Storia degli Italiani, vol. 08 (di 15) - 08

un Sorbolo candioto. Avviarono su per l’Adige due galere grandi, tre
mezzane e venticinque barche, poi strascinandole a forza di cavalli
e di bovi traverso al frapposto Monte Baldo spianando e sgombrando,
le gettarono in esso lago a Tórbole: meraviglia e terrore, che il
Piccinino dissipò bruciandole.
Ma alfine Brescia fu salvata, sebbene da fame e peste ridotta a metà
abitanti. Francesco Barbaro provveditore e famoso grecista, fu chiamato
a Venezia coi cento gentiluomini che più aveano contribuito a quella
difesa, accolti dalla Signoria, abbracciati dal doge che li proponeva
quali modelli ai sudditi della Repubblica, ed essi e la loro posterità
esimeva da ogni imposta; al Comune poi rilasciaronsi ventimila ducati,
che il fisco ritraeva annualmente dai mulini[39].
Il Piccinino, smaniato d’acquistare il dominio che era stato di
Braccio, si fa mandare dal Visconti nell’Umbria, guasta la Toscana,
e ad Anghiari (1440 29 giugno) a’ piè de’ monti che separano la val
del Tevere da quella di Chiana assale le truppe pontificie di tremila
corazzieri e cinquecento pedoni, e le fiorentine di otto in nove
mila cavalli, comandate da Gian Paolo Orsini, e rimane sconfitto e
prigioniero: se non che i vincitori sbandatisi non proseguirono la
vittoria e la resero inutile, perchè il Piccinino ebbe raggomitolati
ben tosto tutti quelli che avea perduti, e tornò in Lombardia a
rifarsi col saccheggiare terre di amici. Tuttochè guelfo, disprezza
le scomuniche paragonandole al solletico, che lo sente chi lo teme;
s’insignorisce di Pontremoli e di Bologna; ed è adottato nelle case dei
Visconti di Milano e d’Aragona di Napoli. Anche gli altri capitani a
stipendio di Filippo Maria chiedevano sovranità: Alberico da Barbiano
voleva Belgiojoso; Lodovico Sanseverino, Novara; Lodovico del Verme,
Tortona; Talian Friulano, Bosco e Frugarolo; altri altro. Il duca,
che aveva rimosso lo Sforza onde non farlo sovrano, credette allora
minor male il richiamarlo, e gli concesse la mano di Bianca (1441),
e in pegno della dote il contado di Pontremoli e Cremona. La pace di
Cavriana, fatta sotto la mediazione dello Sforza e a malgrado del
Piccinino cui essa strappava un’immancabile vittoria, rintegrò nei
primieri confini il duca, le repubbliche di Venezia, Genova e Firenze,
il papa e il marchese di Mantova.
Che valevano le paci generali, quando duravano le particolari
animadversioni de’ capitani? Francesco mosse per vendicarsi d’Alfonso
il Magnanimo, che gli aveva occupati i feudi paterni nel Reame: ma
Filippo Maria tornatone geloso, s’accordò con Eugenio IV per torgli
la marca d’Ancona, ridiede il suo favore al Piccinino, che dichiarato
gonfaloniere della Chiesa, noceva il più possibile all’irreconciliabile
suo emulo, e d’ordine di Filippo assediò Pontremoli e Cremona.
Il gran capitano, a cui la generosità non impediva di levarsi d’attorno
coi supplizj e col ferro gli emuli, vedeasi tolta pezzi a pezzi la
sovranità militare ch’egli erasi formata nel cuore dell’Italia, e
soccombeva alle tergiversazioni del suocero e alle infedeltà di papa
Eugenio; quando i Veneziani, guardando come lesa la pace di Cavriana,
si allearono coi Fiorentini, presero al soldo varj condottieri, e
sotto Michele Attendolo mandarono l’esercito a’ danni del duca, e
dopo la vittoria di Mezzano sopra Casalmaggiore si spinsero fino a
Monza e Milano. Il Visconti, sbigottito dal vedere Venezia ostinarsi
al conquisto della Lombardia, si rappattumò col genero, il quale
comprendeva che se la Lombardia toccasse ai Veneziani, più nulla
avrebb’egli a sperarne, mentre invece la disputabile successione di
Filippo aprivagli ambiziose eventualità. Accettò dunque il comando
supremo sulle armi e le fortezze; dugentomila fiorini d’oro l’anno per
mantenere l’esercito suo e quello lasciato dal Piccinino, il quale,
dopo essere stato uno degli arbitri di questa sbranata Italia, era
morto (1444 15 8bre) col dispiacere di non avere nè ingrandito se
stesso, nè ottenuto gratitudine da quelli cui aveva servito.
