Storia degli Italiani, vol. 07 (di 15) - 32

era stato espulso; i nobili, che lo esecravano, si tennero chiotti,
ed egli diede un terribile esempio col cogliere e processare il famoso
capo di ventura (29 agosto) frà Moriale. Costui da molti anni desolava
l’Italia colla sua banda; e temuto dai popoli, rispettato dai principi,
non avrebbe mai creduto che un villano osasse cercare al castigo e
all’infamia lui cavaliero, e che gli avea prestato grosse somme. Come
conobbe apparecchiarsegli da senno il supplizio, pregò, minacciò,
esibì; tutto invano; sicchè contrito, e con tutte le esteriorità
di penitente andò alla morte, baciando il ceppo fatale, e dicendo:
— Salve, o santa giustizia». Il papa fece sequestrare sessantamila
fiorini che costui avea messi a frutto presso mercadanti veneziani, e
invece di renderli ai popoli cui gli avea smunti, li versò nel tesoro
pontifizio[385].
Cola fu da Innocenzo VI riconosciuto nobile cavaliero; e se avesse
profittato della stanchezza de’ Romani, poteva ottenere la gloria ch’è
la più bella dopo una rivoluzione, quella di restauratore. Ma egli
erasi buttato al mangiare e bevere eccessivo; il terrore che ispirava,
lo credette sommessione; dacchè poi esercitava la potenza a nome del
papa, cessava di essere il balocco del popolo. Condusse le truppe ad
assediare Palestrina, dov’erasi afforzato il giovane Colonna, ma fu
costretto distogliersene per manco di denari. Per farne, mise imposte
sul sale e sul vino, le quali colmarono lo scontento de’ Romani, che
sollevatisi e gridando: — Mora il traditore che ha fatto la gabella»,
l’assalirono in palazzo. Non credendo gli minacciassero la vita,
egli aspettò quella sfuriata in abito senatorio e col gonfalone del
popolo in mano; e chiese di parlare: ma preso a sassi e fuoco, cercò
trafugarsi, e scoperto (1354 8bre) fu trucidato e appeso alle forche.
Così il popolo spezza i proprj idoli: eppure l’altezza del concetto
e una certa generosità nell’attuarlo sceverano Cola dai sommovitori
ordinarj, e lo lasciano anc’oggi tema di studj, di meditazioni, di
simpatie.
Il cardinale Albornoz e Rodolfo di Varano signore di Camerino,
comandante all’esercito pontifizio, rimisero il freno a Roma; indi
colla dolcezza e colla forza continuarono a sottomettere il patrimonio
di san Pietro, il ducato di Spoleto, la marca d’Ancona e l’altre
piccole città, in ciascuna delle quali avea fatto nido un tiranno.


CAPITOLO CXI.
Carlo IV. Il cardinale Albornoz. I condottieri italiani. Le arme da
fuoco.

I reali di Napoli stavano occupati nella guerra intestina, della
quale vedremo appresso la causa e le vicende; il papa trescava in
Avignone; l’alito repubblicano s’andava spegnendo, sicchè i tirannelli
prevalevano in ogni parte. Fra essi maggioreggiava Giovanni Visconti.
Oltre Milano di cui era arcivescovo, quindici grosse città possedeva:
Lodi, Piacenza, Borgo San Donnino, Parma, Crema, Brescia, Bergamo,
Novara, Como, Vercelli, Alba, Alessandria, Tortona, Pontremoli, Asti;
e lasciando alla cheta svampar l’amore della comunale indipendenza e
l’ira delle fazioni, a cose maggiori aspirava.
Taddeo de’ Pepoli, bell’uomo, dottore e cavaliere aurato, umano di
costumi, sereno d’aspetto, studioso e degli studiosi amico, liberale
e caritatevole, sollecito per gli amici, erasi fatto gridare signor
di Bologna (1337); le schede di tutte le corporazioni lo confermarono;
il letterato Ferino Gallucci predicò sulla felicità di una repubblica
governata da un capo. Colla libertà terminava la grandezza di Bologna,
che languì sotto dominj l’uno più stupefacente dell’altro.
