Storia degli Italiani, vol. 08 (di 15) - 01


STORIA
DEGLI ITALIANI

PER
CESARE CANTÙ

EDIZIONE POPOLARE
RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI
TOMO VIII.

TORINO
UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
1876


CAPITOLO CXII.
Gian Galeazzo Visconti, e sue brighe colla Toscana. Il Milanese eretto
in ducato.

FAMIGLIA DEI CARRARESI
Giacomo I, principe del popolo 1318-1324
Nicolò suo fratello 1324-1326
Marsiglio loro nipote 1324-1338
Ubertino nipote di questo 1338-1345
Marsiglietto Pappafava 1345
Giacomo II figlio di Nicolò 1345-1350
Giacomino suo fratello 1350-1372
Francesco I loro nipote 1350-1388 m. 1393
Francesco II Novello, strozzato a Venezia
coi figli Francesco e Giacomo 1390-1406
FAMIGLIA DEGLI SCALIGERI
Mastino I, signore di Verona 1259-1277
Alberto suo fratello 1277-1301
Bartolomeo } { 1301-1304
Alboino } figli di Alberto { 1304-1311
Can Grande } { 1312-1329
Alberto II } 1352
} figli di Alboino 1329-
Mastino II } 1351
Cane II } 1359
Cane III Signorio } figli di Mastino II 1351-1375
Paolo Alboino } 1374
Bartolomeo II } 1381
} figli natur. di Can Signorio 1375-
Antonio } 1387 m. 1388
Guglielmo 1404
Antonio e Brunoro suoi figli proscritti.
Sei capi ambiziosi e capaci aveano, fra le traversie, condotta in
grande stato la famiglia Visconti. Morto (1354) l’arcivescovo Giovanni,
perfido e astuto ma valoroso e liberale quanto serve a palliare
l’ingiustizia, il consiglio generale di Milano e delle altre città
fecero omaggio ai nipoti di lui Bernabò e Galeazzo (tom. VII, p. 561),
che spartironsi il dominio, serbando indivisa Milano, ove fabbricarono
uno la rôcca di porta Zobia, l’altro quella a porta Romana e alla Casa
dei Cani.
Già vedemmo come Bernabò resistesse all’Albornoz e alla lega guelfa.
Le bande soldate da questa e massime le inglesi, spintesi (1362)
fino a Magenta, Corbetta, Nerviano, Vituone, dilapidarono ogni cosa,
e rapirono seicento nobili che soleano abitarvi, nè li rilasciarono
che a grossi riscatti; ma in fine a Casorate rimasero sanguinosamente
sconfitte.
Poco poi, Bernabò venne ancora in rotta con papa Urbano V, il quale
bandì contro di lui la crociata, a cui concorsero l’imperatore Carlo
IV, il re d’Ungheria, la regina di Napoli, il marchese di Monferrato,
i principi d’Este, i Gonzaga, i Carrara, i Malatesti, e Perugini e
Sanesi, confederati nella lega di Viterbo (1367). Ma Bernabò sapea che
coteste crociate, unite solo dal sentimento, basta tirare in lungo, e
si scomporranno da sè. In fatto a denari comprò l’inazione di Carlo IV
(1368), allora calato nuovamente in Italia con cinquantamila uomini; a
contanti fece passare dai nemici a sè la Compagnia Bianca, sommosse le
città papaline (1369 febb.), e potè conchiudere buona pace, avendo però
nella guerra consumato tre milioni di zecchini.