Poco poi Filippo Maria, sempre passionato per l’intrigo, si lasciò di
nuovo menare dai Bracceschi e dagli altri che invidiavano l’incremento
dello Sforza; e rompea seco di nuovo, allorchè morte lo colse (1447 15
agosto), e con lui terminava la stirpe de’ Visconti.
La quale fu con lode ripagata della protezione che concesse ai
dotti d’allora, e il Filelfo, il Barziza, il Panormita, l’Offredi,
il Decembrio ne tesserono la storia e la falsarono. Del resto già
vedemmo come la Lombardia fosse una monarchia militare, non temperata
se non dalle arti che ad un governo intelligente sono insegnate dal
desiderio di conservarsi; i Milanesi la sopportavano anzi rassegnati
che contenti; e il desiderio della libertà erasi illanguidito a segno,
che al più si aspirava a cambiare tiranni: la pace e la guerra, la
ricchezza e la felicità del paese, la tolleranza o punizione dei
delitti dipendevano dal principe.
Sovratutto mancava quel che ai popoli più è necessario, pace, e pronta
ed eguale giustizia; anzi le prepotenze pareano favorite dai dominanti.
Giovanni Gámbara, signorotto del Bresciano, faceva cogliere da due
bravi una tal Bartolomea che avea detto male di sua moglie Subrana,
e mozzarle la lingua; il podestà condannò al taglione il Gámbara e
la moglie, ma essi interposero un fratello della mutilata, che li
riconciliò con questa; e Gian Galeazzo Visconti concedette perdono.
È scritto che Giovanni Palazzo ottenesse da Gian Maria che Guelfi e
Ghibellini del Bresciano potessero combattersi sei mesi, salva la
fedeltà al principe, e commettere qualsivoglia misfatto tra loro.
Esso Gian Maria nel 1401 mandava podestà ad Asola Giovanni Visconti e
capitano Giorgio Carcano, i quali spinsero tant’oltre l’audacia, che
niuna fanciulla poteva andare a marito senza avere passato tre giorni
nel loro palazzo: gli Asolani stancati li trucidarono, e i Bresciani in
punizione distrussero Asola[40]. Quando manchi la giustizia, più non
rimane garanzia di sorta, nè altro si può che abbattere il dominante
per mettersi al posto di lui e divenire oppressori.
Pure costoro erano principi nostrali, e i Lombardi compiacevansi
della loro grandezza, giacchè nol poteano della propria felicità;
compiacevansi alla splendidezza della Corte, alle regie parentele, alle
frequenti comparse, ai clamorosi pranzi, ai clamorosissimi funerali, a
quel lusso di sfarzo e spesa più che di gusto, alle feste che frequenti
si rinnovavano per nozze, per paci, per venuta di principi. Fu volta in
cui Filippo Maria ebbe ospiti papa Martino V e l’imperatore Sigismondo,
e prigionieri il re di Napoli e quel di Navarra; in un mazzo di
carte (giuoco allora nuovo) dipinto da Marzian di Tortona spese
millecinquecento monete d’oro.
Le sevizie di que’ principi possono paragonarsi al morso di un cane
rabbioso, che nuoce solo a chi lo avvicina; mentre una pacata signoria
può indurre gli effetti della malaria, generale spossamento e tabe
irremediabile. Perocchè del resto essi cercavano il prosperamento del
paese, sia per trarne di più, sia per non iscapitare al confronto de’
vicini. L’agricoltura procedea di meglio in meglio, sull’esempio de’
monaci, principalmente de’ Cistercensi, che verso il Lodigiano e il
Pavese aveano introdotto i prati stabili e le cascine; si miglioravano
le razze de’ bovi; de’ cavalli, celebri per grossezza e forza, molto
spaccio faceasi in Francia. I lavori di seta crebbero principalmente
dacchè nel 1314 molti fabbricanti di Lucca, fuggendo la tirannia di
Castruccio, ricoverarono a Milano. I Lombardi andavano in Francia,
in Fiandra, in Inghilterra a raccattar lana, che poi tinta e tessuta
mandavano colà donde ora ci vengono i panni fini; e per tutta Europa
correvano le monete d’oro colla biscia. I nobili non prendeano vergogna
del mercatare, e sulle matricole figurano i Litta, i Dadda, i Bossi, i
Crivelli, i Gusani, i Dugnani, i Medici, i Melzi, i Porro, i Bescapè, i
Castiglioni, i Pozzobonelli. I Borromei da San Miniato si trasferirono
qui vendendo panni grossolani, e stabilendone una fabbrica; e subito
Filippo Maria prese un Borromeo per direttore della finanza, e poco
dopo Luigi XII di Francia levava al battesimo un figliuolo di quella
casa[41].
