar lo Stato
e ricuperare la libertà, e chiedendo ajuti a Buoso duca di Modena;
e pensavano forse assassinare Pietro e i suoi figliuoli Lorenzo e
Giuliano. Pietro, informatone a tempo, li prevenne colle armi e coi
trattati, e rimasto superiore, mandò in bando gli avversarj, di che si
rincalorirono le nimicizie. Luca Pitti, lasciatosi lusingare da Pietro
colla speranza d’un parentado, gli diede la lista de’ congiurati, onde
ne fu obbrobriato, e i suoi palazzi rimasti incompiuti attestarono
l’altezza della sua ambizione e i danni della sua imprudenza.
Gli espulsi, sotto Angelo Acciajuoli attestatisi cogli esuli del 1434,
e preso a capo Gian Francesco Strozzi, preparavano guerra aperta; e
Venezia, non volendo favorirli alla scoperta, lasciò entrasse al loro
soldo Bartolomeo Coleone suo capitano (1467), al quale s’accollarono
molti signorotti di Romagna, i Pio, i Pico, gli Ordelaffi, Ercole
d’Este, Astorre Manfredi di Faenza, Alessandro Sforza di Pesaro.
dal bando, restituiti in possesso de’ beni allodiali nel Mugello, e
dichiarati cittadini popolani[104]. I Santafiora furono sottomessi da
Siena, il castel della Sambuca dai Pistojesi, concentrandosi così più
sempre i poteri nelle città, mentre sopra queste vigoreggiava Firenze,
che ebbe sottoposto (1390) anche Montepulciano. Vero è che la tributò
la peste rinnovatasi nel 1400[105]; ma rifattasene, comprò Cortona per
sessantamila fiorini, e tolse i possessi ai conti Guido di Dovadola e
al conte di Poppi.
I Genovesi, dolenti che Venezia acquistando Padova si fosse tanto
rinforzata in terraferma, pensavano ad elevarle qualche avversario,
e non videro miglior modo che ingrandire Firenze col farle acquistar
Pisa, a patto che guerreggiasse i Veneziani. Indussero dunque
Gabriele Maria Visconti a vendere loro quella città e Ripafratta per
ducentoseimila fiorini: ma i Pisani, indignati di vedersi mercatare
come armento, si ricordano dell’antica nobiltà, afferrano le armi
(1405) e resistono, diretti da Giovanni Gambacorti. I Fiorentini
«scandolezzati dell’alterigia pisana» non vogliono sentire nè messi nè
patti; e risoluti ad ogni estremo per domarli, destinano dieci sopra
quella guerra fratricida. I Pisani li respinsero intrepidi; ricomposero
le inestinguibili nimicizie de’ Raspanti e Bergolini, prendendo insieme
l’eucaristia e stringendo parentadi; e benchè, dispersa da una burrasca
la flotta che recava grani di Sicilia, fossero ridotti i priori a
mangiare pan di linseme, e il popolo fin la gramigna delle strade,
pur resistono allo Sforza, a Tartaglia, a’ soldati, cui i Fiorentini
prometteano, se scalassero le mura, paga doppia, mese compito, il
saccheggio della città, centomila fiorini di mancia, ed armi e vesti
a piacere. E quando, dopo lungo assedio e consumate innumere vite,
il Gambacorti capitolò ricevendo denari, essi dovettero accettare la
servitù, ma molti abbandonarono la patria per sempre.
