Storia degli Italiani, vol. 08 (di 15) - 05

Stato ecclesiastico, salvi il Patrimonio di San Pietro e la campagna
di Roma: così sagrificando l’indipendenza dello Stato ecclesiastico.
La morte del genitore trattenne Luigi d’Angiò in Francia; e intanto
Carlo, sollecitato dalle solite speranze dei profughi, colle bande
venturiere del Barbiano e dell’Acuto mosse ver Roma, dove, incoronato
da Urbano VI, e fornito di ottantamila fiorini col togliere gli ori e
fin i vasi sacri dalle chiese, dopo ronzato due anni coll’esercito a
ruina degl’italiani, penetrava nel Reame (1381). Dal popolo, inusato
alle armi, non soffrì resistenza; i baroni volevano male a Giovanna
dell’essersi eletto successore uno straniero; la Città dividevasi tra
Angioini e Carlisti, tra Urbanisti e Clementini; talchè impossibile
era la difesa, e Carlo, fra i mirallegro entrò in Napoli. La regina,
chiusasi nel Castel Nuovo, non ricevendo i soccorsi aspettati, si
arrese. Carlo le fece onore: ma spargendo ch’ella il guardasse come
un ladrone, e contro di lui sollecitasse continuamente Luigi d’Angiò,
la fece strozzare (1382). Comunque d’indole generosa, ingenua,
amorevole[27], colla inescusabile giovinezza e più col variare dei
mariti e degli eredi ella sovvertì allora e poi il Reame. Sua sorella
Maria di Durazzo non tardò a seguirla, e nel costei sepolcro spegnevasi
la discendenza di re Roberto.
Luigi avrebbe voluto rimanere in Provenza a raccorre la porzione
più solida dell’eredità di Giovanna; ma l’antipapa Clemente, per
contrariare al favorito di Urbano VI, lo spingeva a vendicare la sua
benefattrice, e conquistarsi così ricca corona. Egli dunque coronato
in Avignone re di Sicilia, di Napoli, di Gerusalemme, con bello e
forte esercito, con Amedeo VI conte di Savoja, e col favore di Bernabò
Visconti che sposò una figlia a un figlio di lui, e assistito dai
malcontenti, calò per Italia, e due anni continuò guerra a Carlo
della Pace. Questi, non sostenuto dai baroni, sì bruciato di denaro
che derubò alla dogana i panni de’ Fiorentini, Pisani e Genovesi
onde distribuirli a’ suoi fedeli, conobbe l’opportunità d’evitare gli
scontri, e secondo i consigli di Alberico da Barbiano, da lui fatto
connestabile del regno, aspettò che le malattie logorassero gli uomini,
i cavalli, il tesoro del nemico. Di fatto quel floridissimo esercito
fu ben presto a tal miseria, che i migliori cavalieri montavano asini;
il duca avea venduto vasi, gioje, fin la corona, nè copriva la corazza
se non d’un cencio dipinto; alfine morì di febbre a Bari; gli altri o
perirono (fra questi Amedeo di Savoja, a Santo Stefano in Puglia, 1384
12 marzo), o tornarono accattando e rubando.
Più colla politica che col valore avea trionfato Carlo, nè però ebbe
calma; e la fazione angioina, fedele al fanciullo Luigi II, erede
della Provenza e delle pretensioni dei defunto duca, lungamente
sconvolse il Regno. Inoltre egli si guastò affatto con papa Urbano,
che essendosi piantato a Napoli, pretendeva esercitarvi padronanza,
e voleva investisse a un tristo suo nipote il principato di Capua
e d’Amalfi, e altri possedimenti promessi quando fu coronato: onde
tempestò fra guerre e scomuniche scandalose, peggiorate dalla peste che
in quegli anni rinnovò i guasti per tutta Italia. Carlo, inorgoglito
dalla vittoria, era meno che mai disposto ad ascoltare le rimostranze
del pontefice che pretendeva moderasse le molteplici imposte sul Regno:
onde Urbano si chiuse in Nocera, pose alla tortura alcuni cardinali
imputati di congiura, e scomunicò Carlo, il quale a vicenda tormentava
i prelati napoletani che obbedissero all’interdetto, e mandò l’esercito
ad assediare l’ostinato pontefice. Questi s’affacciava ogni tratto al
balcone col campanello e colla torcia accesa scomunicando l’esercito
del re, finchè dopo sei mesi vennero in soccorso truppe mercenarie, che
lo trafugarono verso Salerno, d’onde s’imbarcò anelando vendetta (Cap.
