Storia degli Italiani, vol. 08 (di 15) - 12
pontefice si contendevano la medesima sede, aborrivansi le messe degli
uni o degli altri. I papi, per conservarsi partigiani, erano costretti
a rassegnarsi a minaccia, a importunità, a dissimulare e simulare,
intrigare, congiurare, promettere, concedere, guadagnar tempo, fingendo
di desiderare una riconciliazione, di cui aveano in mano il mezzo. Le
piaghe del papato, come il cadavere di Cesare, furono esposte agli
occhi di tutti, invelenite dalla collera de’ nemici non meno che
dai ripicchi dei pontefici rivali. La santa Sede, scapitando nella
venerazione, lasciava baldanza a’ principi di sminuirne l’autorità,
ai dotti di chiamarla a severo e passionato esame: le satire contro
di essa, che prima erano esercizio letterario, inteso, applaudito
e dimenticato, acquistavano peso quando uscivano dalla bocca de’
pontefici stessi, e portavano ad immediata applicazione; indubbio
entrava ne’ cuori più sinceri, l’indifferenza ne’ più generosi, la
disperazione ne’ più robusti: la beffa trovava di che esercitarsi sulle
cose sacre.
Urbano VI non depose mai il desiderio di restare arbitro del regno
di Napoli, escludendo e Ladislao e Luigi d’Angiò per mettere in
istato quel suo nipote che passava dal carcere alla reggia; intanto
scomunicava di qua di là, e mandava bande a devastare. Fra sì
deplorabili imprese, minacciato fin della vita dai Romani, miseramente
morì (1389 18 8bre), e i quattordici cardinali della sua obbedienza
elessero Pietro Tomacelli col nome di Bonifazio IX (5 9bre). Buon
parlatore, buon grammatico, non sapea scrivere, nè cantare, nè i
costumi della corte romana: onde non capiva di che si trattasse,
sentenziava senza conoscenza, e palesava avidità. Sospendendo la
folle guerra del suo predecessore, ricevette in grazia Ladislao, e
avventò scomuniche ai fautori di Luigi d’Angiò, che scendeva favorito
dall’altro papa.
A viva forza dovette occupar Roma e gli altri possedimenti
ecclesiastici, straziati dalle fazioni e dalle bande, e colla violenza
e i supplizj vi si sostenne. Urbano, accorciando l’intervallo del
giubileo, lo bandì pel 1390, ma non v’accorsero che i popoli ubbidienti
a Bonifazio, il quale mandò ne’ varj paesi a concedere l’indulgenza a
chi pagasse tanto, quanto gli sarebbe costato il viaggio a Roma[71].
I collettori trassero insieme ingenti somme, ma Bonifazio sospettò
alcuni d’averne distratte e li punì, altri furono trucidati dal popolo,
altri s’uccisero da sè. Sotto quel manto vi fu chi andò trafficando
di assoluzioni e dispense, non badando a pentimento o a riparazione o
ad abjura; gli abusi fecero fremere i pii, e la prodigalità del papa
stesso in fatto d’indulgenze recò non lieve scredito a quel tesoro di
grazie, di cui faceasi mercimonio; mentre la concessione di giubilei
a chiese parziali scemava l’aurifero concorso de’ pellegrini a Roma,
svogliati anche dalle bande di Bernardo di Sala, che professavasi
fedele a papa Clemente per ispogliare i dissenzienti.
I Colonna tramarono per togliere al papa la signoria temporale di
Roma, invasero la città, ma non furono secondati: trentuno de’ loro
masnadieri finirono sul patibolo; Bonifazio avventò contro i Colonna
una lunga bolla, dove ne enumera i delitti fin dal tempo di Bonifazio
VIII. Anche i Gaetani di Fondi circondavano con bande la città,
spogliando i pellegrini che andavano al nuovo giubileo del 1400. E
il papa facea denaro con concedere grazie, aspettative, cumuli di
benefizj; poi ad un tratto le abolì tutte, ma per aver pretesto a nuove
concessioni con guadagno nuovo.
A vicenda i cardinali di Clemente VII a questo diedero successore
Pier di Luna aragonese (1394 28 7bre), detto Benedetto XIII, uomo
d’astuta ambizione, ed egli, come l’altro, per procacciarsi partigiani
scialacquava privilegi, conniveva a traviamenti e usurpazioni,
spogliava il basso clero, sicchè i curati erano fin ridotti a
mendicare, mentre l’alto riservavasi le migliori grazie e le commende e
i benefizj, dandoli in appalto a persone dappoco.
La Chiesa talmente scaduta, sentivasi impotente a ricomporsi da se
stessa; e principi, università, giureconsulti, teologi disputavano
sui mezzi di ripristinarne l’unità. Il più ovvio sarebbe stato un
concilio generale: ma poichè il convocarlo riguardavasi da secoli come
attribuzione del papa, a qual dei due spettava? Si dovette ripiegare
con sinodi particolari; il re di Francia ne raccolse due, per cui
decisione egli mandò a tenere assediato più di quattro anni nel palazzo
d’Avignone Benedetto XII, sinchè non fosse ripristinata l’unione:
ma questi trovò modo a fuggire (1403), e per la persecuzione crebbe
di partigiani, ed ebbe dalla sua non solo il pio Vincenzo Ferreri,
ma i due lumi dell’Università parigina, l’eloquente Clemengis ed il
cancelliere Pietro d’Ailly.
Morto Bonifazio IX (1404 1 8bre), il popolo di Roma, diretto dai
Colonna e dai Savelli, gridò _Viva la libertà;_ e il conclave di non
più che nove cardinali elesse Innocenzo VII, già Cosma Meliorati,
valente canonista, abile agli affari, intemerato di costumi. Dovette
conquistare la propria residenza ajutato da re Ladislao, ma con
una capitolazione per cui lasciava a custodia del popolo tutti i
ponti e le porte; il senatore sarebbe eletto dal papa ma sovra una
tripla offerta dal popolo; i dieci della Camera amministrerebbero le
rendite, eccettuato il quartiere del Vaticano. Però ogni giorno nuove
pretensioni metteva innanzi il popolo, subillato dai Colonna e dai
reggenti Ghibellini, tanto che Innocenzo proruppe: — V’ho concesso
tutto; volete che vi dia anche la mia cappa?» E in fatto i tumulti
raffittirono, i cardinali dovettero mettersi sotto la protezione
d’un capitano di ventura Muscardo, fu trucidato un messo del papa, si
combatteva accannito; ed essendo il papa fuggito a Viterbo, Ladislao ne
profitta per impadronirsi di Roma.
Il papa fra breve morì (1406 6 9bre), e il veneziano Angelo Correr,
detto Gregorio XII, anch’esso giurò prima (30 9bre), professò poi
essere disposto ad abdicare tosto che il facesse anche Benedetto XIII:
ma com’ebbe assaggiato il comando, se ne inebbriò; alla conferenza
stabilita in Savona non comparve; e Benedetto, che era venuto fin a
Genova, parve star dal canto della ragione.
Tredici cardinali si raccolsero a Livorno per industriarsi all’unione,
protestando non riconoscere nessuno dei due competitori; e assumendo a
dirigere gl’interessi temporali e spirituali della Chiesa, convocarono
un concilio a Pisa (1409 25 marzo), intimando a ciascun papa venisse
ad abdicare, se no procederebbero contro di esso. Ma se consentivasi
al concilio l’autorità di deporre il pontefice, non era mutata in
repubblicana la costituzione della Chiesa, da secoli monarchica? e a
tale cambiamento erano acconci tempi di tanto scompiglio?
