Storia degli Italiani, vol. 07 (di 15) - 39
[300] Sul mausoleo di Can Grande del 1329 fu scritto;
_Si Canis hic grandis ingentia facta peregit_
_Marchia testis adest, quam sævo marte subegit._
_Scaligeram qui laude domum super astra tulisset_
_Majores in luce mores si Parca dedisset._
Su quello di Cansignorio:
_Scaligera hac nitida cubo Cansignorius arca_
_Urbibus optatus latiis sine fine monarca._
_Ille ego sum gemine qui gentis sceptra tenebam,_
_Justitiaque meos mixta pietate regebam;_
_Inclyta cui virtus, cui pax tranquilla fidesque_
_Inconcussa dabunt famam per secla diesque._
Su quello di Mastino:
_Me dominum Verona suum, me Brixia vidit,_
_Parmaque cum Lucca, cum Feltro Marchia tota._
[301] Diversi paesi portavano il nome di ducato di Borgogna. Il re
della Borgogna cisgiurana, cioè di Arles e Provenza, capitale Vienna:
il re della Borgogna transgiurana, capitale Ginevra, che comprendeva
gran parte della Svizzera, il Lionese, porzione del Delfinato, la
Bresse, la Savoja, e di qua dai monti le valli d’Aosta, Susa, Maira; il
ducato proprio di Borgogna. I molti studj in proposito sono riassunti
nelle _Memorie cronologiche e genealogiche di storia nazionale_ del
Cibrario, e nella sua _Storia della monarchia di Savoja_. Vedi pure
GINGINS LA SERRA per l’origine dai duchi di Provenza.
[302] In una donazione all’abbazia di Pinerolo, Umberto II professa
vivere _ex nacione mea lege romana_. Il Guichenon omise queste parole
perchè contrariavano il suo sistema: noi però mostrammo che non provano
l’origine di una famiglia.
[303] _Cronaca di Evian_, ms. nell’archivio cantonale di Losanna.
[304] Quei di Magnano davansi al Conte Verde, 1373, volendo essere _sub
justæ manus dominio, potiusquam sub tyrannisantium sævissima voragine
et regimine crudeli_.
[305] Allora unico arcivescovo ne’ possessi di Savoja era quello di
Tarantasia, sotto cui la Moriana e Aosta. La Savoja propria dipendeva
dal metropolita di Vienne, come parte del vescovado di Grenoble:
gli altri paesi d’oltremonte riverivano i metropoliti di Lione e di
Besanzone; quelli qua dai monti, l’arcivescovo di Milano.
[306] Il Gioffredo, St. delle Alpi Marittime, tom. i. p. 590, trovò
confermati fin dal 1040 da Ottone e Corrado conti di Ventimiglia gli
statuti dati da un Arduino marchese d’Ivrea agli uomini di Tenda,
Saorgio, Briga, e che importano la ricognizione del diritto d’eredità
nei maschi e nelle femmine; dispensa dal combattimento giudiziale in
cause civili, surrogandovi i testimonj sacramentali, o giurati; il
conte nè i suoi non potranno pigliare in ostaggio la persona, o mettere
sequestro sui beni e sulle case d’essi uomini; questi non saranno
tenuti assistere al giudizio pubblico se non una volta l’anno per tre
giorni; nè a mandare loro dipendenti in guerra se non in caso di oste
generale; potranno far legna, adacquare, pascolare, cacciare su tutti i
dominj del conte fino al mare. È uno de’ più antichi documenti di vita
comunale. I privilegi della val di Lanzo si leggono in Cibrario, Studj
storici, pag. 302.
[307] _Lib. consil. civitatis Taurini._
[308] CIBRARIO, _Storia di Chieri_; — SCLOPIS, _Considerazioni storiche
intorno a Tommaso di Savoja e degli Stati generali ed altre istituzioni
politiche del Piemonte_. Torino 1851.
[309] Salinguerra per servizio feudale doveva ad Innocenzo III il censo
di quaranta marche d’argento; servire a proprie spese con cento militi
in Romagna e Lombardia; con cinquanta in Toscana, nelle marche d’Ancona
e di Spoleto; con venti di là da Roma e fin in Sicilia. Il servizio
doveva durare trenta giorni ogn’anno, non computando l’andata e il
ritorno. SAVIOLI, _Ann. bolognesi_, doc. 431. 444.
[310] Nel 1233 Anselmo di Vinguilia pel proprio padre Bonifazio e per
Jacopo di Casanova suo parente giura fedeltà al Comune di Genova; ed
oltre le solite convenzioni promette che, qualora esso Comune faccia
esercitare cavalcata, vi andrà come gli altri della Riviera, e uno
di loro due, o un idoneo sostituto. Se faccia armata di dieci galee,
darà sette uomini a spese proprie; e così di più o di meno in ragione,
purchè non siano meno di sei. _Liber jurium_, I. 931. Seguono altre
consimili convenzioni.
[311] GHIRARDACCI, al 1297, e lib. XIV. p. 477.
[312] _Delizie degli eruditi toscani_, X. 199. — Chiamavasi
_cavalleria, cavallata_ o _milizia_ l’obbligazione di servire a
cavallo. Determinavasi secondo gli averi a chi intiera, a chi un
quarto, a chi metà; a tale di due cavalli, a tale di un solo. Chi n’era
dispensato per età, legge o malattia, dava armi e destrieri, che il
Comune distribuiva a’ cittadini di minor sorte. Studiavansi i rettori
d’accrescere il numero delle cavallate, sia distribuendo a’ più poveri
alcuna somma di danaro a modo di prestito o di dono, sia consegnando
alle genti forestiere alcuni cavalli in socio o, come allora dicevasi,
_in adequanza_, al patto che servissero in guerra e venissero ad
abitare colle famiglie dentro le mura.
Del resto le cavallate s’imponevano solitamente ogni anno, ed a chi
possedeva oltre a cinquecento fiorini: a chi erano imposte importavano
l’obbligazione di tener un cavallo di valuta fra i trentacinque e i
settanta fiorini (fra le 854 e le 1708 lire d’oggi), e di militare ad
ogni cenno del capitano di guerra. La paga in Firenze pe’ semplici
cittadini era di quindici soldi al dì; pe’ giudici e cavalieri di
corredo, di venti. I destrieri delle cavallate primamente venivano
esaminati, stimati e descritti da uffiziali deputati a ciò; poscia
bollavansi col bollo del Comune. Caso che il cavallo per pubblico
motivo venisse guasto, morto o ferito, il danno veniva compensato al
padrone dal Comune: ciò dicevasi _emendare_. Finchè il cavallo non
fosse emendato, correva la paga al milite senz’obbligo di servizio.
Cavallo emendato contrassegnavasi per non averlo ad emendare una
seconda volta. Vedi RICOTTI, _Storia delle compagnie di ventura_.
[313] GIULINI, al 1235; — G. VILLANI, IX. 47.
[314] I fuorusciti di Ferrara nel 1271 fanno lega con Bologna,
promettendo _quod facient exercitum et cavalcatam cum commune Bononiæ,
scilicet milites ut milites, et pedites ut pedites, ad voluntatem
et mandatum communis et populi bononiensis, sicut cives civitatis
Bononiæ....; quod facient et tractabunt guerram omnibus et singulis
inimicis communis Bononiæ....; quod dicti Ferrarienses et eorum
sequaces defendent et manutenebunt toto eorum posse sicut alii cives
civitatis Bononiæ castrum bononiense factum apud Primarium_. SAVIOLI,
doc. 765.
[315] Anche i capitani successivi erano di nobili case: Werner di
Monfort, Wirtinger di Landau, Anichino di Baumgarten...; dai nostri
nominati il duca Guarnieri, il conte Lando, il Bongardo. Vedi il Cap.
CXI.
[316] G. VILLANI, IX. 182.
[317] _Novella_ 181. — Quando Pino degli Ordelaffi sconfisse la banda
della Rosa nel 1398, esso Sacchetti lo lodò in un sonetto:
Se ciaschedun signor desse le frutte
A chi le va cercando, come voi,
Le strade si terrian nette ed asciutte.