Le arti, divise in venticinque _paratici_ o consorzj, con bandiera,
statuti, assemblee distinte, esercitavano ogni sorta mestieri, e
all’uopo prendeano le armi. Singolarmente i Lombardi guadagnavano in
operazioni di banco, avendone stabiliti in tutte le città d’Europa.
Milano era sì ricca, che diceasi in proverbio bisognerebbe distrugger
lei chi volesse rifare l’Italia; e udimmo i nobili esibire a Filippo
di mantenergli stabilmente diecimila cavalieri ed altrettanti pedoni
se lasciasse loro le entrate della città. L’estimo del 1406 dà ai beni
mobili e stabili della città e dei corpi santi il capitale valore di
tredici milioni dugencinquantamila zecchini. La popolazione cresceva,
benchè guasta da pesti ricorrenti; e i primi provvedimenti di polizia
sanitaria menzionati sono i milanesi.
Il servaggio principesco alterava la semplicità de’ costumi, e senza
credere alle declamazioni, è a supporre s’imparasse a chinar la fronte
a quello in cui mano erano il denaro, la forza, la legge, ed a quella
serie di bassi che comandano agli altri; catena di soggezione, che
cominciata non finisce più. Nondimeno durava un vivere patriarcale, nè
la Corte era distinta dalla città quanto nei tempi posteriori; e benchè
i nobili godessero molti privilegi, pure le condizioni si trovavano
spesso mescolate nei pubblici convegni ed alle feste ecclesiastiche o
civili.
Se si pensi che non v’avea truppe stanziali, primario rinfianco della
tirannia; che il duca vivea tra gente nostra, con nostri consiglieri,
fra tante corporazioni organizzate e armate, fra privilegi di arti,
di corpo, di stato, si vedrà che il despotismo non poteva sbizzarrire
senza contrasto; le memorie della prisca libertà non erano perite,
non poteasi a voglia gravar le imposte, gli statuti frenavano anche
il principe, le fazioni di Guelfi e Ghibellini opponeano potente
contrasto, sicchè la tirannia non era sistematica ma di eccezione. Que’
principi pesavano più volentieri sui nobili per torsene l’ostacolo e
rapirne le ricchezze; non per questo si rendeano popolari, comunque
talora grossolani: e la plebe anch’essa sapeva resistere, e piegando
non dimenticava d’avere dei diritti.
Tutti questi avvenimenti potemmo divisare senza tampoco far motto d’un
altro imperatore calato in Italia. La Casa di Luxemburg, così meschina
sotto il cavalleresco Enrico VII, era giunta a possedere tanti dominj,
quanti mai quella di Hohenstaufen; in un secolo avea dato quattro
imperatori, Enrico VII, Carlo IV, il vituperevole Venceslao che fu
deposto, e suo fratello Sigismondo, che al tempo stesso era elettore
di Brandeburgo, re di Boemia e d’Ungheria. Bello d’aspetto (tal ce
lo descrive Leonardo Aretino che lo conobbe), alto della persona,
nobile, vigoroso, magnanimo in pace e in guerra, eloquente, amante le
lettere, liberale oltre le sue scarsissime entrate, trovavasi sempre
bisognoso di denaro, e perciò costretto a vendere la propria alleanza
e protezione, interrompere le imprese, mancare ai propositi; e più che
all’impero badava a crescere i suoi Stati ereditarj, dai quali derivò
poi la grandezza di Casa d’Austria.