CXVII).
Alla sorte del Reame venne a recare nuovi viluppi la morte di Luigi il
Grande d’Ungheria. Aveva egli menato frequenti guerre con Venezia, la
quale conservava sempre il titolo di signora di Dalmazia, di Croazia
e d’un quarto e mezzo dell’impero d’Oriente; mentre esso re, dacchè
pretese al Napoletano, avrebbe trovato opportunissimo possedere
Zara, anello fra i suoi paesi e la Puglia. Tentò dunque essa città,
ma i Veneziani gliela disputarono, e dopo diciotto mesi d’assedio la
presero. Ne serbò rancore Luigi, e favorì lo scontento degli Schiavoni,
i quali dalla signoria veneta aborrivano perchè sagrificati al
vantaggio della capitale, mentre sarebbero potuti fiorire di commercio
diventando lo sbocco dell’Ungheria. Quando si sentì bastante vigore,
Luigi intimò al veneto senato restituisse le città di Dalmazia,
antiche pertinenze della corona ungherese. Il senato ricusò e fece
navi; ed avendo l’emula Genova prestato a quel re sessanta galee
comandate da Antonio Grimaldi, i Veneti uniti ai Catalani, e capitanati
da Nicolò Pisani, a Lojera diedero una terribile rotta ai nemici
(1353), prendendone trenta galee con tremilacinquecento prigionieri,
che lasciarono consumar nelle carceri, oltre duemila che perirono
combattendo.
Non per questo re Luigi desistette dal molestare i Veneziani in
Dalmazia; e risolse attaccare Zara, Spalatro, Trau, Nona e al tempo
stesso Treviso, unica città che Venezia tenesse in terraferma. Occupate
Conegliano, Asolo, Céneda, que’ temuti cavalleggeri arrivarono sotto
Treviso, ma prenderla non poteasi con scorridori; i quali, impazienti
di lunghe fazioni, costrinsero il re a battere in ritirata, benchè
forte di trentamila uomini. Meglio ordinatosi, ricomparve egli, e
per tradimento ebbe la città (1354); e chiesto di pace, generosamente
dichiarò bastargli il ricupero delle città spettanti alla sua corona,
e che il doge rinunziasse al titolo che si arrogava su quelle, e gli
provvedesse ventiquattro galee, di cui egli pagherebbe le spese.
Morto Luigi (1382), la nobiltà consentì che Maria sua figlia, da
essi gridata regina, ne portasse i diritti a Sigismondo di Luxemburg,
figlio dell’impotente Carlo IV. Altri nobili però gridarono Carlo III
di Durazzo, che adottato da re Luigi, era cresciuto in quel reame e
formatosi a quelle armi; e di fatto egli, per ambizione del nuovo non
curando i disordini cui abbandonava il regno suo prisco, v’andò, ed
ottenne la corona angelica; ma la regina lo fece assassinare. Giovanna
era vendicata (1386). Allora va in estremo scompiglio l’Ungheria,
dove i Croati accorreano a punire il delitto con altri delitti e
brutalità. Côlta Maria, la mandavano a Margherita vedova di Carlo, se
non si fossero opposti i Veneziani: intanto le ribellioni fiaccarono
affatto l’Ungheria, e un nuovo re della Servia orientale ebbe Zara,
Trau, Sebenico, Spalatro e le altre città per lo innanzi possedute dai
Veneziani. Maria fu liberata da Sigismondo di Luxemburg suo marito, il
quale alla morte di lei (1395) restò re del paese, che trasmise poi a
Casa d’Austria.