Gino Capponi, integerrimo petto, che in quella guerra si era segnalato
come commissario de’ Fiorentini, e a gran fatica salvò Pisa dal
saccheggio promesso ai venturieri, nominatone governatore, cercò
mitigare gli ordini del Comune vincitore e i fremiti del vinto; ma non
potè risparmiare il rigore. Quanto dovettero indispettirsi i Pisani
vedendo togliersi fin la testa di san Rossore, «come quella città,
priva della libertà e degli antichi onori, fosse ancora da’ suoi santi
abbandonata, e all’incontro Firenze di pompa, di gloria, di ricchezze
e di benedizione si riempisse»[106]. Alla prima occasione, tentarono
darsi ai nemici di Firenze, la quale allora meditò repressioni atroci,
chiamare a sè i nobili e megliostanti, cacciare tutti i cittadini dai
quindici ai sessant’anni, e altri spietati ordini, i quali abbiamo
ragione a credere non fossero messi ad effetto. Anzi troviamo che
la vincitrice mandò viveri in copia, poi si industriò, per ravvivar
quella che tanto avea faticato a spegnere; scrisse lettere, istruì
ambasciadori, trattò con principi, affinchè i tanti fuorusciti
ripatriassero; per venti anni francò d’ogni gravezza i forestieri che
andassero abitarvi famigliarmente; privilegiò di esenzioni e consoli
proprj i negozianti tedeschi di quattordici città perchè con quella
mercanteggiassero[107]; vi stabilì l’Università con lauta provvisione
e risedio magnifico. V’è però un bene che nessuna concessione pareggia
nè supplisce; ed è pena d’ogni conquistatore il vedersi obbligato a
spendere nel ribadire le catene e nel fare cittadelle e fortini, il
denaro che sarebbe richiesto al pubblico vantaggio.
Il Capponi fu lieto di vedere assicurato quell’acquisto col comprare
per centomila fiorini dai Genovesi il porto di Livorno, destinato
all’importanza che Pisa perdeva, e ad aprire ai Fiorentini traffici
lontani senza dipendere da Genova o da Venezia, e così colle private
crescere la fortuna pubblica. Subito fu provvisto alla sicurezza
di quel porto; vi si creò il magistrato de’ consoli di mare, che
erano sei cittadini fiorentini, di cui quattro estraevansi dalle
cinque arti maggiori, esclusa quella de’ giudici e notari, e due
dalle minori, principalmente occupati a prosperare la mercatura e la
marina, risolvere le cause marittime, e fabbricare una galea ogni sei
mesi, col legname delle foreste delle Cerbaje, facendo franche d’ogni
rappresaglia, anche in caso di guerra, le merci trasportate su quelle
galee. Ad esempio di Venezia, si stabilì edificare due galee grosse e
cinque sottili, da spedire ad Alessandria per spezierie ed altre merci,
e per esercitare la gioventù in cotali esercizj: vi s’imbarcarono
dodici giovani di buone famiglie, e dal soldano d’Egitto s’ottenne
d’avervi console, chiesa, fondaco, bagno, statera, bastagi, scrivano
proprio, per sicurezza dei mercanti e onorevolezza della nazione.
Furono posti consoli in tutte le parti di fedeli ed infedeli; e ben
tosto Firenze possedette navi per affrontar Genova e sconfiggerla.
Internamente essa prosperava con ordinamenti buoni, cooperando ciascuno
per l’accrescimento della città. Chiunque era ammesso cittadino, dovea
fabbricare in Firenze una casa di almeno cento fiorini; le scritture
pubbliche si ridussero ne’ libri delle Riformagioni; si convertì in
legge la compilazione degli statuti; si migliorò la moneta; si creò un
nuovo Monte o vogliam dire debito pubblico; si formò il catasto col
nome di ciascun cittadino, l’età, la professione, l’importare della
sua fortuna in beni immobili e mobili d’ogni specie, tassando di mezzo
fiorino ogni cento di capitale. Valutavasi che nelle vie attorno al
Mercato nuovo fossero settantadue banchi, e girassero in contante
due milioni di fiorini d’oro. Allora si cominciò l’artifizio dell’oro
filato, si moltiplicò quello de’ drappi di seta, fu permesso a ciascuno
d’introdurre foglia di gelsi e allevare filugelli senza gabella.
Copiosissime ricchezze aveano accumulalo que’ magistrati mercanti,
e l’eguaglianza repubblicana non lasciava sfoggiarle in inutile
suntuosità, non grandi comitive di servi, non insultante sfarzo di
carrozze; a piedi andavano anche le mogli de’ primaj; leggi suntuarie
reprimevano il lusso, permettendo la magnificenza, sicchè spendeasi
in palazzi, chiese, quadri e statue, o in trarre rarità e libri dal
Levante. Si abbellì la città coll’opera dei primi artisti: fu provvisto
che ciascun’arte collocasse lo stemma proprio e la statua del santo
patrono in una delle nicchie esterne di Or San Michele, ove lavoravano
di marmo e di bronzo Donatello, Andrea del Verrocchio, Baccio da
Montelupo, Nanni del Bianco, Simone da Fiesole, Lorenzo Ghiberti: a
questo l’arte di Calimala allogò le porte di bronzo di San Giovanni,
dove riuscì sì famosamente, che fu dichiarato gonfaloniere, e infisso
il gonfalone alla sua porta in Borgallegri; mentre chiamavasi Filippo
Brunelleschi a voltare la cupola di Santa Reparata.