Talmente Venezia spingeva la gelosia per l’eguaglianza delle sue
famiglie patrizie, che, avendo il re di Ungheria chiesto per moglie
una Morosini, la Signoria obbligò il padre a rinunziare ogni diritto
paterno, e l’adottò come figlia della Repubblica. Quando, durante
lo scisma, fu eletto papa Angelo Corrér (1406) col nome di Gregorio
XII, benchè egli cercasse cattivarsi i Barbarigo, i Morosini, i
Condulmer con cappelli cardinalizj, fu sempre guardato di mal occhio,
giudicandosi pericoloso un pontefice legato coi senatori; e appena
il concilio di Pisa lo dichiarò scaduto (1409), la Signoria non solo
s’affrettò a riconoscere il surrogatogli Alessandro V, ma a lui profugo
negò stanza ne’ suoi dominj[42]. Ito nel Friuli, papa Gregorio venne
a rissa con quel patriarca che era tedesco, e lo cassò surrogandogli
Anton da Ponte nobile veneto. L’imperatore Sigismondo, dichiaratosi
protettore dell’espulso, menò le cose di modo, che venne a rottura
con Venezia. Questa repubblica da Ladislao, competitore di Sigismondo
al trono d’Ungheria, aveva comprato per centomila fiorini la città di
Zara; ridomandando la quale e le antiche città imperiali, Sigismondo
entrò sul Veneziano (1413) guastandolo e ribellando: ma Venezia strinse
lega difensiva con Nicolò III d’Este, i conti Porcia e Collalto, i
Malatesti, i Polenta, i signori d’Arco e Castelnuovo, Castelbarco,
Caldonazzo, Savorgnano; e questi, e la rigidezza dei vicarj di
Sigismondo, la poca costanza degli Ungheri ch’egli versava di qua
dell’Alpi, il valore del condottiere Filippo d’Arcoli, fecero trionfare
il leone veneto per tutto il Friuli.
Dalla Marca Trevisana Sigismondo pensò fare una corsa in Lombardia
senz’armi. Liete accoglienze gli profusero i tirannelli: a Cremona col
papa vagheggiò dal torrazzo la pianura lombarda; a Cantù ricevette
omaggio da Filippo, il quale però nol volle accogliere in Milano;
istituì de’ vicarj imperiali, cui faceano capo i Ghibellini per
onestare la loro tirannide: ma nessuna efficienza ebbe sulle vicende
italiane.
Dopo vent’anni di regno, nojato dalle lunghe brighe in Germania e in
Boemia, e dal dirigere una macchina pesante e rugginosa, com’egli
chiamava l’impero, pensò tornare di qua dall’Alpi (1431) a farvi
una comparsa quale solevano i suoi predecessori. I tempi erano ben
cambiati; quanto erasi perduto in parziale libertà, tanto erasi
acquistato in generale indipendenza; nè la nominale superiorità
sarebbe bastata perchè convocasse a Roncaglia tutti gli Stati d’Italia
a rendere l’omaggio e ricevere giustizia. Con duemila Ungheri e
Tedeschi a cavallo, più per corteggio che per difesa, capitò a Milano;
e Filippo, che pur gli avea sempre mostrato piena soggezione, e
l’avea sollecitato a discendere sperando danneggiarne i Veneziani,
insospettito si chiuse nel castello di Abbiategrasso, senza tampoco
lasciarsi vedere all’imperatore, che in Sant’Ambrogio fecesi coronare
(1431 25 9bre).
Qui dunque temuto e timoroso, eppure in Toscana malvisto come amico
del duca, sempre povero di denaro e di forze, obbligato ad ogni passo
a patteggiare o difendersi, a un punto di rimanere preso in Lucca dal
capitano dei Fiorentini, trattenuto in Siena per debiti, Sigismondo
traversò l’Italia meschinamente (1432), dirigendosi a Roma onde
persuadere il papa ad accettare il concilio di Basilea: nè tampoco
a questo riuscito, cintasi la corona d’oro (1433), ricoverò a’ suoi
paesi, lasciando l’Italia alle ambizioni e agli agitamenti di prima.


CAPITOLO CXVI.
Repubblica Ambrosiana. Venezia conquistatrice. Francesco Sforza. I
Foscari.