Tra questo fare, il regno di Napoli, salito a tanta grandezza sotto
i Normanni, gli Svevi e Roberto il Buono, sfasciavasi sotto i costui
discendenti, e poco pesava sulla bilancia politica, mentre internamente
era campo di sciagurate battaglie fra bande di ventura e stranieri
semibarbari: le contribuzioni erano riscosse e consumate da costoro;
non esercito nè flotta v’avea che obbedisse al re, non fortezze ben
munite; esausto l’erario, effeminata suntuosità alla corte, la nazione
disabituata dalla guerra, sicchè nè i padroni confidavano in essa, nè
i nemici la temevano; e in conseguenza nè essa aveva a se medesima quel
rispetto che salva da vergogna, nè dagli altri l’otteneva.
L’intempestiva morte di Carlo III aggiunse mali a mali; e mentre
Ladislao, figliuolo di lui decenne, era proclamato re sotto la tutela
di Margherita, la fazione francese dei Sanseverino salutava l’altro
fanciullo Luigi, figlio di quel d’Angiò, due fanciulli in tutela di
due donne meno abili che intriganti. Maria di Blois tolse a Ladislao
quasi tutta la Provenza; i Napoletani, scontentati dall’avarizia di
Margherita e dall’avidità de’ suoi favoriti, si sollevarono anch’essi a
favore d’Ottone di Brunswick, vedovo di Giovanna e creato di Clemente
VII, che a nome dell’Angioino prese Napoli. Così due papi, due re,
due reggenti, fra le cui dispute i più negano obbedienza ad entrambi,
entrambi li scomunica papa Urbano VI, e tutto va sossopra. Luigi II
coronato in Avignone (1391), è in Napoli accolto fra gli applausi,
ma presto ridotto a rassegnare ogni potere a Ladislao (1399), che
riconosce il regno come benefizio della Sede apostolica[28].
Fra pericoli e congiure e guerre intestine costui s’addestrò
agl’intrighi, coll’età crescendo di coraggio; perfido politico quanto
Gian Galeazzo, e più valoroso, formò buone truppe, ebbe di molti
partigiani, tolse tutte le fortezze ai Francesi, punì i baroni che gli
avevano favoriti. La nobiltà ungherese, disgustata di re Sigismondo,
offrì la corona angelica a Ladislao, che v’accorse; ma poi trovandosela
contesa, vendette ai Veneziani Zara e le altre piazze di Dalmazia,
nè più dandosi un pensiero dell’Ungheria, pensò ingrandire in Italia,
prefiggendosi rinnovare la gloria di Federico II imperatore, e solendo
dire: — O Cesare o nulla». Per assodare la monarchia deprimeva i
baroni, che odiava tutti o parteggiassero pei Durazzo o per gli
Angioini; impedì tenessero più di venticinque lancie ciascuno, come
faceano col pretesto di pubblico servizio, ed anche queste fossero
stipendiate e alloggiate dallo Stato: intanto ammise chi che fosse ad
ottenere feudi, uffizj, sin la cavalleria.
Era allora la cristianità straziata dal grande scisma, e l’Italia
n’andava tutta in parti e in armi, sicchè non parea far guerra al papa
chi assalisse lo Stato papale. Ladislao colse il buon punto; e quando
(1404), dopo morto Bonifazio IX e ne’ primi tempi d’Innocenzo VII, Roma
sbranavasi fra il popolo e i grandi, egli cercò entrarvi, favorito
dai Colonna e dai Savelli. Il popolo s’impadronisce di Ponte Molle
e respinge il re; ma dodici cittadini ch’erano andati per trattare
un accordo con papa Innocenzo, vengono côlti dal nipote di questo e
trucidati. Il popolo si leva allo stormo della campana di Campidoglio,
caccia il papa, saccheggia. Ladislao teneva occhio a quella preda, e
mentre mena a ciancie il pontefice e i Fiorentini, occupa trionfalmente
Roma: Gregorio XII, bisognoso d’appoggio contro il papa emulo, dà a
Ladislao l’investitura di Roma, del Patrimonio, della marca d’Ancona,
di Bologna, Faenza, Forlì, Perugia e del ducato di Spoleto per
venticinquemila fiorini l’anno (1408 25 aprile); e fu il primo che se
ne intitolasse re, diventando padrone dello Stato di cui erano vassalli
i suoi predecessori.