I figli di Taddeo secondavano Ettore Duraforte, il quale, col titolo
di conte, era stato deputato dal papa a sottomettere i signorotti di
Romagna, e v’adoprava le bande mercenarie e tradimenti. Ma avendo
arrestato Giovanni Pepoli, Giacomo, costui fratello, prese le armi
(1350), e vedendo non potere altrimenti salvar la città, la vendette a
Giovanni Visconti. Il popolo gridava: — Noi non volemo esser venduti»;
Clemente VI facea mostra di accingersi a ripigliarla: ma le sue bande
passavano a servizio del Visconti, che le retribuiva più lautamente.
Ricorso ad altre armi, Clemente processò d’eresia costui, intimando
rilasciasse Bologna, e scegliesse fra il potere temporale e lo
spirituale. Il Visconti fece assistere i legati alla messa, che celebrò
colla magnificenza di quel capo di rito; e voltandosi a dare la finale
benedizione col pastorale in una, la spada nell’altra mano, disse a
quelli: — Riferite al papa che colla spada difenderò il pastorale».
E poichè questo insisteva a citarlo in Avignone, vi mandò forieri che
accaparrassero abitazioni, e magazzini di fieno e grano per dodicimila
cavalieri e seimila fanti: di che sgomentato, il papa gli fece
intendere bastargli la buona volontà mostrata; e per raccomandazione
e denaro lo ricomunicò (1352 — 5 maggio), e lasciogli per dodici anni
Bologna, purchè retribuisse dodicimila fiorini l’anno.
Vi fu posto governatore Giovan d’Oleggio, cherichetto del duomo
di Milano, che i Visconti aveano allevato con tanta benevolenza da
dargli il proprio nome; e accortissimo politico non men che provveduto
capitano, di là menava guerra e intrighi. Lo sorreggevano i signorotti
di Romagna, che avendo armi proprie e sapendo esercitarle, se ne
valevano sì per proprio conto, sì per guadagnare al soldo altrui;
e affine di sottrarsi all’autorità più vicina, attaccavansi al
Visconti. Firenze perseverava a sostenere la libertà pericolante, sia
prima coll’incorare Bologna, sia ora coll’opporsi al Biscione, che
cercava avvolgerla nelle sue spire. Giovan d’Oleggio invase le valli
dell’Ombrone e del Bisentino, e favorito dagli Ubaldini di Mugello, dai
Pazzi del Valdarno, dagli Albertini di Valdambra, dai Tarlati d’Arezzo,
rialzava dappertutto la bandiera ghibellina, tanto più da che i reali
di Napoli avean altro a fare che contrastarlo. Però Siena, Perugia,
Arezzo s’accomunarono con Firenze in una lega guelfa che resistette
generosamente a Giovanni, finchè a Sarzana (1353) fu conchiusa
pace[386].
Non meno che le repubbliche, i signori ingelosivano dell’incremento dei
Visconti; e quei di Mantova, Ferrara, Verona, Padova, a sollecitazione
della signoria di Venezia, fermarono alleanza per reprimerli, e
chiesero appoggio all’imperatore Carlo IV. Fingendo prendere a cuore
le sorti d’Italia, ma in fatto perchè ricordava che si potea smungerne
danaro, diede egli ascolto ai nemici di casa Visconti e ai Fiorentini
che lo invitavano; e col consenso di papa Innocenzo VI, al quale avea
promesso cassare tutti gli atti di Lodovico il Bavaro, passò le Alpi
con alquanti baroni (1354 — 8bre), de’ cui obblighi feudali il più
ilare appunto era questa pomposa comparsa in Italia. Ma quali rimasero
e amici speranti e nemici paurosi quando il videro giungere a Udine
con nulla più che trecento cavalieri, e «traversar l’Italia sopra un
ronzino fra gente disarmata, quasi un mercante cui preme d’arrivare
alla fiera!» (M. VILLANI).