L’accorta politica e gli estesi concetti di Bernabò erano deturpati
dall’ignobilità del suo carattere, da quel brutale egoismo, su cui
nè amicizia nè fedeltà nè riconoscenza valevano, e che nè tampoco
degnavasi palliare le beffarde violenze. Cominciò, come devono i
tiranni, dall’assicurarsi contro i proprj sudditi con fortalizj, e
sempre generoso mostrossi ai soldati. Mal arrivato chi nella trascorsa
guerra fosse apparso propenso ai nemici! i processi finivano con
supplizj atrocissimi. Proibì d’uscir la notte, qual che ne fosse la
cagione, sotto pena di perdere un piede; tagliata la lingua a chi
proferisse le parole di guelfo o ghibellino; uno nega pagar due capponi
comprati da una trecca, ed egli lo fa impiccare. Passionato della
caccia, fin cinquemila cani manteneva, ed allogavali presso i cittadini
da nutrire: ogni quindici giorni appositi uffiziali visitavanli, e se
li trovassero dimagrati imponeano una multa, una multa se pingui, la
confisca dei beni se morti. Chi poi ne tenesse uno, o uccidesse lepre
o cinghiale, era mutilato, appiccato, talora costretto a mangiarsi il
selvatico bell’e crudo. Bernabò si sognava che un tale gli facesse
male? imbattevasi in alcuno ne’ solitarj suoi passeggi? bastava per
torgli la vita o un occhio o la mano, od almeno confiscarne gli averi.
Due suoi segretarj fece chiudere in gabbia con un cinghiale. Un giovane
che avea tirato la barba a un sergente, fu condannato di lieve multa;
ma Bernabò gli fece tagliar la destra: e perchè il podestà indugiò
finchè i parenti venissero a implorar grazia, Bernabò volle fosser
mozze ambe le mani al giovane ed una al podestà. Obbligò un altro
podestà a strappar la lingua a un condannato, poi bere il veleno;
talora costringeva il primo venuto a far da boja; e pretesto gli era
sempre la lesa maestà, suggello d’ogni accusa nelle tirannie.
Agli atti di prepotenza v’ha sempre una ciurma che applaudisce,
giudicandoli segno di forza, e alla forza si suol fare di cappello.
Alcuni ambasciadori di principi rimandò vestiti di bianco a guisa
di mentecatti, coll’obbligo di presentarsi in quell’arnese ai loro
padroni, tra le risate de’ paesi che attraversavano. Quando vennero
a lui in Melegnano i nunzj pontifizj a recargli la scomunica, Bernabò
li condusse sopra il ponte del Lambro, e quivi intimò mangiassero le
bolle della scomunica, se non volessero bever quell’acqua; e vi si
dovettero rassegnare. Inviperendo viepiù contro gli ecclesiastici, fa
accecare, mutilare chi non l’ubbidisce: udito che un piovano esigeva di
troppo per le esequie d’un morto, lo fa sotterrare col morto stesso:
un altro bandisce la crociata del pontefice contro il capitano di
Forlì, e Bernabò il fa mettere in un tamburo di ferro ed arrostire al
fuoco. Due frati gli si presentano per rimproverarlo di tali inumanità,
ed esso li fa bruciar vivi: anche monache fece ardere, e con esse il
vicario generale che ricusò degradarle. Chiamato a sè l’arcivescovo che
ricusava ordinare un monaco, se lo fece inginocchiare davanti, e gli
abbajò: — Non sai, poltrone, che io sono papa, imperatore e signore in
tutte le mie terre? e che Dio stesso non potrebbe farvi cosa ch’io non
volessi?»