I VISCONTI E GLI SFORZA
Uberto Visconti
|
| Obizzo
| |
| | Teobaldo
| |
| | MATTEO Magno 1295-1322
| | |
| | | Galeazzo I 1322-28
| | | |
| | | | AZZONE 1328-39
| | |
| | | LUCHINO 1339-49
| | |
| | | Marco
| | |
| | | GIOVANNI arcivesc. 1339-54
| | |
| | | Stefano
| | |
| | | MATTEO II 1354-55
| | |
| | | BERNABÒ 1354-85
| | |
| | | GALEAZZO II 1354-78
| | |
| | | GIAN GALEAZZO 1378-1402
| | | primo duca nel 1395
| | |
| | | Valentina in Luigi d’Orléans,
| | | ava di Luigi XII
| | |
| | | GIAN MARIA 1402-12
| | |
| | | FILIPPO MARIA 1412-47
| | | |
| | | | Bianca Maria in
| | | | FRANCESCO SFORZA
| | | | 1447-66
| | | |
| | | | Ascanio cardinale
| | | |
| | | | GALEAZZO MARIA
| | | | 1466-76
| | | | |
| | | | | GIAN GALEAZZO MARIA
| | | | | 1476-94
| | | | | |
| | | | | | Bona regina di Polonia
| | | | |
| | | | | Caterina in Giovanni
| | | | | de’ Medici avo di
| | | | | Cosimo granduca
| | | |
| | | | LODOVICO il Moro
| | | | 1494-1500
| | | |
| | | | MASSIMILIANO
| | | | 1512-15
| | | |
| | | | FRANCESCO MARIA
| | | | 1522-26 e 1529-35
| | |
| | | Gabriele Maria
| | | figlio naturale
| |
| | Uberto stipite di case ancora sussistenti
|
| Gaspare
| |
| | Lodrisio
|
| OTTONE arcivesc. 1277-95
Filippo Maria Visconti non lasciava figliuoli, onde molti si sporsero
al fiuto di sì pingue eredità. Fin allora nel Milanese non era stato
regolato il modo di succedere al dominio; e come negli altri principati
italiani, ora lo teneano i fratelli in comune, ora se lo spartivano, o
l’uno succedeva all’altro senza riguardo alla discendenza dell’estinto:
persino i figli naturali ne toccavano qualche porzione. Ora la casa
francese d’Orléans vi pretendeva a cagione di Valentina Visconti, cui
Gian Galeazzo, maritandola a Luigi d’Orléans, n’avea dato l’aspettativa
pel caso che i suoi figli morissero improli. Ma il titolo non valeva,
giacchè questo non era un feudo femminino; tanto minor diritto v’avea
lo Sforza, marito della figlia naturale, quantunque legittimata, di
Filippo Maria. Questo aveva un tempo pensato a nuocere ai Veneziani col
lasciare il suo paese ad Alfonso re di Napoli; il che avrebbe di tanto
avanzata l’unità italiana: e Alfonso in fatti produsse un testamento
a favor suo; ma foss’anche autentico, si trattava egli d’una proprietà
che si potesse lasciare a talento?
Il Milanese era uno Stato libero, riconosciuto nella pace di Costanza;
il che importava, secondo il diritto d’allora, che non potesse venir
ristretto a sudditanza di verun particolare. Venceslao l’avea ridotto
tale investendone Gian Galeazzo; ma sovrano dell’Impero non era già
il re di Germania, bensì gli elettori, rappresentanti l’antico senato
e popolo romano: e in fatto essi ne fecero rimprovero a Venceslao,
e fu uno degli aggravj per cui lo spodestarono[43]. Sigismondo
ne diede regolare investitura a Filippo Maria, riservandosi gli
antichi diritti imperiali[44]; ma realmente il Milanese, operando
come Stato libero, aveva affidato il governo politico ai Visconti, e
allo spegnersi di questi tornava di propria balìa. Sentirono questo
diritto i Milanesi, e mentre i Bracceschi inalberavano sul castello lo
stendardo di Alfonso di Napoli, ed altri suggerivano di darsi al duca
di Savoja fratello della duchessa vedova, Antonio Trivulzio, Teodoro
Bossi, Giorgio Lampugnani e Innocenzo Cotta eccitano alla libertà i
Milanesi, che a furia smantellano il castello, nido della tirannia
contro il popolo; e disingannati del dominio d’un solo come _pessima
pestilenzia_, proclamano l’_aurea repubblica ambrosiana_ (1447 14
agosto), tornando in istato di popolo al modo antico. Il vicario coi
dodici di provvisione eleggono ventiquattro capitani e difensori della
libertà del Comune, che furono confermati dal consiglio generale, e che
affollarono ordini buoni o meschini, come sempre avviene nei primordj;
rimettono i banditi; proibiscono il bestemmiare, i giuochi zarosi, il
portar armi; allestiscono ricoveri per poveri, e massime per contadini
che la guerra avea sturbati dai campi; si ravviano le scuole, invitando
i maestri _con condizioni che meritamente potranno accontentarsi_; e
da spontanee largizioni raccolgono ottocentomila zecchini _ad tuendam
patriæ libertatem_[45].