Ladislao di Napoli temeva un papa che potesse abolire l’indegna
cessione dello Stato, a lui fatta da Gregorio XII, onde s’oppose al
concilio di Pisa; i due papi non vi ascoltarono; Gregorio dichiarò
apostati e blasfemi que’ cardinali, e intimò il sinodo a Udine;
Benedetto l’aprì in Perpignano sua stanza; e così, oltre i due papi,
v’ebbe tre concilj. Pensate quanto ne restasse dal fondo sovvertita la
società! Morendo un vescovo, ciascun papa vuol dargli un successore,
onde scismi diocesani; pretendono potere stronizzare i re, onde un
nuovo fomite alla guerra intestina; e Napoli resta disputata fra
Luigi d’Angiò e Carlo d’Ungheria, la Castiglia fra il duca di Leon
e quello di Lancaster, l’Ungheria fra Carlo della Pace e Maria; il
debole imperatore Venceslao lasciava cascarsi di mano le redini della
Germania; l’Inghilterra straziava le proprie viscere fra le inimicizie
delle case di Lancaster e di York; la Francia durava nella guerra
centenne contro l’Inghilterra; nè voce risonava valevole ad imporre
la pace. Intanto che nel mondo cristiano cessava l’unità che n’è
l’essenza, Bajazet II granturco non solo stringeva Costantinopoli, ma
aveva invaso l’Ungheria e la Polonia; e nuovi barbari, i Tartari sotto
il terribile Tamerlano minacciavano all’Europa le devastazioni che
aveano recate all’Asia.
Gli animi, sgomentati fin alla disperazione, si volgeano a Dio, da
lui solo aspettando il termine a tanti guaj. Già nel 1260 vedemmo i
Flagellanti diffondersi per Italia. Nel 1334 frà Venturino da Bergamo,
«uomo di trentacinque anni, di piccola nazione e di non profonda
scienza, ma tanto efficace e ardente ne’ suoi ragionamenti, che
traendosi dietro più di diecimila Lombardi, la miglior parte nobili,
non era luogo ove arrivasse che non fosse ricevuto a guisa d’uomo
divino, e con tanto concorso di limosine, che per quindici dì che si
fermò a Firenze, non fu quasi momento di tempo che in sulla piazza di
Santa Maria Novella non si vedessono grandissime tavole apparecchiate
ove mangiavano quattrocento o cinquecento uomini per volta» (AMMIRATO),
andò ai perdoni di Roma co’ suoi, che portavano gonnella bianca
fin a mezza gamba, di sopra un tabarrello perso fin al ginocchio,
calze bianche, e stivali di corame fin a mezza gamba, in petto una
palomba bianca coll’ulivo in bocca, nella man ritta il bordone, nella
manca il rosario[72], e con non mai stanchevoli voci gridando pace
e misericordia. Cresciuto forse a trentamila seguaci, e come profeta
parlando de’ mali futuri, passò anche alla corte d’Avignone sperando
grandi indulgenze; ma al papa sembrò scorgervi ambizione o leggerezza,
e frà Venturino fu messo al tormento e in carcere: donde poi mosse
colla crociata, e morì a Smirne.
Quella devozione andarina rinfervorò nel 1399, avendola la Madonna
indicata in Irlanda ad un villano, come il miglior preservativo da
pesti e guerre: onde in veste bianca, coperti di cappucci in modo
che non distinguevansi donne da uomini se non per una croce rossa,
si posero in via tre a tre, ognuno confessato, chiesto perdono agli
offesi, perdonato agli offensori, restituito il maltolto. Così giravano
per nove giorni almen tre chiese al giorno, e venendo in un paese,
intonavano orazioni e lo _Stabat mater_, poi tre _Miserere_ entrando
in chiesa. Per quella novena faceano vita quaresimale, non dormendo in
letto, non isvestendosi, molti andavano scalzi; finivano col mandare
alle prossime città, invitandole per parte di Maria Vergine ad assumere
la stessa devozione.
D’Irlanda varcarono in Inghilterra, in Francia, poi in Piemonte,
e da una parte piegarono alla Lombardia, dall’altra in numero di
cinquemila a Genova. I cittadini di questa s’avvolsero in lenzuoli,
e il vecchio loro arcivescovo Del Fiesco a cavallo li condusse
processionalmente, con dietro a coppia tutti gli abitanti, a visitar
le chiese, i cimiteri, le reliquie della città e del contorno, e per
nove giorni stettero chiuse le botteghe, sospesi gli affari, tutto
émpito di timor di Dio. I più robusti o devoti scesero per la riviera
di Levante, eccitando a fare altrettanto: da Lucca tremila cittadini,
malgrado i divieti, uscirono ver Pescia, indi a Pistoja, donde
quattromila li seguirono, e così i Pratesi e i Pisani, finchè giunsero
a Firenze. Quivi quarantamila cittadini visitavano le chiese, preceduti
dall’arcivescovo; toglievano di quello ch’era lor dato, e il soverchio
distribuivano ai poveri; non cercavano essere adagiati in case o
spedali, ma giacevano alla nuda aria; molti imprigionati per debiti
furono prosciolti. Il vescovo di Fiesole sin ventimila se ne trasse
dietro, per tutto facendo paci e concordie, restituzioni, prediche,
miracoli[73]. A Milano «venne grandissimo numero d’uomini, donne,
donzelle, garzoni, piccoli e grandi e d’ogni qualità, tutti scalzi, da
capo a piedi coperti di lenzuoli bianchi, che a fatica mostravano la
fronte; poi dietro a questi vi si adunarono tutti i popoli delle città
e ville, dalle quali uscendo, per otto giorni continui visitavano tre
chiese di villa, e spesse volte ad una di quelle faceano celebrare una
messa in canto; per tutte le vie in croce che trovavano, si gettavano a
terra gridando misericordia tre volte, e poi cantavano _Pater_ e _Ave_,
e altri cantici composti da san Bernardo, o litanie o altre orazioni.
Il popolo di ciascuna città o altro luogo, come veniva a quelle si
separava, ed entrando dentro denunziava agli altri rimanenti che
volessero pigliare il medesimo abito; di sorta che alcuna volta erano
mille, alcuna millecinquecento. Si celebrarono infinite concordie e
limosine, e molti si condussero a vera penitenza» (CORIO).
In Padova per quei giorni non fu commessa disonestà nè rissa; e le
processioni duravano dall’aurora fino alle due dopo nona, e se ne
contarono tremilaseicento; poi radunati nel prato della Valle, diedero
di sè meraviglioso spettacolo[74]. Da Bobbio altri si difilarono
su Piacenza, e con loro tutti i valligiani della Trebbia, sicchè vi
giunsero in più di settemila; poi a Firenzuola, a Borgo Sandonnino, a
Parma, dove arrivarono con quaranta carri di donne, bambini, malati;
di qui settemila partirono dietro al vescovo e ai gonfaloni delle
confraternite. I Veneziani li respinsero, ma il duca d’Este gli ebbe
accetti, e da Ferrara li menò a Belfiore. Il pontefice vi conobbe
scandali e sozzure, dubitò fino che il loro capo pensasse farsi papa,
onde li mandò a processo e al rogo.
Allora si moltiplicarono pertutto le confraternite, che con le
foggie visitavano le chiese e accompagnavano il viatico; e furono
principalmente diffuse dai santi Bernardino da Siena e Vincenzo
Ferreri, il quale anche andava predicando il finimondo. Molti, presso
al morire, faceansi porre le divise d’esse società, donde la devozione
venne estesa fra i secolari. Tale incondita pietà diffuse anche la
peste, che strage menò per Italia, e che funestò il giubileo.
Tutti inadeguati ripari agli scandali che sbranavano la Chiesa;
poichè le riforme non venivano di là donde solo avrebbero potuto
efficacemente. Null’ostante l’opposizione di re Ladislao, al concilio
di Pisa comparvero ventiquattro cardinali, quattro patriarchi, ventisei
arcivescovi, ottanta vescovi in persona, centodue per rappresentanti,
ottantasei abati in persona, ducentodue per procuratori, quarantun
priori, gli ambasciatori dei re, i deputati di oltre cento metropoli
e cattedrali, delle Università di Parigi, Tolosa, Orléans, Angers,
Montpellier, Bologna, Firenze, Vienna, Praga, Colonia, Oxford,
Cambridge, Cracovia, trecento dottori di teologia e diritto canonico.