Eppure mostravasi devoto, digiunava, istituì chiese, monasteri,
benefizj. Rifabbricò il castello di Trezzo con ardito ponte sull’Adda
a tre anditi a diversa altezza, una rôcca in Brescia, altre a Desio,
a Pandino, a Cusago; una villa a Melegnano, a Milano il palazzo a San
Giovanni in Conca, mentre Galeazzo rifaceva quello in piazza del duomo,
con una spazzata per le giostre. Beatrice Regina della Scala, moglie di
Bernabò, affettava una burbanza principesca; i decreti che essa mandava
alle valli bresciane e camoniche fan credere che quei paesi fossero a
lei assegnati per dote; in Brescia aveva un fondaco di ferrareccia;
munì Salò di mura turrite; aprì un canale per irrigare la Calciana
allora spopolata, e che erale stata data dal marito per sicurezza dei
cencinquantamila fiorini d’oro portatigli in dote, come le diede poi
Urago d’Oglio, Gazzólo, Roccafranca, Floriano e altri paesi[1]. A lei
principi e signori dirigevano i reclami e le petizioni: ed essa, non
che mitigare il marito, com’è uffizio di donna, lo esacerbava: ma
non potè reprimerne la lubricità. Trentadue figliuoli ebb’egli tra
legittimi e no; e il marchese d’Este, levandone uno al battesimo,
gli regalò un vaso d’argento, entrovi una coppa d’oro piena di perle,
anelli, pietre preziose, del valore di diecimila zecchini[2]. Le sue
figliuole collocò nelle case regnanti di Norimberga, d’Ingolstadt,
d’Austria, di Baviera, di Würtemberg, di Turingia, di Sassonia, di
Kent, di Mantova, una al re di Cipro con centomila fiorini, un’altra
a Giovanni Acuto ed una a Lucio Lando: a ciascuno de’ cinque maschi
legittimi aveva già assegnato il governo del distretto di cui gli
destinava la sovranità; ma l’uomo tesse, e Dio ordisce.
Altrettanto e peggio operava Galeazzo II a Pavia. Più freddamente
spietato, inventò la _quaresima_, per cui a’ suoi nemici faceva levare
oggi un occhio, domani riposo; poi l’altr’occhio, indi riposo; poi
una mano e l’altra, un e l’altro piede, e via per quaranta giorni
alternando i tormenti col riposo, che preparasse a meglio sentirli.
Fabbricava molto, talvolta insignemente, come furono il ponte sul
Ticino e il castello di Pavia con una torre a ciascun angolo, e
nell’interno un ampio cortile a portici, e un oriuolo che, oltre
battere le ore, segnava il moto de’ pianeti. Nè meno suntuoso riuscì il
castello di Milano. Poi disfaceva a capriccio: e i fondi, il legname,
la calce prendeva dove fossero senza pagare; per ampliare un parco di
venticinque miglia di giro usurpò fondi privati, tra cui quelli d’un
Bertolino da Sisti, il quale affrontandolo gli chiese: — Di che darò a
mangiare a’ miei figliuoli?» e il brutale rispose: — Che? non ti basta
il gusto del farli?» Onde quello gli tirò una coltellata, e fallito il
colpo, fu preso e fatto strappare da cavalli. Non pagava le cariche,
poi guaj se erano male esercitate: sessanta impiegati a un tratto
condannò alla forca, poi supplicato li graziò, ma chiuse in prigione il
suo cancelliere ch’erasi mostrato sollecito nello spedir quella grazia.
Insieme digiunava una terza parte dell’anno, distribuiva duemila
cinquecentotrentun zecchini all’anno in limosine, ducentodieci moggia
di grano, dodici carra di vino[3], e tenea dieci cappelle. Poi favorì i
letterati, fondò l’Università di Pavia chiamandovi professori rinomati;
blandì il Petrarca; e gli encomj di questo, ripetuti per classica
ammirazione, impedivano ai lontani di udire i gemiti dei popoli[4].
Tanto si osava mentre ancora sussistevano i nomi e le forme
repubblicane; anzi direi per queste, giacchè il tiranno trovandosi
violatore di esse, operava senza ritegno; l’appoggio che dalla
costituzione eragli negato, chiedea dalla forza; forza non di
cittadini, ma mercenaria, ed alleandosi con altri principi e
coll’imperatore. I papi contrastavano sempre, tratto tratto qualche
città si sollevava, un nuovo nemico sorgeva ogni dì: ma i Visconti dal
pingue paese smungeano denaro, denaro traevano dagl’immensi possessi
confiscati, col denaro compravano bande, e colle bande vincevano e
tiranneggiavano.