È uno dei temi più soliti e più facili agli epigrammi da caffè la
debolezza de’ governi usciti da una rivoluzione, come il vacillamento
delle rivoluzioni che non riuscirono: nè per verità da una reggenza che
durò meno di due mesi potevano pretendersi stabili intenti, concordi
progetti, efficace azione. Pure sarebbersi allora potute costituire in
Italia tre robuste repubbliche, di Firenze, Venezia e Milano, mettendo
in comune il senno educato dell’una, la potenza marittima dell’altra,
le colte lautezze dell’ultima; e associandosi alla forza degli
Svizzeri, opporre una federazione di liberi all’aumento delle monarchie
confinanti. Chi pensi che in quel tempo, essendo morto Carlo il
Temerario duca di Borgogna nel combattere gli Svizzeri[46], restavano
libere le Fiandre e i Paesi Bassi, comunità fiorentissime di commercio
e costituite al modo delle nostre, non può a meno di riflettere qual
diverso andamento avrebbe preso l’Europa se, invece di consolidarsi
le monarchie collo spartire la Borgogna tra Francia e Austria, fosse
prevalso il sistema repubblicano. Se i Milanesi vedessero allora
questa preziosa eventualità, è difficile il dirlo; ma trovo codardo
l’insultarli dell’aver preferito una forma di governo che allora
presentava tanto avvenire. Sgraziatamente però Firenze cominciava con
Cosmo de’ Medici a piegare a principato: Venezia dal doge Francesco
Foscari era intalentata a conquiste, a segno di posporvi la giustizia e
la pubblica libertà; e sperando quell’unione che più tardi effettuarono
gli Austriaci, spasimava di tutto il Milanese, e profittò del momento
per ciuffare Brescia e Bergamo.
Allora Venezia trovavasi all’apogeo della sua grandezza. Trieste, i cui
pirati avevano rapito le spose della ancor novella repubblica, indi
era stata sottoposta da Enrico Dandolo a capo de’ Crociati, non si
rassegnò mai al giogo, più volte rinnovò guerra, e nel 1367 si diede
al duca d’Austria; ma i Veneziani l’assalirono e presero per fame,
poi nella pace, chetato l’Austriaco a denaro, le imposero di giurar
fedeltà a San Marco; alla nomina di ciascun doge, lo stendardo del
leone sventolerebbe un giorno sul mercato di Trieste, e tutti gli anni
a Pasqua sul palazzo; i Triestini osserverebbero i trattati conchiusi
da Enrico Dandolo in appresso, e la Serenissima vi eserciterebbe la
giurisdizione penale. Nella guerra di Chioggia i Genovesi presero
Trieste, e la consegnarono al patriarca d’Aquileja: avendola Venezia
ripigliata (1382), i Triestini inalberarono di nuovo la bandiera dei
duchi d’Austria, i quali poi la tennero sempre: ma doveano correre più
di quattro secoli prima che acquistasse tale importanza sul mare, da
prevalere all’antica dominatrice.
Vedemmo come si fosse ampliata la signoria de’ patriarchi d’Aquileja
sopra tutto il Friuli, l’Istria, gran parte della Carintia e Carniola,
e la Stiria, con tanti poderi da estrarne ducentomila zecchini. Però
i papi aveano tratto a sè il diritto di nominare il patriarca, sicchè
ne cessò l’indipendenza; e avendo essi dato quella sede in commenda
a Filippo d’Alençon, i signori paesani ricusarono obbedienza a
questo, eleggendo un altro, donde baruffa civile, nè più fu possibile
sottometterli interamente. Il patriarca fu dunque costretto ricorrere
al popolò, agli stranieri, a bande mercenarie; e intanto i signori
si rendevano viemeno dipendenti, per quanto il patriarca cercasse
avvincerseli col moltiplicare i feudi e suddividerli e concedere
franchigie.
E si alleò a Francesco Carrara (1388), che colle armi occupò tutti i
paesi: ma i Veneziani, temendo che questo operosissimo loro nemico
tenesse il Friuli per sè e intercettasse i loro commerci colla
Germania, presero parte con Udine «con altre città, riottose al
patriarca, e annichilarono nel modo che dicemmo la potenza dei Carrara.
