Storia degli Italiani, vol. 08 (di 15) - 11
essere meritorio; averlo Cristo insegnato colla parola, confermato
coll’esempio, e gli apostoli ridotto in pratica; i Francescani vivendo
così, non faceansi suicidi nè tentavano Dio, giacchè confidandosi
nella Provvidenza, non però repudiavano gli espedienti suggeriti dalla
prudenza umana. Vi si chetarono gli avversarj, ma tra i Minoriti alcuni
ne trassero motivi d’un fanatico misticismo, da una parte asserendo
che la regola di san Francesco fosse il vero vangelo, dall’altra che la
spropriazione dovea portarli ad avere nulla più che il mero uso delle
cose necessarie alla vita.
Pier Giovanni d’Oliva di Linguadoca predicò siffatta dottrina, e
bersagliando la Chiesa ricca e mondana, annunziava i Minori, come
destinati a rigenerarla. Fece molti proseliti, e sotto papa Celestino
V, incline al vivere cenobita, ottennero di costituirsi in nuova
congregazione (1234), detta degli Eremiti Celestini. Perseguitati,
presero abito e capi particolari, e massime per la diocesi di Pisa
e tra i monti di Vecchiano e di Calci seguivano tenor di vita
più rigoroso, alla Chiesa visibile ricca, carnale, peccaminosa
affacciandone una frugale, povera, virtuosa. Tennero a quelle dottrine
Corrado da Offida, Pietro da Monticolo, Tommaso da Treviso, Corrado
da Spoleto, Jacopone da Todi, e col nome di Fraticelli o Frati
spirituali, ebbero capi frà Pietro da Macerata e Pietro da Fossombrone.
Bonifazio VIII li combattè vigorosamente, e proferitili eretici, li
fece processare e perseguire da frà Matteo di Chieti, sicchè essi
ricoverarono in un’isola dell’Arcipelago e in Sicilia, aggregando a sè
chiunque disertava dai Francescani per seguire una vita più austera;
cari al vulgo per l’aspetto di maggior perfezione, e avendo per
generale il mistico Ubertino da Casale. Angelo, plebeo senza lettere,
della vallata di Spoleto, n’avea radunati molti; e così l’ordine del
padre serafico restava scisso, nè Clemente V riuscì a riconciliarli nel
concilio di Vienne.
Il resistere, e la superbia che facilmente nasce dal rigore esagerato,
li portarono a farsi accanniti detrattori della santa Sede, negando
ch’ella potesse permettere ai Francescani di tener granajo e cantina, e
asserendo una vicina riforma. Ne seguirono perfino sommosse a Narbona,
in Sicilia, in Toscana; onde Giovanni XXII provvide a comandare la
soggezione, dicendo che «gran cosa è la povertà, più grande la castità,
ma superiore l’obbedienza»[60]. Eppure essi durarono contumaci,
appellando al futuro concilio, onde ebbero condanna; e quei che non vi
si sottomisero, fuggirono in Sicilia, ove Federico re di Trinacria,
sempre malvolto alla santa Sede, li protesse, e dove presero capo
Enrico di Ceva, professando sempre che la Chiesa era divenuta una
sinagoga, lupo il suo pastore.
Chi bestemmia Giovanni del rigore usato con essi, chi di essi fa beffa
come apostoli d’una ineffettibile povertà, non venga poi a declamare o
a sbigottirsi al cospetto del comunismo, forma moderna della medesima
dottrina.
Ma tra i dibattimenti avendo alcuno asserito che Gesù Cristo nè i
suoi apostoli non aveano nulla posseduto, la proposizione, rejetta
dai Domenicani e da altri, venne sostenuta dai Francescani; e poichè
la regola di san Francesco diceasi esprimere il vangelo, tornava
sott’altra apparenza il medesimo concetto dell’assoluta spropriazione.
Giovanni condannò anche questa dottrina; Michele di Cesena generale
dell’Ordine, Guglielmo Occam e Buonagrazia da Bergamo protestarono, e
rifuggiti a Pisa presso Lodovico Bavaro, lo sostennero e accannirono
nella lotta contro quel papa. Tale quistione insinuò ne’ Minoriti uno
spirito di sottigliezza, troppo contrario all’intento tutto pratico del
loro fondatore; e ne pullulavano altre quistioni, a dir poco, oziose:
se la regola astringesse sotto pena di peccato mortale o soltanto
veniale; se obbligasse ai consigli del vangelo quanto ai precetti; se
alle ammonizioni quanto ai comandi: dal che, facile tragitto, si passò
a sofisticare sul decalogo e sul vangelo; ed oltre la disputa sempre
accesa sull’immacolata concezione di Maria, un’altra ne ebbero coi
Domenicani, se il sangue di Cristo, uscito nella passione, restasse non
pertanto ipostaticamente unito al Verbo.
È difficile sincerare quanto abbiano di vero le oscene imputazioni che
accompagnano i processi di costoro, massime de’ Fraticelli, avvegnachè
l’opinione era straniata alla peggio, e la manìa de’ processi recò a
prestar fede ad assurdità, ribadite nel vulgo dai supplizj inflitti
e dalle declamazioni di chi avrebbe dovuto dissiparle. Anzi mi si fa
credibile che le procedure allora ordinate dagli statuti civili ed
ecclesiastici moltiplicassero le stregherie, dapprima quasi ignote.
Giovanni XXII nel 1322 notificava che «alcuni figli di perdizione,
allievi d’iniquità, dandosi alle ree operazioni di loro detestabili
malefizj, fabbricarono immagini di piombo o di pietra, sotto la
figura del re, per esercitare sovr’essa arti magiche, orribili e
vietate». E avendo gl’imputati declinato la giurisdizione ordinaria,
il papa incaricò tre cardinali d’esaminarli, e rimetterli ai giudici
secolari. Poi l’anno stesso meravigliasi de’ progressi delle scienze
occulte, commosso nelle viscere che molti, cristiani soltanto di
nome, lascino la luce della verità, e talmente siano involti nelle
nebbie dell’orrore, da fare alleanza colla morte e patto coll’inferno,
immolando ai demonj, adorandoli, fabbricando immagini, anelli, specchi,
fiale ed altri oggetti in cui legare i diavoli; e a questi domandano
risposte e ne ricevono, gl’implorano a soccorso dei depravati loro
desiderj, e in ricambio della vergognosa assistenza offrono vergognosa
servitù. O dolore! questa peste si diffonde oltremodo nel mondo,
infettando tutto il gregge di Cristo».
Con tali persuasioni, si estesero i supplizj per malìe. Il 1292
Pasqueta di Villafranca in Piemonte fu multata in quaranta soldi perchè
_faciebat sortilegia in visione stellarum_: nel 1363 Antonio Cariavano,
accusato di aver fatto grandinare in Pinerolo con libri necromantici,
fu multato in quaranta fiorini: nell’86 due della valle di San
Saturnino pagarono cenventi franchi d’oro per avere prestato fede a
un incanto gittato onde smorbare le loro mandre: nell’81 la nuora di
Francesca Troterj avendo smarrito una collana di perle, per trovarla
ricorse a maestro Antonio di Tresto da Moncalieri, il quale, pigliato
il secchiello dell’acquasanta, lo coprì con un altro, vi accese attorno
dodici candele, descrisse varie figure colla verga, e fece segni di
croce: poi mise per terra due candele in croce, e su quelle fece posare
il piede dritto della donna che avea smarrito il collare. Non so se si
trovasse: ma il maestro fu accusato al vicario del vescovo; e quegli
confessò nulla intendersi di magìe, ma far quelle frasche per ciuffare
qualche soldo ai credenzoni[61].