Non essendosi presentati i due papi Gregorio e Benedetto, il concilio
si dichiarò ecumenico, e perciò giudice supremo di essi, e dopo
parecchi tentativi di conciliazione, levata loro l’obbedienza come
contumaci, li proferì scaduti e vacante il papato (1409 5 giugno); e
radunato il conclave sotto la guardia del granmaestro de’ Giovanniti,
sostituì Pietro Filargo (1409 26 giugno). Nato non si sa dove nè da
chi, mendicava a Candia quando fu raccolto da un frate Minore, e per
sapere ed abilità salì nel favore di Gian Galeazzo, che l’ebbe tra’
suoi consiglieri, poi vescovo di Vicenza, di Novara, indi arcivescovo
di Milano e cardinale, infine papa (7 agosto) col nome d’Alessandro
V, e chiuse il concilio. Teologo e predicatore, ma non leggista e
canonista, male intendeva gli affari e cercava scaricarsene; per bontà
cieca largheggiava benefizj e grazie abusive e stemperanti, non sapendo
misurare la liberalità ai mezzi; e quando più nulla gli rimaneva, dava
promesse: onde diceva: — Come vescovo fui ricco, povero come cardinale,
pitocco come papa».
Lasciavasi raggirare a senno da Baldassarre Cossa napoletano, che in
gioventù corse il mare come armatore; anche nel chericato conservò
abitudini secolaresche, abilissimo negli affari, vigoroso di carattere,
risoluto di sentenze. Ornato della porpora, fu spedito legato a
Bologna, la quale ricuperò alla santa Sede, e anche Faenza e Forlì,
che egli si tenne come signoria indipendente; e morto Alessandro dopo
soli dieci mesi di regno (1410 17 maggio), gli succedette col nome di
Giovanni XXIII. Costui, come avviene in tempi di partiti, fu accusato
delle colpe non solo più gravi, ma più brutali; a cui basterebbe
opporre il favore datogli dai Fiorentini, da Luigi d’Angiò, dal
conclave stesso, che troppo aveva interesse a fare una scelta prudente;
comunque siasi detto che egli ne acquistò i voti coll’artifizio e colla
forza militare che spiegò in Bologna.
Essendo allora stata ritolta Roma a Ladislao, il papa vi fece l’entrata
solennemente sotto la protezione dell’Angioino: ma bentosto Ladislao
torna vincitore; Bologna caccia i rappresentanti del pontefice, e
si dà al marchese di Ferrara. Ladislao però riconobbe il nuovo papa
ordinando a Gregorio di uscire da’ suoi Stati, e finse rassegnarsi
ai patti ch’egli stesso aveva imposti a Giovanni. Il concilio che
erasi promesso, fu raccolto (1415) a Roma; ma se vi s’introduceano
le questioni più urgenti, il cardinale Zabarella levavasi, con
eloquenti ambagi sviando dal proposito: poi fu prorogato col pretesto
della rinnovata nimistà di Ladislao, a cui il papa a fatica sfuggì,
ricoverando in Firenze, che di malavoglia lo accolse.
L’impero vacillava tra l’inetto Venceslao deposto e il mal eletto
Roberto palatino, morto il quale, gli furono dati due successori;
tanto pareva che ogni cosa dovesse scompigliarsi collo scompiglio del
papato. Alfine prevalse Sigismondo (1411), che, come re d’Ungheria,
s’era mostrato crudele e perfido, ma insieme valoroso, oprante,
indomito. Glorioso di allori côlti sopra i Turchi, si fisse in animo di
ricondurre ad unità la Chiesa; corse Francia, Polonia, Spagna, Italia;
e mentre il papa gli chiedeva soccorsi, esso lo stimolò a designare
il luogo d’un nuovo concilio. Per quanto Giovanni lo disgradisse,
dovette spedire legati a ciò, i quali indicarono Costanza, città
imperiale sulla riva occidentale del bel lago che divide la Svevia
dalla Svizzera, poco lungi dal luogo donde n’esce il Reno, e dove già
i Lombardi aveano patteggiato la loro libertà. Giovanni non sapea
darsi pace che l’adunanza di tutta cristianità si tenesse in luogo
dove gli oltramontani sarebbero più numerosi e indipendenti, ed ostili
alla sua autorità: si mosse in persona onde dissuadere Sigismondo; a
Lodi durarono lungamente in congresso, circondati da prelati l’uno,
da consiglieri l’altro; ma Sigismondo stette fermo, e il concilio fu
aperto (1414 5 9bre).
Le ingiurie ricambiatesi dai papi e dai cardinali aveano scossa
un’autorità che si fonda sulla virtù e sull’opinione. Se gl’Italiani
favorivano alla santa Sede pel vantaggio che ne traeva il loro paese,
eransene raffreddati dacchè quella vagava in esiglio; e gli stranieri
cominciavano a trovare oneroso questo migrare di tanto loro denaro
ad un’altra gente. La contesa coi frati Minori aveva mal volta alla
santa Sede la milizia sua più devota; e al vedere condannate persone
pie, cui sola colpa dicevasi la povertà, si richiamavano le dottrine
d’Arnaldo da Brescia contro i possessi ecclesiastici e la corruttela
derivatane. Nell’intento di riuscir superiore, ciascun partito era
ricorso a spedienti troppo dissonanti da quelli dell’apostolato:
Bonifazio IX aveva lasciato trafficare delle indulgenze e del suffragio
ai morti, pretendeva le annate dei vescovi eletti, a denaro dispensava
la pluralità di benefizj; Giovanni XXIII ebbe accusa di aver cavato oro
dalle medesime miniere, e moltiplicatolo colle usure. Dal disordine
esterno passatasi a criticare l’intima verità della Chiesa: si
spargeano libri e sermoni critici, anche in lingua vulgare[75]; i roghi
non bastavano a reprimere gli eretici in Francia. I Valdesi faceansi
più arditi, e Gregorio XI movea lamento perchè dalle valli subalpine si
propagassero, e discesi in Piemonte avessero trucidato un inquisitore a
Bricherasio, uno a Susa[76].
Bartolino da Piacenza verso il 1385 pubblicò alquante tesi legali
sul modo di trattare il papa qualora apparisse negligente, inetto a
governare, o capriccioso a ricusare il consiglio dei cardinali (com’era
il caso di Urbano VI); e conchiudeva potere questi mettergli de’
curatori, al cui parere fosse obbligato attenersi negli affari della
Chiesa. I Francesi colla prammatica sanzione di Bourges restrinsero
i diritti papali. In Inghilterra Giovanni Wiclef aveva impugnato
le indulgenze, la transustanziazione, la confessione auricolare,
domandato la secolarizzazione degli Ordini regolari e la povertà del
clero. Girolamo di Praga dall’Università di Oxford ne portò i libri in
Boemia, dove ebbero effetti più gravi, perocchè Giovanni Huss, che qui
già aveva alzato la voce contro la depravazione del clero, vi attinse
argomenti teologici e ardire a palesarsi. Essendo venuti alcuni monaci
a spacciare indulgenze, e avendo l’imperatore proibito il sacrilego
traffico, pigliò baldanza a declamare, in prima contro l’abuso, poi
contro le indulgenze medesime. Il popolo ascoltava volentieri; gli
studenti boemi se ne infervoravano; le quistioni religiose prendevano
colore politico d’aborrimento ai Tedeschi e d’aspirazioni repubblicane.