Per rimovere il pericolo di correre strabocchevolmente a guerre, si
prese che ad un consiglio di ducento, da rinnovarsi ogni sei mesi,
fossero fatte le proposte della Signoria, poi passate al consiglio dei
centrentuno, nel quale entravano la Signoria, i collegi, i capitani
guelfi, i dieci della libertà, i sei consiglieri della mercatanzia, i
21 consoli delle arti, e quarantotto altri cittadini; e se passassero,
doveano ancora sottoporsi al consiglio del popolo, indi a quello del
Comune; nè senza l’approvazione di questi quattro consigli veruna
provvisione avea forza. Speravasi che il dover consultare tanti
consigli indurrebbe alcuno a opporre il suo no; ma è sintomo di
debolezza il non saper rimediare che col moltiplicare i conflitti.
Insomma il governo rimaneva democratico, ingerendosi il popolo
direttamente dell’amministrazione; gran numero di cittadini v’erano
a vicenda chiamati, e i numerosi consigli pubblici erano scuola di
scienza civile: che se talvolta le passioni popolari e le fazioni
spingevano ad eccessi, in fondo la politica n’era generosa e insieme
arguta a scorgere i sottofini de’ papi e degl’imperatori, savio
ed abile il governo, civile la nazione, fida alla libertà anche a
gravissimo costo, devota alla santa Sede, non però ciecamente. Poco
valeva nelle armi, pure seppe opporre meglio che denaro alle bande di
ventura, e le avrebbe distrutte se i principotti non avessero avuto
troppo interesse a conservarle. Ella medesima se ne valse per fiaccare
i Visconti, e qualvolta cadde sotto la tirannia d’un soldato o della
plebaglia, non tardò a riscattarsene. Molti signori s’accomandavano
a Firenze, come i nobili di Guggio pe’ loro castelli nell’Imolese, i
marchesi di Lusuolo in Lunigiana, i Grimaldi di Monaco obbligandosi
a servire in persona con una galea, Gian Luigi dal Fiesco conte di
Lavagna promettendo condurre trenta lancie e ducento fanti, e ricevendo
stipendj.
Invece dei bassi o atroci delitti che insozzano le storie de’
principotti, Firenze ci tramandò i capolavori dell’arte e della
parola, i quali ne eternano la lode; le abbondarono cronisti e storici,
quali, dopo Dino e i Villani, furono Matteo Palmieri, Paolo e Giovanni
Morelli, Jacopo Salviati, Giannozzo Manetti, Amaretto Manelli, Domenico
Buoninsegna, Buonaccorso Pitti, Gino e Neri Capponi, Simone della Tosa,
Bernardo Rucellaj, Giovanni Cavalcanti, Lorenzo Buondelmonte, Filippo
Rinuccini; e la superiorità di costoro, che non soltanto raccontano più
colti e limpidi, ma giudicano ancora con grave assennatezza e spesso
con elevazione, è argomento del quanto la nazione fosse superiore alle
altre italiane nell’esaminare la politica, regolarla, sceverarla da
passioni; e come allo spirito di parte sovrastasse sempre l’amore della
patria.
Nei trentacinque anni ch’e’ presedette allo Stato, Maso degli
Albizzi mostrò abilità e coraggio; istrutto dall’avversa fortuna,
non imbaldanzito dalla benigna, strettamente alleato coi Veneziani,
tenne testa a Gian Galeazzo e a Ladislao, eppure non uscì mai dalla
condizione di privato: ma poichè la parte trionfante non seppe
astenersi nè dall’insolenza verso altrui, nè dalla sconcordia tra sè,
al morir suo le case degli Alberti, Medici, Ricci, Strozzi, Cavicciuli,
spesse volte d’uomini e di roba spogliate dai nobili popolani, e
rimosse dai pubblici uffizj, rifecero testa, e colle ricchezze e
coll’educazione mostravansi degne di amministrare lo Stato.