Strani imperatori codesti! venivano con forza? erano odiati; senza?
disprezzati. Pure a questo porporato fantoccio i letterati prodigavano
latine adulazioni, i giuristi rammemoravano i diritti imperatorj,
Ghibellini e tiranni volontieri faceano capo a lui, invocandolo giudice
ne’ litigi. Mentre ambasciadori di tutti i paesi sciorinavangli
erudite dicerie, sua maestà baloccavasi a sbucciare col temperino
virgulti di salice: mal dissimulò la paura quando i Visconti faceano
due o tre volte il giorno sfilare seimila cavalli e diecimila pedoni
in armi e ben in arnese davanti al palazzo ove l’aveano accolto ad
onoranza. S’intromise di qualche pace: a Giovanni Paleologo marchese di
Monferrato confermò la signoria di Torino, Susa, Alessandria, Ivrea,
Trino, e d’oltre cento castelli, e il titolo di vicario imperiale:
quanto ai diritti, egli non istava a guardare per minuto; chè questi,
e il titolo regio e l’imperiale gli piacevano soltanto per avere alcuna
cosa da poter farne denari onde abbellire la sua Praga.
A Lucca era stato governatore al tempo di suo padre, e v’avea
fabbricato la bellissima fortezza di Monte Carlo, che chiude il
territorio verso val di Nievole, fronteggiando i Fiorentini (1355).
Ora i Lucchesi sperarono essere da lui rimessi in libertà; ma egli già
s’era obbligato con Pisa, che gli avea esibito sessantamila fiorini
per le spese di sua coronazione. Venuto a questa città, straziata
fra Bergolini e Raspanti, e gridatone sovrano, per sospetto manda
al supplizio la casa Gambacurti, che per lui s’era sagrificata: ma
poco poi essendosene pentiti i Pisani, egli rinunzia alla sovranità.
Altrettanto gli avviene di Siena, la cui oligarchia artigiana v’era
stata indotta, come l’altra, dal timore di Firenze.
E Firenze, che dapprima l’avea chiamato, si sgomentò vedendolo
farsi capo della nobiltà avversa alle istituzioni cittadine (1355),
e lusingare il basso popolo col promettere giustizia. I partigiani
dell’imperatore asserivano che i governi municipali s’intendessero
costituiti soltanto in sua assenza, e al comparire di lui cessasse
ogni autorità, ogni restrizione, come avveniva (diceano) degli antichi
imperatori romani. I Guelfi di rimpatto frugavano nell’erudizione la
libertà, mostrando che Augusto e Tiberio s’erano mantenuti subordinati
al senato e al popolo; mentre tutte le genti erano ad essi tributarie,
_essi ai cittadini obbedivano_, la cui autorità li creava. I Comuni
toscani, ammessi fra i primi alla romana cittadinanza, traevano di
là il diritto a godere della libertà del popolo romano, in nessun
modo sottoposta alla libertà dell’impero; e questo popolo medesimo,
non da sè, ma la Chiesa per lui, in sussidio de’ fedeli cristiani
concedette l’elezione degl’imperatori a sette principi d’Alemagna[387]:
e consideravano come peccato il sottomettersi agli imperatori. Pure
Firenze credette che poco nocesse il riconoscere la supremazia d’un
principe che presto se n’andrebbe, e col denaro risparmiarsi una
guerra; laonde giurò vassallaggio a Carlo, purchè egli la assolvesse
da tutte le condanne lanciatele da Enrico VII, confermasse le leggi e
gli statuti fatti e da farsi; i membri della Signoria fossero vicarj
dell’imperatore, e in nome di lui esercitassero la giurisdizione;
egli non mettesse piede nè in Firenze nè in altra città murata, ma
s’accontentasse di centomila fiorini per riscatto delle regalie, poi
di quattromila annui, finchè vivesse. I Guelfi (Matteo Villani ce
l’esprime) trovavano obbrobriosa questa soggezione, sebben nominale;
il popolo la sentì fra gemiti e singhiozzi; non s’interveniva alle
adunanze, non si sonavano campane, e ci volle tutta la erudizione de’
prudenti per mostrare che l’indipendenza della patria non era perduta.