Dappertutto lo sparlare dei papi era considerato segno d’educazione
non vulgare, di ragione più elevata, di dispetto contro i governi,
di scontento generico; declamazioni di piazza, frizzi di scuola
fra la gioventù inesperta seminavano un vago desiderio di sottrarsi
all’autorità; sebbene, per quanto e le accuse si esagerassero e gli
errori si estendessero, non si pensasse ancora che la Chiesa si dovesse
distruggere anzichè riformare.
Quanto erano più ulcerate le piaghe, tanto più speravasi nel concilio,
che inoltre rannoderebbe in pace i principi cristiani per respingere la
sempre crescente minaccia degli Ottomani.
L’imperatore, assai principi, signori e conti assistettero
all’assemblea, ed è scritto vi si numerassero fin cencinquantamila
forestieri con trentamila cavalli; fra quelli, diciottomila
ecclesiastici e ducento dottori dell’Università di Parigi. Coi
fastosissimi cardinali faceano gara di lusso i tanti avveniticci,
giunti dagli estremi d’Europa, distinguendosi per abiti varj, armadure,
corteo pomposo. Vi accorrevano a spettacolo, a sollazzo, trovandovisi
trecenquarantasei commedianti e giullari, settecento cortigiane, e
tornei e sfide[77]; sicchè i gaudenti andavano in delizie, mentre
i pii pregavano, i dotti accingeansi a duelli dialettici, dai quali
apparirebbe l’odierno loro elevarsi allato ai grandi.
Ma un’assemblea di tanto momento, sin dal principio reluttò ai modi
sagaci, con cui gl’Italiani e il papa tentavano dominarla. La Chiesa
nella sua universalità non distingue popoli, e valuta ciascun uomo pel
proprio valore; sicchè all’indole sua ripugnava il votare per nazioni,
come si pretese, dividendo il concilio in camera tedesca, italiana,
francese, inglese, spagnuola, le quali deliberassero distintamente
affine di elidere la superiorità degl’Italiani. Giovanni XXIII, come
presente, provveduto di gran denaro, e assistito dalle compre armi
di Federico d’Austria, sperava far considerare il concilio come una
continuazione di quello di Pisa, che avendo riconosciuto Alessandro
V, considerava lui come solo papa legittimo: inoltre voleva si
cominciasse dagli articoli di fede, poichè richiederebbero lunghe
dispute, e i prelati nella piccola città s’annojerebbero. Ma questi
pretesero che abdicassero e lui e Benedetto XIII che sostenevasi in
Ispagna, e Gregorio XII che aveva favore in Germania. Giovanni nella
seconda tornata protestò di farlo volontariamente se lo imitassero gli
altri due, anzi rinunziare ad ogni modo se con ciò potesse terminarsi
lo scisma; sicchè il giubilo e gli applausi andarono al colmo, e
l’imperatore gli si buttò ai piedi baciandoli. Ma poi pentito e
sbigottito fuggì; e allora i mirallegro si risolvono in costernazione,
Gregorio viene sospeso, e proclamato (1415) che il concilio trae
immediatamente da Cristo i suoi poteri, e ognuno, compreso il papa,
è tenuto obbedirgli in quanto concerne la fede, lo scisma, e la
riformazione generale della Chiesa nel capo e nelle membra. Gl’Italiani
protestarono invano. Giovanni, citato a giustificarsi delle più enormi
e scandalose imputazioni[78], dichiarossene colpevole, sottomettersi
a discrezione al concilio, pur beato se con ciò potesse render pace
alla Chiesa: e quello il destituì (29 maggio) come avesse disonorato
il popolo cristiano, ne spezzò il suggello e gli stemmi, gli tolse le
insegne pontifizie e la croce, e lo tenne in cortese prigionia[79].
Anche Gregorio, per mezzo di Carlo Malatesta signore di Rimini, a cui
protezione si era posto, mandò la rinunzia (4 luglio), riducendosi
cardinale di Porto. Solo Benedetto ostinavasi, scomunicando chi non
era con lui, e dichiarava «nel diluvio universale la sola arca della
Chiesa essere Paniscola dov’egli sedeva»: alfine, abbandonato anche
dalla Chiesa spagnuola per opera principalmente di Vincenzo Ferreri,
fu destituito (1417 26 luglio), terminando uno scisma che fu la
maggior prova a cui la Chiesa si trovasse esposta. Tante passioni,
tanti errori, eppure fu ancora alla Chiesa una che la cristianità
si ricoverò, e sotto il manto del ponteficato, di cui non erasi mai
impugnata l’autorità e l’unità, comunque restasse incerto chi ne era il
depositario, disputandosi del possesso e dell’esercizio dell’autorità,
non dell’autorità stessa.
Sbalzatine gl’indegni occupatori, bisognava surrogare un degno sul
trono di san Pietro. Sigismondo voleva che prima si riformasse la
Chiesa; gl’italiani incalzarono per la pronta nomina del papa Ottone
Colonna (11 9bre), il quale si volle chiamato Martino V. Sigismondo
aveva preveduto giusto; poichè Martino trovò modo di rinviare d’oggi
in domani le chieste riforme, logorando il tempo in divisamenti o
in concessioni secondarie, protestando contro gli appelli del papa
al concilio, riconfermando molti abusi; finchè dichiarò sciolto il
concilio (1418 22 aprile), e andossene a Roma.
I padri, vedendosi dal popolo sprezzati per le contese e i baccani
a cui prorompeano[80], e presi in sospetto come staccatisi dal
papa, vollero ostentare zelo della fede col perseguitare l’eresia, e
condannarono Giovanni Huss e Girolamo da Praga, i quali, malgrado il
salvacondotto imperiale[81], furono dati al braccio secolare e mandati
al rogo. Tristo rimedio la violenza; e ne pagò le pene Sigismondo, o
piuttosto i popoli espianti le colpe dei re: giacchè la Boemia divampò
d’un incendio, a spegnere il quale vi vollero torrenti di sangue.
Per compiere le riforme. Martino V indicò un nuovo concilio prima
a Pavia, poi a Siena, infine a Basilea; ma apertolo appena, morì
(1431). Nell’elezione di Eugenio IV (Gabriele Condulmier veneziano) i
conclavisti prefissero una specie di costituzione, che in alcuni punti
concerneva anche il governo civile. L’omaggio che il papa ricevea dai
feudatarj e dagl’impiegati, non riflettesse su lui solo, ma anche
sul collegio de’ cardinali, talchè a questo rimanessero obbligati
in sede vacante; metà dei proventi della Chiesa fosse riservata ai
cardinali; di conseguenza nessun atto politico importante poteva il
papa permettersi se non consenziente il sacro collegio, non pace o
guerra, non tasse nuove, non mutar la sede; inoltre il papa doveva
riformare la Corte, e tenere concilj periodici. Eugenio vi si obbligò;
e se quel costituto reggeva, il principato romano trovavasi ridotto ad
aristocrazia, ma forse era tolto il pretesto alla Riforma del secolo
seguente.
Eugenio, per giudizio d’un suo successore[82], fu pontefice d’animo
elevato, ma senza misura in nessuna cosa, intraprese sempre ciò che
voleva, non ciò che poteva. Fece egli aprire il concilio di Basilea
onde estirpare l’eresia, metter pace perpetua fra le nazioni cristiane,
togliere il lungo scisma de’ Greci, e riformare la Chiesa. Ma i padri
vi s’accinsero senza precise idee di quel che volevano operare, nè de’
limiti dell’autorità propria e di quella che pensavano restringere;
attaccavano un dopo l’altro gli abusi parziali, non proponevano un
rimedio radicale: onde vedendoli condursi con quella precipitazione
che sgomenta le autorità desiderose di dirigere, Eugenio sospese il
concilio. I padri non gli badando, citano lui pontefice, accusandolo
disobbediente; poi, spiegate le vele, dichiaransi ad esso superiori; nè
poter lui scioglierli o traslocarli.