Allora parvegli toccare il cielo col dito, sprezzò ogni ostacolo, e
in verità perchè non potea sperare di divenir re di tutta Italia?
Morto Gian Galeazzo, i Visconti erano ristretti nella Lombardia:
Venezia sentivasi ancora fiaccata dal duello con Genova: questa dalle
fazioni era costretta ad appoggiarsi alla protezione di Francia. Solo
i Fiorentini ostavano, e poichè nol vollero riconoscere, attenti che
nessun potentato preponderasse in Italia, Ladislao staggì le robe di
tutti i loro mercadanti in Roma (1409), e accumulato denaro, ne corse
guastando il territorio, onde il popolo lo chiamava il re guastagrano,
e i Fiorentini si videro nuovamente in procinto di perdere lo Stato.
Contro di lui essi presero al soldo Braccio di Montone, e favorirono
Luigi II, che venne cogli ajuti di papa Alessandro V e del suo
successore Giovanni XXIII, e colle scomuniche da questo avventate a
Ladislao. I gigli sventolavano a capo dell’esercito, e i Fiorentini
uniti a’ Senesi dissipano una spedizione mossa a conquistare tutta
Italia (1410); anzi prendono Roma, dove si stabilisce papa Giovanni.
Luigi, ben fornito di Provenzali e di fuorusciti, e de’ capitani
Paolo Orsini, Attendolo Sforza, Braccio di Montone, vince a Roccasecca
Ladislao (1411 19 maggio), facendo prigionieri quasi tutti i baroni
e lo stendardo reale; ma i soldati sperdonsi a saccheggiare, poi
rivendono le armi e i prigionieri per otto o dieci ducati l’uno, e
Ladislao li compra, compra i soldati stessi del suo nemico, il quale
deve colla vergogna ricoverare di là dai monti, ove presto finisce la
vita.
Ladislao invade Roma e lo Stato, rapinando malgrado de’ Fiorentini:
costringe Giovanni a disdire Luigi d’Angiò, e riconoscere Ladislao ne’
regni di Napoli e Sicilia; obbligarsi a ricondurre alla obbedienza di
lui quest’isola, allora in mano degli Aragonesi; nominarlo gonfaloniere
della Chiesa con quattrocentomila ducati, e perdonargli un arretrato di
ducati quarantamila dell’annuo tributo, tuttociò a patto che Ladislao
riconoscesse lui papa. E papa e re violarono ben presto gli accordi:
il primo raccoglieva bande, flagello de’ popoli, che non impedirono
a Ladislao di assalir Roma (1413) ed entrarvi saccheggiando, mentre
il papa fuggiva tra pericoli e patimenti infiniti, e chiunque del suo
seguito fosse preso, veniva spogliato nudo, spesso ucciso. Giustamente
si dolse Giovanni a tutto il mondo di tanta perfidia, e — Chi avrebbe
potuto credere alcuno audace e perverso a segno, di venirci a giurar
fedeltà, domandarci l’investitura in solenne adunanza, e all’ombra
di tali dimostrazioni ottener quello che non avrebbe pur eseguito
in guerra aperta? Ci rifugge l’animo dal dipingere il furore con cui
trattò Roma, i sacri tempj, le venerabili reliquie de’ santi»[29].
Ladislao non vi badò, e si spingea contro Bologna, sola rimasta al
pontefice, ma una terribile malattia, attribuita a veleni o a filtri,
e più credibilmente a lussuria, lo gettava tratto tratto in accessi
di rabbia, durante i quali trascorreva alle peggiori crudeltà; sinchè
frenetico morì a trentasei anni (1414 6 agosto). Maltrattò le proprie
mogli, e la repudiata Costanza obbligò a sposare un altro; provvedeasi
di concubine d’ogni stato; matto di superbia, non curante che de’
soldati, prodigò i beni della corona a guerrieri, vendendo uffizj e
cavalierati, assodò l’aristocrazia che prima voleva deprimere; e lasciò
la solita eredità di questi re soldateschi, confusione e indisciplina.