Gian Galeazzo figliuolo di Galeazzo, altrettanto ambizioso e
più dissimulatore, comprò dall’imperatore Venceslao il titolo di
vicario imperiale di Lombardia. Pagando a Giovanni II re di Francia
trecentomila zecchini, di cui avea bisogno per riscattarsi dal re
d’Inghilterra, n’ottenne la mano della figlia Isabella e la contea
di Virtù in Sciampagna. In seconde nozze sposò Caterina figlia di
Bernabò, il quale così credeva esserselo indissolubilmente legato,
e lo canzonava di quel non curarsi di grandezze umane e della sua
santocchieria. Fedele a questa, una volta Gian Galeazzo s’avviò in
pellegrinaggio solenne al sacro monte di Varese, menando seco la
Corte; e poichè passava rasente a Milano, pregò lo zio volesse venire
a salutarlo fuor della porta. Lo zio v’andò (1385); ma appena l’ebbe
abbracciato, il nipote diè il segno a’ suoi seguaci, che, tirate l’armi
di sotto le pie tuniche, presero Bernabò col suo seguito, e buttatolo
in castello, e fattogli un ridicolo processo, non per le atrocità
sue, ma per stregherie e per avere con incantesimi reso sterile il
matrimonio del nipote, lo sepellirono nel castello di Trezzo a morire
di rabbia se non fu di veleno. Milano rise della volpe presa al laccio,
ed acclamò Gian Galeazzo, che riunì tutto il dominio visconteo, e
trovò nel tesoro settecentomila fiorini d’oro contanti e sette carri
d’argento in verghe e vasellame.
Gian Galeazzo non avventurava mai nè la persona propria nè l’esercito
a battaglia decisiva, ma lo chiudeva entro fortezze, lasciando la
campagna esposta; sapeva poi destreggiare di politica, annodare e
scompor leghe, essere perfido e bugiardo opportunamente, e scegliere
i migliori stromenti alle sue ambizioni. Le finanze, per buona
amministrazione fiorenti, davangli mezzo di comperarsi partigiani nelle
altre repubbliche, e bande mercenarie, e grosse parentele, e così far
dei paesi come gli talentasse; nè dopo Federico II v’era stato principe
più temuto dagl’Italiani, e più minaccevole all’altrui indipendenza.
Stanco dell’obbrobrio delle bande di ventura, strinse lega coi Gonzaga,
i Carraresi e gli Estensi per isbrattarne il paese, e Bartolomeo di
Sanseverino fu spedito contro di loro con una bandiera inscritta Pax;
lega di effimera durata, che presto fece luogo a rivalità ed ambizioni
tra questi signorotti.
Quei della Scala disonorarono la propria decadenza coi delitti.
Cansignorio, e Paolo Alboino, figli di Mastino II, aveano assassinato
il fratello maggiore, indi azzuffatisi tra sè, il più debole fu
cacciato prigione in Peschiera, finchè Cansignorio, sentendosi morire,
mandò ammazzarlo (1375) acciocchè non attraversasse la successione a’
suoi figli naturali Bartolomeo e Antonio. Rinnovando simili misfatti,
Antonio uccide Bartolomeo (1381), poi ne accagiona un’amica, e costei
e tutta la famiglia manda alle forche. Quest’Antonio fu dai Veneziani
aizzato contro Francesco Carrara signore di Padova, loro implacabile
nemico, il quale si pose a schermo di Gian Galeazzo. Costui, adontato
che lo Scaligero per gelosia avesse rinnegato la sua alleanza, s’intese
col Carrara; vantandosi erede degli Scaligeri in grazia di Caterina sua
moglie, nata da Regina della Scala, fece attaccar Verona (1387 8bre)
dalle bande di Ugolotto Biancardo; ed essendo Antonio fuggito a Venezia
dopo consegnata la fortezza al legato imperiale, Galeazzo la comprò a
contanti.