A questi mali è fortuna quando si trova da opporre caldo zelo,
soda pietà, scienza matura. Anime fervorose e gran santi neppur
allora mancarono: verso il 1319 nacquero gli Olivetani alla badia
di Montoliveto nella val dell’Ombrone senese, per opera del beato
Bernardo Tolomei; e lo sterile paese fu coltivato, adorna di pitture
la chiesa. Il beato Giovanni Dominici fiorentino, oratore famosissimo,
studiando al miglioramento de’ secolari e più de’ claustrali, fu
vero restauratore della vita regolare in Italia e in Sicilia, e
infine arcivescovo di Ragusi e cardinale: senza maestro s’approfondì
nelle scienze, mentre colle prediche traeva a monacarsi donzelle e
giovani. Nel riformare i Domenicani, cominciando a Firenze e Pisa, fu
accompagnato dal beato Lorenzo da Ripafratta, che fu maestro ed amico
a sant’Antonino, dal venerabile Tommaso Ajutamicristo, e da altri di
quell’Ordine, infervorati a pietà dalla beata Chiara de’ Gambacurti,
la quale avea riformato le Domenicane in Firenze, donde si diffusero a
Genova, a Parma, a Venezia. Anche il beato Raimondo da Capua operò a
ristabilire la regolarità ne’ conventi domenicani, insieme col beato
Marconino di Forlì, entrambi d’affettuosa pietà. Ai conforti del pio
Marco, parroco di San Michele in Padova, che gemea di veder depravato
l’ordine Benedettino, e Santa Giustina abbandonata ai disordini,
Luigi Barbo tolse a riformarlo con regole più severe, e che presto
si estesero a Genova, a Pavia, Milano e più lungi. I Camaldolesi
ridussero florido il Casentino, ed esemplarmente conservavasi il bel
bosco di abeti e di faggi. Il beato Giovanni Colombino, di nobile gente
senese ed elevato alle prime dignità, dalla pazienza della moglie
e dal leggendario dei santi fu chiamato a vita pia ed austera, e ad
assistere malati e pellegrini: poi ridottosi povero, andava predicando
penitenza, e raccolti alquanti seguaci, istituì l’ordine dei poveri
Gesuati, approvato da Urbano V il 1367; «e i forti cavalieri di Cristo,
fatti novelli sposi dell’altissima povertà, incominciarono allegramente
a mendicare,... e posti in un’altezza di mente, calcando il mondo
sotto i loro piedi, tutte le cose terrene stimavano come fango, e
tuttodì crescevano in desiderio di patire e sostenere pene per amore
di Cristo»[62]. Suor Agata stette murata gran tempo in s’una pila del
ponte Rubaconte a Firenze, poi nel 1434 fondò il monastero famoso delle
Murate.
Al tempo stesso diedero odore di gran santità in Siena Gioachino
Pelacani, che la sua devozione per Maria espandeva in carità pei
poveri (-1305), e Antonio Patrizj; Andrea de’ Dotti di San Sepolcro,
scolaro di Filippo Benizzi; Bonaventura Bonacorsi di Pistoja, caldo
ghibellino, che dal Benizzi stesso convertito, riparò i danni recati,
e edificò colle virtù più austere (-1315). Simone Ballachi, figlio del
conte di Sant’Arcangelo presso Rimini, dalla dissipazione raccoltosi
a Dio, esercitavasi ne’ più umili uffizj e nell’istruire bambini
e convertir peccatori (-1319). Agnese di Montepulciano domenicana,
Emilia Bicchieri di Vercelli (-1314), Benvenuta Fojano del Friuli
vennero illustrate per doni celesti; e così Margherita di Metela presso
Urbino, cieca nata; Chiara di Montefalco presso Spoleto, eremitana
(-1308); e quell’Oringa di Santa Croce presso Firenze, che divenne il
modello delle fantesche, dal santo Spirito illustrata alla conoscenza
di sublimi veri, sebben nè leggere sapesse, onde empì Lucca e Roma
della fama di sua virtù e carità, e presto de’ suoi miracoli. Gli
Orsini ci portano il loro sant’Andrea carmelitano, che, malgrado
l’illustre nascita, accattava pe’ poveri, e, malgrado la sua umiltà,
fu messo vescovo di Fiesole, ove continuò le austerità, e riconciliò
più volte la sua colle città vicine. Dai Falconieri uscivano Alessio,
Carissima e Giuliana, tutti venerati sugli altari; dai Soderini la
beata Giovanna (-1367) e un altro Giovanni (-1343); dai Vespignano di
Firenze il beato Giovanni; dagli Adimari il beato Ubaldo; dai Della
Rena di Certaldo la beata Giulia. Pellegrino de’ Latiozi di Forlì fu
stupendo per pazienza nel soffrire sia le percosse di quelli di cui
voleva acquietare i litigi, sia gli spasimi d’una cancrena (-1345).
Pietro Geremi di Palermo, già professore di diritto, diedesi a Bologna
a tali austerità, che si circondò il corpo di sette cerchi di ferro,
scena che molti convertì. Giovanni da Capistrano, dopo adoperato in
magistrature e negoziati, resosi francescano, si diè tutto all’amor di
Dio e del prossimo, e continuò a riconciliar nimicizie e risse nel nome
di Dio, e possedendo lo spirito di compunzione e il dono delle lacrime,
moltissimi convertiva, e spesso le donne dopo le sue prediche davano
in limosina tutti i loro ornamenti. Fra l’alto clero sono a mentovare
il beato Bertrando patriarca d’Aquileja che tanto operò alla riforma
di questa chiesa, e fu assassinato da masnadieri del conte di Gorizia
nel 1350; il beato Lorenzo Giustiniani, patriarca di Venezia; Matteo
da Cimarra vescovo di Girgenti; Nicola Alberga vescovo di Bologna,
adoperato, spesso a metter pace fra le città d’Italia e fra Inglesi e
Francesi[63].
Bernardino (1380-1444), dell’illustre famiglia degli Albizeschi di
Massa marittima, fu educato nella pietà e nella carità; nella peste del
Quattrocento si profuse a cura de’ malati di Siena, ove poi professossi
francescano della stretta osservanza. «Fu in concetto d’uomo grande
e meraviglioso nel predicare: ovunque andasse traeva con sè tutto il
popolo, eloquente e forte nel ragionare, d’incredibile memoria; di tal
grazia nella pronunzia, che non mai recava sazietà agli uditori; di
voce sì robusta e durevole, che mai non venivagli meno, e ciò ch’è più
mirabile, in grandissima folla era udito colla stessa facilità dal più
lontano come dal più vicino»[64]. Vincenzo Ferreri, che allora empiva
Italia delle virtù e de’ miracoli suoi, predicando ad Alessandria
esclamò: — Fra voi si trova un vaso d’elezione, un figlio di san
Francesco, che ben presto diffonderà immensa luce in tutta Italia, e
di sue virtù e dottrina usciranno i più insigni esempj». Pure oggi non
troviamo ne’ suoi sermoni che un fare stringato e scolastico.
E per verità sul pulpito, trionfo degli Ordini nuovi, non recavano
studj profondi e dogmatica precisione, ma zelo e modi popoleschi e
importuna applicazione alle circostanze giornaliere. Chi affronti la
noja di leggere le prediche rimasteci, non trova che aridi tessuti di
scolastica e di morale, rinzeppati di brani e brandelli d’autori sacri
e profani alla rinfusa, con dipinture ridicole o misticismo trasmodato,
talchè i grandi effetti non se ne saprebbero attribuire che al gesto,
alla voce, allo spettacolo, e in alcuni alla persuasione della santità.
Tali dobbiamo credere il beato Michele da Carcano, frate Alberto
da Sarzana, frate Ambrogio Spiera trevisano, ed altri, famosi per
conversioni ed efficacia morale. Alcuni non mancavano di merito
letterario, e noi lodammo altrove il Cavalca, il Passavanti, frà
Giordano di Rivalta. Quest’ultimo distingueva le devozioni dagli abusi,
in un modo da far meraviglia a chi in que’ tempi e in que’ frati non
sa vedere che superstizione. — Viene (diceva egli) viene l’uomo, e
andrà a Santo Jacopo in pellegrinaggio: ed anzi ch’egli sia là, cadrà
in uno peccato mortale talotta, e forse in due, e talotta in tre
peccati mortali, e talotta forse più. Or che pellegrinaggio è questo, o
stolti? che rileva questa andata? Dovete questo sapere, che, chi vuole
ricevere le indulgenze, conviene che ci vada puro, come s’egli andasse
a ricevere il corpo di Cristo. Or chi le riceve così puramente? e però
le genti ne sono ingannate. Di queste andate e di questi pellegrinaggi
io non ne consiglio persona, perch’io ci trovo più danno che pro.