Fittisi alla riforma della Chiesa, mozzano assai diritti curiali;
determinano la forma dell’elezione del papa, e il giuramento che
deva prestare; limitano le concessioni ch’e’ può fare ai parenti;
uni o degli altri. I papi, per conservarsi partigiani, erano costretti
a rassegnarsi a minaccia, a importunità, a dissimulare e simulare,
intrigare, congiurare, promettere, concedere, guadagnar tempo, fingendo
di desiderare una riconciliazione, di cui aveano in mano il mezzo. Le
piaghe del papato, come il cadavere di Cesare, furono esposte agli
occhi di tutti, invelenite dalla collera de’ nemici non meno che
dai ripicchi dei pontefici rivali. La santa Sede, scapitando nella
venerazione, lasciava baldanza a’ principi di sminuirne l’autorità,
ai dotti di chiamarla a severo e passionato esame: le satire contro
di essa, che prima erano esercizio letterario, inteso, applaudito
e dimenticato, acquistavano peso quando uscivano dalla bocca de’
pontefici stessi, e portavano ad immediata applicazione; indubbio
entrava ne’ cuori più sinceri, l’indifferenza ne’ più generosi, la
disperazione ne’ più robusti: la beffa trovava di che esercitarsi sulle
cose sacre.
Urbano VI non depose mai il desiderio di restare arbitro del regno
di Napoli, escludendo e Ladislao e Luigi d’Angiò per mettere in
istato quel suo nipote che passava dal carcere alla reggia; intanto
scomunicava di qua di là, e mandava bande a devastare. Fra sì
deplorabili imprese, minacciato fin della vita dai Romani, miseramente
morì (1389 18 8bre), e i quattordici cardinali della sua obbedienza
elessero Pietro Tomacelli col nome di Bonifazio IX (5 9bre). Buon
parlatore, buon grammatico, non sapea scrivere, nè cantare, nè i
costumi della corte romana: onde non capiva di che si trattasse,
sentenziava senza conoscenza, e palesava avidità. Sospendendo la
folle guerra del suo predecessore, ricevette in grazia Ladislao, e
avventò scomuniche ai fautori di Luigi d’Angiò, che scendeva favorito
dall’altro papa.
A viva forza dovette occupar Roma e gli altri possedimenti
ecclesiastici, straziati dalle fazioni e dalle bande, e colla violenza
e i supplizj vi si sostenne. Urbano, accorciando l’intervallo del
giubileo, lo bandì pel 1390, ma non v’accorsero che i popoli ubbidienti
a Bonifazio, il quale mandò ne’ varj paesi a concedere l’indulgenza a
chi pagasse tanto, quanto gli sarebbe costato il viaggio a Roma[71].
I collettori trassero insieme ingenti somme, ma Bonifazio sospettò
alcuni d’averne distratte e li punì, altri furono trucidati dal popolo,
altri s’uccisero da sè. Sotto quel manto vi fu chi andò trafficando
di assoluzioni e dispense, non badando a pentimento o a riparazione o
ad abjura; gli abusi fecero fremere i pii, e la prodigalità del papa
stesso in fatto d’indulgenze recò non lieve scredito a quel tesoro di
grazie, di cui faceasi mercimonio; mentre la concessione di giubilei
a chiese parziali scemava l’aurifero concorso de’ pellegrini a Roma,
svogliati anche dalle bande di Bernardo di Sala, che professavasi
fedele a papa Clemente per ispogliare i dissenzienti.
I Colonna tramarono per togliere al papa la signoria temporale di
Roma, invasero la città, ma non furono secondati: trentuno de’ loro
masnadieri finirono sul patibolo; Bonifazio avventò contro i Colonna
una lunga bolla, dove ne enumera i delitti fin dal tempo di Bonifazio
VIII. Anche i Gaetani di Fondi circondavano con bande la città,
spogliando i pellegrini che andavano al nuovo giubileo del 1400. E
il papa facea denaro con concedere grazie, aspettative, cumuli di
benefizj; poi ad un tratto le abolì tutte, ma per aver pretesto a nuove
concessioni con guadagno nuovo.
A vicenda i cardinali di Clemente VII a questo diedero successore
Pier di Luna aragonese (1394 28 7bre), detto Benedetto XIII, uomo
d’astuta ambizione, ed egli, come l’altro, per procacciarsi partigiani
scialacquava privilegi, conniveva a traviamenti e usurpazioni,
spogliava il basso clero, sicchè i curati erano fin ridotti a
mendicare, mentre l’alto riservavasi le migliori grazie e le commende e
i benefizj, dandoli in appalto a persone dappoco.
La Chiesa talmente scaduta, sentivasi impotente a ricomporsi da se
stessa; e principi, università, giureconsulti, teologi disputavano
sui mezzi di ripristinarne l’unità. Il più ovvio sarebbe stato un
concilio generale: ma poichè il convocarlo riguardavasi da secoli come
attribuzione del papa, a qual dei due spettava? Si dovette ripiegare
con sinodi particolari; il re di Francia ne raccolse due, per cui
decisione egli mandò a tenere assediato più di quattro anni nel palazzo
d’Avignone Benedetto XII, sinchè non fosse ripristinata l’unione:
ma questi trovò modo a fuggire (1403), e per la persecuzione crebbe
di partigiani, ed ebbe dalla sua non solo il pio Vincenzo Ferreri,
ma i due lumi dell’Università parigina, l’eloquente Clemengis ed il
cancelliere Pietro d’Ailly.
Morto Bonifazio IX (1404 1 8bre), il popolo di Roma, diretto dai
Colonna e dai Savelli, gridò _Viva la libertà;_ e il conclave di non
più che nove cardinali elesse Innocenzo VII, già Cosma Meliorati,
valente canonista, abile agli affari, intemerato di costumi. Dovette
conquistare la propria residenza ajutato da re Ladislao, ma con
una capitolazione per cui lasciava a custodia del popolo tutti i
ponti e le porte; il senatore sarebbe eletto dal papa ma sovra una
tripla offerta dal popolo; i dieci della Camera amministrerebbero le
rendite, eccettuato il quartiere del Vaticano. Però ogni giorno nuove
pretensioni metteva innanzi il popolo, subillato dai Colonna e dai
reggenti Ghibellini, tanto che Innocenzo proruppe: — V’ho concesso
tutto; volete che vi dia anche la mia cappa?» E in fatto i tumulti
raffittirono, i cardinali dovettero mettersi sotto la protezione
d’un capitano di ventura Muscardo, fu trucidato un messo del papa, si
combatteva accannito; ed essendo il papa fuggito a Viterbo, Ladislao ne
profitta per impadronirsi di Roma.
Il papa fra breve morì (1406 6 9bre), e il veneziano Angelo Correr,
detto Gregorio XII, anch’esso giurò prima (30 9bre), professò poi
essere disposto ad abdicare tosto che il facesse anche Benedetto XIII:
ma com’ebbe assaggiato il comando, se ne inebbriò; alla conferenza
stabilita in Savona non comparve; e Benedetto, che era venuto fin a
Genova, parve star dal canto della ragione.
Tredici cardinali si raccolsero a Livorno per industriarsi all’unione,
protestando non riconoscere nessuno dei due competitori; e assumendo a
dirigere gl’interessi temporali e spirituali della Chiesa, convocarono
un concilio a Pisa (1409 25 marzo), intimando a ciascun papa venisse
ad abdicare, se no procederebbero contro di esso. Ma se consentivasi
al concilio l’autorità di deporre il pontefice, non era mutata in
repubblicana la costituzione della Chiesa, da secoli monarchica? e a
tale cambiamento erano acconci tempi di tanto scompiglio?