Ma, infido al proprio alleato, non che cedergli Vicenza come avevano
pattuito, si offerse amico a Venezia contro di esso, ricevendone
centomila ducati il primo anno, poi ottomila al mese se la guerra si
prolungasse. Il Carrara trovavasi addosso nemici troppo poderosi,
scontenti i popoli, non denaro per comprar bande o trarre qui
stranieri; sicchè per disperato rinunziò la signoria al figlio
Francesco II Novello, il quale sentendosi inetto a resistere,
ricoverò a Pavia (1388 9bre) fra l’esultanza de’ Padovani. Malgrado il
salvocondotto, furono chiusi il padre a Verona, il figlio a Milano:
Galeazzo prese Padova, poi Treviso, e si trovò sul margine delle
lagune, alla tardi e mal pentita Venezia minacciando, se Dio gli
concedesse sol cinque anni di vita, ridurla umile quanto Padova.
Tolte di mezzo quelle due antiche famiglie, assorbite le case dei
Correggio, dei Cavalcabò, dei Benzoni, dei Beccaria, dei Langoschi,
dei Rusca, dei Brusati, restava padrone di ventuna città, che
gli fruttavano ducentomila fiorini, cioè metà quanto la Francia e
l’Inghilterra, avendo in corte quasi prigioniero Teodoro II marchese di
Monferrato, ricevendo docilissimi omaggi da Francesco Gonzaga signore
di Mantova, proteggendo il marchese Alberto d’Este contro l’odio
meritato con delitti; aveva una zia maritata in Lionello d’Inghilterra
con ducentomila sterline; la figlia sua Valentina sposò a Luigi duca
d’Orléans, assegnandole in dote la città e il territorio d’Asti,
quattrocentomila fiorini, e un corredo e gemme quali nessun regnante.
Fidava recuperar Genova coll’attizzarne le intestine malevolenze;
chiedendo sposa Maria, erede presuntiva della Sicilia, aspirò ad
acquistare quell’isola sbranata fra due fazioni: se non che il re
d’Aragona, subodorato l’accordo, appostò la flotta lombarda e mandolla
sgominata. Sempre più ampliando i suoi divisamenti, Gian Galeazzo
ambiva la corona d’Italia; ma prima conveniva abbattere la tutrice
della costei libertà, Firenze.
Questa continuava ad essere il centro de’ Guelfi, sottometteva i
castellani del contorno, e nelle interne riotte migliorava la sua
costituzione. A misura del crescer di essa scapitava la ghibellina
Pisa, la quale invischiatasi nelle vicende di terra, più non dava
i migliori negozianti a Costantinopoli e all’Arcipelago, e vedeva
spopolarsi i suoi banchi in Siria. La battaglia della Meloria, altro
frutto del suo parteggiare cogl’imperatori, l’avea fatta soccombere a
Genova; e per alcun tempo proibita di tenere armi, perdè l’abitudine
della guerra, onde la gioventù si drizzò ad altre vie, ad altra
ambizione i consigli; i pescatori delle maremme, di Lerici, della
Spezia passarono a servizio de’ Genovesi. Alla Corsica avea rinunziato,
sicchè fu data agli Aragonesi in cambio della Sicilia: ma poichè v’era
sempre chi favoriva a’ Pisani o a’ Genovesi, tutta andava in partiti
e scaramuccie, che impedivano agli Aragonesi di profondarvi radici.
Molti tirannelli vi sorsero, finchè il popolo stanco (1359) trucidò i
baroni o li fugò, e stabilì una costituzione repubblicana, mettendosi
in tutela de’ Genovesi, patto di non essere aggravezzati che di venti
soldi per fuoco l’anno. Nè per questo le fazioni quetarono; e non
potendo la repubblica di Genova tenerla, cinque cittadini ne presero
a proprio conto la protezione, e se la divisero. Poco durò, e alle
indigene si aggiunsero le scissure di Adorni e Fregosi.