E soggiungeva in prosa: — Perchè virtuosamente avete adoperato, che ’l
simile facessono tutti gli altri signori, non mi sono possuto tenere
ch’io non v’abbia scritto.... E se in ciò si accordasse tutta Italia, e
facesse come voi, la gente barbara tornerebbe a lavorar le terre ecc.».
[318] ROSMINI, _Vita del Magno Trivulzio_, lib. IV. doc. 23.
[319] Lettera di re Roberto al duca d’Atene.
[320] Le particolarità sono di Coppo Stefani. Vedi HECKER, _Der
Schwarze Tod_. Berlino 1832.
[321] _Rer. It. Scrip._, tom. XV, cronaca di Andrea Dei. Un altro
anonimo dice, più ragionevolmente, che da sessantacinquemila bocche si
ridussero a quindicimila.
[322] Ma nel 1361 la peste scoppiò in Lombardia, desertò Como, a Novara
e Pavia consumò un terzo degli abitanti, settantasettemila in Milano,
oltre il contado. Tornò nel 74, poi nel 99, quando la sola Como, al
dire di Benedetto Giovio, perdè tredicimila persone.
[323] PETRARCA, _Ep. famil._, lib. VIII. 7.
[324] Questa singolarità eccitò la curiosità, e molti la tolsero a
soggetto di dotte dissertazioni, che crescono di continuo. In Italia,
oltre il Camposanto di Pisa, troppo noto, ne conosciamo uno poco fuori
di Como, oggi perito; uno a Santa Caterina del Sasso sul lago Maggiore;
uno sulla facciata dei Disciplini a Clusone del Bergamasco.
[325] _Cron. riminese._
[326] Probabilmente sotto Fiesole al Poggio Gherardi, e alla villa già
Palmieri detta Schifanoja e dei Trevisi.
[327] — Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri
giovani, li quali, non che altri, ma Galeno, Ippocrate o Esculapio,
avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono coi loro parenti,
compagni ed amici, che poi, la sera vegnente appresso, nell’altro mondo
cenarono colli loro passati».
Più che in tutta la retorica del Boccaccio, trovo verità in queste
parole di Panieri Sardo cronista pisano: — In del 1348, alla intrata di
gennajo, vennero a Pisa due galee di Genovesi che venivano di Romanìa;
e come furono giunti alla piazza dei Pesci, chiunque favellò con loro
di subito fue amalato e morto; e chiunque favellava a quelli malati o
toccasse di quelli morti altresì, tosto amalavano e morivano: e così
fu sparta la grande corruzione in tanto, che ogni persona morìa. E
fu sì grande la paura, che nime (nessuno) volea l’un l’altro vedere:
lo padre non volea vedere morire lo figliuolo, nè lo figliuolo volea
vedere morire lo padre, nè l’uno fratello l’altro, nè la moglie lo suo
marito. E ogni persona fuggiva la morte; ma poco li valea, che chiunque
dovea morir si moria, e non si trovava persona che li volesse portare
a fossa. Ma quello Signore che fece lo cielo e la terra, provvide bene
ogni cosa; che lo padre, vedendo morto lo suo figliuolo e abbandonato
da ogni persona (che nimo lo volea toccare, nè cucire, nè portare),
egli si recusava morto (_si dava per morto_) e poi facea egli stesso
lo meglio che potea; egli lo cucia, e poi lo mettea in della cascia,
e con ajuto lo portava alla fossa, ed egli stesso lo sotterrava; e
poi l’altro giorno egli o chiunque l’avea toccato, si era morto. Ma
benedetto Dio, che provvide di dar ajuto l’uno all’altro. Con tutto
che ciascun morie purchè egli toccasse di sue cose o denari o panni,
nondimeno non ne rimase in nessuna casa nè in sul letto nessuno a
sotterrare, che egli non fosse onorevolmente sotterrato secondo la
sua qualità: tanta carità Dio diede all’uno coll’altro, recusandosi
ciascuno morto. E dicea: _Ajutiamo, e portiamli a fossa, acciocchè
ancora noi siamo portati_». Archivio storico, tom. VI. part. ii. p.
114.
[328] Non è ben dimostrato che il De Sade trovasse il vero intorno a
questa Laura. Vedi _L’illustre châtelaine des environs de Vaucluse, e
la Laure de Pétrarque par_ HYACINTHE D’OLIVIER-VITALIS. Parigi 1843.
Anche Salvatore Betti sostiene ch’ella fosse la nobilissima Laura Des
Beaux Adhémar di Cavaillon, figlia del signore di Vaucluse, nata in
riva alla Sorga, e morta fanciulla di consunzione il 1348.
«Le trenta vite del cantore di Laura ce ne lasciano bramare una degna
di lui», scriveva il Bettinelli quasi un secolo fa, e possiamo ripeter
noi.
[329]
Perchè a me troppo ed _a se stessa_ piacque.
La rividi più bella e meno _altera_.
[330]
Con lei foss’io da che si parte il sole,
E non ci vedess’altri che le stelle....
Solo una notte, e mai non fosse l’alba,
E non si trasformasse in verda selva
Per uscirmi di braccia....
Pigmalïon, quanto lodar ti dèi
Dell’immagine tua, se mille volte
N’avesti quel ch’io sol una vorrei.
E _De contemptu mundi_, dial. III: _Nullis mota precibus, nullis victa
blanditiis, muliebrem tenuit decorem, et adversus suam simul et meam
ætatem, adversus multa et varia quæ adamantinum flectere licet spiritum
debuissent, inexpugnabilis et firma permansit._
[331] _De vita solitaria; De remediis utriusque fortunæ_.
[332] _Seniles_, 3. 6.
[333] _Apol. contra Galli calumnias._ È in ripicchio d’un anonimo che
avea confutato la lettera ove egli persuadeva Urbano V a ritornare la
sede pontifizia in Roma, dicendogli ogni male della Francia.
[334] _Opera_, pag. 170. ediz. di Basilea.
[335] Rathery, nella Memoria premiata dall’Accademia nel 1852 intorno
all’_Influenza dell’Italia sulle lettere francesi_, vorrebbe nel Roman
de la Rose riconoscere l’influenza di Dante, ch’e’ suppone amico di
Giovanni de Meun.
[336] _Audio, quo nil possem tristius, nihilque indignantius audire,
quosdam cardinales ibi esse qui murmurent se Benvense vinum in Italia
non habere_. Opera, pag. 845.
[337] Di lui scrive nelle _Epist. famil._, VII. 13: _Reges terræ
bellum literis indixerunt; aurum, credo, et gemmas atramentis inquinare
metuunt, animum ignorantiæ cæcum ac sordidum habere non metuunt. Unde
illud regale dedecus? videre plebem doctam, regesque asinos coronatos
licet (sic enim eos vocat romani cujusdam imperatoris epistola ad
Francorum regem). Tu ergo hac ætate vir maxime, et cui ad regnum nihil
præter nomen regium desit... meliora omnia de te spero._
E nell’_Epist. metr._ lib. III:
_Maximus ille virûm quos suspicit itala tellus,_
_Ille, inquam, aeriæ parent cui protinus Alpes,_
_Cui pater Apenninus erat, cui ditia rura_
_Rex Padus ingenti spumans intersecat amne,_
_Atque coronatos altis in turribus angues_
_Obstupet..._
_Adriaci quem stagna maris, thyrrenaque late_
_Æquora permetuunt, quem transalpina verentur,_
_Seu cupiunt sibi regna ducem, qui crimina duris_
_Nexibus illaqueat, legumque coercet habenis,_
_Justitiaque regit populos, quique aurea fessæ_
_Tertius Hesperiæ melioris secla metalli_
_Et Mediolani romanas contulit artes,_
_Parcere subjectis et debellare superbos._
Alla nascita d’un figlio di Barnabò cantava:
_Te Padus expectat dominum, quem flumina regem_
_Nostra vocant, te purpureo Ticinus amictu...._
_Tu quoque tranquillo votivum pectore natum_
_Suscipe, magne parens, et per vestigia gentis_
_Ire doce, generisque sequi monumenta vetusti._
_Inveniet puer iste domi calcaria laudum_
_Plurima, magnanimos proavos imitetur avosque,_
_Mirarique patrem docili condiscat ab ævo._
[338] Dodici vestiti di scarlatto erano delle case Forni, Trinci,
Capizucchi, Caffarelli, Cancellieri, Coccini, Rossi, Papazucchi,
Paparesi, Altieri, Leni, Astalti; sei di verde, delle case Savelli,
Conti, Orsini, Annibaldi, Paparesi, Montanari.