Venuto poi il patriarcato al tedesco Lodovico Theck (1414), e questo
avendo favorito l’imperator Sigismondo, Venezia ne colse occasione di
tor via que’ vicini, ostinatamente avversi. Pertanto occupò il loro
paese finchè non fosse compensata delle spese di guerra; ma queste
ammontavano a tanto, che il patriarca non potè più pagarle; onde a quel
prelato, fin allora il più ricco d’Italia dopo il pontefice, altro non
rimasero che i castelli di San Vito e San Daniele, e lo stipendio di
cinquemila ducati che ricevea dalla Repubblica.
Adunque il dominio veneto si estendeva in Italia dall’Isonzo al
Mincio; oltre il litorale dell’Adriatico sin alle foci del Po, aveva ad
obbedienza fra terra le province di Bergamo, Brescia, Verona, Crema,
Vicenza, Padova, la Marca Trevisana con Feltre, Belluno, il Cadore,
il Polesine di Rovigo, Ravenna, il Friuli, l’Istria eccetto Trieste
città imperiale; supremazia sulla contea di Gorizia, che prima faceva
omaggio al patriarca d’Aquileja; sulla costa orientale dell’Adriatico
teneva Zara, Spalatro e le isole che fronteggiano la Dalmazia e
l’Albania; avea tolto Veglia ai Frangipani, Zante a un Catalano; in
Grecia occupava Corfù, Lepanto e Patrasso; nella Morea Modone, Corone,
Napoli di Romania, Argo, Corinto, avute a prezzo dai possessori che
non poteano difenderle dai Turchi; altre isolette dell’Arcipelago, e
qualche parte del litorale; finalmente Candia e Cipro.
Mentre in Italia si era limitata ad opporsi a chi vi predominasse,
tenendo per lo più coi pontefici, allora aspirò a dominarvi, donde
vennero le guerre che abbiam veduto con Filippo Maria, nelle quali, se
cresceva di credito nella penisola, sviavasi dal commercio, e rimaneva
esposta agli arbitrj de’ venturieri, coi quali usava or rigore, ora
carezze; or mandava al supplizio il Carmagnola, or se ne redimeva
coll’ascrivere fra i nobili il Gattamelata e Michele Attendolo. E
d’acquistare il Milanese le dava lusinga lo sfasciarsi di questo alla
morte di Filippo.
Per quell’assurdo concetto che repubblica significhi obbedire a
nessuno, le singole città ridestando le municipali gelosie, colsero
pretesto dalla rivoluzione di Milano per sottrarsi a questa,
riformandosi a reggimento municipale indipendente, ed elessero signori
e governi distinti, preferendo l’indipendenza dei singoli alla libertà
di tutti. Como, Alessandria, Novara seppero accordarsi colla Repubblica
ambrosiana, ma a patti che tendeano principalmente a ricuperare la
giurisdizione ed aggravare i popoli soggetti: tal era il senso dei
sessantasette capitoli stipulati dai Comaschi, diretti a ristabilire
il dominio della città sopra il contado e sopra la Valtellina e il
Chiavennasco. Pavia, Parma, Tortona vollero reggersi da sè; Lodi e
Piacenza introdussero guarnigione veneta; Asti si chiarì pel duca
d’Orléans; gli esuli signorotti tornavano, e riprendevano gli aviti
possessi e la baldanza di tiranneggiare perchè aveano sofferto; se non
altro, saccheggiavano; dappertutto rinasceano le antiche cupidigie; ma
s’erano talmente abituati all’obbedienza, che, appena uno primeggiasse,
lo chiedevano signore.
L’attività scompigliata produceva debolezza universale; mentre erasi
perduto l’uso delle armi, d’ogni parte sonavano minaccie; la Repubblica
era in grande setta e divisione nell’interno, fra le pretensioni
dei capitani di ventura, che nè poteansi licenziare nè tenere in
obbedienza; lo schiamazzo popolare diventava potenza, sempre micidiale,
ed or faceva ardere i libri del censo, ora demolire il castello,
soliti carnevali dei neoliberati; i cittadini medesimi si divideano in
partiti, quale pendendo all’Impero, quale ai reali di Francia, al duca
di Ferrara, a Venezia. Luigi di Savoja credette opportuna l’occasione