Storia degli Italiani, vol. 07 (di 15) - 28
fiorentina per darsi a Pisa, che ridiveniva capo della Toscana; mentre
Siena durava indipendente e metteva freno a’ nobili campagnuoli.
In quei disastri, ciascuno trovandosi obbligato a riparare colle
forze proprie, le conosce e vuole esercitarle, sicchè la democrazia
prevale. E già ne’ passati tempi per mozzare la potenza dei nobili
si agevolavano ai servi le guise di venir liberi, od accogliendoli
ne’ Comuni, o sorreggendoli nelle querele contro i padroni. Ora
a quattordici persone coll’arcivescovo fu data balìa di riformare
d’uffizj Firenze; e giacchè tutti aveano cooperato a spezzare la
tirannide, accomunarono a’ magnati un terzo delle cariche. Ma questi,
appena uscirono dallo anteriore svilimento, trascesero la civile
modestia, non soffrendo eguali ne’ privati o superiori ne’ magistrati;
sicchè da un lato crescendo le insolenze, dall’altro i dispetti, il
popolo, inizzato da Giovan della Tosa, insorse contro le famiglie,
abbattendone i palazzi, segnatamente que’ de’ Bardi e Frescobaldi, e
riordinò a signoria di plebe la città, divisa in quartieri, invece
dei sesti. I nobili restavano esclusi dalle magistrature; finchè,
lentato il rigore, si accettarono molti casati fra’ popolani. «E nota
e ricogli, lettore (avverte qui il Villani), che in poco più d’un anno
la nostra città ha avuto tante rivolture, e mutati quattro stati di
reggimento: prima signoreggiò il popolo grasso, e guidandosi male, per
loro difetto venne alla tirannica signoria del duca; cacciato il duca,
ressono i grandi e popolani insieme, tutto fosse piccolo tempo e con
uscita di gran fortuna; ora siamo al reggimento quasi degli artefici e
minuto popolo. Piaccia a Dio che sia esaltamento e salute della nostra
repubblica; ma mi fa temere per li nostri peccati e difetti, e perchè i
cittadini sono vuoti d’ogni amore e carità tra loro, ed è rimasa questa
maledetta arte in quelli che sono rettori, di promettere bene e fare il
contrario».
Qui nuovo flagello percosse non la Toscana sola ma tutto il mondo. Per
la nessuna precauzione nel comunicare coi paesi di Levante, facilmente
ricorreva la peste, che il 1340 rapì dodicimila persone alla sola
Firenze, moltissime e delle meglio stanti a Siena, talchè fu vietato
di sonar le campane, o radunarsi a mortorio, o mandare attorno, come
si soleva, banditori ad annunziare i defunti. Poco poi una nevata
straordinaria corruppe i seminati, donde seguì gravissima strettezza
di vettovaglie. Firenze non badò a spese, e consumati cinquantamila
fiorini d’oro a tirare grano, lo distribuiva in tal quantità, che
novantaquattromila persone riceveano pane dal pubblico, non negandolo
a verun forestiero nè pellegrino o villano; furono sciolti di carcere
gl’indebitati verso il Comune, concesso di redimersi col quindici
per cento dalle vecchie multe. Pure la fame affralì i corpi, e li
predispose ai guasti di quella che chiamarono la morte nera. La
precedettero stranissime meteore, disastrosi tremuoti, vascelli
sobbissati, voragini aperte, che per più giorni arsero infiniti spazj;
poi il nembo spinse innumerevoli cavallette in mare, i cui cadaveri
rigettati sulla riva, finirono d’appuzzare e corromper l’aria; e un
nebbione coprì lungamente la Grecia.