[339] _Incubui unice ad notitiam antiquitatis, quoniam mihi semper ætas
ista displicuit._ Ep. ad posteros.
[340] _Auctor venatus fuit ubique quidquid faciebat ad suum
propositum_. BENVENUTO DA IMOLA al XIV del _Purgatorio_.
[341] Il Petrarca narra che Dante fu ripreso da Can Grande, qual uomo
meno urbano e men cortese che non gli istrioni medesimi e i buffoni
della sua Corte. _Memorab._, II. Avendogli Can Grande domandato: —
Perchè mi piace più quel buffone che non te, cotanto lodato?» n’ebbe in
risposta: — Non ti maraviglieresti se ricordassi che la somiglianza di
costumi stringe gli animi in amicizia».
[342] _Sonetto_ 25. II. — Nella prefazione alle _Epistole famigliari_
dice avere scritto alcune cose vulgari per dilettar gli orecchi del
popolo. Nella VIII di esse soggiunge che per sollievo dei suoi mali
dettò «le giovanili poesie vulgari, delle quali or prova pentimento
e rossore (_cantica, quorum hodie pudet ac pœnitet_), ma che pur
sono accettissime a coloro i quali dallo stesso male sono compresi».
Nella XIII delle Senili: _Ineptias quas omnibus et mihi quoque si
liceat ignotas velim_. E scolpandosi a quei che lo diceano invidioso
di Dante: — Non so quanta faccia di vero sia in questo, ch’io abbia
invidia a colui che consumò tutta la vita in quelle cose, in che io
spesi appena il primo fiore degl’anni; io che m’ebbi per trastullo e
riposo dell’animo e dirozzamento dell’ingegno quello che a lui fu arte,
se non la sola, certamente la prima». E nella XI delle _Famigliari_
modestamente: — Di chi avrà invidia chi non l’ha di Virgilio?» Altrove
dice essersi guardato sempre dal leggere i versi di Dante, e al
Boccaccio scrive: — Ho udito cantare e sconciare quei versi su per le
piazze... Gl’invidierò forse gli applausi de’ lanajuoli, tavernieri,
macellaj e cotal gentame?» Eppure Jacopo Mazzoni (_Difesa di Dante_,
VI. 29) asserisce che il Petrarca «adornò il suo canzoniere di tanti
fiori della Divina Commedia, che può dirsi piuttosto ch’egli ve li
rovesciasse dai canestri che dalle mani». È un’arte dei detrattori
senza coraggio il deprimere un sommo col metterlo a paraggio de’
minori. Ora il Petrarca due volte menziona Dante come poeta d’amore,
ponendolo in riga con frà Guittone e Cino da Pistoja; Sonetto 257:
_Ma ben ti prego che in la terza spera Guitton saluti e messer Cino e
Dante_. Trionfo d’Amore, IV: _Ecco Dante e Beatrice, ecco Selvaggia,
ecco Cin da Pistoja, Guitton d’Arezzo_.
[343] Si confronti la descrizione della sera. DANTE, _Purg._, VIII:
— Era l’ora che volge il desìo e intenerisce il cuore dei naviganti
il dì che dissero addio ai cari amici; e che punge d’amore il nuovo
pellegrino se ode squilla da lontano che sembri piangere il giorno
che si muore». PETRARCA: — Poichè il sole si nasconde, i naviganti
gettan le membra in qualche chiusa valle sul duro legno o sotto l’aspre
gòmone. Ma perchè il sole s’attuffi in mezzo l’onde, e lasci Spagna e
Granata e Marocco dietro le spalle, e gli uomini e le donne e ’l mondo
e gli animali acquetino i loro mali, pure io non pongo fine al mio
ostinato affanno».
[344] Eppure la parola _melanconia_ nè una volta si trova nei suoi
versi.
[345] Indicò chiaramente gli antipodi e il centro di gravità della
terra; fece argute osservazioni sul volo degli uccelli, sulla
scintillazione delle stelle, sull’arco baleno, sui vapori che formansi
nella combustione (_Inf._, XIII. 40. XIV. III; _Purg._, II. 14. XV. 16;
_Par._, II, 35. XII. 10), sull’origine delle meteore acquose (_Ben sai
come nell’aer si raccoglie Quell’umido vapor che in acqua riede Tosto
che sale dove freddo il coglie_), e sulla teoria de’ venti (_il vento
Impetuoso per gli avversi ardori_), sul rapporto fra l’evaporazione
del mare e le correnti de’ fiumi (_In fin là, ’ve si rende (l’Arno)
per ristoro, Di quel che il ciel della marina asciuga, Ond’hanno i
fiumi ciò che va con loro_). Prima di Newton assegnò alla luna la causa
del flusso e riflusso (_E come ’l volger del ciel della luna, Copre e
discopre i lidi senza posa_. _Par._, XVI). Prima di Galileo attribuì
il maturar delle frutte alla luce che fa esalare l’ossigeno (_Guarda
il color del Sol che si fa vino Giunto all’umor che dalla vite cola_.
_Purg._, XXV). Prima di Linneo e dei viventi dedusse la classificazione
dei vegetali dagli organi sessuali, e asserì nascer da seme le piante
anche microscopiche e criptogame (_Ch’ogn’erba si conosce per lo seme._
Ivi, XVI; _Quando alcuna pianta Senza seme palese vi s’appiglia_.
Ivi, XXVIII). Sa che alla luce i fiori aprono i petali e scoprono
gli stami e i pistilli per fecondare i germi (_Quali î fioretti dal
notturno gelo Chinati e chiusi, poi che ’l sol gl’imbianca, Si_ drizzan
_tutti_ aperti _in loro stelo. Inf._, II); e che i succhi circolano
nelle piante (_Come d’un tizzo verde ch’arso sia Dall’un de’ capi,
che dall’altro geme E cigola per vento che va via_. Ivi, XIII). Prima
di Leibniz notò il principio della ragion sufficiente (_Intra duo
cibi distanti e moventi D’un modo, prima si morria di fame Che liber
uom l’un si recasse a’ denti_. _Par._, IV). Prima di Boussingault e
Liebig assegnò le rimutazioni della materia (_Il ramo Rende_ alla terra
_tutte le sue spoglie_). Prima di Bacone pose l’esperienza per fonte
del sapere (_Da questa istanzia può deliberarti Esperienza, se giammai
la provi, Ch’esser suol fonte a’ rivi di vostr’arti_. Ivi, II). Anzi
l’attrazione universale vi è adombrata, cantando — Questi ordini di su
tutti rimirano, E di giù vincon sì che verso Dio Tutti tirati sono e
tutti tirano» (_Par._, XXVIII). Indica pure la circolazione del sangue,
dicendo in una canzone: — Il sangue che per le vene disperso Correndo
fugge verso Lo cor che il chiama, ond’io rimango bianco». Il che più
circostanziatamente esprime Cecco d’Ascoli nell’_Acerba_:
Nasce dal cuore ciascuna arteria
E l’arteria sempre dov’è vena;
Per l’una al core lo sangue si mena,
Per l’altra vien lo spirito dal core;
Il sangue pian si move con quiete.
[346] Oltre l’argomento dedotto dal suo silenzio, vedi la confusione
che ne fa nel IV dell’_Inferno_; altrove nomina come autore di
_altissime prose_ Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio; nel
_Par._, VI. 49, fa venire in Italia gli Arabi con Annibale, ecc.; nel
_Convivio_ confessa che stentava a capire Cicerone e Boezio.