Vanno le genti qua e là, e credonsi pigliare Iddio per li piedi:
siete ingannati, non è questa la via; meglio è raccoglierti un poco
in te medesimo, e pensare del Creatore, o piagnere i peccati tuoi o la
miseria del prossimo, che tutte le andate che tu fai».
Parole altrettanto libere avea proferite l’anno innanzi in Santa
Maria Novella: — E’ sono molti che si credono fare grandi opere a Dio;
intra noi, noi ce ne facciamo grandi beffe. Verrà una femmina, e porrà
sull’altare una gugliata di refe e tre fave, e parralle avere fatto
un grande fatto: or ecco opera! Simigliantemente de’ pellegrinaggi;
che pare così grande fatto di quelli che vanno in Galizia a Santo
Jacopo. Oh come pare grande opera questa, e di gran fatica cotal
viaggio grande! E vanterassi, e dirà, _Tre volte sono ito a Roma, due
volte ita a Santo Jacopo, e cotanti viaggi ho fatti_. E se vedesse in
Roma le femmine a girar cinque volte e sei all’altare, e’ par loro
avesse fatto un grande deposito, e rimproveranlo a Dio, come quello
Fariseo che dicea, _Io digiuno due dì della settimana_: or ecco grande
fatto! e manuchi, il dì che tu digiuni, una volta, e quella manduchi
bene e bello. Questo andare ne’ viaggi io l’ho per niente, e poche
persone ne consiglierei, e radissime volte; chè l’uomo cade molte
volte in peccato, ed hacci molti pericoli. Trovano molti scandoli
nella via, e non hanno pazienza; e tra loro molte volte si tenzonano
e adirano, e con l’oste e co’ compagni; e talotta fanno micidio ed
inganni e fornicazioni; e di questo si fa assai, e caggiono in peccato
mortale»[65].
I così fatti saranno stati non pochi, vogliamo crederlo: ma altri
cercava cattivar l’attenzione col mescere ai discorsi allusioni alla
politica; e chi predicava pei Guelfi, chi pei Ghibellini, pei Medici,
per lo Sforza; talora sorgeano in aperto attacco contro ai principi o
ai papi.
È bizzarro in taluni l’associare una pietà sincera, un’ingenuità
profonda, col ridicolo e col teatrale, in modo d’uscirne composizioni
grottesche e senza gusto, che non hanno di serio se non l’intenzione.
Di Roberto Caracciolo da Lecce, dai contemporanei supremato
nell’eloquenza, sciaguratamente ci restano alcuni sermoni, più
materia di riso che di compunzione[66]: sale in pergamo a predicar
la crociata, e, cavata la tonaca, rivelasi in abito da generale, come
pronto a guidar egli stesso l’impresa. Paolo Attavanti ad ogni tratto
cita Dante e Petrarca, e se ne gloria nella prefazione. Mariano da
Genazzano, levato a cielo dal Poliziano e da Pico della Mirandola,
«predicava attraendo con l’eloquenza sua molto popolo, perciocchè a
sua posta aveva le lagrime, le quali cadendogli dagli occhi per il
viso, le raccoglieva talvolta et gittavale al popolo»[67]. I discorsi
di Gabriele Barletta, sì reputato che dicevasi _Nescit prædicare qui
nescit barlettare_, darebbero sollazzo a qualche festevole brigata.
Per Pasqua racconta che molte persone offrironsi a Cristo onde
annunziare la sua risurrezione alla madre: egli non volle Adamo,
perchè, piacendogli i fichi, non si badasse per istrada; non Abele,
perchè andando non fosse ucciso da Caino; non Noè, perchè correvole
al vino; non il Battista, pel suo vestire troppo conosciuto; non il
buon ladrone, perchè aveva rotte le gambe; ma donne, per la popolosa
loquacità. Blandiva un sentimento troppo comune quando predicava: —
O voi donne di questi signori e usuraj, se si mettessero le vostre
vestimenta sotto il pressojo, ne scolerebbe il sangue de’ poveri».
L’erudito Bracciolini fa dire da Cincio in un suo dialogo: — Parmi
che tanto frà Bernardino da Siena, come altri troppi vadano errati per
istudio di brillare più che di giovare; non volti a curar le infermità
dell’animo delle quali si annunziano medici, quanto a ottenere gli
applausi del vulgo, trattano qualche volta recondite e ardue materie,
riprendono i vizj in modo che pare gl’insegnino, e per desiderio di
piacere trascurano il vero scopo di loro missione, quello di render
migliori gli uomini».
Contro i siffatti avea tonato l’Alighieri, dicendo:
Ora si va con motti e con iscede
A predicare; e pur che ben si rida,
Gonfia il cappuccio, e più non si richiede.
I quali versi commentando, Benvenuto da Imola adduce alquante
scempiaggini di un Andrea vescovo di Firenze che mostrava in pulpito
un granello di seme di rapa, poi se ne traeva di sotto la tunica una
grossissima, e diceva: — Ecco quanto è mirabile la potenza di Dio, che
da sì piccol seme trae sì gran frutto». Poi: _O domini et dominæ, sit
vobis raccomandata monna Tessa cognata mea, quæ vadit Romam; nam in
veritate, si fuit per tempus ullum satis vaga et placibilis, nunc est
bene emendata: ideo vadit ad indulgentiam_[68].
Que’ modi erano certo men dignitosi, però più efficaci che non le
esanimi generalità, le perifrasi schizzinose, e i consigli senza
coraggio dei tempi d’oro. Ma se a persone semplici e credenti servivano
d’edificazione, tornavano a scandalo dacchè vi si applicassero la
critica e la negazione; e i predicatori usandone esageratamente,
davano appiglio ad accuse, alla lor volta esagerate. Il fervore, non
sempre disinteressato per certe devozioni nuove, come il rosario de’
Domenicani e lo scapolare de’ Carmeliti, faceva proclamarle quale
rimedio sufficiente a tutti i peccati, i quali perdevano l’orrore
quando annunziavasi così facile il redimerli, e ne veniva presunzione a
chi le osservasse, e confidenza d’una buona morte dopo vita ribalda.
Giacomo, arcivescovo di Téramo poi di Firenze, scrisse varie opere,
tra cui è rinomata una specie di romanzo col titolo _Consolatio
peccatorum_ o _Belial_: suppone che i demonj, indispettiti del trionfo
di Cristo sopra Lucifero, eleggano procuratore Belial per chiedere
giustizia a Dio contro le usurpazioni di Cristo; Dio commette la
decisione a Salomone; e Cristo citato, manda per rappresentante
Mosè, il quale adduce a testimonj giurati Abramo, Isacco, Giacobbe,
Davide, Virgilio, Ippocrate, Aristotele, il Battista. Belial li scarta
tutti, eccetto l’ultimo, sostiene la sua causa con finezza diabolica;
pure ha decisione contraria. Si appella, e Dio demanda la causa a
Giuseppe, se non che Belial preferisce scegliere degli arbitri; e sono
Aristotele ed Isaia per Mosè, per Belial Augusto e Geremia. I passi
più venerabili sono stiracchiati beffardamente; e dopo tutti i garbugli
della giurisprudenza, ove Belial imbarazza sovente Mosè men versato ne’
cavilli, gli arbitri danno di quelle vaghe decisioni, che lasciano ad
ambe le parti captare trionfo.