Il Petrarca amava Carlo IV perchè in Avignone avea voluto vedere
madonna Laura, e per ammirazione baciarla, mostrato molta riverenza
al poeta stesso, e chiestogli la dedica del suo libro _Degli uomini
illustri_; esso gli regalò alquante medaglie d’oro e d’argento
d’imperatori, dicendogli: — Ecco a chi tu succedi; ecco i modelli
che devi seguire. Io conosco i costumi, i titoli, le imprese di
costoro; tu se’ obbligato non solo a conoscerle, ma a imitarle». Tutto
classiche reminiscenze, il Petrarca desiderava restaurata la dignità
d’Augusto e di Costantino, e avea scritto sollecitando Carlo: — Invano
all’impazienza mia tu opponi il cangiamento de’ tempi, e lo esageri
in lunghe frasi che mi fanno ammirare in te piuttosto l’ingegno di
scrittore, che l’animo d’imperatore. Possono forse i mali nostri
paragonarsi a quei degli antichi, quando Brenno e Pirro e Annibale
sperperavano Italia? Le piaghe mortali che nel bel corpo io veggo
dell’Italia, son colpa nostra e non natural cosa. Il mondo è ancora
lo stesso, lo stesso il sole, gli stessi gli elementi; soltanto il
coraggio diminuì. Ma tu sei eletto ad uffizio glorioso, a togliere le
disformità della repubblica, e rendere al mondo l’antica sua forma:
allora agli occhi miei sarai Cesare vero, vero imperatore».
Consigliandolo di porsi a capo degli uomini dabbene, gli dava per
esempio Cola di Rienzo. — Egli non era re nè console nè patrizio,
ma appena conosciuto per cittadino romano; e benchè non distinto da
titoli di antenati nè da virtù proprie, osò chiarirsi risarcitore
della pubblica libertà. Qual titolo più illustre? La Toscana subito
a lui si sottomise; Italia tutta seguì l’esempio; l’Europa, il mondo
intero si commosse: e già la giustizia, la buona fede, la sicurezza
erano tornate, già ricompariva l’età dell’oro. Aveva egli assunto il
titolo più infimo, quel di tribuno; col quale se tanto potè, che non
potrebbe il nome di Cesare?» E quando l’udì arrivato, non capiva in sè
dalla gioja, e — Che dirò? donde comincierò? Longanimità e pazienza
io desiderava nell’aspettanza mia: or comincio a desiderare di ben
comprendere tutta la mia felicità, di non essere inferiore a tanta
gioja. Più non sei tu il re di Boemia; il re del mondo sei, l’imperator
romano, il vero cesare. Tutto ritroverai disposto com’io t’assicurai,
il diadema, l’impero, gloria immortale, e la strada del cielo aperta.
Io mi glorifico, io trionfo d’averti colle parole mie animato. Noi ti
reputiamo italiano; nè importa dove sii nato, ma a quali imprese. E
non io solo verrò a riceverti nel calar dall’Alpi, ma meco infinita
turba, tutta Italia madre nostra, e Roma capo dell’Italia, ti si fanno
incontro cantando con Virgilio: _Venisti tandem, tuaque expectata
parenti Vicit iter durum pietas_»[388].
Or bene, questo re glorioso avea dovuto lasciare in pegno a Firenze
il proprio diadema, finchè i Senesi glielo riscattarono per mille
secentoventi fiorini: avea promesso al papa di non badarsi in Roma
più che una sola giornata; onde, essendovi giunto alquanto prima,
entrò incognito da pellegrino, tanto per visitarne i monumenti.