[347] Per esempio, Cino da Pistoja scrive degli occhi della sua donna:
Poichè veder voi stessi non potete,
Vedete in altri almen quel che voi siete;
e il Petrarca:
Luci beate e liete,
Se non che il veder voi stesse v’è tolto:
Ma quante volte a me vi rivolgete,
Conoscete in altrui quel che voi siete.
Cino ha un sonetto:
Mille dubbj in un dì, mille querele
Al tribunal dell’alta imperatrice, ecc.
ove figura che egli ed Amore piatiscano avanti alla Ragione, e infine
questa conchiude:
A sì gran piato
Convien più tempo a dar sentenza vera.
Petrarca riproduce quest’invenzione nella canzone _Quell’antico mio
dolce empio signore_, ove dopo il dibattimento la Ragione sentenzia:
Piacemi aver vostre quistioni udite,
Ma più tempo bisogna a tanta lite.
Confronti del Petrarca coi Provenzali fece il Galvani nelle
_Osservazioni sulla poesia de’ trovadori_. E vedi il _Paradosso_ del
Pietropoli.
[348] Però il Bembo, quel gran petrarchista che ognun sa, confessa
aver letti per oltre quaranta volte i due primi sonetti del Canzoniere
senza intenderli appieno, nè avere incontrato ancora chi gl’intendesse,
per quelle contraddizioni che pajono essere in loro; _Lettera a
Felice Trofimo_, lib. VI. E Ugo Foscolo, grande studioso del Petrarca,
interrogato sul senso della strofa famosa _Voi cui natura_, ecc., la
spiega con un _Se non m’inganno_ (Epistolario, vol. III. 46). Fin ad
ora si disputò sul senso del verso
Mille piacer non vagliono un tormento
e dell’altro
Che alzando il dito colla morte scherza.
[349] Gli aneddoti che si raccontano in contrario, e l’asserzione
del Petrarca parmi non si possano riferire che a’ versi amorosi, od
altri men conosciuti, che sono di forma affatto moderna e di concetto
semplice.
[350] Tali sarebbero i frequenti giuocherelli sul nome di Laura; tale
la _gloriosa colonna_ a cui s’appoggia nostra speranza, e il vento
angoscioso de’ sospiri, e il fuoco de’ martiri, e le chiavi amorose, e
il lauro a cui coltivare adopera _vomer di penna con sospir di fuoco;_
e la nebbia di sdegni che _rallenta le stanche sarte della nave sua,
fatte d’error con ignoranza attorto_: e i ravvicinamenti fra cose
disparate, come fra sè e l’aquila, la cui _vista incontro al Sol pur
si difende_; e il dolore che lo fa _d’uom vivo un verde lauro_. Nel
che talvolta non ha pur rispetto alle cose sacre; come là dove loda
il borgo in cui la bella donna nacque, paragonando con Cristo che
_sceso in terra a illuminar le carte, fa di sè grazia a Giudea_; e il
_vecchierel canuto e bianco, che viene a Roma per rimirar la sembianza
di colui che ancor lassù nel ciel vedere spera_, confronta a sè _che
cerca la forma vera di Laura_.
[351] Alessandro Velutello nel 1525 fu il primo che distribuì il
Petrarca in rime avanti la morte, dopo la morte di madonna Laura, e
rime varie.
[352] Un’elevata definizione della poesia leggiamo pure nel Boccaccio
(_Genealogia degli Dei_, lib. XIV, c. 7): _Poesis, quam negligentes
abjiciunt et ignari, est fervor quidam exquisite inveniendi atque
discendi seu scribendi quod inveneris, qui ex sinu Dei procedens,
paucis mentibus, ut arbitror, in creatione conceditur. Ex quo, quoniam
mirabilis est, rarissimi semper fuere poetæ. Hujus enim fervoris
sublimes sunt effectus ut puta mentem in desiderium dicendi compellere,
peregrinas et inauditas inventiones excogitare, meditatas ordine
certo component ornare compositum inusitato quodam verborum atque
sententiarum contextu, velamento fabuloso atque decenti veritatem
contegere_.
[353] La Divina Commedia a La Harpe parve _une rapsodie informe_, a
Voltaire _une amplification stupidement barbare_. Ebbe essa ventuna
edizione nel secolo XV, quarantadue nel XVI, quattro nel XVII,
trentasei nel XVIII, più di cencinquanta nella prima metà del nostro;
diciannove traduzioni latine, trentacinque francesi, venti inglesi,
altrettante tedesche, due spagnuole; cencinquantacinque illustrazioni
di disegni o pitture. Vedi COLOMB DE BATINES, _Bibliografia dantesca_.
[354] Nota varietà di giudizj. Il padre Cesari, proclamato pedante,
ristampando i _Fioretti_ (Verona 1822) levò le uscite alla antica,
mettendovi le moderne «per togliere agli schifiltosi ogni cagione di
mordere e sprezzare questa lingua del Trecento; e così cammineranno
senza incespicare». Sebastiano Ciampi, ristampando il vulgarizzamento
d’Albertano Giudice (Firenze 1833), conserva non che le cadenze, fin
tutti gli sbagli del manuscritto, e ne fa per rogito notarile attestare
l’identità.
[355] Come tale è considerato dal TEMPESTI, _Disc. sulla storia
letteraria pisana_.
[356] Altre letterate italiane, oltre la Pisani e la Nina sicula,
nomineremo le fabbrianesi Ortensia di Guglielmo, Leonora della Genga,
Livia di Chiavello, Elisabetta Trebani d’Ascoli, Giustina Levi Perotti,
che indirizzò sonetti al Petrarca; la Selvaggia, cantata da Cino di
Pistoja; Giovanna Bianchetti bolognese, che sapeva di greco, latino,
tedesco, boemo, polacco, italiano, e di scienze filosofiche e legali.
[357] F. VILLANI nella sua vita; _Filocopo_, v. 377.
[358] Dal _Dolopathos_ il Boccaccio dedusse le novelle, 2ª della
giornata IX, 4ª della giornata VII, 8ª della giornata VIII. Contano
dieci delle sue novelle, tratte dai trovadori.
[359] Vedi _Sonetto_ 192, 121. 87. E nella _Canzone_ x:
Pace tranquilla senza alcun affanno,
Simile a quella che nel cielo eterna
Move dal loro innamorato riso
cioè degli occhi; e che da questi move
un dolce lume
Che mi mostra la via che al ciel conduce.
_Canz._ IX.
E più disteso nel _Trionfo della Morte_:
Più di mille fïate ira dipinse
Il volto mio, ch’amor ardeva il core;
Ma voglia in me, ragion giammai non vinse.
Poi, se vinto te vidi dal dolore,
Drizzai ’n te gli occhi allor soavemente,
Salvando la tua vita e il nostro onore...
S’al mondo tu piacesti agli occhi miei,
Questo mi tacio: pur quel dolce nodo
Mi piacque assai che intorno al core avei...
Fur quasi eguali in noi fiamme amorose,
Almen poi ch’io m’avvidi del tuo foco;
Ma l’un l’appalesò, l’altro l’ascose.
[360] Però anche Laura fu veduta da Petrarca il giovedì santo; Beatrice
da Dante nel luogo dove si cantava le lodi della regina di gloria; ser
Onesto bolognese s’innamorò il giovedì santo; il Firenzuola in chiesa
l’Ognissanti; e nella _Flamenca_ Guglielmo di Nevers s’invaghisce
vedendo a messa la figlia del conte di Nemours. Tali coincidenze non
hanno significazione?