In mancanza di figliuoli, Giovanna II sua sorella gli successe,
rinnovando gli scandali e i disordini della prima Giovanna; deforme e
voluttuosa, perduta in licenziose feste a voglia d’indegni favoriti.
Vedova di Guglielmo d’Austria, e sperando ne’ reali di Francia appoggio
contro le pretensioni degli Angioini, sposò Giacomo di Borbone conte
della Marcia. Ben ella s’era riservato tutto il potere; ma Giacomo
volendo esser re anche di fatto, mise in prigione lei, al tormento
poi a morte ignominiosa Pandolfello Alopo, che essa avea fatto gran
siniscalco, conte, camerlingo, tutto. Indignò baroni e popolo quel
vedere Francesi collocati in tutti gl’impieghi, e trattata da schiava
la loro regina. Giulio di Capua dei conti d’Altavilla, condottiero
napoletano che aveva infellonito re Giacomo contro i favoriti, allora
congiurò d’ucciderlo, e ne informò Giovanna, che credette acquistar
grazia col darne spia al re. I congiurati furon messi a morte;
essa ebbe qualche larghezza, della quale profittando, i sudditi la
liberarono e rimisero al potere; e Giacomo ridotto ad umile condizione,
e fin prigioniero, poi sottrattosi, andò a morir frate.
Qui, cacciati i Francesi, vennero attribuite le dignità ad Italiani;
Giovanna riconobbe Martino V, gli fece omaggio, e gli restituì Roma
e tutte le conquiste di Ladislao; così suggerendole i suoi amanti,
e principalmente quel che era sotterrato all’Alopo nella confidenza
e nell’amore di lei, ser Gianni Caracciolo. Uomo d’intelletto e di
preveggenza rara, ed amato dal popolo, al cui sostentamento aveva
provveduto, avrebbe costui dominato dispoticamente se non l’avesse
contrariato Attendolo Sforza.
I caporali, che andavano in volta per la Romagna col piffero e il
tamburino ad ingaggiare venturieri, esibirono il soldo a un terriero da
Cotignola, di nome Muzio Attendolo, che stava zappando un suo podere.
Egli tentenna fra il sì e il no, e non sapendosi risolvere, lancia
sopra una pianta la zappa, risoluto di restarsene al suo mestiero
se ricaschi a terra. Rimase implicata fra i rami, ed egli accettò
le armi, tolse un cavallo dalla paterna stalla, e colla bravura e
l’arrischiatezza acquistò nome; e Alberico da Barbiano vedendoselo in
un diverbio saltar contro con violenza, gli disse: — Che? vorrai tu
far forza anche a me come agli altri? Ti chiameremo lo Sforza. Questo
soprannome gli restò, ed egli come capo di bande eccitò ammirazione,
invidie, nimicizie. Nel campo voleva severa disciplina; un uom d’arme
toglie il vestone pavonazzo d’un medico, e Attendolo, messoglielo
in dosso, lo manda in giro pel campo, sicchè quegli dalla vergogna
s’ammazza: uno scozzone di cavalli che sottraeva biada per venderla,
fa legare alla coda di cavalli e strascinare a furia: un ferrarese che
teneva seco una donna in figura di ragazzo, fece vestire da femmina
e girar così negli accampamenti. Corpo abituato ad ogni fatica e
stento, piacevasi solo a giuochi di forza; tutt’armato, poteva montare
a cavallo senza ajuto che delle staffe, e per molte miglia viaggiare
sotto quello scoglio ferrato; pronto a deliberare, prontissimo ad
eseguire, ardito ne’ pericoli, franco in gioventù, simulatore dopo
provati i tradimenti, spregiator delle ricchezze, valoroso ma senza
veruno de’ nobili concetti che fregiano il valore, soldato sempre di
causa altrui.