Giovanni di Bicci de’ Medici avea guadagnato largamente in traffici
di banco, massime durante il concilio di Costanza servendone al papa,
talchè avea credito illimitato e affari per tutto il mondo; pure
sembrò tanto benigno e scarco d’ambizioni, che si cessò d’escluderlo
dagl’impieghi. Coll’accomodare di denaro chi n’avesse bisogno, col
blandire al popolo, col mostrarsi moderato fra le esuberanze de’
parteggianti, si procacciò stima nell’universale, e più quando,
tumultuando il popolo per soverchie gravezze imposte a cagione
della guerra con Filippo Visconti, e volendo i nobili popolani
fiaccarlo collo sminuire il numero delle arti minori, egli si oppose
alla proposta, e sostenne l’alleggiamento e che si istituisse il
catasto, benchè su lui più che su altri, come maggior possidente,
dovesse gravare. Ricchi dunque e popolani studiavano trarlo dalla
loro; e malgrado l’opposizione di Nicolò da Uzzano, amico di Maso e
suo successore nel primato civile, il portarono (1421) al posto di
gonfaloniere, che con gran decoro sostenne fino a morte.
Cosmo suo primogenito ne ereditò (1429) il credito e l’importanza,
e a capo della fazione recò l’abilità e le virtù paterne, e maggior
animo nelle cose pubbliche; grave e cortese ne’ modi, liberale a
proporzione delle ingenti ricchezze; entrante, conoscitore profondo
degli uomini, longanime nello aspettar l’esito de’ disegni fermamente
concetti; franco nel manifestare i suoi pareri, eppur tenuto come
prudentissimo: inclinato alle vie dolci, ma sapendo all’uopo dar passi
robusti; francheggiato da molti amici e clienti, ai quali era sempre
disposto a fare servigio dell’aver suo. Di squisito gusto nelle arti,
di molta erudizione, di retto giudizio, favorendo le lettere e le
arti apriva nuove strade alla crescente operosità: il giro de’ banchi,
per cui non trovavansi più ridotti a miseria, legava gli sbanditi per
interesse e per gratitudine alla famiglia che più lavorava di cambio; i
condottieri deponevano presso di quella i loro avanzi, o le domandavano
anticipazioni. Più dovizioso riusciva Cosmo perchè non abbandonò mai
il vivere privato; senza sfarzo di casa che abbagliasse i cittadini,
senza comprare stranieri ministri, o scialacquare in pranzi e comparse,
o assoldar truppe, mai non dispose per sè più di quarantasei in
cinquantamila fiorini l’anno, mentre lo Sforza ne spendea trecentomila
prima di salire duca. E appunto le virtù private, i temperati consigli,
il sentimento popolare, la calma fra le burrasche fazioniere, la lauta
beneficenza furono stromenti alla potenza de’ Medici.
Lucca era stata lungamente alleata di Firenze, poi al 1314 disertò
da’ Guelfi; e dopo lo sfavillante dominio di Castruccio e d’Uguccione,
andò soggetta a vicenda a Gherardino Spinola, a Giovanni di Luxemburg,
a Mastino della Scala, a’ Fiorentini, a’ Pisani, a Carlo IV[108], dal
quale poi nel 1369 riebbe la libertà, cioè di non esser sottomessa a
verun’altra città, ma soltanto all’impero. E quel fatto di cui fecero
tanta festa i contemporanei, e tanto scalpore gli storici posteriori;
concordi nel proclamare come liberatore quel Carlo, che realmente
sottoponeva, almeno in carta, quella repubblica al dominio imperiale.