Così la credulità univasi alla miscredenza per dare fomite alla
corruttela, tanto più pericolosa, in quanto che «il maggior padre ad
altra opera intendeva» (PETRARCA). Gregorio XI aveva autorizzati i
cardinali ad eleggergli il successore a semplice pluralità di voci,
senza aspettare i fratelli assenti, per abbreviare al possibile la
vacanza: e poichè di sedici radunati quattro soli erano italiani,
il popolo di Roma, timoroso che l’eletto non tornasse ad Avignone,
circondò il conclave d’armi schiamazzando — Lo volemo romano»,
toccando le campane a martello, e minacciando entrarvi di forza. Dopo
tempestosissima discussione, questi, per ripiego e con riserve tacite
o espresse d’una più libera elezione, diedero i voti (1378 9 aprile)
a Bartolomeo Prignano di Napoli, arcivescovo di Bari; ma temendo che
il popolo lo disgradisse perchè non romano, fu gridato dal terrazzo
andassero a San Pietro e saprebbero chi era l’eletto. Il popolo intese
che l’eletto fosse il cardinale di San Pietro, vecchione di casa
Tebaldeschi; onde si cominciò a gridargli Viva e saccheggiarne il
palazzo secondo l’usanza, e adorar lui, che invano ingegnavasi a far
comprendere il vero. Di questo scompiglio s’avvantaggiarono gli altri
cardinali per fuggire nelle varie fortezze e ne’ feudi; l’arcivescovo
di Firenze presentò il Prignano ai pochi rimasti, con un sermone sul
testo _Talis debebat esse, ut esset nobis pontifex impollutus;_ e
questi sul testo _Timor et tremor venerunt super me, et contexerunt me
tenebræ_, cominciò a dissertare sulla dignità del posto e l’indegnità
propria, finchè l’arcivescovo gli fece intendere si trattava ora solo
di dichiarare se accettasse o no; ed egli disse di sì, e prese il nome
di Urbano VI.
Uomo di dottrina e coscienza, ma severo, melanconico, colleroso,
immoderato, avventatosi a riformare di colpo, vietò ai prelati d’usare
a tavola più d’una pietanza, com’egli stesso ne dava l’esempio;
minacciò non solo ai simoniaci, ma a chiunque di essi accettasse doni;
proponeasi, con creare cardinali nuovi, togliere la prevalenza che da
un secolo avevano i francesi; e ne’ concistori secreti li rabbuffava
indiscretamente, ad uno dava sin dello sciocco, a un altro ch’era
bugiardo come un calabrese. Queste sconvenienze, e il vedere ch’ei
voleva fermamente tenerli a Roma, indisposero i cardinali; e la più
parte separatisi da lui, protestarono l’elezione non essersi fatta
liberamente, ma sotto la costrizione di un popolo tumultuante; e
raccomandando la loro vita alla tutela di Bernardo di Sala, capo degli
avventurieri guaschi e bretoni che aveano fatto sì rovinoso governo
di Cesena, dichiarano non avere operato che per paura della morte;
Urbano essere intruso, apostato e anticristo; e a Fondi eleggono papa
(21 7bre) quel Roberto di Ginevra che come legato pontifizio avea data
a ruba e strazio la Romagna, e che si chiamò Clemente VII. Urbano fu
accettato in Italia, Germania, Inghilterra, Danimarca, Svezia, Polonia
e nel settentrione de’ Paesi Bassi; Clemente dalla regina di Napoli, da
Francia, Scozia, Savoja, Portogallo, Lorena, Castiglia; gli altri paesi
esitavano.
Urbano bandì contro del competitore una crociata colle indulgenze
concesse a quelle contro gl’infedeli: ma la compagnia de’ Bretoni,
soldata da Clemente, si difilò sopra Roma, e fece macello de’ cittadini
che sortirono per respingerla, ma non osò penetrare in città. Allora
i Romani diedero addosso a quanti Francesi cherici o laici colsero
in città; mentre gli Orsini e Francesco di Vico devoti a Clemente
devastavano i contorni, e Pietro Rostaing dal Castel Sant’Angelo
bombardava gli edifizj: una volta (1379) Silvestro di Buda, capitano
de’ Bretoni, sorprende i nobili adunati in Campidoglio e trucida sette
banderesi, ducento ricchi, innumerevole popolo, poi di nuovo lascia la
città.
Urbano solda Giovanni Acuto e Alberico da Barbiano, che secondato dai
cittadini, sorte addosso ai nemici, e sconfittili e fatti prigioni i
due capi, mena trionfo[69]; Castel Sant’Angelo si rende, e il papa
a piè scalzi, seguito da tutta la popolazione, torna in Vaticano.
Clemente allora ricovera a Napoli, ben accolto dai re; ma il popolo a
tumulto lo respinge, sicchè fugge in Provenza, e postosi ad Avignone,
moltiplica i cardinali, largheggia di aspettative, e sì poco contava
sullo Stato pontifizio, che volle almeno punire i Romani e deprimere
i feudatarj col costituirlo in _regno d’Adria_ a favore di Luigi
I d’Angiò, al quale, per averlo partigiano, prodiga esorbitanti
concessioni: tutta la decima in Francia, nel regno di Napoli, in
Austria, in Portogallo, in Iscozia; metà delle entrate di Castiglia
e d’Aragona, le spoglie de’ prelati che muojono, ogni censo biennale,
ogni emolumento della camera apostolica; il papa obbligherà a prestiti
gli ecclesiastici, darà in ipoteca Avignone, il contado Venesino
ed altre terre della Chiesa; inoltre gli assegna per feudi Ancona e
Benevento, e tutto giura sulla croce. Tale spreco facea dei beni di San
Pietro nella fiducia d’esser liberato dall’antagonista; mentre Urbano,
pien di sospetti, reggevasi con rigiri e sangue e torture, senza
riguardo a dignità o danni de’ prelati e cardinali.
Accannito alla regina Giovanna I, contro di lei come signore sovrano
del Reame e come scismatica sollecitò Luigi d’Ungheria, che affidò a
Carlo di Durazzo l’incarico di punirla. Urbano spogliò chiese e altari
per raccogliere ottantamila fiorini, che diede a Carlo, il quale in
ricambio promise riconoscere il regno dal papa, e appena coronatone
cedere il ducato di Durazzo a Francesco Batillo nipote di esso, e i
principati di Capua e d’Amalfi. Vedemmo come la spedizione riuscisse:
ma Carlo non pensava mantenere la parola, onde venne in piena rotta col
papa, il quale assediato in Nocera, sparnazzava scomuniche scandalose e
scandalosi decreti. I prelati sue creature s’erano concertati sul modo
di terminare le stravaganze d’un pontefice che prolungava una guerra
senza ragione, e farlo il mal arrivato; ma scopertili, Urbano non
gliela soffrì impunita (1386), e messi in ceppi l’arcivescovo d’Aquila
e sei cardinali, li trasse seco quando potè fuggire da Nocera; perchè
il primo non potea cavalcare a paro cogli altri, il fece uccidere e
abbandonare insepolto; giunto a Genova, e dicendosi circonvenuto da
cospirazioni, malgrado le istanze del doge, fece buttar nel mare i
cardinali, salvo un inglese reclamato dal suo re.
Qui comincia doppia serie di papi paralleli; ma qual era il vero?
Personaggi di senno e santità grande parteggiarono per l’uno e per
l’altro; prove in favore addussero questi e quelli, per modo che può
mettersi fuor di quistione la buona fede d’entrambi i partiti. La
Chiesa finora non ha proferito, benchè i nostri abbiano generalmente
considerato per antipapi quei che sedettero oltremonte, e il nome
d’alcuno di questi sia stato assunto da qualche papa successivo[70].