Ladislao di Napoli temeva un papa che potesse abolire l’indegna
cessione dello Stato, a lui fatta da Gregorio XII, onde s’oppose al
concilio di Pisa; i due papi non vi ascoltarono; Gregorio dichiarò
apostati e blasfemi que’ cardinali, e intimò il sinodo a Udine;
Benedetto l’aprì in Perpignano sua stanza; e così, oltre i due papi,
v’ebbe tre concilj. Pensate quanto ne restasse dal fondo sovvertita la
società! Morendo un vescovo, ciascun papa vuol dargli un successore,
onde scismi diocesani; pretendono potere stronizzare i re, onde un
nuovo fomite alla guerra intestina; e Napoli resta disputata fra
Luigi d’Angiò e Carlo d’Ungheria, la Castiglia fra il duca di Leon
e quello di Lancaster, l’Ungheria fra Carlo della Pace e Maria; il
debole imperatore Venceslao lasciava cascarsi di mano le redini della
Germania; l’Inghilterra straziava le proprie viscere fra le inimicizie
delle case di Lancaster e di York; la Francia durava nella guerra
centenne contro l’Inghilterra; nè voce risonava valevole ad imporre
la pace. Intanto che nel mondo cristiano cessava l’unità che n’è
l’essenza, Bajazet II granturco non solo stringeva Costantinopoli, ma
aveva invaso l’Ungheria e la Polonia; e nuovi barbari, i Tartari sotto
il terribile Tamerlano minacciavano all’Europa le devastazioni che
aveano recate all’Asia.
Gli animi, sgomentati fin alla disperazione, si volgeano a Dio, da
lui solo aspettando il termine a tanti guaj. Già nel 1260 vedemmo i
Flagellanti diffondersi per Italia. Nel 1334 frà Venturino da Bergamo,
«uomo di trentacinque anni, di piccola nazione e di non profonda
scienza, ma tanto efficace e ardente ne’ suoi ragionamenti, che
traendosi dietro più di diecimila Lombardi, la miglior parte nobili,
non era luogo ove arrivasse che non fosse ricevuto a guisa d’uomo
divino, e con tanto concorso di limosine, che per quindici dì che si
fermò a Firenze, non fu quasi momento di tempo che in sulla piazza di
Santa Maria Novella non si vedessono grandissime tavole apparecchiate
ove mangiavano quattrocento o cinquecento uomini per volta» (AMMIRATO),
andò ai perdoni di Roma co’ suoi, che portavano gonnella bianca
fin a mezza gamba, di sopra un tabarrello perso fin al ginocchio,
calze bianche, e stivali di corame fin a mezza gamba, in petto una
palomba bianca coll’ulivo in bocca, nella man ritta il bordone, nella
manca il rosario[72], e con non mai stanchevoli voci gridando pace
e misericordia. Cresciuto forse a trentamila seguaci, e come profeta
parlando de’ mali futuri, passò anche alla corte d’Avignone sperando
grandi indulgenze; ma al papa sembrò scorgervi ambizione o leggerezza,
e frà Venturino fu messo al tormento e in carcere: donde poi mosse
colla crociata, e morì a Smirne.
Quella devozione andarina rinfervorò nel 1399, avendola la Madonna
indicata in Irlanda ad un villano, come il miglior preservativo da
pesti e guerre: onde in veste bianca, coperti di cappucci in modo
che non distinguevansi donne da uomini se non per una croce rossa,
si posero in via tre a tre, ognuno confessato, chiesto perdono agli
offesi, perdonato agli offensori, restituito il maltolto. Così giravano
per nove giorni almen tre chiese al giorno, e venendo in un paese,
intonavano orazioni e lo _Stabat mater_, poi tre _Miserere_ entrando
in chiesa. Per quella novena faceano vita quaresimale, non dormendo in
letto, non isvestendosi, molti andavano scalzi; finivano col mandare
alle prossime città, invitandole per parte di Maria Vergine ad assumere
la stessa devozione.
D’Irlanda varcarono in Inghilterra, in Francia, poi in Piemonte,
e da una parte piegarono alla Lombardia, dall’altra in numero di
cinquemila a Genova. I cittadini di questa s’avvolsero in lenzuoli,
e il vecchio loro arcivescovo Del Fiesco a cavallo li condusse
processionalmente, con dietro a coppia tutti gli abitanti, a visitar
le chiese, i cimiteri, le reliquie della città e del contorno, e per
nove giorni stettero chiuse le botteghe, sospesi gli affari, tutto
émpito di timor di Dio. I più robusti o devoti scesero per la riviera
di Levante, eccitando a fare altrettanto: da Lucca tremila cittadini,
malgrado i divieti, uscirono ver Pescia, indi a Pistoja, donde
quattromila li seguirono, e così i Pratesi e i Pisani, finchè giunsero
a Firenze. Quivi quarantamila cittadini visitavano le chiese, preceduti
dall’arcivescovo; toglievano di quello ch’era lor dato, e il soverchio
distribuivano ai poveri; non cercavano essere adagiati in case o
spedali, ma giacevano alla nuda aria; molti imprigionati per debiti
furono prosciolti. Il vescovo di Fiesole sin ventimila se ne trasse
dietro, per tutto facendo paci e concordie, restituzioni, prediche,
miracoli[73]. A Milano «venne grandissimo numero d’uomini, donne,
donzelle, garzoni, piccoli e grandi e d’ogni qualità, tutti scalzi, da
capo a piedi coperti di lenzuoli bianchi, che a fatica mostravano la
fronte; poi dietro a questi vi si adunarono tutti i popoli delle città
e ville, dalle quali uscendo, per otto giorni continui visitavano tre
chiese di villa, e spesse volte ad una di quelle faceano celebrare una
messa in canto; per tutte le vie in croce che trovavano, si gettavano a
terra gridando misericordia tre volte, e poi cantavano _Pater_ e _Ave_,
e altri cantici composti da san Bernardo, o litanie o altre orazioni.
Il popolo di ciascuna città o altro luogo, come veniva a quelle si
separava, ed entrando dentro denunziava agli altri rimanenti che
volessero pigliare il medesimo abito; di sorta che alcuna volta erano
mille, alcuna millecinquecento. Si celebrarono infinite concordie e
limosine, e molti si condussero a vera penitenza» (CORIO).
In Padova per quei giorni non fu commessa disonestà nè rissa; e le
processioni duravano dall’aurora fino alle due dopo nona, e se ne
contarono tremilaseicento; poi radunati nel prato della Valle, diedero
di sè meraviglioso spettacolo[74]. Da Bobbio altri si difilarono
su Piacenza, e con loro tutti i valligiani della Trebbia, sicchè vi
giunsero in più di settemila; poi a Firenzuola, a Borgo Sandonnino, a
Parma, dove arrivarono con quaranta carri di donne, bambini, malati;
di qui settemila partirono dietro al vescovo e ai gonfaloni delle
confraternite. I Veneziani li respinsero, ma il duca d’Este gli ebbe
accetti, e da Ferrara li menò a Belfiore. Il pontefice vi conobbe
scandali e sozzure, dubitò fino che il loro capo pensasse farsi papa,
onde li mandò a processo e al rogo.
Allora si moltiplicarono pertutto le confraternite, che con le
foggie visitavano le chiese e accompagnavano il viatico; e furono
principalmente diffuse dai santi Bernardino da Siena e Vincenzo
Ferreri, il quale anche andava predicando il finimondo. Molti, presso
al morire, faceansi porre le divise d’esse società, donde la devozione
venne estesa fra i secolari. Tale incondita pietà diffuse anche la
peste, che strage menò per Italia, e che funestò il giubileo.
Tutti inadeguati ripari agli scandali che sbranavano la Chiesa;
poichè le riforme non venivano di là donde solo avrebbero potuto
efficacemente. Null’ostante l’opposizione di re Ladislao, al concilio
di Pisa comparvero ventiquattro cardinali, quattro patriarchi, ventisei
arcivescovi, ottanta vescovi in persona, centodue per rappresentanti,
ottantasei abati in persona, ducentodue per procuratori, quarantun
priori, gli ambasciatori dei re, i deputati di oltre cento metropoli
e cattedrali, delle Università di Parigi, Tolosa, Orléans, Angers,
Montpellier, Bologna, Firenze, Vienna, Praga, Colonia, Oxford,
Cambridge, Cracovia, trecento dottori di teologia e diritto canonico.