Immune da dipendenza di vicini, Lucca esercitò alla cheta le
interne emulazioni fra i discendenti di Castruccio, i Fortiguerra,
gli Spinetta e i Guinigi. Quest’ultima famiglia vi primeggiava;
ma essendo perita quasi tutta nella peste del 1400, il giovinetto
Paolo sopravissuto fu da ser Giovanni Cambi (il cronista) indotto
a farsi _signore a bacchetta_, e perciò, scostandosi da Firenze,
unirsi a Galeazzo Visconti, col cui appoggio si assicurò il dominio.
Senza tampoco rispettare le forme, come faceano i precedenti, e
togliendo ogni autorità al Comune, trent’anni egli serbò quieta la
repubblica, ma dappoco e sempre in paura di cadere, nè seppe introdur
buone istituzioni, nè farsi amici, benchè circondato di favoriti,
di parentele, d’alleanze co’ principi, e fidente nella _cittadella_
che fabbricò; mancava di quel valore che le plebi stimano più che
le qualità utili, e alle bande mercenarie, massime di Braccio, non
oppugnava che con grossissimi donativi. Firenze, da cui improvvidamente
egli avea alienato la repubblica (1429), trovò pretesto a romper seco,
e vi spedì i venturieri Nicolò Fortebraccio e Bernardino della Carda,
che squarciarono il paese. Il celebre architetto Brunelleschi suggerì
di sommerger Lucca, chiudendo l’alveo del Serchio, sicchè l’acqua
scalzasse le mura e le abbattesse. A grande spesa si alzò di fatto
l’acqua attorno alle mura, che per tre giorni furono inondate, ma poi i
contadini riuscirono a sdrucire l’argine, sicchè la piena si rovesciò
addosso al campo fiorentino (1430) con immensa jattura. Poi Francesco
Sforza, spedito dal duca di Milano, mise in isbaratto i Fiorentini, e
ne invase il territorio.
Il Guinigi col senno, e i suoi figli col braccio, aveano difeso Lucca;
eppure caddero in sospetto di volerla tradire ai Fiorentini, e furono
mandati prigioni a Milano, ripristinando il governo all’antica con un
gonfaloniere e col consiglio degli anziani. I Fiorentini, che aveano
mostrato assumer la guerra soltanto per assicurarsi dal Guinigi,
la proseguirono per sottoporre Lucca come le altre città toscane;
ma Nicolò Piccinino, stipendiato da Genova, ligio al Visconti, li
sconfisse del tutto sul Serchio, invase lo Stato, avvicinossi a Pisa,
che facea sonare le sue catene, bramosa di romperle.
Tale impresa era stata da Cosmo francamente disapprovata, sicchè
l’infelice riuscita crebbe ad esso tanta reputazione quanta ne
toglieva agli Albizzi e a Nicolò da Uzzano. Questo però repugnava dai
partiti violenti, conoscendo che una rottura aperta darebbe trionfo ai
Medici. Ma morto lui e conchiusa pace con Lucca[109], inciprignirono i
malvagi umori, e Rinaldo, figlio di Maso degli Albizzi, capoparte più
avventato, entrò in grandi pratiche di abbassare e anche cacciar Cosmo,
e ripigliarsi lo Stato. Disposte sue fila, sonò a balìa, e convocò
una di quelle assemblee in piazza, dove tutti accorrevano a onde e
deliberavano a schiamazzo, per l’urgenza del caso trascendendo le
barriere costituzionali, e pochi arruffapopolo trascinavano a decidere
secondo la fazione. Quivi si diede la balìa a ducento cittadini
indicati da Rinaldo; e Cosmo, per accusa di denaro disperso nella
guerra di Lucca, fu condannato a morte: se non che egli, comprando alla
sua volta Bernardo Guadagni gonfaloniere e gli altri che a Rinaldo
già s’erano venduti, ottenne d’essere soltanto sbandito (1433), e la
famiglia sua relegata tra le nobili.
Andossene a Padova; e allora comparve quanto egli fosse grande, caro
dov’era, desiderato ove non era. La Signoria veneta mandò onorandolo,
e il richiedeva di pareri; chiunque avesse alcun bisogno, ricorreva
ad esso, e una sua raccomandazione bastava: a lui facevano capo i
negozianti, sicchè l’avresti detto un piccolo sovrano; mentre a Firenze
artisti, poveri, trafficanti lamentavano mancato il loro sostegno.