Per mezzo secolo fu partita la cristianità in due campi ostili,
e tra pontefici che rimbalzavansi calunnie e taccia d’intruso e
d’eretico. Come le nazioni, così erano divisi i cittadini, gli
scolari d’un’Università, i monaci d’un convento; ogni giorno dispute,
collisioni fin al sangue; due vescovi eletti dall’uno o dall’altro
coll’esempio, e gli apostoli ridotto in pratica; i Francescani vivendo
così, non faceansi suicidi nè tentavano Dio, giacchè confidandosi
nella Provvidenza, non però repudiavano gli espedienti suggeriti dalla
prudenza umana. Vi si chetarono gli avversarj, ma tra i Minoriti alcuni
ne trassero motivi d’un fanatico misticismo, da una parte asserendo
che la regola di san Francesco fosse il vero vangelo, dall’altra che la
spropriazione dovea portarli ad avere nulla più che il mero uso delle
cose necessarie alla vita.
Pier Giovanni d’Oliva di Linguadoca predicò siffatta dottrina, e
bersagliando la Chiesa ricca e mondana, annunziava i Minori, come
destinati a rigenerarla. Fece molti proseliti, e sotto papa Celestino
V, incline al vivere cenobita, ottennero di costituirsi in nuova
congregazione (1234), detta degli Eremiti Celestini. Perseguitati,
presero abito e capi particolari, e massime per la diocesi di Pisa
e tra i monti di Vecchiano e di Calci seguivano tenor di vita
più rigoroso, alla Chiesa visibile ricca, carnale, peccaminosa
affacciandone una frugale, povera, virtuosa. Tennero a quelle dottrine
Corrado da Offida, Pietro da Monticolo, Tommaso da Treviso, Corrado
da Spoleto, Jacopone da Todi, e col nome di Fraticelli o Frati
spirituali, ebbero capi frà Pietro da Macerata e Pietro da Fossombrone.
Bonifazio VIII li combattè vigorosamente, e proferitili eretici, li
fece processare e perseguire da frà Matteo di Chieti, sicchè essi
ricoverarono in un’isola dell’Arcipelago e in Sicilia, aggregando a sè
chiunque disertava dai Francescani per seguire una vita più austera;
cari al vulgo per l’aspetto di maggior perfezione, e avendo per
generale il mistico Ubertino da Casale. Angelo, plebeo senza lettere,
della vallata di Spoleto, n’avea radunati molti; e così l’ordine del
padre serafico restava scisso, nè Clemente V riuscì a riconciliarli nel
concilio di Vienne.
Il resistere, e la superbia che facilmente nasce dal rigore esagerato,
li portarono a farsi accanniti detrattori della santa Sede, negando
ch’ella potesse permettere ai Francescani di tener granajo e cantina, e
asserendo una vicina riforma. Ne seguirono perfino sommosse a Narbona,
in Sicilia, in Toscana; onde Giovanni XXII provvide a comandare la
soggezione, dicendo che «gran cosa è la povertà, più grande la castità,
ma superiore l’obbedienza»[60]. Eppure essi durarono contumaci,
appellando al futuro concilio, onde ebbero condanna; e quei che non vi
si sottomisero, fuggirono in Sicilia, ove Federico re di Trinacria,
sempre malvolto alla santa Sede, li protesse, e dove presero capo
Enrico di Ceva, professando sempre che la Chiesa era divenuta una
sinagoga, lupo il suo pastore.
Chi bestemmia Giovanni del rigore usato con essi, chi di essi fa beffa
come apostoli d’una ineffettibile povertà, non venga poi a declamare o
a sbigottirsi al cospetto del comunismo, forma moderna della medesima
dottrina.
Ma tra i dibattimenti avendo alcuno asserito che Gesù Cristo nè i
suoi apostoli non aveano nulla posseduto, la proposizione, rejetta
dai Domenicani e da altri, venne sostenuta dai Francescani; e poichè
la regola di san Francesco diceasi esprimere il vangelo, tornava
sott’altra apparenza il medesimo concetto dell’assoluta spropriazione.
Giovanni condannò anche questa dottrina; Michele di Cesena generale
dell’Ordine, Guglielmo Occam e Buonagrazia da Bergamo protestarono, e
rifuggiti a Pisa presso Lodovico Bavaro, lo sostennero e accannirono
nella lotta contro quel papa. Tale quistione insinuò ne’ Minoriti uno
spirito di sottigliezza, troppo contrario all’intento tutto pratico del
loro fondatore; e ne pullulavano altre quistioni, a dir poco, oziose:
se la regola astringesse sotto pena di peccato mortale o soltanto
veniale; se obbligasse ai consigli del vangelo quanto ai precetti; se
alle ammonizioni quanto ai comandi: dal che, facile tragitto, si passò
a sofisticare sul decalogo e sul vangelo; ed oltre la disputa sempre
accesa sull’immacolata concezione di Maria, un’altra ne ebbero coi
Domenicani, se il sangue di Cristo, uscito nella passione, restasse non
pertanto ipostaticamente unito al Verbo.
È difficile sincerare quanto abbiano di vero le oscene imputazioni che
accompagnano i processi di costoro, massime de’ Fraticelli, avvegnachè
l’opinione era straniata alla peggio, e la manìa de’ processi recò a
prestar fede ad assurdità, ribadite nel vulgo dai supplizj inflitti
e dalle declamazioni di chi avrebbe dovuto dissiparle. Anzi mi si fa
credibile che le procedure allora ordinate dagli statuti civili ed
ecclesiastici moltiplicassero le stregherie, dapprima quasi ignote.
Giovanni XXII nel 1322 notificava che «alcuni figli di perdizione,
allievi d’iniquità, dandosi alle ree operazioni di loro detestabili
malefizj, fabbricarono immagini di piombo o di pietra, sotto la
figura del re, per esercitare sovr’essa arti magiche, orribili e
vietate». E avendo gl’imputati declinato la giurisdizione ordinaria,
il papa incaricò tre cardinali d’esaminarli, e rimetterli ai giudici
secolari. Poi l’anno stesso meravigliasi de’ progressi delle scienze
occulte, commosso nelle viscere che molti, cristiani soltanto di
nome, lascino la luce della verità, e talmente siano involti nelle
nebbie dell’orrore, da fare alleanza colla morte e patto coll’inferno,
immolando ai demonj, adorandoli, fabbricando immagini, anelli, specchi,
fiale ed altri oggetti in cui legare i diavoli; e a questi domandano
risposte e ne ricevono, gl’implorano a soccorso dei depravati loro
desiderj, e in ricambio della vergognosa assistenza offrono vergognosa
servitù. O dolore! questa peste si diffonde oltremodo nel mondo,
infettando tutto il gregge di Cristo».
Con tali persuasioni, si estesero i supplizj per malìe. Il 1292
Pasqueta di Villafranca in Piemonte fu multata in quaranta soldi perchè
_faciebat sortilegia in visione stellarum_: nel 1363 Antonio Cariavano,
accusato di aver fatto grandinare in Pinerolo con libri necromantici,
fu multato in quaranta fiorini: nell’86 due della valle di San
Saturnino pagarono cenventi franchi d’oro per avere prestato fede a
un incanto gittato onde smorbare le loro mandre: nell’81 la nuora di
Francesca Troterj avendo smarrito una collana di perle, per trovarla
ricorse a maestro Antonio di Tresto da Moncalieri, il quale, pigliato
il secchiello dell’acquasanta, lo coprì con un altro, vi accese attorno
dodici candele, descrisse varie figure colla verga, e fece segni di
croce: poi mise per terra due candele in croce, e su quelle fece posare
il piede dritto della donna che avea smarrito il collare. Non so se si
trovasse: ma il maestro fu accusato al vicario del vescovo; e quegli
confessò nulla intendersi di magìe, ma far quelle frasche per ciuffare
qualche soldo ai credenzoni[61].