Splendidissima fu la solennità della coronazione, gareggiando di
sfarzo l’arcivescovo di Salisburgo, i duchi di Sassonia, d’Austria,
di Baviera, i marchesi di Moravia e Misnia, il conte di Gorizia ed
altri, calati coll’imperatore. Il quale, per nulla geloso d’abbassare
la dignità imperiale davanti alla pontifizia, addestrò il cavallo del
papa insieme con Giovanni Paleologo imperatore d’Oriente, venuto ad
abjurare lo scisma; servì da diacono alla messa, ebbe la corona, e il
dì medesimo uscì per andarsene. — Fugge senza che alcuno l’insegua
(esclamava il disingannato Petrarca); le delizie d’Italia gli fanno
ribrezzo; per giustificarsi dice aver giurato di non rimanere che una
giornata a Roma: oh giornata d’obbrobrio! oh giuramento deplorabile!
il papa, che rinunziò a Roma, non vuole tampoco che altri vi
s’indugi!»[389].
I signorotti e le truppe ch’erano venute con esso, si sbandarono da
che lo spettacolo fu terminato. A Pisa, di cui nominò cavaliere e
vicario Giovanni d’Agnello, volle fare una scelta, coronando il retore
fiorentino Zanobio Strada coll’alloro, che non valse a mantenergli la
gloria di poeta. Per via, a Siena, dove volea riformare il governo, è
assediato in palazzo, poi datigli ventimila fiorini perchè se ne vada:
dappertutto lo insultano, ed egli inghiotte; i Visconti gli chiudono
le porte in faccia, ed egli inghiotte; a Cremona è tenuto due ore fuor
delle mura mentre si esaminava la sua gente, di cui solo un terzo si
lasciò entrare e senz’armi; a Soncino altrettanto, e a Bergamo[390]; ed
egli inghiotte, consolandosi nel pensare ai tesori che riporta nella
sua Boemia. Così giunse bramato dai deboli, temuto dai forti, e partì
sprezzato da tutti, sempre più convincendo che queste calate imperiali
riuscivano di reciproca ruina.
Allora dalla corona germanica si staccarono e il contado Venesino,
venduto da Giovanna di Napoli ai papi, e il Delfinato, ceduto al re di
Francia, e la Provenza, che pur essa divenne provincia francese; poi,
per raccogliere i centomila fiorini che ciascun elettore pretendeva in
pagamento del dare a suo figlio Venceslao il voto per l’impero, egli
cedette dominj, città, diritti imperiali, sicchè ben si disse aver lui
rovinato la sua casa per ottenere l’impero, poi per ringrandire sua
casa rovinato l’impero, dove parve anche, colla sua predilezione per la
Boemia, volere far prevalere la stirpe slava alla tedesca.
Eppure forse nessun imperatore potè vantarsi d’avere goduto estesa
quanto lui la prerogativa imperiale. Condusse in Germania il celebre
Bàrtolo da Sassoferrato, «stella della giurisprudenza, maestro
della verità, lanterna del diritto, guida de’ ciechi», e gli conferì
l’allora nuovo, poi prodigato titolo di conte palatino[391], e da
lui fece compilare la Bolla d’oro (1356), costituzione dell’Impero,
dove venivano determinati i diritti sempre perplessi degli elettori,
rendendo stabili anche le grandi dignità secolari; e il modo d’eleggere
i re e coronarli ad Aquisgrana; oltre molte norme per la pace pubblica
e per le diete. Con ciò sodandosi le attribuzioni e il potere degli
elettori, restavano impiccioliti gli altri principi di Germania, e
stabilita la divisione di questo paese in varj Stati sovrani, nel tempo
che gli altri regni d’Europa stringevansi all’unità e all’ereditaria
successione; si escludevano i papi dal vicariato che negl’interregni
pretendevano, destinandolo al palatino del Reno e all’elettore di
Sassonia.