Col famoso condottiero Tartaglia avendo contribuito alla presa di
Pisa, fu da Firenze provvisto di cinquecento fiorini annui. Riuscito
ad uccidere per tradimento il traditore Ottobon Terzo, dal marchese
d’Este, cui rendeva Parma e Reggio, ottenne la terra di Montecchio.
Roberto imperatore gli concesse per arma un leon d’oro rampante
che tiene nella zampa destra un pomo cotogno. Luigi II d’Angiò e il
papa lo assoldarono nell’impresa contro Napoli; ma Ladislao riuscì
a tirarlo a sè, donandogli quattro castelli nell’Abruzzo; onde il
papa, che pur l’aveva investito della natìa terra di Cotignola, e
creato gonfaloniere della Chiesa, lo fece dipingere in più luoghi
appiccato pel piede destro con un cartello che cominciava _Io son
Sforza villan di Cotignola_, e ne enumerava dodici tradimenti. Che
contavano i tradimenti ove unica lode era il valore? Ladislao, avutone
utile servizio, lo eleva gran connestabile del Regno, e gli assegna
sette castelli del Patrimonio di san Pietro; altri ne acquista egli
come vassallo della repubblica di Siena; e chiamasi attorno i parenti
suoi, affidando loro i comandi nell’esercito, gente tutta allevata in
faticosa sobrietà, avvezza al ferire in paesane contese, e interessata
a sostener lui, unico appoggio di tutti.
Alla morte di Ladislao, l’Alopo, ingelosito del favore mostratogli da
Giovanna, lo sorprende e lo caccia in un fondo di torre; ma ben tosto
riconosciutolo necessario, gli offre in moglie una sorella e nuovi
dominj se metta a favor suo e della minacciata regina la sua banda. Re
Giacomo, riuscito superiore, insusurrato da Giulio di Capua suddetto,
alla sua volta lo chiude prigione, e così il gran venturiero alterna
fra le catene e il comando, fra gli amori della regina e l’odio dei
rivali.
Amico, poi emulo suo fu Braccio dei conti di Montone, perugino. Da una
fazione espulso di patria ferito e nudo, si pose sotto al Barbiano,
e ne meritò la stima, poi l’invidia, tanto che si cercò torgli la
vita. Scampato, e sofferti tutti i disagi della povertà non ladra,
accettò soldo di qua di là, e alfine dai Fiorentini contro Ladislao.
Rôcca Contratta fu la prima terra che a lui si sottomise, donde altre
soggiogò nel Piceno. Giovanni XXIII andando al concilio di Costanza, lo
lasciò incaricato di tenergli in fede Bologna e la Romagna, ed esso in
fatti costrinse all’obbedienza i signori e le città che se ne voleano
sottrarre. Ma quando Giovanni fu deposto di papa, Bologna diede su, e
Braccio patteggiò, vendendole per ottantaduemila fiorini i castelli
regalatigli dal pontefice. Trovandosi un buon esercito, impinguato
dalle prede di Romagna, Braccio voltò sopra Perugia sua che l’aveva
esigliato, e che era difesa dal Tartaglia; trasse a sè costui con
promettere d’investirlo di tutti i feudi che si torrebbero allo Sforza,
comune avversario; ma i cittadini lo respingeano intrepidamente, e
quantunque i magistrati avessero fin murato le porte acciocchè nessuno
uscisse a scaramucciare, saltavano o calavansi dalle mura per provarsi
con que’ nemici. Venivano intanto altri capitani, chi per soccorrere,
chi per combattere Braccio; e sulla via d’Assisi fu mischiata una
battaglia (1416), rinomata ne’ fasti di quelle bande, ove comandavano
da una parte Braccio con Tartaglia, con Niccolò Piccinino e con altri;
dall’opposta Carlo Malatesta con Agnolo della Pergola, Ceccolino de’
Michelotti, Paolo Orsini. Sette ore durò la mischia sotto il sole di
luglio, finchè Braccio vinse; onde Perugia schiuse le porte e diede
la sovranità al suo esule, cui si sottomisero Rieti, Narni e tutta
l’Umbria.