A questi mali è fortuna quando si trova da opporre caldo zelo,
soda pietà, scienza matura. Anime fervorose e gran santi neppur
allora mancarono: verso il 1319 nacquero gli Olivetani alla badia
di Montoliveto nella val dell’Ombrone senese, per opera del beato
Bernardo Tolomei; e lo sterile paese fu coltivato, adorna di pitture
la chiesa. Il beato Giovanni Dominici fiorentino, oratore famosissimo,
studiando al miglioramento de’ secolari e più de’ claustrali, fu
vero restauratore della vita regolare in Italia e in Sicilia, e
infine arcivescovo di Ragusi e cardinale: senza maestro s’approfondì
nelle scienze, mentre colle prediche traeva a monacarsi donzelle e
giovani. Nel riformare i Domenicani, cominciando a Firenze e Pisa, fu
accompagnato dal beato Lorenzo da Ripafratta, che fu maestro ed amico
a sant’Antonino, dal venerabile Tommaso Ajutamicristo, e da altri di
quell’Ordine, infervorati a pietà dalla beata Chiara de’ Gambacurti,
la quale avea riformato le Domenicane in Firenze, donde si diffusero a
Genova, a Parma, a Venezia. Anche il beato Raimondo da Capua operò a
ristabilire la regolarità ne’ conventi domenicani, insieme col beato
Marconino di Forlì, entrambi d’affettuosa pietà. Ai conforti del pio
Marco, parroco di San Michele in Padova, che gemea di veder depravato
l’ordine Benedettino, e Santa Giustina abbandonata ai disordini,
Luigi Barbo tolse a riformarlo con regole più severe, e che presto
si estesero a Genova, a Pavia, Milano e più lungi. I Camaldolesi
ridussero florido il Casentino, ed esemplarmente conservavasi il bel
bosco di abeti e di faggi. Il beato Giovanni Colombino, di nobile gente
senese ed elevato alle prime dignità, dalla pazienza della moglie
e dal leggendario dei santi fu chiamato a vita pia ed austera, e ad
assistere malati e pellegrini: poi ridottosi povero, andava predicando
penitenza, e raccolti alquanti seguaci, istituì l’ordine dei poveri
Gesuati, approvato da Urbano V il 1367; «e i forti cavalieri di Cristo,
fatti novelli sposi dell’altissima povertà, incominciarono allegramente
a mendicare,... e posti in un’altezza di mente, calcando il mondo
sotto i loro piedi, tutte le cose terrene stimavano come fango, e
tuttodì crescevano in desiderio di patire e sostenere pene per amore
di Cristo»[62]. Suor Agata stette murata gran tempo in s’una pila del
ponte Rubaconte a Firenze, poi nel 1434 fondò il monastero famoso delle
Murate.
Al tempo stesso diedero odore di gran santità in Siena Gioachino
Pelacani, che la sua devozione per Maria espandeva in carità pei
poveri (-1305), e Antonio Patrizj; Andrea de’ Dotti di San Sepolcro,
scolaro di Filippo Benizzi; Bonaventura Bonacorsi di Pistoja, caldo
ghibellino, che dal Benizzi stesso convertito, riparò i danni recati,
e edificò colle virtù più austere (-1315). Simone Ballachi, figlio del
conte di Sant’Arcangelo presso Rimini, dalla dissipazione raccoltosi
a Dio, esercitavasi ne’ più umili uffizj e nell’istruire bambini
e convertir peccatori (-1319). Agnese di Montepulciano domenicana,
Emilia Bicchieri di Vercelli (-1314), Benvenuta Fojano del Friuli
vennero illustrate per doni celesti; e così Margherita di Metela presso
Urbino, cieca nata; Chiara di Montefalco presso Spoleto, eremitana
(-1308); e quell’Oringa di Santa Croce presso Firenze, che divenne il
modello delle fantesche, dal santo Spirito illustrata alla conoscenza
di sublimi veri, sebben nè leggere sapesse, onde empì Lucca e Roma
della fama di sua virtù e carità, e presto de’ suoi miracoli. Gli
Orsini ci portano il loro sant’Andrea carmelitano, che, malgrado
l’illustre nascita, accattava pe’ poveri, e, malgrado la sua umiltà,
fu messo vescovo di Fiesole, ove continuò le austerità, e riconciliò
più volte la sua colle città vicine. Dai Falconieri uscivano Alessio,
Carissima e Giuliana, tutti venerati sugli altari; dai Soderini la
beata Giovanna (-1367) e un altro Giovanni (-1343); dai Vespignano di
Firenze il beato Giovanni; dagli Adimari il beato Ubaldo; dai Della
Rena di Certaldo la beata Giulia. Pellegrino de’ Latiozi di Forlì fu
stupendo per pazienza nel soffrire sia le percosse di quelli di cui
voleva acquietare i litigi, sia gli spasimi d’una cancrena (-1345).
Pietro Geremi di Palermo, già professore di diritto, diedesi a Bologna
a tali austerità, che si circondò il corpo di sette cerchi di ferro,
scena che molti convertì. Giovanni da Capistrano, dopo adoperato in
magistrature e negoziati, resosi francescano, si diè tutto all’amor di
Dio e del prossimo, e continuò a riconciliar nimicizie e risse nel nome
di Dio, e possedendo lo spirito di compunzione e il dono delle lacrime,
moltissimi convertiva, e spesso le donne dopo le sue prediche davano
in limosina tutti i loro ornamenti. Fra l’alto clero sono a mentovare
il beato Bertrando patriarca d’Aquileja che tanto operò alla riforma
di questa chiesa, e fu assassinato da masnadieri del conte di Gorizia
nel 1350; il beato Lorenzo Giustiniani, patriarca di Venezia; Matteo
da Cimarra vescovo di Girgenti; Nicola Alberga vescovo di Bologna,
adoperato, spesso a metter pace fra le città d’Italia e fra Inglesi e
Francesi[63].
Bernardino (1380-1444), dell’illustre famiglia degli Albizeschi di
Massa marittima, fu educato nella pietà e nella carità; nella peste del
Quattrocento si profuse a cura de’ malati di Siena, ove poi professossi
francescano della stretta osservanza. «Fu in concetto d’uomo grande
e meraviglioso nel predicare: ovunque andasse traeva con sè tutto il
popolo, eloquente e forte nel ragionare, d’incredibile memoria; di tal
grazia nella pronunzia, che non mai recava sazietà agli uditori; di
voce sì robusta e durevole, che mai non venivagli meno, e ciò ch’è più
mirabile, in grandissima folla era udito colla stessa facilità dal più
lontano come dal più vicino»[64]. Vincenzo Ferreri, che allora empiva
Italia delle virtù e de’ miracoli suoi, predicando ad Alessandria
esclamò: — Fra voi si trova un vaso d’elezione, un figlio di san
Francesco, che ben presto diffonderà immensa luce in tutta Italia, e
di sue virtù e dottrina usciranno i più insigni esempj». Pure oggi non
troviamo ne’ suoi sermoni che un fare stringato e scolastico.
E per verità sul pulpito, trionfo degli Ordini nuovi, non recavano
studj profondi e dogmatica precisione, ma zelo e modi popoleschi e
importuna applicazione alle circostanze giornaliere. Chi affronti la
noja di leggere le prediche rimasteci, non trova che aridi tessuti di
scolastica e di morale, rinzeppati di brani e brandelli d’autori sacri
e profani alla rinfusa, con dipinture ridicole o misticismo trasmodato,
talchè i grandi effetti non se ne saprebbero attribuire che al gesto,
alla voce, allo spettacolo, e in alcuni alla persuasione della santità.
Tali dobbiamo credere il beato Michele da Carcano, frate Alberto
da Sarzana, frate Ambrogio Spiera trevisano, ed altri, famosi per
conversioni ed efficacia morale. Alcuni non mancavano di merito
letterario, e noi lodammo altrove il Cavalca, il Passavanti, frà
Giordano di Rivalta. Quest’ultimo distingueva le devozioni dagli abusi,
in un modo da far meraviglia a chi in que’ tempi e in que’ frati non
sa vedere che superstizione. — Viene (diceva egli) viene l’uomo, e
andrà a Santo Jacopo in pellegrinaggio: ed anzi ch’egli sia là, cadrà
in uno peccato mortale talotta, e forse in due, e talotta in tre
peccati mortali, e talotta forse più. Or che pellegrinaggio è questo, o
stolti? che rileva questa andata? Dovete questo sapere, che, chi vuole
ricevere le indulgenze, conviene che ci vada puro, come s’egli andasse
a ricevere il corpo di Cristo. Or chi le riceve così puramente? e però
le genti ne sono ingannate. Di queste andate e di questi pellegrinaggi
io non ne consiglio persona, perch’io ci trovo più danno che pro.