Più che non la discesa di Carlo giovò ai Fiorentini e ai Guelfi la
morte dell’arcivescovo Visconti. I nipoti Bernabò e Galeazzo II
succedutigli (1354) non cessarono d’ambire Firenze, ma ne furono
impediti dalle guerre che ripullulavano coi signori di Monferrato,
d’Este, della Scala, di Gonzaga, di Carrara. A Pavia tiranneggiavano
i Beccaria, signori delle terre e dei tredici colli sulla destra
del Ticino, ed ora si faceano vicarj de’ Visconti (1356), ora del
marchese di Monferrato. Rottasi guerra fra questi, Pavia si chiarì
pel marchese, onde fu dai Visconti assediata. E cadeva, se Jacopo
Bussolari, frate eremitano che vi predicava quella quaresima, e
d’uomini e donne erasi guadagnata la devozione, non avesse incorato a
difendere l’indipendenza, accagionando di tutti i mali le disoneste
portature femminili, la scostumatezza, l’egoismo de’ dominanti e
dei dominati. Ne pianse il popolo e si emendò; i signori dapprima ne
risero, poi s’ingrossirono, e dopo ch’egli ebbe guidato la gioventù
a respingere gli assediatori, essi fecero opera di torgli la fama e
la vita. Se ne rincalorì il valente frate, e persuadendo i Pavesi
a qualunque sagrifizio per sostenere la libertà, fece cacciare i
Beccaria, che allora unitisi ai Visconti, cavalcarono la città. A forze
tanto superiori non potendo questa resistere, il Bussolari capitolò,
stipulando il perdono ai cittadini e nulla per sè; onde, preso (1359
— 8bre), fu mandato a consumar nel _vade in pace_ d’un monastero di
Vercelli[392].
Ma altrove le fortune viscontee chinavano. Genova, che nelle traversie
avea fatto getto di sua libertà, nelle vittorie ne ripigliò l’amore,
e si sottrasse al Visconti, risarcendo il governo a comune e il doge
Boccanegra, che continuando a sottigliare la nobiltà, stette in dominio
fin agli ultimi suoi giorni (1356 — 15 9bre); e i Fieschi e loro amistà
dovettero acconciarsi al nuovo ordine di cose.
Il cardinale Albornoz avea proseguito la guerra in Romagna, più
agevolmente dopo ch’ebbe con lunga campagna sottomesso il prefetto
Giovanni da Vico. Mal provveduto a denaro dalla Corte d’Avignone, vi
suppliva coll’arte, coll’alternare rigore e clemenza, col guadagnarsi
i signorotti per mezzo di concessioni che davano una specie di
legittimità al loro dominio, e col sostenere i minori contro i grossi,
e secondare le rivalità e le vendette. Eccellente cooperazione,
massime contro i Malatesta, gli prestò Gentile da Mogliano signore di
Fermo, che poi gli si rivoltò. Giovanni Manfredi signore di Faenza,
Malatesta signore di Rimini, i Polenta di Ravenna, gli Ordelaffi di
Forlì conobbero tardi il bisogno d’unirsi nel comune pericolo (1354),
ma furono costretti a cedere un dopo l’uno, per lo più riservandosi di
governare a vita i paesi che aveano tiranneggiati.
Solo resisteva Francesco degli Ordelaffi signore di Forlì,
Forlimpopoli, Cesena, Castrocaro, Bertinoro ed Imola; quando udì la
campana che annunziava la sua scomunica, fece sonare tutte le altre,
scomunicando egli a vicenda papa e cardinali; agli amici diceva:
— Non per questo ci sa men buono il pane e il vino»; e martorò
molti preti che vollero osservare l’interdetto. Insieme sollecitava
tutti i Ghibellini d’Italia, assoldò le bande del conte Guarnieri,
e dichiarossi disposto a difendere sin all’estremo una città dopo
l’altra. Affidò Cesena a sua moglie madonna Cia (1356), degli Ubaldini
signori di Susinana, «che si chiuse nella rôcca con Sinibaldo suo
giovane figliuolo, e con due piccoli nipoti, e con una fanciulla
grande da marito, e con due figliuole di Gentile da Mogliano, e
cinque damigelle. Ed essendo stretta d’assedio, e combattuta da otto
edificj che continovo gittavano dentro maravigliose pietre, non avendo
sentimento d’alcun soccorso, e sapendo che le mura della rôcca e
delle torri di quella per li nemici si cavavano, maravigliosamente si
teneva, atando e confortando i suoi alla difesa. E stando in questa