Rinaldo, incapace a lottare coll’avversario lontano che vicino aveva
oppresso, cercava inutilmente afforzarsi col riabilitare i nobili
alle cariche, da cui già da gran tempo erano esclusi, e fin colle
armi tentò far prevalere la sua parte: non girò intero un anno, che
interponendosi papa Eugenio IV, allora quivi dimorante pel concilio,
fu senza scandali tratta una Signoria (1434 7bre) propensa a Cosmo,
questi rintegrato in patria con accoglienze meravigliose, e sbanditi
o confinati da settanta de’ suoi avversarj. Rinaldo, non essendosi
lasciato persuadere dal papa, e ignaro della virtù dell’aspettare e far
a queto, andò a sollecitare Filippo Visconti contro Firenze; e mandò
dire a Cosmo — La gallina cova»; al che questo rispose: — Mal cova
la gallina fuori del nido». Rinaldo colle bande del Piccinino (1440)
penetrò fin alla montagna di Fiesole e nel Casentino: i Fiorentini gli
opposero Francesco Sforza, rotto dal quale intieramente ad Anghiari, e
invano travagliatosi da capo per ricuperare la patria, andò a finire in
Terrasanta.
Cosmo, tornato in trionfo, salutato benefattore del popolo e _padre
della patria_, pigliò vendetta proscrivendo molti avversarj, molti
condannando al supplizio e fin senza confessione, altri assassinati,
come Balduccio, condottiere valente di fanteria toscana, che il
gonfaloniere di giustizia fece pugnalare e buttar giù dal palazzo
senza processi. Con tali colpi otteneasi docilità e svogliava
dall’opposizione, e a chi l’avvertiva come la città per tanti banditi
venisse in calo, rispondeva: — Meglio città guasta che perduta; del
resto, non vi affannate, che con due canne di panno rasato posso fare
un uom dabbene», cioè riparare con gente nuova.
Non si alterò il modo del governo e de’ magistrati di Firenze, ma tutto
dipendeva da Cosmo. Vedendo omai in ciascuna città italica dominare
una famiglia, pensò innalzar la sua in Firenze, non per armi, sibbene
coll’offrire agli ingegni attrattive e distrazioni nuove nelle arti
e nel sapere, avvivare il commercio, estendere la tela politica,
aumentare la propria importanza col darne alla patria su tutt’Italia,
e quiete a questa coll’equilibrarne gli Stati; a tal fine associò al
suo denaro la spada di Francesco Sforza, le due potenze di quell’età,
il banchiere e il condottiere. Potendo avere a disposizione tutti i
capitani di ventura, mantenne in bilancia le potenze d’Italia: alla sua
repubblica aggiunse Borgo Sansepolcro, Montedoglio, il Casentino e val
di Bagno.
Senza dunque sovvertire la costituzione e le leggi, fondava a cheto la
signoria delle ricchezze, le quali, mercè del commercio, aveano indotto
immensa disparità fra i cittadini, e procacciando ammiratori e clienti,
in pochi restringevano l’autorità, benchè durasse stato di popolo;
anzi in cinque soli fece Cosmo (1452) ridurre il diritto d’eleggere la
Signoria.
A fianco di lui figurava Neri Capponi, in consigli più sottile di Cosmo
e, ciò che questi non era, valente in armi e creduto dai soldati; il
quale, non cessando d’essergli amico, si tenne indipendente, e menò
gli affari più scabrosi. Loro mercè fu riordinata la tranquillità in
Firenze, ma insieme tolta la libertà, giacchè dal popolo, quante volte
volessero, faceano decretare una balìa dispotica, e riformare le borse,
e confinare chi li contrariava; mentre teneansi buoni gli amici col
secondarne le passioni, collocarli negli uffizj e ai governi, chiuder
gli occhi sulle arti onde s’ajutano i bassi, ligi ai potenti.