Vanno le genti qua e là, e credonsi pigliare Iddio per li piedi:
siete ingannati, non è questa la via; meglio è raccoglierti un poco
in te medesimo, e pensare del Creatore, o piagnere i peccati tuoi o la
miseria del prossimo, che tutte le andate che tu fai».
Parole altrettanto libere avea proferite l’anno innanzi in Santa
Maria Novella: — E’ sono molti che si credono fare grandi opere a Dio;
intra noi, noi ce ne facciamo grandi beffe. Verrà una femmina, e porrà
sull’altare una gugliata di refe e tre fave, e parralle avere fatto
un grande fatto: or ecco opera! Simigliantemente de’ pellegrinaggi;
che pare così grande fatto di quelli che vanno in Galizia a Santo
Jacopo. Oh come pare grande opera questa, e di gran fatica cotal
viaggio grande! E vanterassi, e dirà, _Tre volte sono ito a Roma, due
volte ita a Santo Jacopo, e cotanti viaggi ho fatti_. E se vedesse in
Roma le femmine a girar cinque volte e sei all’altare, e’ par loro
avesse fatto un grande deposito, e rimproveranlo a Dio, come quello
Fariseo che dicea, _Io digiuno due dì della settimana_: or ecco grande
fatto! e manuchi, il dì che tu digiuni, una volta, e quella manduchi
bene e bello. Questo andare ne’ viaggi io l’ho per niente, e poche
persone ne consiglierei, e radissime volte; chè l’uomo cade molte
volte in peccato, ed hacci molti pericoli. Trovano molti scandoli
nella via, e non hanno pazienza; e tra loro molte volte si tenzonano
e adirano, e con l’oste e co’ compagni; e talotta fanno micidio ed
inganni e fornicazioni; e di questo si fa assai, e caggiono in peccato
mortale»[65].
I così fatti saranno stati non pochi, vogliamo crederlo: ma altri
cercava cattivar l’attenzione col mescere ai discorsi allusioni alla
politica; e chi predicava pei Guelfi, chi pei Ghibellini, pei Medici,
per lo Sforza; talora sorgeano in aperto attacco contro ai principi o
ai papi.
È bizzarro in taluni l’associare una pietà sincera, un’ingenuità
profonda, col ridicolo e col teatrale, in modo d’uscirne composizioni
grottesche e senza gusto, che non hanno di serio se non l’intenzione.
Di Roberto Caracciolo da Lecce, dai contemporanei supremato
nell’eloquenza, sciaguratamente ci restano alcuni sermoni, più
materia di riso che di compunzione[66]: sale in pergamo a predicar
la crociata, e, cavata la tonaca, rivelasi in abito da generale, come
pronto a guidar egli stesso l’impresa. Paolo Attavanti ad ogni tratto
cita Dante e Petrarca, e se ne gloria nella prefazione. Mariano da
Genazzano, levato a cielo dal Poliziano e da Pico della Mirandola,
«predicava attraendo con l’eloquenza sua molto popolo, perciocchè a
sua posta aveva le lagrime, le quali cadendogli dagli occhi per il
viso, le raccoglieva talvolta et gittavale al popolo»[67]. I discorsi
di Gabriele Barletta, sì reputato che dicevasi _Nescit prædicare qui
nescit barlettare_, darebbero sollazzo a qualche festevole brigata.
Per Pasqua racconta che molte persone offrironsi a Cristo onde
annunziare la sua risurrezione alla madre: egli non volle Adamo,
perchè, piacendogli i fichi, non si badasse per istrada; non Abele,
perchè andando non fosse ucciso da Caino; non Noè, perchè correvole
al vino; non il Battista, pel suo vestire troppo conosciuto; non il
buon ladrone, perchè aveva rotte le gambe; ma donne, per la popolosa
loquacità. Blandiva un sentimento troppo comune quando predicava: —
O voi donne di questi signori e usuraj, se si mettessero le vostre
vestimenta sotto il pressojo, ne scolerebbe il sangue de’ poveri».
L’erudito Bracciolini fa dire da Cincio in un suo dialogo: — Parmi
che tanto frà Bernardino da Siena, come altri troppi vadano errati per
istudio di brillare più che di giovare; non volti a curar le infermità
dell’animo delle quali si annunziano medici, quanto a ottenere gli
applausi del vulgo, trattano qualche volta recondite e ardue materie,
riprendono i vizj in modo che pare gl’insegnino, e per desiderio di
piacere trascurano il vero scopo di loro missione, quello di render
migliori gli uomini».
Contro i siffatti avea tonato l’Alighieri, dicendo:
Ora si va con motti e con iscede
A predicare; e pur che ben si rida,
Gonfia il cappuccio, e più non si richiede.
I quali versi commentando, Benvenuto da Imola adduce alquante
scempiaggini di un Andrea vescovo di Firenze che mostrava in pulpito
un granello di seme di rapa, poi se ne traeva di sotto la tunica una
grossissima, e diceva: — Ecco quanto è mirabile la potenza di Dio, che
da sì piccol seme trae sì gran frutto». Poi: _O domini et dominæ, sit
vobis raccomandata monna Tessa cognata mea, quæ vadit Romam; nam in
veritate, si fuit per tempus ullum satis vaga et placibilis, nunc est
bene emendata: ideo vadit ad indulgentiam_[68].
Que’ modi erano certo men dignitosi, però più efficaci che non le
esanimi generalità, le perifrasi schizzinose, e i consigli senza
coraggio dei tempi d’oro. Ma se a persone semplici e credenti servivano
d’edificazione, tornavano a scandalo dacchè vi si applicassero la
critica e la negazione; e i predicatori usandone esageratamente,
davano appiglio ad accuse, alla lor volta esagerate. Il fervore, non
sempre disinteressato per certe devozioni nuove, come il rosario de’
Domenicani e lo scapolare de’ Carmeliti, faceva proclamarle quale
rimedio sufficiente a tutti i peccati, i quali perdevano l’orrore
quando annunziavasi così facile il redimerli, e ne veniva presunzione a
chi le osservasse, e confidenza d’una buona morte dopo vita ribalda.
Giacomo, arcivescovo di Téramo poi di Firenze, scrisse varie opere,
tra cui è rinomata una specie di romanzo col titolo _Consolatio
peccatorum_ o _Belial_: suppone che i demonj, indispettiti del trionfo
di Cristo sopra Lucifero, eleggano procuratore Belial per chiedere
giustizia a Dio contro le usurpazioni di Cristo; Dio commette la
decisione a Salomone; e Cristo citato, manda per rappresentante
Mosè, il quale adduce a testimonj giurati Abramo, Isacco, Giacobbe,
Davide, Virgilio, Ippocrate, Aristotele, il Battista. Belial li scarta
tutti, eccetto l’ultimo, sostiene la sua causa con finezza diabolica;
pure ha decisione contraria. Si appella, e Dio demanda la causa a
Giuseppe, se non che Belial preferisce scegliere degli arbitri; e sono
Aristotele ed Isaia per Mosè, per Belial Augusto e Geremia. I passi
più venerabili sono stiracchiati beffardamente; e dopo tutti i garbugli
della giurisprudenza, ove Belial imbarazza sovente Mosè men versato ne’
cavilli, gli arbitri danno di quelle vaghe decisioni, che lasciano ad
ambe le parti captare trionfo.