[361] Son note le lunghe fatiche adoperate tra a Firenze e a Roma,
tra dagli accademici della Crusca e dal maestro del Sacro Palazzo
per allestire un’edizione purgata del Decamerone. Il Ginguené, il
Foscolo, dopo molti e seguiti da molti, non rifinano di cuculiare sopra
questo censore. Eppure, convenuto che niuno porrebbe il Decamerone
in mano a’ suoi figliuoli e neppure a sua moglie, e che, chi non
voglia i petulanti arbitrj della censura preventiva, dee sottomettersi
_Si Canis hic grandis ingentia facta peregit_
_Marchia testis adest, quam sævo marte subegit._
_Scaligeram qui laude domum super astra tulisset_
_Majores in luce mores si Parca dedisset._
Su quello di Cansignorio:
_Scaligera hac nitida cubo Cansignorius arca_
_Urbibus optatus latiis sine fine monarca._
_Ille ego sum gemine qui gentis sceptra tenebam,_
_Justitiaque meos mixta pietate regebam;_
_Inclyta cui virtus, cui pax tranquilla fidesque_
_Inconcussa dabunt famam per secla diesque._
Su quello di Mastino:
_Me dominum Verona suum, me Brixia vidit,_
_Parmaque cum Lucca, cum Feltro Marchia tota._
[301] Diversi paesi portavano il nome di ducato di Borgogna. Il re
della Borgogna cisgiurana, cioè di Arles e Provenza, capitale Vienna:
il re della Borgogna transgiurana, capitale Ginevra, che comprendeva
gran parte della Svizzera, il Lionese, porzione del Delfinato, la
Bresse, la Savoja, e di qua dai monti le valli d’Aosta, Susa, Maira; il
ducato proprio di Borgogna. I molti studj in proposito sono riassunti
nelle _Memorie cronologiche e genealogiche di storia nazionale_ del
Cibrario, e nella sua _Storia della monarchia di Savoja_. Vedi pure
GINGINS LA SERRA per l’origine dai duchi di Provenza.
[302] In una donazione all’abbazia di Pinerolo, Umberto II professa
vivere _ex nacione mea lege romana_. Il Guichenon omise queste parole
perchè contrariavano il suo sistema: noi però mostrammo che non provano
l’origine di una famiglia.
[303] _Cronaca di Evian_, ms. nell’archivio cantonale di Losanna.
[304] Quei di Magnano davansi al Conte Verde, 1373, volendo essere _sub
justæ manus dominio, potiusquam sub tyrannisantium sævissima voragine
et regimine crudeli_.
[305] Allora unico arcivescovo ne’ possessi di Savoja era quello di
Tarantasia, sotto cui la Moriana e Aosta. La Savoja propria dipendeva
dal metropolita di Vienne, come parte del vescovado di Grenoble:
gli altri paesi d’oltremonte riverivano i metropoliti di Lione e di
Besanzone; quelli qua dai monti, l’arcivescovo di Milano.
[306] Il Gioffredo, St. delle Alpi Marittime, tom. i. p. 590, trovò
confermati fin dal 1040 da Ottone e Corrado conti di Ventimiglia gli
statuti dati da un Arduino marchese d’Ivrea agli uomini di Tenda,
Saorgio, Briga, e che importano la ricognizione del diritto d’eredità
nei maschi e nelle femmine; dispensa dal combattimento giudiziale in
cause civili, surrogandovi i testimonj sacramentali, o giurati; il
conte nè i suoi non potranno pigliare in ostaggio la persona, o mettere
sequestro sui beni e sulle case d’essi uomini; questi non saranno
tenuti assistere al giudizio pubblico se non una volta l’anno per tre
giorni; nè a mandare loro dipendenti in guerra se non in caso di oste
generale; potranno far legna, adacquare, pascolare, cacciare su tutti i
dominj del conte fino al mare. È uno de’ più antichi documenti di vita
comunale. I privilegi della val di Lanzo si leggono in Cibrario, Studj
storici, pag. 302.
[307] _Lib. consil. civitatis Taurini._
[308] CIBRARIO, _Storia di Chieri_; — SCLOPIS, _Considerazioni storiche
intorno a Tommaso di Savoja e degli Stati generali ed altre istituzioni
politiche del Piemonte_. Torino 1851.
[309] Salinguerra per servizio feudale doveva ad Innocenzo III il censo
di quaranta marche d’argento; servire a proprie spese con cento militi
in Romagna e Lombardia; con cinquanta in Toscana, nelle marche d’Ancona
e di Spoleto; con venti di là da Roma e fin in Sicilia. Il servizio
doveva durare trenta giorni ogn’anno, non computando l’andata e il
ritorno. SAVIOLI, _Ann. bolognesi_, doc. 431. 444.
[310] Nel 1233 Anselmo di Vinguilia pel proprio padre Bonifazio e per
Jacopo di Casanova suo parente giura fedeltà al Comune di Genova; ed
oltre le solite convenzioni promette che, qualora esso Comune faccia
esercitare cavalcata, vi andrà come gli altri della Riviera, e uno
di loro due, o un idoneo sostituto. Se faccia armata di dieci galee,
darà sette uomini a spese proprie; e così di più o di meno in ragione,
purchè non siano meno di sei. _Liber jurium_, I. 931. Seguono altre
consimili convenzioni.
[311] GHIRARDACCI, al 1297, e lib. XIV. p. 477.
[312] _Delizie degli eruditi toscani_, X. 199. — Chiamavasi
_cavalleria, cavallata_ o _milizia_ l’obbligazione di servire a
cavallo. Determinavasi secondo gli averi a chi intiera, a chi un
quarto, a chi metà; a tale di due cavalli, a tale di un solo. Chi n’era
dispensato per età, legge o malattia, dava armi e destrieri, che il
Comune distribuiva a’ cittadini di minor sorte. Studiavansi i rettori
d’accrescere il numero delle cavallate, sia distribuendo a’ più poveri
alcuna somma di danaro a modo di prestito o di dono, sia consegnando
alle genti forestiere alcuni cavalli in socio o, come allora dicevasi,
_in adequanza_, al patto che servissero in guerra e venissero ad
abitare colle famiglie dentro le mura.
Del resto le cavallate s’imponevano solitamente ogni anno, ed a chi
possedeva oltre a cinquecento fiorini: a chi erano imposte importavano
l’obbligazione di tener un cavallo di valuta fra i trentacinque e i
settanta fiorini (fra le 854 e le 1708 lire d’oggi), e di militare ad
ogni cenno del capitano di guerra. La paga in Firenze pe’ semplici
cittadini era di quindici soldi al dì; pe’ giudici e cavalieri di
corredo, di venti. I destrieri delle cavallate primamente venivano
esaminati, stimati e descritti da uffiziali deputati a ciò; poscia
bollavansi col bollo del Comune. Caso che il cavallo per pubblico
motivo venisse guasto, morto o ferito, il danno veniva compensato al
padrone dal Comune: ciò dicevasi _emendare_. Finchè il cavallo non
fosse emendato, correva la paga al milite senz’obbligo di servizio.
Cavallo emendato contrassegnavasi per non averlo ad emendare una
seconda volta. Vedi RICOTTI, _Storia delle compagnie di ventura_.
[313] GIULINI, al 1235; — G. VILLANI, IX. 47.
[314] I fuorusciti di Ferrara nel 1271 fanno lega con Bologna,
promettendo _quod facient exercitum et cavalcatam cum commune Bononiæ,
scilicet milites ut milites, et pedites ut pedites, ad voluntatem
et mandatum communis et populi bononiensis, sicut cives civitatis
Bononiæ....; quod facient et tractabunt guerram omnibus et singulis
inimicis communis Bononiæ....; quod dicti Ferrarienses et eorum
sequaces defendent et manutenebunt toto eorum posse sicut alii cives
civitatis Bononiæ castrum bononiense factum apud Primarium_. SAVIOLI,
doc. 765.
[315] Anche i capitani successivi erano di nobili case: Werner di
Monfort, Wirtinger di Landau, Anichino di Baumgarten...; dai nostri
nominati il duca Guarnieri, il conte Lando, il Bongardo. Vedi il Cap.
CXI.
[316] G. VILLANI, IX. 182.
[317] _Novella_ 181. — Quando Pino degli Ordelaffi sconfisse la banda
della Rosa nel 1398, esso Sacchetti lo lodò in un sonetto:
Se ciaschedun signor desse le frutte
A chi le va cercando, come voi,
Le strade si terrian nette ed asciutte.