Egli stabilì un governo robusto, abbellì la città, dedusse acque dal
lago ad irrigare la campagna. Soleva a Perugia farsi ogni domenica di
primavera un’abbaruffata tra gli abitanti della città alta e quei della
piana, lanciando sassi e parandoli con un largo mantello avvolto al
braccio sinistro; poi succedeano persone armate in tutto punto, ma con
cuscinetti che ammortissero i colpi; infine anche i fanciulli venivano
alle mani: giuoco che non passava mai senza la morte e il guasto di più
d’uno. Braccio vi diede grande splendidezza, e volle che ciascuna delle
città a lui sottoposte vi mandasse una bandiera. Il duca di Camerino
gli sposò una sorella; i Fiorentini lo tennero sempre amico ed alleato,
ed egli prometteva ad ogni loro appello andare a comandarne l’esercito;
e qualora capitasse a Firenze, eravi accolto con tutto l’entusiasmo
che il corrotto giudizio umano tributa alla forza soldatesca, e più
quand’essa è rara.
Mentre lo Sforza stava in ceppi, Braccio procurò torgli i feudi,
secondo avea pattuito col Tartaglia; di che nacque odio implacabile
fra i due campioni. L’uno più arrischiato, l’altro di valore più
educato ed accorto, furono capi di due scuole, emule non solo allora,
ma sotto que’ grandi guerrieri che ne uscirono (dicevasi allora) come
dal cavallo di Troja. Gli Sforzeschi valeano di più nella milizia,
i Bracceschi nelle subitanee fazioni; questi nella disciplina e
nelle particolarità, quelli nel concetto, negli appresti generali e
nell’artifizio di tenersi delle riserve: nè gli uni nè gli altri utili
alla patria e all’umanità, la quale non del valore ha bisogno, ma d’un
valore adoprato a buona causa.
Braccio era entrato in Roma (1417), egli capitano di ventura nella
capitale del mondo cattolico, intitolandosene difensore finchè un nuovo
papa giungesse. Lo Sforza mosse, per ordine di Giovanna, a snidarnelo;
e quegli, molestato dalle febbri, si ritirò, covando vendetta, mentre
lo Sforza rodevasi di non avere sfogato la sua. Questo fu incaricato
da Martino V di togliere a Braccio il principato che s’era costituito,
ma nulla profittò contro quel valore esercitatissimo. Invano egli e il
papa sollecitavano da Giovanna altri ajuti per fortunare l’impresa; a
ser Gianni Caracciolo piaceva che fallisse, acciocchè se n’eclissasse
la gloria dello Sforza: il quale vedendosi soccombere alla costui
rivalità, non esitò a risuscitare le antiche parzialità dei Durazzo
e degli Angioini, le quali doveano portare al paese tanti strazj e
lunghissima servitù forestiera.
Respinto il bastone di gran connestabile e disdetto il giuramento,
quasi con ciò disobbligasse la propria fede, lo Sforza mandò a Luigi
III, succeduto al II d’Angiò, invitandolo a rivendicare i suoi diritti,
fondati sull’adozione di Giovanna I; e nominato vicerè, raccolse
un esercito ed investì Napoli (1420). Luigi medesimo comparve colla
flotta: ma gli si opposero per mare Alfonso re d’Aragona e Sicilia, che
era stato chiesto da Giovanna II e adottato; e per terra Braccio, che
riconciliato col papa, n’avea avuto in feudo Perugia e le vicinanze,
e l’aveva soccorso a sottomettere Bologna, e che creato conte di
Foggia, principe di Capua, gran connestabile, adoprò il valore e più
gl’intrighi e la seduzione contro l’esercito oppostogli. Luigi, a cui
il destro nemico avea sottratto l’amicizia del pontefice e il venale
coraggio dello Sforza, se ne andò in rotta; ma questa non era che la
prima scena del lungo conflitto tra Francesi e Spagnuoli.