durezza, Vanni suo padre andò al legato, e impetrò grazia di andar
a parlare colla figliuola, per farla arrendere con salvezza di lei
e della sua gente. E venuto a lei, essendo padre e uomo di grande
autorità e maestro di guerra, le disse: Cara figliuola, tu dèi credere
ch’io non sono venuto qui per ingannarti, nè per tradirti del tuo
onore. Io conosco e veggo che tu e la tua compagnia siete agli estremi
d’irremediabile pericolo, e non ci conosco alcuno rimedio, altro che di
trarre vantaggio di te e della tua compagnia, e di rendere la rôcca al
legato. E sopra ciò le assegnò molte ragioni perchè ella il dovea fare,
mostrando ch’al più valente capitano del mondo non sarebbe vergogna,
trovandosi in così fatto caso. La donna rispose: _Padre mio, quando
voi mi deste al mio signore, mi comandaste che sopra tutte le cose
io gli fossi ubbidiente: e così ho fatto in fino a qui, e intendo di
fare fino alla morte. Egli m’accomandò questa terra, e disse che per
niuna cagione io l’abbandonassi, o ne facessi alcuna cosa senza la sua
presenza, o d’alcun secreto segno che m’ha dato. La morte e ogni altra
cosa curo poco, ov’io obbedisca a’ suoi comandamenti_. L’autorità del
padre, le minaccie degli imminenti pericoli, nè altri manifesti esempj
di cotanto uomo poterono smovere la fermezza della donna; e preso
commiato dal padre, intese con sollecitudine a provvedere la difesa
e la guardia di quella rôcca che rimasa l’era a guardare, non senza
ammirazione del padre e di chi udì la fortezza virile dell’animo di
quella donna»[393].
Alfine essa fu costretta a capitolare (21 giugno); l’Ordelaffi stesso,
perduta ogni speranza nelle bande mercenarie, si rese a discrezione,
e fu assolto; e la Romagna, ove l’Albornoz non avea trovati soggetti
che Montefalco e Montefiascone, tutta rientrò nell’obbedienza del
pontefice. A ragione dunque il cardinale era ricevuto con sommi onori
dappertutto, massime ad Avignone, ove fu acclamato _padre della Chiesa_
in senso così diverso dall’antico.
Restava ancora Bologna sotto la verga di ferro di Giovanni d’Oleggio,
il quale, dopo che, a un suo ordine, vide affluire l’onda di cittadini
a consegnare le armi, prese tanta baldanza che li menò in campo con
soli bastoni, e colà distribuì loro le armi, che poi ritogliea dopo
la battaglia. In tempo di tante ambizioni riuscite, perchè egli
pure non avrebbe tentato sua ventura? Ribellatosi a’ Visconti, si
fece gridare signore di Bologna; reprimeva con estremo rigore le
trame interne, mentre guardavasi dagli stili e dalle lusinghe di
Bernabò, cui nel tempo stesso mandava blandizie e soccorsi contro
il marchese di Monferrato. Bernabò, che mai non conobbe gratitudine,
non gli sapeva perdonare la rivolta; e sbarazzatosi del marchese di
Monferrato col sottrargli a denaro i mercenarj del conte Lando e di
Anichino, li lanciò addosso all’Oleggio (1360). Questi, assalito da
tremila cavalieri, millecinquecento Ungari, quattromila fanti, mille
alabardieri, non amato dai popoli, non soccorso da vicini, esibì
vendere Bologna a chi la volesse; e l’Albornoz strinse il contratto,
assegnando a vita all’Oleggio Fermo e il suo territorio.
In Bologna fra i soliti schiamazzi di _Viva la Chiesa_ fu rimesso il
governo municipale e richiamati gli esuli: ma Bernabò adontato proseguì
guerra di devastazione; e l’Albornoz, non potendo trar soccorsi nè da
Avignone nè dai vicini potentati, dopo consunti trentamila ducati e
gli argenti suoi proprj, chiamò settemila Ungheri, feccia di gente,
che sperando le indulgenze assassinarono il bel paese. Bernabò seppe
comprarle per sè, e mentre ad Avignone movea lamenti che gli si negasse
una città per dodici anni concessa a suo zio, si sfogava perseguitando
gli ecclesiastici; nè quelle codarde guerre furono cessate tampoco
dalla peste, che recata dalle bande inglesi, qui si rinnovò nel 1361, e
vuolsi che nella sola Milano troncasse settantasettemila vite.