Alla morte di Neri (1455) parea dovesse ingrandire Cosmo, sciolto
da quest’ultimo contrappeso; ma il contrario gli accadde per averne
perduto l’appoggio. Gli avversarj pensano umiliarlo coll’abolire
le balìe, e tornare alla sorte l’elezione del gonfaloniere e della
Signoria; e il popolo va in gavazze, come di ricuperata libertà. Cosmo
però non discende pur d’un grado dalla ottenuta grandezza, perchè
temperatamente usata, e perchè gli uomini nuovi imborsati erano avvinti
a lui per interesse e mercatura, o ligi per gratitudine e speranze;
laddove non essendo più gl’impieghi concentrati in mano di pochi,
gl’inimici suoi si sottigliavano; i quali, avvedutisi dello sbaglio,
cercavano si ripristinasse la balìa. Cosmo, prima d’assentirvi, lasciò
che gustassero i frutti della loro inesperienza; ma quando (1458)
sortì gonfaloniere Luca Pitti, e’ lasciò tastassero la riforma. Il
Pitti, animoso e temerario, teneva col terrore un governo pigliato
colla forza: chiunque avesse bisogni o reclami, a lui ricorreva, alla
sua casa tutti i malviventi; e coi regali ricevuti, che vorrebbonsi
far ammontare a ventimila fiorini, e col dare sicurezza ai malfattori
che vi lavorassero, fabbricò il palazzo a Rusciano, e un altro in
città che maestoso grandeggiava sul _poggio_, mentre al piano i Medici
conservavano la ricca e pur semplice magione in via Larga.
Ritirato in questa, Cosmo appariva più grande dacchè non ritraeva
lustro che dal merito personale. Gliela abbellivano con dipinti frate
Angelico, Pippo, Masaccio; Donatello il consigliò a radunarvi capi
d’arte antichi; nelle corrispondenze sue non chiedeva solo merci e
denaro, ma codici, e mandava a trascriverne; accoglieva letterati,
massime quelli fuggiti di Costantinopoli; la biblioteca Laurenziana
ebbe origine dai libri di esso; un’altra ne collocò nella badia da lui
finita a piè del monte di Fiesole; una ne lasciò al convento di San
Giorgio in Venezia, dov’era stato ricoverato; comprò quella ove Nicolò
Niccoli avea radunato ottocento manoscritti, e la fece pubblica in
San Marco de’ Domenicani, fondazione sua non meno che San Girolamo a
Fiesole, San Francesco del Bosco in Mugello, e San Lorenzo in città,
ove pure cappelle a Santa Croce, all’Annunziata, a San Miniato,
negli Angeli, architettate dal Brunelleschi, da Michelozzo e da altri
eccellenti. Pie istituzioni avea lasciato a Venezia, un ospedale a
Gerusalemme, un acquedotto ad Assisi; onde non è meraviglia se fuori
veniva considerato come un gran principe, in patria vivendo tuttavia da
privato. Di sue ricchezze chi potrebbe levare il conto? I suoi poderi
di Careggi e Caffagiuolo poteano servire di modelli; aveva in proprio
o a fitto tutte le cave d’allume d’Italia, e per una sola in Romagna
pagava centomila fiorini annui; per Alessandria mercatava coll’India,
nè era città ove non tenesse banchi; prestò somme al re d’Inghilterra,
ne anticipò al duca di Borgogna. In questo riposo le gelosie della
libertà cadevano; i Fiorentini, come gli altri Italiani, si abituavano
a vedere grandezza altrove che nella politica; e l’artista, il
letterato, il grosso negoziante onoravansi d’andar esenti dalle
cariche, quanto un tempo d’esservi assunti.