Non essendosi presentati i due papi Gregorio e Benedetto, il concilio
si dichiarò ecumenico, e perciò giudice supremo di essi, e dopo
parecchi tentativi di conciliazione, levata loro l’obbedienza come
contumaci, li proferì scaduti e vacante il papato (1409 5 giugno); e
radunato il conclave sotto la guardia del granmaestro de’ Giovanniti,
sostituì Pietro Filargo (1409 26 giugno). Nato non si sa dove nè da
chi, mendicava a Candia quando fu raccolto da un frate Minore, e per
sapere ed abilità salì nel favore di Gian Galeazzo, che l’ebbe tra’
suoi consiglieri, poi vescovo di Vicenza, di Novara, indi arcivescovo
di Milano e cardinale, infine papa (7 agosto) col nome d’Alessandro
V, e chiuse il concilio. Teologo e predicatore, ma non leggista e
canonista, male intendeva gli affari e cercava scaricarsene; per bontà
cieca largheggiava benefizj e grazie abusive e stemperanti, non sapendo
misurare la liberalità ai mezzi; e quando più nulla gli rimaneva, dava
promesse: onde diceva: — Come vescovo fui ricco, povero come cardinale,
pitocco come papa».
Lasciavasi raggirare a senno da Baldassarre Cossa napoletano, che in
gioventù corse il mare come armatore; anche nel chericato conservò
abitudini secolaresche, abilissimo negli affari, vigoroso di carattere,
risoluto di sentenze. Ornato della porpora, fu spedito legato a
Bologna, la quale ricuperò alla santa Sede, e anche Faenza e Forlì,
che egli si tenne come signoria indipendente; e morto Alessandro dopo
soli dieci mesi di regno (1410 17 maggio), gli succedette col nome di
Giovanni XXIII. Costui, come avviene in tempi di partiti, fu accusato
delle colpe non solo più gravi, ma più brutali; a cui basterebbe
opporre il favore datogli dai Fiorentini, da Luigi d’Angiò, dal
conclave stesso, che troppo aveva interesse a fare una scelta prudente;
comunque siasi detto che egli ne acquistò i voti coll’artifizio e colla
forza militare che spiegò in Bologna.
Essendo allora stata ritolta Roma a Ladislao, il papa vi fece l’entrata
solennemente sotto la protezione dell’Angioino: ma bentosto Ladislao
torna vincitore; Bologna caccia i rappresentanti del pontefice, e
si dà al marchese di Ferrara. Ladislao però riconobbe il nuovo papa
ordinando a Gregorio di uscire da’ suoi Stati, e finse rassegnarsi
ai patti ch’egli stesso aveva imposti a Giovanni. Il concilio che
erasi promesso, fu raccolto (1415) a Roma; ma se vi s’introduceano
le questioni più urgenti, il cardinale Zabarella levavasi, con
eloquenti ambagi sviando dal proposito: poi fu prorogato col pretesto
della rinnovata nimistà di Ladislao, a cui il papa a fatica sfuggì,
ricoverando in Firenze, che di malavoglia lo accolse.
L’impero vacillava tra l’inetto Venceslao deposto e il mal eletto
Roberto palatino, morto il quale, gli furono dati due successori;
tanto pareva che ogni cosa dovesse scompigliarsi collo scompiglio del
papato. Alfine prevalse Sigismondo (1411), che, come re d’Ungheria,
s’era mostrato crudele e perfido, ma insieme valoroso, oprante,
indomito. Glorioso di allori côlti sopra i Turchi, si fisse in animo di
ricondurre ad unità la Chiesa; corse Francia, Polonia, Spagna, Italia;
e mentre il papa gli chiedeva soccorsi, esso lo stimolò a designare
il luogo d’un nuovo concilio. Per quanto Giovanni lo disgradisse,
dovette spedire legati a ciò, i quali indicarono Costanza, città
imperiale sulla riva occidentale del bel lago che divide la Svevia
dalla Svizzera, poco lungi dal luogo donde n’esce il Reno, e dove già
i Lombardi aveano patteggiato la loro libertà. Giovanni non sapea
darsi pace che l’adunanza di tutta cristianità si tenesse in luogo
dove gli oltramontani sarebbero più numerosi e indipendenti, ed ostili
alla sua autorità: si mosse in persona onde dissuadere Sigismondo; a
Lodi durarono lungamente in congresso, circondati da prelati l’uno,
da consiglieri l’altro; ma Sigismondo stette fermo, e il concilio fu
aperto (1414 5 9bre).
Le ingiurie ricambiatesi dai papi e dai cardinali aveano scossa
un’autorità che si fonda sulla virtù e sull’opinione. Se gl’Italiani
favorivano alla santa Sede pel vantaggio che ne traeva il loro paese,
eransene raffreddati dacchè quella vagava in esiglio; e gli stranieri
cominciavano a trovare oneroso questo migrare di tanto loro denaro
ad un’altra gente. La contesa coi frati Minori aveva mal volta alla
santa Sede la milizia sua più devota; e al vedere condannate persone
pie, cui sola colpa dicevasi la povertà, si richiamavano le dottrine
d’Arnaldo da Brescia contro i possessi ecclesiastici e la corruttela
derivatane. Nell’intento di riuscir superiore, ciascun partito era
ricorso a spedienti troppo dissonanti da quelli dell’apostolato:
Bonifazio IX aveva lasciato trafficare delle indulgenze e del suffragio
ai morti, pretendeva le annate dei vescovi eletti, a denaro dispensava
la pluralità di benefizj; Giovanni XXIII ebbe accusa di aver cavato oro
dalle medesime miniere, e moltiplicatolo colle usure. Dal disordine
esterno passatasi a criticare l’intima verità della Chiesa: si
spargeano libri e sermoni critici, anche in lingua vulgare[75]; i roghi
non bastavano a reprimere gli eretici in Francia. I Valdesi faceansi
più arditi, e Gregorio XI movea lamento perchè dalle valli subalpine si
propagassero, e discesi in Piemonte avessero trucidato un inquisitore a
Bricherasio, uno a Susa[76].
Bartolino da Piacenza verso il 1385 pubblicò alquante tesi legali
sul modo di trattare il papa qualora apparisse negligente, inetto a
governare, o capriccioso a ricusare il consiglio dei cardinali (com’era
il caso di Urbano VI); e conchiudeva potere questi mettergli de’
curatori, al cui parere fosse obbligato attenersi negli affari della
Chiesa. I Francesi colla prammatica sanzione di Bourges restrinsero
i diritti papali. In Inghilterra Giovanni Wiclef aveva impugnato
le indulgenze, la transustanziazione, la confessione auricolare,
domandato la secolarizzazione degli Ordini regolari e la povertà del
clero. Girolamo di Praga dall’Università di Oxford ne portò i libri in
Boemia, dove ebbero effetti più gravi, perocchè Giovanni Huss, che qui
già aveva alzato la voce contro la depravazione del clero, vi attinse
argomenti teologici e ardire a palesarsi. Essendo venuti alcuni monaci
a spacciare indulgenze, e avendo l’imperatore proibito il sacrilego
traffico, pigliò baldanza a declamare, in prima contro l’abuso, poi
contro le indulgenze medesime. Il popolo ascoltava volentieri; gli
studenti boemi se ne infervoravano; le quistioni religiose prendevano
colore politico d’aborrimento ai Tedeschi e d’aspirazioni repubblicane.
Dappertutto lo sparlare dei papi era considerato segno d’educazione
non vulgare, di ragione più elevata, di dispetto contro i governi,
di scontento generico; declamazioni di piazza, frizzi di scuola
fra la gioventù inesperta seminavano un vago desiderio di sottrarsi
all’autorità; sebbene, per quanto e le accuse si esagerassero e gli
errori si estendessero, non si pensasse ancora che la Chiesa si dovesse
distruggere anzichè riformare.