Intanto in Sicilia Federico II moriva (1377) di trentacinque anni,
sempre inetto, lasciando una sola figlia Maria: e sebbene Federico
di Svevia avesse determinata la successione per agnati, escludendo
le femmine, il papa autorizzò Maria a succedere. S’oppose Pietro
d’Aragona, finchè s’accordò di maritarla con don Martino suo nipote
(1392). Ai baroni ne rincresceva, temendo non il signore forestiero
li mettesse al freno: ma egli comparve con buone forze, e accolto
volonterissimo dalle città, domò gli Alagona e i Chiaramonti che gli si
opponevano. Ma morì improle, onde gli succedette il padre suo (1409),
Martino il Vecchio, già re d’Aragona; lo perchè la Sicilia cadde nella
deplorabile condizione di provincia, e vi durò tre secoli. Per giunta,
il papa e i re napoletani fomentavano le discordie, già inevitabili in
quella costruttura di regno, e che continuavano l’agitazione anche dopo
perita la libertà.
Primeggiavano fra i baroni le famiglie de’ Chiaramonti e degli
Alagona; la prima, tanto sublimata che diede una figlia in isposa a re
Ladislao, propendeva agli Italiani ed era meglio popolare; l’altra agli
Spagnuoli: ma e la _parzialità latina_ e la _catalana_ tiranneggiavano,
strappando a sè le rendite, l’amministrazione, la guerra, la
giustizia: le città, invece di maturare l’ordinamento municipale, erano
predominate dai nobili, i quali eleggevano i magistrati, e cacciandone
il capitano regio, vi mettevano qualche barone di loro parte, e infine
le convertirono in rettorie di loro proprietà. Quando Martino II tentò
dar polso alla podestà monarchica, essi baroni, sopendo le nimicizie,
si collegarono a Castronovo per sorreggersi a vicenda, sorretti
anch’essi dal papa; e Martino, obbligato a calare a patti, s’ingegnò di
rimettere l’assetto antico, revocare alla camera le rendite alienate,
munire il paese con un esercito stabile di trecento bacinetti o
barbute, che cento erano di Siciliani, gli altri di forestieri.
Egli armò per ricuperare la Sardegna ribellatasi, e le vittorie sue
ridestarono il valor siciliano; ma non appena avviati i miglioramenti,
nuove turbolenze suscitò la morte di lui. Non si vuole più re
straniero: Palermo propone al trono un Peralta (1410); Catania e
Siracusa negano dipendere da quella città; Messina, ancor memore degli
antichi sforzi, e sempre aspirando ad essere la prima città del regno,
scuote il giogo straniero, e promette fede a papa Giovanni XXIII, che
dichiara scaduti gli Aragonesi perchè più non aveano pagato il tributo
feudale. Ma ai baroni conveniva quel che al popolo rincresceva, onde
ajutarono la guerra, che durò finchè Ferdinando di Castiglia, nipote
di Martino II, fu da tutti riconosciuto re legittimo (1412). Non badò
alle domande ripetutegli di fare della Sicilia un regno distinto,
anzi costituì non dovesse mai separarsi dall’Aragona, ch’egli aveva
acquistato.
Egli non approdò mai nell’isola; bensì Alfonso d’Aragona (1416)
succedutogli vi pose dimora, fosse per desiderio di sottrarsi
agl’impacci che nel suo regno gli davano le cortes e la gelosia de’
signori, fosse per colorire i suoi disegni sopra la Corsica. Cupido
d’imprese, dal suo regno di Sardegna aveva invaso quest’isola;
ma trovato gagliarda resistenza per parte de’ Genovesi, era stato
costretto a recedere (1420). Fu allora che gli venne dalla regina
Giovanna l’invito d’assisterla e la promessa d’adottarlo; intanto
nominandolo duca di Calabria, e dandogli per sicurtà Castel Nuovo e
Castel dell’Uovo. Quest’adozione avviava a ricongiungere le due parti
separate dell’antico regno: ma Alfonso alla Corte di Napoli si accorge
d’essere circuito da intrighi e tradimenti; e non sapendo tollerare
la burbanza del Caracciolo e le costui trame per soppiantarlo, il fa