Ai Pisani restava accora la Sardegna, opportuna al commercio
coll’Africa che ormai sola le era dischiusa: ma nel 1323 quanti erano
in quell’isola furono trucidati per trama di Ugone de’ Visconti giudice
d’Arborea, il quale consegnolla a Giacomo II re di Aragona. L’infante
don Alfonso, sbarcatovi con poderosa armata, consumò quindicimila
uomini nel vincere l’intrepida resistenza di Cagliari e de’ Pisani
condotti da Manfredi della Gherardesca (1326), i quali alfine dovettero
abbandonargli l’isola, ultimo resto di loro marittima grandezza.
Gli Aragonesi v’introdussero le cortes, con tre stamenti o bracci,
ecclesiastico, militare, regio, cioè popolano, i quali aveano parte nel
far le leggi e nel fissare l’imposta, e rendeano ragione alle querele
d’individui e di corpi. Alcuni signori conservaronsi indipendenti,
come i marchesi d’Arborea, tra cui fu famosa Eleonora che fece raccor
le leggi dell’isola (_carta de logu_) (1403), fin testè conservate in
vigore.
Pisa si trovò intercetta la via dell’Africa, in Sicilia non
potè sostenere la concorrenza de’ Catalani, onde si restrinse
all’agricoltura, alle manifatture, alle imprese di terra. Sempre
avversa alla guelfa bandiera, continuava a rivaleggiare con Firenze.
Secondo il trattato del 1342, avea fatto esenti i Fiorentini da
ogni gabella in Pisa; ma col pretesto di armare contro i corsari,
impose ad essi pure due denari ogni lira di valore. Risoluti di non
rassegnarsi ad un esempio che potrebbe condurre a peggio (1357), i
Fiorentini chiusero le loro partite e trasportarono gli scanni al porto
di Telamone nella maremma senese. I mercanti forestieri dovettero
seguirli, sicchè fu colpo mortale a Pisa, la quale, vuote le case,
i magazzini, gli alberghi, le strade di vetturali, il porto di navi,
riducevasi una solitaria città castellana.
Dentro la squarciavano le sêtte de’ Bergolini, popolani guidati dai
Gambacorta, e de’ Raspanti, in mala fama per aver _raspato_ ne’ loro
governi, e sempre avversi ai Fiorentini. Gli odj portarono ad alternate
tirannie; e i Visconti di Milano, che mai non torceano gli avidi
occhi dalla Toscana, per demolirla colle lotte interne favorivano ai
Raspanti, i quali incessantemente aizzavano alla guerra contro Firenze,
non foss’altro per rincalorire i rancori, che troppo s’erano calmati
dacchè si vedeva a che avesse portato l’esclusione de’ Fiorentini, dai
Raspanti cagionata.
Volterra mal potea conservarsi indipendente fra le tre repubbliche
vicine che v’aspiravano; e però avendola i Fiorentini sciolta dalla
tirannide di Bocchino Belforti, si diede a loro protettorato (1360).
N’andò al colmo il dispetto de’ Pisani, che ruppero all’armi con varia
fortuna; ma l’antica regina dei mari si trovò sull’onde guerreggiata
dalla mediterranea rivale. Pisa sentendosi non bastar sola, chiese
ajuti a Bernabò Visconti, e questi vi spedì l’Acuto (1362) colla banda
inglese di duemila cinquecento cavalli e duemila fanti. Vero è che
costoro devastarono la campagna, poterono anche fare una punta sopra
Firenze, correre il palio fin sotto le mura di essa, ed appiccarvi alla
forca tre asini col nome di tre magistrati fiorentini; ma la voracità
di questa masnada, la peste che ripullulò, e la rotta di San Savino
(1364) (che ancora si festeggia a Firenze col palio di San Vittorio)
ridussero i Pisani a strettissime condizioni[5]. Non potendo poi
pagare l’ultima rata alle compagnie di ventura, Giovanni Agnello loro
concittadino, la cui ambizione era sollecitata da Bernabò, promise
soddisfarli de’ soldi dovuti, e col loro appoggio si fece proclamar
doge: premiò, punì, relegò, com’è il solito di cotesti ambiziosi, e
giustificava l’usurpazione col titolarsi luogotenente del Visconti. La
pace giovava al dittatore; onde fu conchiusa (17 agosto) tra Pisani e
Fiorentini, restituendo a questi ultimi le franchigie che godevano a
Pisa, i castelli e i prigionieri, oltre centomila scudi d’oro per le
spese della guerra.