E soggiungeva in prosa: — Perchè virtuosamente avete adoperato, che ’l
simile facessono tutti gli altri signori, non mi sono possuto tenere
ch’io non v’abbia scritto.... E se in ciò si accordasse tutta Italia, e
facesse come voi, la gente barbara tornerebbe a lavorar le terre ecc.».
[318] ROSMINI, _Vita del Magno Trivulzio_, lib. IV. doc. 23.
[319] Lettera di re Roberto al duca d’Atene.
[320] Le particolarità sono di Coppo Stefani. Vedi HECKER, _Der
Schwarze Tod_. Berlino 1832.
[321] _Rer. It. Scrip._, tom. XV, cronaca di Andrea Dei. Un altro
anonimo dice, più ragionevolmente, che da sessantacinquemila bocche si
ridussero a quindicimila.
[322] Ma nel 1361 la peste scoppiò in Lombardia, desertò Como, a Novara
e Pavia consumò un terzo degli abitanti, settantasettemila in Milano,
oltre il contado. Tornò nel 74, poi nel 99, quando la sola Como, al
dire di Benedetto Giovio, perdè tredicimila persone.
[323] PETRARCA, _Ep. famil._, lib. VIII. 7.
[324] Questa singolarità eccitò la curiosità, e molti la tolsero a
soggetto di dotte dissertazioni, che crescono di continuo. In Italia,
oltre il Camposanto di Pisa, troppo noto, ne conosciamo uno poco fuori
di Como, oggi perito; uno a Santa Caterina del Sasso sul lago Maggiore;
uno sulla facciata dei Disciplini a Clusone del Bergamasco.
[325] _Cron. riminese._
[326] Probabilmente sotto Fiesole al Poggio Gherardi, e alla villa già
Palmieri detta Schifanoja e dei Trevisi.
[327] — Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri
giovani, li quali, non che altri, ma Galeno, Ippocrate o Esculapio,
avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono coi loro parenti,
compagni ed amici, che poi, la sera vegnente appresso, nell’altro mondo
cenarono colli loro passati».
Più che in tutta la retorica del Boccaccio, trovo verità in queste
parole di Panieri Sardo cronista pisano: — In del 1348, alla intrata di
gennajo, vennero a Pisa due galee di Genovesi che venivano di Romanìa;
e come furono giunti alla piazza dei Pesci, chiunque favellò con loro
di subito fue amalato e morto; e chiunque favellava a quelli malati o
toccasse di quelli morti altresì, tosto amalavano e morivano: e così
fu sparta la grande corruzione in tanto, che ogni persona morìa. E
fu sì grande la paura, che nime (nessuno) volea l’un l’altro vedere:
lo padre non volea vedere morire lo figliuolo, nè lo figliuolo volea
vedere morire lo padre, nè l’uno fratello l’altro, nè la moglie lo suo
marito. E ogni persona fuggiva la morte; ma poco li valea, che chiunque
dovea morir si moria, e non si trovava persona che li volesse portare
a fossa. Ma quello Signore che fece lo cielo e la terra, provvide bene
ogni cosa; che lo padre, vedendo morto lo suo figliuolo e abbandonato
da ogni persona (che nimo lo volea toccare, nè cucire, nè portare),
egli si recusava morto (_si dava per morto_) e poi facea egli stesso
lo meglio che potea; egli lo cucia, e poi lo mettea in della cascia,
e con ajuto lo portava alla fossa, ed egli stesso lo sotterrava; e
poi l’altro giorno egli o chiunque l’avea toccato, si era morto. Ma
benedetto Dio, che provvide di dar ajuto l’uno all’altro. Con tutto
che ciascun morie purchè egli toccasse di sue cose o denari o panni,
nondimeno non ne rimase in nessuna casa nè in sul letto nessuno a
sotterrare, che egli non fosse onorevolmente sotterrato secondo la
sua qualità: tanta carità Dio diede all’uno coll’altro, recusandosi
ciascuno morto. E dicea: _Ajutiamo, e portiamli a fossa, acciocchè
ancora noi siamo portati_». Archivio storico, tom. VI. part. ii. p.
114.
[328] Non è ben dimostrato che il De Sade trovasse il vero intorno a
questa Laura. Vedi _L’illustre châtelaine des environs de Vaucluse, e
la Laure de Pétrarque par_ HYACINTHE D’OLIVIER-VITALIS. Parigi 1843.
Anche Salvatore Betti sostiene ch’ella fosse la nobilissima Laura Des
Beaux Adhémar di Cavaillon, figlia del signore di Vaucluse, nata in
riva alla Sorga, e morta fanciulla di consunzione il 1348.
«Le trenta vite del cantore di Laura ce ne lasciano bramare una degna
di lui», scriveva il Bettinelli quasi un secolo fa, e possiamo ripeter
noi.
[329]
Perchè a me troppo ed _a se stessa_ piacque.
La rividi più bella e meno _altera_.
[330]
Con lei foss’io da che si parte il sole,
E non ci vedess’altri che le stelle....
Solo una notte, e mai non fosse l’alba,
E non si trasformasse in verda selva
Per uscirmi di braccia....
Pigmalïon, quanto lodar ti dèi
Dell’immagine tua, se mille volte
N’avesti quel ch’io sol una vorrei.
E _De contemptu mundi_, dial. III: _Nullis mota precibus, nullis victa
blanditiis, muliebrem tenuit decorem, et adversus suam simul et meam
ætatem, adversus multa et varia quæ adamantinum flectere licet spiritum
debuissent, inexpugnabilis et firma permansit._
[331] _De vita solitaria; De remediis utriusque fortunæ_.
[332] _Seniles_, 3. 6.
[333] _Apol. contra Galli calumnias._ È in ripicchio d’un anonimo che
avea confutato la lettera ove egli persuadeva Urbano V a ritornare la
sede pontifizia in Roma, dicendogli ogni male della Francia.
[334] _Opera_, pag. 170. ediz. di Basilea.
[335] Rathery, nella Memoria premiata dall’Accademia nel 1852 intorno
all’_Influenza dell’Italia sulle lettere francesi_, vorrebbe nel Roman
de la Rose riconoscere l’influenza di Dante, ch’e’ suppone amico di
Giovanni de Meun.
[336] _Audio, quo nil possem tristius, nihilque indignantius audire,
quosdam cardinales ibi esse qui murmurent se Benvense vinum in Italia
non habere_. Opera, pag. 845.
[337] Di lui scrive nelle _Epist. famil._, VII. 13: _Reges terræ
bellum literis indixerunt; aurum, credo, et gemmas atramentis inquinare
metuunt, animum ignorantiæ cæcum ac sordidum habere non metuunt. Unde
illud regale dedecus? videre plebem doctam, regesque asinos coronatos
licet (sic enim eos vocat romani cujusdam imperatoris epistola ad
Francorum regem). Tu ergo hac ætate vir maxime, et cui ad regnum nihil
præter nomen regium desit... meliora omnia de te spero._
E nell’_Epist. metr._ lib. III:
_Maximus ille virûm quos suspicit itala tellus,_
_Ille, inquam, aeriæ parent cui protinus Alpes,_
_Cui pater Apenninus erat, cui ditia rura_
_Rex Padus ingenti spumans intersecat amne,_
_Atque coronatos altis in turribus angues_
_Obstupet..._
_Adriaci quem stagna maris, thyrrenaque late_
_Æquora permetuunt, quem transalpina verentur,_
_Seu cupiunt sibi regna ducem, qui crimina duris_
_Nexibus illaqueat, legumque coercet habenis,_
_Justitiaque regit populos, quique aurea fessæ_
_Tertius Hesperiæ melioris secla metalli_
_Et Mediolani romanas contulit artes,_
_Parcere subjectis et debellare superbos._
Alla nascita d’un figlio di Barnabò cantava:
_Te Padus expectat dominum, quem flumina regem_
_Nostra vocant, te purpureo Ticinus amictu...._
_Tu quoque tranquillo votivum pectore natum_
_Suscipe, magne parens, et per vestigia gentis_
_Ire doce, generisque sequi monumenta vetusti._
_Inveniet puer iste domi calcaria laudum_
_Plurima, magnanimos proavos imitetur avosque,_
_Mirarique patrem docili condiscat ab ævo._
[338] Dodici vestiti di scarlatto erano delle case Forni, Trinci,
Capizucchi, Caffarelli, Cancellieri, Coccini, Rossi, Papazucchi,
Paparesi, Altieri, Leni, Astalti; sei di verde, delle case Savelli,
Conti, Orsini, Annibaldi, Paparesi, Montanari.