Così la credulità univasi alla miscredenza per dare fomite alla
corruttela, tanto più pericolosa, in quanto che «il maggior padre ad
altra opera intendeva» (PETRARCA). Gregorio XI aveva autorizzati i
cardinali ad eleggergli il successore a semplice pluralità di voci,
senza aspettare i fratelli assenti, per abbreviare al possibile la
vacanza: e poichè di sedici radunati quattro soli erano italiani,
il popolo di Roma, timoroso che l’eletto non tornasse ad Avignone,
circondò il conclave d’armi schiamazzando — Lo volemo romano»,
toccando le campane a martello, e minacciando entrarvi di forza. Dopo
tempestosissima discussione, questi, per ripiego e con riserve tacite
o espresse d’una più libera elezione, diedero i voti (1378 9 aprile)
a Bartolomeo Prignano di Napoli, arcivescovo di Bari; ma temendo che
il popolo lo disgradisse perchè non romano, fu gridato dal terrazzo
andassero a San Pietro e saprebbero chi era l’eletto. Il popolo intese
che l’eletto fosse il cardinale di San Pietro, vecchione di casa
Tebaldeschi; onde si cominciò a gridargli Viva e saccheggiarne il
palazzo secondo l’usanza, e adorar lui, che invano ingegnavasi a far
comprendere il vero. Di questo scompiglio s’avvantaggiarono gli altri
cardinali per fuggire nelle varie fortezze e ne’ feudi; l’arcivescovo
di Firenze presentò il Prignano ai pochi rimasti, con un sermone sul
testo _Talis debebat esse, ut esset nobis pontifex impollutus;_ e
questi sul testo _Timor et tremor venerunt super me, et contexerunt me
tenebræ_, cominciò a dissertare sulla dignità del posto e l’indegnità
propria, finchè l’arcivescovo gli fece intendere si trattava ora solo
di dichiarare se accettasse o no; ed egli disse di sì, e prese il nome
di Urbano VI.
Uomo di dottrina e coscienza, ma severo, melanconico, colleroso,
immoderato, avventatosi a riformare di colpo, vietò ai prelati d’usare
a tavola più d’una pietanza, com’egli stesso ne dava l’esempio;
minacciò non solo ai simoniaci, ma a chiunque di essi accettasse doni;
proponeasi, con creare cardinali nuovi, togliere la prevalenza che da
un secolo avevano i francesi; e ne’ concistori secreti li rabbuffava
indiscretamente, ad uno dava sin dello sciocco, a un altro ch’era
bugiardo come un calabrese. Queste sconvenienze, e il vedere ch’ei
voleva fermamente tenerli a Roma, indisposero i cardinali; e la più
parte separatisi da lui, protestarono l’elezione non essersi fatta
liberamente, ma sotto la costrizione di un popolo tumultuante; e
raccomandando la loro vita alla tutela di Bernardo di Sala, capo degli
avventurieri guaschi e bretoni che aveano fatto sì rovinoso governo
di Cesena, dichiarano non avere operato che per paura della morte;
Urbano essere intruso, apostato e anticristo; e a Fondi eleggono papa
(21 7bre) quel Roberto di Ginevra che come legato pontifizio avea data
a ruba e strazio la Romagna, e che si chiamò Clemente VII. Urbano fu
accettato in Italia, Germania, Inghilterra, Danimarca, Svezia, Polonia
e nel settentrione de’ Paesi Bassi; Clemente dalla regina di Napoli, da
Francia, Scozia, Savoja, Portogallo, Lorena, Castiglia; gli altri paesi
esitavano.
Urbano bandì contro del competitore una crociata colle indulgenze
concesse a quelle contro gl’infedeli: ma la compagnia de’ Bretoni,
soldata da Clemente, si difilò sopra Roma, e fece macello de’ cittadini
che sortirono per respingerla, ma non osò penetrare in città. Allora
i Romani diedero addosso a quanti Francesi cherici o laici colsero
in città; mentre gli Orsini e Francesco di Vico devoti a Clemente
devastavano i contorni, e Pietro Rostaing dal Castel Sant’Angelo
bombardava gli edifizj: una volta (1379) Silvestro di Buda, capitano
de’ Bretoni, sorprende i nobili adunati in Campidoglio e trucida sette
banderesi, ducento ricchi, innumerevole popolo, poi di nuovo lascia la
città.
Urbano solda Giovanni Acuto e Alberico da Barbiano, che secondato dai
cittadini, sorte addosso ai nemici, e sconfittili e fatti prigioni i
due capi, mena trionfo[69]; Castel Sant’Angelo si rende, e il papa
a piè scalzi, seguito da tutta la popolazione, torna in Vaticano.
Clemente allora ricovera a Napoli, ben accolto dai re; ma il popolo a
tumulto lo respinge, sicchè fugge in Provenza, e postosi ad Avignone,
moltiplica i cardinali, largheggia di aspettative, e sì poco contava
sullo Stato pontifizio, che volle almeno punire i Romani e deprimere
i feudatarj col costituirlo in _regno d’Adria_ a favore di Luigi
I d’Angiò, al quale, per averlo partigiano, prodiga esorbitanti
concessioni: tutta la decima in Francia, nel regno di Napoli, in
Austria, in Portogallo, in Iscozia; metà delle entrate di Castiglia
e d’Aragona, le spoglie de’ prelati che muojono, ogni censo biennale,
ogni emolumento della camera apostolica; il papa obbligherà a prestiti
gli ecclesiastici, darà in ipoteca Avignone, il contado Venesino
ed altre terre della Chiesa; inoltre gli assegna per feudi Ancona e
Benevento, e tutto giura sulla croce. Tale spreco facea dei beni di San
Pietro nella fiducia d’esser liberato dall’antagonista; mentre Urbano,
pien di sospetti, reggevasi con rigiri e sangue e torture, senza
riguardo a dignità o danni de’ prelati e cardinali.
Accannito alla regina Giovanna I, contro di lei come signore sovrano
del Reame e come scismatica sollecitò Luigi d’Ungheria, che affidò a
Carlo di Durazzo l’incarico di punirla. Urbano spogliò chiese e altari
per raccogliere ottantamila fiorini, che diede a Carlo, il quale in
ricambio promise riconoscere il regno dal papa, e appena coronatone
cedere il ducato di Durazzo a Francesco Batillo nipote di esso, e i
principati di Capua e d’Amalfi. Vedemmo come la spedizione riuscisse:
ma Carlo non pensava mantenere la parola, onde venne in piena rotta col
papa, il quale assediato in Nocera, sparnazzava scomuniche scandalose e
scandalosi decreti. I prelati sue creature s’erano concertati sul modo
di terminare le stravaganze d’un pontefice che prolungava una guerra
senza ragione, e farlo il mal arrivato; ma scopertili, Urbano non
gliela soffrì impunita (1386), e messi in ceppi l’arcivescovo d’Aquila
e sei cardinali, li trasse seco quando potè fuggire da Nocera; perchè
il primo non potea cavalcare a paro cogli altri, il fece uccidere e
abbandonare insepolto; giunto a Genova, e dicendosi circonvenuto da
cospirazioni, malgrado le istanze del doge, fece buttar nel mare i
cardinali, salvo un inglese reclamato dal suo re.
Qui comincia doppia serie di papi paralleli; ma qual era il vero?
Personaggi di senno e santità grande parteggiarono per l’uno e per
l’altro; prove in favore addussero questi e quelli, per modo che può
mettersi fuor di quistione la buona fede d’entrambi i partiti. La
Chiesa finora non ha proferito, benchè i nostri abbiano generalmente
considerato per antipapi quei che sedettero oltremonte, e il nome
d’alcuno di questi sia stato assunto da qualche papa successivo[70].
Per mezzo secolo fu partita la cristianità in due campi ostili,
e tra pontefici che rimbalzavansi calunnie e taccia d’intruso e
d’eretico. Come le nazioni, così erano divisi i cittadini, gli
scolari d’un’Università, i monaci d’un convento; ogni giorno dispute,
collisioni fin al sangue; due vescovi eletti dall’uno o dall’altro
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