Firenze era sempre stata braccio destro della Chiesa: pure onesta
franchezza mostrava nelle materie ecclesiastiche, sacerdoti e abati
puniva dei delitti come gli altri cittadini, e li sottopose alle
gravezze comuni. L’inquisitore frà Pietro dell’Aquila, superbo e
avido di denaro, avea avuto procura dal cardinale di Barros spagnuolo,
per riscuotere dodicimila fiorini dovutigli dalla fallita compagnia
degli Acciajuoli; e benchè col consenso della Signoria n’avesse preso
adequata cauzione, fece dai birri del Sant’Uffizio (1375) sostenere uno
degl’interessati d’essa compagnia. Se ne leva rumore: il prigioniero è
tolto ai birri, che con tronche le mani sono banditi dalla Signoria.
L’inquisitore sbuffante si ritira a Siena, e lancia l’interdetto sui
priori e sul capitano di Firenze: questi appellano al papa, accusando
d’altri abusi l’inquisitore, e che settemila fiorini in due anni avesse
smunto dai cittadini, coll’appuntare come eresia ogni paroluzza,
ogni sentenza men castigata; e il papa, informato del vero, levò le
censure. Allora il Comune ordinò, come già erasi fatto a Perugia, che
nessun inquisitore prendesse brighe estranee al suo uffizio, nè potesse
condannare in denaro, nè tenere carcere distinta; divieto ai magistrati
di dargli sgherri, nè di lasciar arrestare chi che fosse senz’assenso
dei priori: e poichè Pietro dell’Aquila a più di dugencinquanta
cittadini avea dato la licenza delle armi, col titolo di famigli del
Sant’Uffizio, ritraendone meglio di mille fiorini l’anno, si ordinò che
l’inquisitore non avesse più di sei famigli con arme, nè più di sei
altri licenziasse a portarle; quelli del vescovo di Firenze fossero
ridotti a dodici, e a metà quelli del fiesolano; l’ecclesiastico che
offendeva un laico in fatto criminale, cadesse sotto al magistrato
ordinario, senza eccezione di dignità, nè riguardo a privilegi papali.
Tutto ciò indispose il papa contro Firenze: e Guglielmo di Noellet,
legato pontifizio a Bologna, parve ne insidiasse la libertà, la
carestia peggiorando col proibirvi l’invio del grano, poi scagliando
contro della Toscana la Compagnia Bianca dell’Acuto, dacchè la tregua
con Bernabò la rendeva inutile: passo sconsigliato e disastrosissimo
all’Italia ed alla causa pontifizia. Firenze, indignata di vedersi
tolta di mira da quella Corte, cui con lealtà religiosa avea sempre
favorito, comprò l’inazione di costui mediante centrentamila fiorini,
e tosto gittò l’incendio nella Romagna, promettendo mano a chiunque si
rivoltasse alle sante chiavi. Siena, Lucca, Pisa tennero con essa, e
così il Visconti, cui Gregorio XI aveva rinnovato le ostilità: gli Otto
della guerra, a’ quali erasi affidato il governo di Firenze, ed erano
detti gli otto santi patroni, raccolsero l’esercito sotto una bandiera
iscritta a oro _Libertà_, la quale spedirono a Roma e agli altri paesi
con lettere mirabilmente dettate dal segretario Coluccio Salutati. Ed
ecco in non dieci giorni ottanta città o borgate di Romagna e delle
marche d’Ancona e Spoleto, e Bologna stessa si sottrassero ai vicarj
pontifizj, e costituendosi libere, o richiamando le antiche famiglie
spossessate dall’Albornoz. Giovanni Acuto, a servizio del legato
papale, intitolò la sua _compagnia santa_, e malmenò la Romagna. Il
vescovo d’Ostia conte di questa dimorava in Faenza, e scoperto che
Astorre Manfredi praticava per farla ribellare, chiamò l’Acuto. Il
quale volò, e subito chiese denari (1376); e non avendone il vescovo,
cacciò prigione trecento primani, undicimila spinse fuor di città,
solo ritenendo alquante donne a oltraggio; poi l’abbandonò al sacco,
nè tampoco risparmiando le vite di fanciulli. La città così malmenata
vendè per quarantamila fiorini al marchese d’Este, poi gliela ritolse
per darla al Manfredi. Questo chiamava egli servire al pontefice:
eppure in compenso pretese le terre di Bagnacavallo e Castrocaro.