[339] _Incubui unice ad notitiam antiquitatis, quoniam mihi semper ætas
ista displicuit._ Ep. ad posteros.
[340] _Auctor venatus fuit ubique quidquid faciebat ad suum
propositum_. BENVENUTO DA IMOLA al XIV del _Purgatorio_.
[341] Il Petrarca narra che Dante fu ripreso da Can Grande, qual uomo
meno urbano e men cortese che non gli istrioni medesimi e i buffoni
della sua Corte. _Memorab._, II. Avendogli Can Grande domandato: —
Perchè mi piace più quel buffone che non te, cotanto lodato?» n’ebbe in
risposta: — Non ti maraviglieresti se ricordassi che la somiglianza di
costumi stringe gli animi in amicizia».
[342] _Sonetto_ 25. II. — Nella prefazione alle _Epistole famigliari_
dice avere scritto alcune cose vulgari per dilettar gli orecchi del
popolo. Nella VIII di esse soggiunge che per sollievo dei suoi mali
dettò «le giovanili poesie vulgari, delle quali or prova pentimento
e rossore (_cantica, quorum hodie pudet ac pœnitet_), ma che pur
sono accettissime a coloro i quali dallo stesso male sono compresi».
Nella XIII delle Senili: _Ineptias quas omnibus et mihi quoque si
liceat ignotas velim_. E scolpandosi a quei che lo diceano invidioso
di Dante: — Non so quanta faccia di vero sia in questo, ch’io abbia
invidia a colui che consumò tutta la vita in quelle cose, in che io
spesi appena il primo fiore degl’anni; io che m’ebbi per trastullo e
riposo dell’animo e dirozzamento dell’ingegno quello che a lui fu arte,
se non la sola, certamente la prima». E nella XI delle _Famigliari_
modestamente: — Di chi avrà invidia chi non l’ha di Virgilio?» Altrove
dice essersi guardato sempre dal leggere i versi di Dante, e al
Boccaccio scrive: — Ho udito cantare e sconciare quei versi su per le
piazze... Gl’invidierò forse gli applausi de’ lanajuoli, tavernieri,
macellaj e cotal gentame?» Eppure Jacopo Mazzoni (_Difesa di Dante_,
VI. 29) asserisce che il Petrarca «adornò il suo canzoniere di tanti
fiori della Divina Commedia, che può dirsi piuttosto ch’egli ve li
rovesciasse dai canestri che dalle mani». È un’arte dei detrattori
senza coraggio il deprimere un sommo col metterlo a paraggio de’
minori. Ora il Petrarca due volte menziona Dante come poeta d’amore,
ponendolo in riga con frà Guittone e Cino da Pistoja; Sonetto 257:
_Ma ben ti prego che in la terza spera Guitton saluti e messer Cino e
Dante_. Trionfo d’Amore, IV: _Ecco Dante e Beatrice, ecco Selvaggia,
ecco Cin da Pistoja, Guitton d’Arezzo_.
[343] Si confronti la descrizione della sera. DANTE, _Purg._, VIII:
— Era l’ora che volge il desìo e intenerisce il cuore dei naviganti
il dì che dissero addio ai cari amici; e che punge d’amore il nuovo
pellegrino se ode squilla da lontano che sembri piangere il giorno
che si muore». PETRARCA: — Poichè il sole si nasconde, i naviganti
gettan le membra in qualche chiusa valle sul duro legno o sotto l’aspre
gòmone. Ma perchè il sole s’attuffi in mezzo l’onde, e lasci Spagna e
Granata e Marocco dietro le spalle, e gli uomini e le donne e ’l mondo
e gli animali acquetino i loro mali, pure io non pongo fine al mio
ostinato affanno».
[344] Eppure la parola _melanconia_ nè una volta si trova nei suoi
versi.
[345] Indicò chiaramente gli antipodi e il centro di gravità della
terra; fece argute osservazioni sul volo degli uccelli, sulla
scintillazione delle stelle, sull’arco baleno, sui vapori che formansi
nella combustione (_Inf._, XIII. 40. XIV. III; _Purg._, II. 14. XV. 16;
_Par._, II, 35. XII. 10), sull’origine delle meteore acquose (_Ben sai
come nell’aer si raccoglie Quell’umido vapor che in acqua riede Tosto
che sale dove freddo il coglie_), e sulla teoria de’ venti (_il vento
Impetuoso per gli avversi ardori_), sul rapporto fra l’evaporazione
del mare e le correnti de’ fiumi (_In fin là, ’ve si rende (l’Arno)
per ristoro, Di quel che il ciel della marina asciuga, Ond’hanno i
fiumi ciò che va con loro_). Prima di Newton assegnò alla luna la causa
del flusso e riflusso (_E come ’l volger del ciel della luna, Copre e
discopre i lidi senza posa_. _Par._, XVI). Prima di Galileo attribuì
il maturar delle frutte alla luce che fa esalare l’ossigeno (_Guarda
il color del Sol che si fa vino Giunto all’umor che dalla vite cola_.
_Purg._, XXV). Prima di Linneo e dei viventi dedusse la classificazione
dei vegetali dagli organi sessuali, e asserì nascer da seme le piante
anche microscopiche e criptogame (_Ch’ogn’erba si conosce per lo seme._
Ivi, XVI; _Quando alcuna pianta Senza seme palese vi s’appiglia_.
Ivi, XXVIII). Sa che alla luce i fiori aprono i petali e scoprono
gli stami e i pistilli per fecondare i germi (_Quali î fioretti dal
notturno gelo Chinati e chiusi, poi che ’l sol gl’imbianca, Si_ drizzan
_tutti_ aperti _in loro stelo. Inf._, II); e che i succhi circolano
nelle piante (_Come d’un tizzo verde ch’arso sia Dall’un de’ capi,
che dall’altro geme E cigola per vento che va via_. Ivi, XIII). Prima
di Leibniz notò il principio della ragion sufficiente (_Intra duo
cibi distanti e moventi D’un modo, prima si morria di fame Che liber
uom l’un si recasse a’ denti_. _Par._, IV). Prima di Boussingault e
Liebig assegnò le rimutazioni della materia (_Il ramo Rende_ alla terra
_tutte le sue spoglie_). Prima di Bacone pose l’esperienza per fonte
del sapere (_Da questa istanzia può deliberarti Esperienza, se giammai
la provi, Ch’esser suol fonte a’ rivi di vostr’arti_. Ivi, II). Anzi
l’attrazione universale vi è adombrata, cantando — Questi ordini di su
tutti rimirano, E di giù vincon sì che verso Dio Tutti tirati sono e
tutti tirano» (_Par._, XXVIII). Indica pure la circolazione del sangue,
dicendo in una canzone: — Il sangue che per le vene disperso Correndo
fugge verso Lo cor che il chiama, ond’io rimango bianco». Il che più
circostanziatamente esprime Cecco d’Ascoli nell’_Acerba_:
Nasce dal cuore ciascuna arteria
E l’arteria sempre dov’è vena;
Per l’una al core lo sangue si mena,
Per l’altra vien lo spirito dal core;
Il sangue pian si move con quiete.
[346] Oltre l’argomento dedotto dal suo silenzio, vedi la confusione
che ne fa nel IV dell’_Inferno_; altrove nomina come autore di
_altissime prose_ Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio; nel
_Par._, VI. 49, fa venire in Italia gli Arabi con Annibale, ecc.; nel
_Convivio_ confessa che stentava a capire Cicerone e Boezio.