Bernabò, che se n’era schermito col sequestrarsi rigorosamente nel
castello di Melegnano, appena essa cessò ricomparve, e gridò — Voglio
Bologna», e cercò sorprenderla, comprando bande e rialzando i vinti
signorotti: sicchè l’Albornoz (1362) rannodò i signori della Scala,
d’Este, di Carrara a difendere la Chiesa, di cui non erano ombrosi,
contro il Visconti temuto, e allora scomunicato da Urbano V: la
lega contro di lui fu sostenuta da una bandiera imperiale, e prese a
stipendio la Grande Compagnia; e la battaglia di San Rafaello (1363 —
16 aprile) tolse a Bernabò la speranza di sovrastare ai pontifizj.
Egli non cessava di negoziare ad Avignone, mentre combatteva
con variati successi. Godeva allora gran reputazione di santità
Pier Tommaso di Sarlat, dalla povertà salito colla virtù e colla
predicazione al favore del papa, che lo deputò nunzio apostolico nel
regno di Napoli, poi in Germania, in Bulgaria, e che infervoratosi
a crociar l’Europa contro i Turchi allora minaccianti, riconciliò
i Veneziani col re d’Ungheria, cercò riunire la Chiesa greca colla
latina, guidò spedizioni contro que’ barbari, e trasse il re di Cipro
in Europa per sollecitare la crociata. A questa recava impedimento
la guerra contro Bernabò, logorando le entrate della Chiesa, onde si
cercò pacificarlo inviando a Milano Pier Tommaso[394]; e fu segnato
un accordo (1364 — 8 marzo) ove Bernabò rinunziava a Bologna, ma
contro l’enorme prezzo di cinquecentomila fiorini, la restituzione dei
prigionieri, e che l’Albornoz fosse rimosso da quella legazione.
Costui, destro anche nella politica, avea raccolto in Roma i deputati
di tutte le città sottoposte, e pubblicate per loro le _Costituzioni
egidiane_ (1357), che rimasero il vero diritto pubblico della Romagna:
accolte con applauso unanime, ebbero credito pari al gius canonico, e
i papi ne raccomandarono poi sempre l’osservanza, come opportunissima
agli Stati pontifizj. Non impiantava di nuovo, come si pretende oggi,
ma riformava il vecchio col senso pratico e colla conoscenza degli
uomini e delle cose.
Avendo il papa domandato conto all’Albornoz delle somme spese in
quei quattordici anni, esso gli mandò un carro di chiavi delle città
soggettate. Alla morte di Innocenzo VI avrebbe potuto facilmente
succedergli; ma non se ne diè briga, e continuò a regolare le Marche e
il Patrimonio di san Pietro finchè morì a Viterbo (1367 — 24 agosto),
legando moltissime limosine e di che fondare in Bologna un collegio con
giardino e sale e ogni occorrente per ventiquattro giovani spagnuoli.
L’Italia restava ancora alla mercede de’ venturieri. Corrado Wirtinger
di Landau militava nelle bande di frà Moriale; e allorchè questi perì
sotto la mannaja di Cola Rienzi, le conservò attorno a sè coll’ordine
a cui quegli le aveva abituate, e rese terribile all’Italia i nomi di
conte Lando e di Grande Compagnia, che fu dato a lui ed a’ suoi.
Una bella Tedesca pellegrinando a Roma pel giubileo, era stata a
Ravenna violentata da Bernardino da Polenta, e non volle sopravvivere
all’oltraggio. Due suoi fratelli scesero in Italia, senz’altra
provvigione che il proprio sdegno; lo comunicarono al conte Lando, il
quale, a vendetta de’ suoi compatrioti, menò la Compagnia a desolare