La sollevazione intanto estendevasi; ben ottanta città aveano tolto
l’obbedienza al pontefice, che viepiù indignato contro i Fiorentini,
li citò al suo tribunale. Essi, che non voleano esser religiosi a
scapito della libertà[6], mandano tre ambasciadori ad Avignone, che
sostengono la causa loro con insolita franchezza, e — In quattrocento
anni dacchè godiamo della libertà, la ci si è per modo connaturata, che
ognun di noi è disposto a sagrificare la vita per conservar quella».
Il buon papa era troppo male ispirato, com’è più facile ai lontani;
e senza dare ascolto proferì contro di loro la scomunica, eccitando
ognuno ad occuparne gli averi e le persone; onde Donato Barbadori, uno
dell’ambasciata, si volge a un Cristo, appellandosi a lui dell’ingiusta
sentenza, e dicendo col salmista: — Ajutor mio, non mi lasciare; se
anche mio padre e mia madre m’abbandonarono».
Quanti erano per traffico in Avignone e altrove sono obbligati
partirsene; il re d’Inghilterra coglie l’occasione per occupare gli
averi e far serve le persone di quanti ne trovò nel suo regno; sicchè
arrivò a Firenze tanta gente, da poter formare un’altra città. I
Fiorentini decretano non si badi all’interdetto (1377), e si continuino
gli uffizi divini: ma l’Acuto mette a macello le città sollevate;
Roberto di Ginevra nuovo legato, cattiva scelta d’ottimo pontefice,
trae una banda delle più ribalde che devastassero la Francia, guidata
da Giovanni di Malestroit bretone, il quale, avendogli il papa
domandato — Ti basta l’animo di penetrare in Firenze?» rispose — Sì
perdio, se vi penetra il sole». A’ Bolognesi il legato minacciava
voler lavarsi piedi e mani nel sangue loro; e di fatto Monteveglio,
Crespellano ed altre terre furono spietatamente invase. Cesena,
assalita per una rissa fra’ Bretoni e i cittadini, fu mandata a sacco,
e Roberto gridava — Sangue, voglio sangue; scannate tutti, affatto
affatto»; orribile grido, più orribile in bocca di legato papale,
se pur non è una delle solite invenzioni con cui si vendicano gli
oppressi. Tre giorni abbandonata a quel furore, cinquemila cadaveri
furono rinvenuti quando si rifabbricò, oltre quelli periti nel fuoco e
mangiati dai cani: gli altri errarono mendicando. I soldati cambiavano
a some le spoglie dei morti con altrettanto fieno e paglia da stramare
i cavalli; le donne, vedove, contaminate, nude, digiune, metteano
pietà fin al disumano Acuto. I Fiorentini riuscirono a staccare
costui dal papa col pagargli duecencinquantamila fiorini l’anno;
vale a dire redimevano i ricolti del proprio territorio dando una
metà della pubblica rendita. Solo allorchè lo scisma cominciato nella
Chiesa facealo bisognoso di pace, il papa ricomunicò Firenze (1378),