Quanto erano più ulcerate le piaghe, tanto più speravasi nel concilio,
che inoltre rannoderebbe in pace i principi cristiani per respingere la
sempre crescente minaccia degli Ottomani.
L’imperatore, assai principi, signori e conti assistettero
all’assemblea, ed è scritto vi si numerassero fin cencinquantamila
forestieri con trentamila cavalli; fra quelli, diciottomila
ecclesiastici e ducento dottori dell’Università di Parigi. Coi
fastosissimi cardinali faceano gara di lusso i tanti avveniticci,
giunti dagli estremi d’Europa, distinguendosi per abiti varj, armadure,
corteo pomposo. Vi accorrevano a spettacolo, a sollazzo, trovandovisi
trecenquarantasei commedianti e giullari, settecento cortigiane, e
tornei e sfide[77]; sicchè i gaudenti andavano in delizie, mentre
i pii pregavano, i dotti accingeansi a duelli dialettici, dai quali
apparirebbe l’odierno loro elevarsi allato ai grandi.
Ma un’assemblea di tanto momento, sin dal principio reluttò ai modi
sagaci, con cui gl’Italiani e il papa tentavano dominarla. La Chiesa
nella sua universalità non distingue popoli, e valuta ciascun uomo pel
proprio valore; sicchè all’indole sua ripugnava il votare per nazioni,
come si pretese, dividendo il concilio in camera tedesca, italiana,
francese, inglese, spagnuola, le quali deliberassero distintamente
affine di elidere la superiorità degl’Italiani. Giovanni XXIII, come
presente, provveduto di gran denaro, e assistito dalle compre armi
di Federico d’Austria, sperava far considerare il concilio come una
continuazione di quello di Pisa, che avendo riconosciuto Alessandro
V, considerava lui come solo papa legittimo: inoltre voleva si
cominciasse dagli articoli di fede, poichè richiederebbero lunghe
dispute, e i prelati nella piccola città s’annojerebbero. Ma questi
pretesero che abdicassero e lui e Benedetto XIII che sostenevasi in
Ispagna, e Gregorio XII che aveva favore in Germania. Giovanni nella
seconda tornata protestò di farlo volontariamente se lo imitassero gli
altri due, anzi rinunziare ad ogni modo se con ciò potesse terminarsi
lo scisma; sicchè il giubilo e gli applausi andarono al colmo, e
l’imperatore gli si buttò ai piedi baciandoli. Ma poi pentito e
sbigottito fuggì; e allora i mirallegro si risolvono in costernazione,
Gregorio viene sospeso, e proclamato (1415) che il concilio trae
immediatamente da Cristo i suoi poteri, e ognuno, compreso il papa,
è tenuto obbedirgli in quanto concerne la fede, lo scisma, e la
riformazione generale della Chiesa nel capo e nelle membra. Gl’Italiani
protestarono invano. Giovanni, citato a giustificarsi delle più enormi
e scandalose imputazioni[78], dichiarossene colpevole, sottomettersi
a discrezione al concilio, pur beato se con ciò potesse render pace
alla Chiesa: e quello il destituì (29 maggio) come avesse disonorato
il popolo cristiano, ne spezzò il suggello e gli stemmi, gli tolse le
insegne pontifizie e la croce, e lo tenne in cortese prigionia[79].
Anche Gregorio, per mezzo di Carlo Malatesta signore di Rimini, a cui
protezione si era posto, mandò la rinunzia (4 luglio), riducendosi
cardinale di Porto. Solo Benedetto ostinavasi, scomunicando chi non
era con lui, e dichiarava «nel diluvio universale la sola arca della
Chiesa essere Paniscola dov’egli sedeva»: alfine, abbandonato anche
dalla Chiesa spagnuola per opera principalmente di Vincenzo Ferreri,
fu destituito (1417 26 luglio), terminando uno scisma che fu la
maggior prova a cui la Chiesa si trovasse esposta. Tante passioni,
tanti errori, eppure fu ancora alla Chiesa una che la cristianità
si ricoverò, e sotto il manto del ponteficato, di cui non erasi mai
impugnata l’autorità e l’unità, comunque restasse incerto chi ne era il
depositario, disputandosi del possesso e dell’esercizio dell’autorità,
non dell’autorità stessa.
Sbalzatine gl’indegni occupatori, bisognava surrogare un degno sul
trono di san Pietro. Sigismondo voleva che prima si riformasse la
Chiesa; gl’italiani incalzarono per la pronta nomina del papa Ottone
Colonna (11 9bre), il quale si volle chiamato Martino V. Sigismondo
aveva preveduto giusto; poichè Martino trovò modo di rinviare d’oggi
in domani le chieste riforme, logorando il tempo in divisamenti o
in concessioni secondarie, protestando contro gli appelli del papa
al concilio, riconfermando molti abusi; finchè dichiarò sciolto il
concilio (1418 22 aprile), e andossene a Roma.
I padri, vedendosi dal popolo sprezzati per le contese e i baccani
a cui prorompeano[80], e presi in sospetto come staccatisi dal
papa, vollero ostentare zelo della fede col perseguitare l’eresia, e
condannarono Giovanni Huss e Girolamo da Praga, i quali, malgrado il
salvacondotto imperiale[81], furono dati al braccio secolare e mandati
al rogo. Tristo rimedio la violenza; e ne pagò le pene Sigismondo, o
piuttosto i popoli espianti le colpe dei re: giacchè la Boemia divampò
d’un incendio, a spegnere il quale vi vollero torrenti di sangue.
Per compiere le riforme. Martino V indicò un nuovo concilio prima
a Pavia, poi a Siena, infine a Basilea; ma apertolo appena, morì
(1431). Nell’elezione di Eugenio IV (Gabriele Condulmier veneziano) i
conclavisti prefissero una specie di costituzione, che in alcuni punti
concerneva anche il governo civile. L’omaggio che il papa ricevea dai
feudatarj e dagl’impiegati, non riflettesse su lui solo, ma anche
sul collegio de’ cardinali, talchè a questo rimanessero obbligati
in sede vacante; metà dei proventi della Chiesa fosse riservata ai
cardinali; di conseguenza nessun atto politico importante poteva il
papa permettersi se non consenziente il sacro collegio, non pace o
guerra, non tasse nuove, non mutar la sede; inoltre il papa doveva
riformare la Corte, e tenere concilj periodici. Eugenio vi si obbligò;
e se quel costituto reggeva, il principato romano trovavasi ridotto ad
aristocrazia, ma forse era tolto il pretesto alla Riforma del secolo
seguente.
Eugenio, per giudizio d’un suo successore[82], fu pontefice d’animo
elevato, ma senza misura in nessuna cosa, intraprese sempre ciò che
voleva, non ciò che poteva. Fece egli aprire il concilio di Basilea
onde estirpare l’eresia, metter pace perpetua fra le nazioni cristiane,
togliere il lungo scisma de’ Greci, e riformare la Chiesa. Ma i padri
vi s’accinsero senza precise idee di quel che volevano operare, nè de’
limiti dell’autorità propria e di quella che pensavano restringere;
attaccavano un dopo l’altro gli abusi parziali, non proponevano un
rimedio radicale: onde vedendoli condursi con quella precipitazione
che sgomenta le autorità desiderose di dirigere, Eugenio sospese il
concilio. I padri non gli badando, citano lui pontefice, accusandolo
disobbediente; poi, spiegate le vele, dichiaransi ad esso superiori; nè
poter lui scioglierli o traslocarli.
Fittisi alla riforma della Chiesa, mozzano assai diritti curiali;
determinano la forma dell’elezione del papa, e il giuramento che
deva prestare; limitano le concessioni ch’e’ può fare ai parenti;
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