Ma di due figliuoli rimastigli, il prediletto Giovanni morì a
quarantadue anni (1403); Pietro era rattratto di corpo e debole di
spirito; fanciulli i due costui figli, onde Cosmo cadente faceasi
portare pel vasto palazzo esclamando: — Troppo grande per sì piccola
famiglia». Di settantacinque anni morì (1464 1 agosto) nella sua
villa di Careggi, dopo stato trent’anni capo della repubblica e non
tiranno. E diceva a’ figliuoli: — Vi lascio infinite ricchezze che la
mia fortuna mi ha concedute, e vostra madre mi ajutò a conservare;
mantenetevi la grazia di ogni buon cittadino e della moltitudine;
e se non isviate dai costumi de’ maggiori, sempre il popolo vi
sarà larghissimo donatore di dignità. Perchè ciò avvenga, siate
misericordiosi ai poveri, graziosi e benigni agli abbienti, e solleciti
ad ajutarli nelle avversità: non consigliate mai contro la volontà del
popolo: non parlate a modo di dar parere, ma di amorevole ragionamento:
del palazzo non fate bottega, anzi aspettate d’esservi chiamati:
procurate di tener in pace il popolo e doviziosa la piazza: schivate
d’andare ai tribunali, per non impacciar la giustizia. Vi lascio netti
di macchie, eredi di gloria, e me ne parto lieto, e più lieto partirei
se vi vedessi in sajo anzichè in seta. Fatevi segno al popolo il men
che potete. Siavi raccomandata la Nanina madre vostra, e fate, dopo la
mia morte, di non mutarle stanza e trattamento. Pregate Dio per me, e
abbiatevi la mia benedizione»[110]. Fu compianto dagli amici pel bene
ricevuto, dai nemici pei mali che prevedevano quand’egli cessasse di
tenere in rispetto i potenti.
Di fatto Luca Pitti, d’ambizione e di talenti superiore, che già nella
vecchiezza di Cosmo avea fatta rivalere l’oligarchia, tiranneggiò
allora a baldanza, disponendo dell’erario e degli uffizj, mal
contrastato da Pietro Medici. Le famiglie di Firenze erano state
interessate a sostenere Cosmo, in grazia dei prestiti coi quali egli
soccorreva ai loro bisogni, persin talora prevedendone la domanda: ma
Pietro, volendo rimediare alle scosse date a’ suoi negozj dalle ingenti
spese e da fallimenti, e accorgendosi che andavano sempre in peggio da
che non v’attendeva in persona, ridomandò improvvisamente i capitali
per investirli in terreni: Pensate quanti dissesti! i fallimenti
susseguiti furono imputati a sua colpa, e tristo paragone faceasi colla
liberalità paterna. Si tramò dunque di togliergli la riputazione e
lo stato, e rintegrare la libertà; e pei maneggi del Pitti cassata la
balìa, si rimisero alla sorte le elezioni, e fu salutato gonfaloniere
Nicolò Soderini, a gran gioja del popolo. Lealissimo repubblicano ma
debole, domandava d’essere condotto, invece di saper condurre; quando
mise mano a riformare lo Stato per vie legali, si trovò attraversato
dalla fazione dei Pitti, speranti nello scompiglio; ond’egli uscì di
carica senz’essere a nulla approdato.
Moriva in quello stante (1466 8 marzo) il migliore amico de’ Medici,
Francesco Sforza; e Galeazzo Maria, figlio di quello, mandò chiedendo
fosse a lui continuato il soldo che retribuivasi a suo padre come
a condottiero della Repubblica. Quelli del Poggio, cioè i Pitti,
fissaronsi al no, e ordinarono cogli Acciajuoli, i Neroni, i Soderini,
facendo sottoscrivere tutti coloro che volessero salvar lo Stato
e ricuperare la libertà, e chiedendo ajuti a Buoso duca di Modena;
e pensavano forse assassinare Pietro e i suoi figliuoli Lorenzo e
Giuliano. Pietro, informatone a tempo, li prevenne colle armi e coi
trattati, e rimasto superiore, mandò in bando gli avversarj, di che si
rincalorirono le nimicizie. Luca Pitti, lasciatosi lusingare da Pietro
colla speranza d’un parentado, gli diede la lista de’ congiurati, onde
ne fu obbrobriato, e i suoi palazzi rimasti incompiuti attestarono
l’altezza della sua ambizione e i danni della sua imprudenza.
Gli espulsi, sotto Angelo Acciajuoli attestatisi cogli esuli del 1434,
e preso a capo Gian Francesco Strozzi, preparavano guerra aperta; e
Venezia, non volendo favorirli alla scoperta, lasciò entrasse al loro
soldo Bartolomeo Coleone suo capitano (1467), al quale s’accollarono
molti signorotti di Romagna, i Pio, i Pico, gli Ordelaffi, Ercole
d’Este, Astorre Manfredi di Faenza, Alessandro Sforza di Pesaro.
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