[347] Per esempio, Cino da Pistoja scrive degli occhi della sua donna:
Poichè veder voi stessi non potete,
Vedete in altri almen quel che voi siete;
e il Petrarca:
Luci beate e liete,
Se non che il veder voi stesse v’è tolto:
Ma quante volte a me vi rivolgete,
Conoscete in altrui quel che voi siete.
Cino ha un sonetto:
Mille dubbj in un dì, mille querele
Al tribunal dell’alta imperatrice, ecc.
ove figura che egli ed Amore piatiscano avanti alla Ragione, e infine
questa conchiude:
A sì gran piato
Convien più tempo a dar sentenza vera.
Petrarca riproduce quest’invenzione nella canzone _Quell’antico mio
dolce empio signore_, ove dopo il dibattimento la Ragione sentenzia:
Piacemi aver vostre quistioni udite,
Ma più tempo bisogna a tanta lite.
Confronti del Petrarca coi Provenzali fece il Galvani nelle
_Osservazioni sulla poesia de’ trovadori_. E vedi il _Paradosso_ del
Pietropoli.
[348] Però il Bembo, quel gran petrarchista che ognun sa, confessa
aver letti per oltre quaranta volte i due primi sonetti del Canzoniere
senza intenderli appieno, nè avere incontrato ancora chi gl’intendesse,
per quelle contraddizioni che pajono essere in loro; _Lettera a
Felice Trofimo_, lib. VI. E Ugo Foscolo, grande studioso del Petrarca,
interrogato sul senso della strofa famosa _Voi cui natura_, ecc., la
spiega con un _Se non m’inganno_ (Epistolario, vol. III. 46). Fin ad
ora si disputò sul senso del verso
Mille piacer non vagliono un tormento
e dell’altro
Che alzando il dito colla morte scherza.
[349] Gli aneddoti che si raccontano in contrario, e l’asserzione
del Petrarca parmi non si possano riferire che a’ versi amorosi, od
altri men conosciuti, che sono di forma affatto moderna e di concetto
semplice.
[350] Tali sarebbero i frequenti giuocherelli sul nome di Laura; tale
la _gloriosa colonna_ a cui s’appoggia nostra speranza, e il vento
angoscioso de’ sospiri, e il fuoco de’ martiri, e le chiavi amorose, e
il lauro a cui coltivare adopera _vomer di penna con sospir di fuoco;_
e la nebbia di sdegni che _rallenta le stanche sarte della nave sua,
fatte d’error con ignoranza attorto_: e i ravvicinamenti fra cose
disparate, come fra sè e l’aquila, la cui _vista incontro al Sol pur
si difende_; e il dolore che lo fa _d’uom vivo un verde lauro_. Nel
che talvolta non ha pur rispetto alle cose sacre; come là dove loda
il borgo in cui la bella donna nacque, paragonando con Cristo che
_sceso in terra a illuminar le carte, fa di sè grazia a Giudea_; e il
_vecchierel canuto e bianco, che viene a Roma per rimirar la sembianza
di colui che ancor lassù nel ciel vedere spera_, confronta a sè _che
cerca la forma vera di Laura_.
[351] Alessandro Velutello nel 1525 fu il primo che distribuì il
Petrarca in rime avanti la morte, dopo la morte di madonna Laura, e
rime varie.
[352] Un’elevata definizione della poesia leggiamo pure nel Boccaccio
(_Genealogia degli Dei_, lib. XIV, c. 7): _Poesis, quam negligentes
abjiciunt et ignari, est fervor quidam exquisite inveniendi atque
discendi seu scribendi quod inveneris, qui ex sinu Dei procedens,
paucis mentibus, ut arbitror, in creatione conceditur. Ex quo, quoniam
mirabilis est, rarissimi semper fuere poetæ. Hujus enim fervoris
sublimes sunt effectus ut puta mentem in desiderium dicendi compellere,
peregrinas et inauditas inventiones excogitare, meditatas ordine
certo component ornare compositum inusitato quodam verborum atque
sententiarum contextu, velamento fabuloso atque decenti veritatem
contegere_.
[353] La Divina Commedia a La Harpe parve _une rapsodie informe_, a
Voltaire _une amplification stupidement barbare_. Ebbe essa ventuna
edizione nel secolo XV, quarantadue nel XVI, quattro nel XVII,
trentasei nel XVIII, più di cencinquanta nella prima metà del nostro;
diciannove traduzioni latine, trentacinque francesi, venti inglesi,
altrettante tedesche, due spagnuole; cencinquantacinque illustrazioni
di disegni o pitture. Vedi COLOMB DE BATINES, _Bibliografia dantesca_.
[354] Nota varietà di giudizj. Il padre Cesari, proclamato pedante,
ristampando i _Fioretti_ (Verona 1822) levò le uscite alla antica,
mettendovi le moderne «per togliere agli schifiltosi ogni cagione di
mordere e sprezzare questa lingua del Trecento; e così cammineranno
senza incespicare». Sebastiano Ciampi, ristampando il vulgarizzamento
d’Albertano Giudice (Firenze 1833), conserva non che le cadenze, fin
tutti gli sbagli del manuscritto, e ne fa per rogito notarile attestare
l’identità.
[355] Come tale è considerato dal TEMPESTI, _Disc. sulla storia
letteraria pisana_.
[356] Altre letterate italiane, oltre la Pisani e la Nina sicula,
nomineremo le fabbrianesi Ortensia di Guglielmo, Leonora della Genga,
Livia di Chiavello, Elisabetta Trebani d’Ascoli, Giustina Levi Perotti,
che indirizzò sonetti al Petrarca; la Selvaggia, cantata da Cino di
Pistoja; Giovanna Bianchetti bolognese, che sapeva di greco, latino,
tedesco, boemo, polacco, italiano, e di scienze filosofiche e legali.
[357] F. VILLANI nella sua vita; _Filocopo_, v. 377.
[358] Dal _Dolopathos_ il Boccaccio dedusse le novelle, 2ª della
giornata IX, 4ª della giornata VII, 8ª della giornata VIII. Contano
dieci delle sue novelle, tratte dai trovadori.
[359] Vedi _Sonetto_ 192, 121. 87. E nella _Canzone_ x:
Pace tranquilla senza alcun affanno,
Simile a quella che nel cielo eterna
Move dal loro innamorato riso
cioè degli occhi; e che da questi move
un dolce lume
Che mi mostra la via che al ciel conduce.
_Canz._ IX.
E più disteso nel _Trionfo della Morte_:
Più di mille fïate ira dipinse
Il volto mio, ch’amor ardeva il core;
Ma voglia in me, ragion giammai non vinse.
Poi, se vinto te vidi dal dolore,
Drizzai ’n te gli occhi allor soavemente,
Salvando la tua vita e il nostro onore...
S’al mondo tu piacesti agli occhi miei,
Questo mi tacio: pur quel dolce nodo
Mi piacque assai che intorno al core avei...
Fur quasi eguali in noi fiamme amorose,
Almen poi ch’io m’avvidi del tuo foco;
Ma l’un l’appalesò, l’altro l’ascose.
[360] Però anche Laura fu veduta da Petrarca il giovedì santo; Beatrice
da Dante nel luogo dove si cantava le lodi della regina di gloria; ser
Onesto bolognese s’innamorò il giovedì santo; il Firenzuola in chiesa
l’Ognissanti; e nella _Flamenca_ Guglielmo di Nevers s’invaghisce
vedendo a messa la figlia del conte di Nemours. Tali coincidenze non
hanno significazione?
[361] Son note le lunghe fatiche adoperate tra a Firenze e a Roma,
tra dagli accademici della Crusca e dal maestro del Sacro Palazzo
per allestire un’edizione purgata del Decamerone. Il Ginguené, il
Foscolo, dopo molti e seguiti da molti, non rifinano di cuculiare sopra
questo censore. Eppure, convenuto che niuno porrebbe il Decamerone
in mano a’ suoi figliuoli e neppure a sua moglie, e che, chi non
voglia i petulanti arbitrj della censura preventiva, dee sottomettersi
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