Il morbo scoppiò nella Cina (1348), poi nell’India, nella Persia,
nell’Armenia, nell’Egitto e nella Siria con tal furore, che al Cairo
perivano da dieci a quindicimila persone al giorno; ventiduemila ne
perdette Gaza in sei settimane, e quasi tutti gli animali. A Cipro fu
recato dal vivissimo commercio; così nelle altre isole dell’Arcipelago
e alla foce del Don. I mercanti italiani, numerosi per tutti quei
porti, cercarono salvezza fuggendo; ma otto galee genovesi, salpate dal
mar Nero, approdando in Sicilia, aveano già perduto tanto equipaggio,
che quattro furono abbandonate; gli altri sbarcando comunicarono il
male, che presto ammorbò quell’isola, la Corsica, la Sardegna, le coste
del Mediterraneo, la Toscana.
I sintomi variavano secondo i paesi, anzi dal cominciamento al
dechino della malattia. Da noi per lo più manifestavasi con febbre
violenta, poi delirio, stupore, insensibilità; la lingua e il
palato illividivano; fetidissimi il fiato, il sudore, le dejezioni;
insaziabile sete; a molti sopragiungeva violenta peripneumonia con
emorragie di pronto esito; e macchie nere e sozzi gavoccioli rivelavano
la cancrena. Alcuni cadeano come di colpo; i più perivano il primo
giorno; fortunato cui succedevano ascessi esterni: ma rimedj umani
non menomavano il male, e il minimo contatto bastava a comunicarlo.
Invano si fecero processioni di reliquie, si portò il tabernacolo
devotissimo dell’Impruneta attorno per Firenze gridando misericordia, e
davanti a quella facendo gran paci di quistioni e di ferite. Fuggivasi
alla campagna, ma la morte veniva a disabbellirla. I medici che
sopravivessero, voleano smisurato prezzo in mano, a appena col viso
addietro stendere le dita a tastar il polso, e da lungi veder le orine
con essenze odorifere al naso. Quei medesimi che a principio per arte,
per carità, per prezzo studiavano gl’infetti, gli abbandonavano poi a
morire nell’isolamento, fossero anche i padri, i figli, i mariti; se
l’infermo si trovasse confortato, facevasi alla finestra, e stava buon
tempo innanzichè passasse persona; e quando fosse udito, o non gli
era risposto, o non soccorso; molti morivano così senza sacramenti,
e stavano sul letto finchè la puzza annunziasse che là entro erano
cadaveri, e i vicini per borsa mandavano a raccoglierli e sepellire
senza pietà d’esequie. I becchini esigevano tal ricompensa, che molti
vi arricchirono, come arricchirono speziali, pollajuoli, trecche di
malva, d’ortiche e d’altre erbe d’impiastri: smisuratamente valevano
i confetti, e lo zucchero fin tre in otto fiorini la libbra, e bazza
chi ne trovasse: non aveasi più cera, non bare e stamigne, delle quali
usavasi ai morti: lanajuoli e ritagliatori che si trovarono panni
bruni, li vendettero a peso d’oro[320].
A tal modo Firenze perdette centomila abitatori, altrettanti Venezia,
Pisa sette ogni dieci, Siena ottantamila in quattro mesi se si credesse
a un cronista, il quale soggiunge che «morivano uomini e donne quasi di
subito; ed io Angelo di Tura sotterrai i miei figliuoli in una fossa
con le mie mani, ed il simile fecero molti altri»[321]. Quarantamila
ne pianse Genova, Roma censessantamila, e così Napoli, e fra tutto il
Regno cinquecentotrentamila; in molti luoghi non rimase che un decimo
degli abitanti, a Trapani nessuno: cinquecentomila perirono in Sicilia,
quasi tutti quelli di Cipro. Trovaronsi vascelli erranti a grado
dell’onde, essendo perito tutto l’equipaggio; la messe e la vendemmia
infradiciarono non côlte; a Bologna Taddeo Pepoli faticò a tirar grano
e tenerlo a basso prezzo, ma entrato il morbo, moltissime famiglie
terminarono, delle quali dà la lista il Ghirardacci.
Luchino Visconti orlò i confini del Milanese di forche, dove appendere
chiunque li varcasse, col che tenne immune il paese, come fu pure di
Parma e del Piemonte[322]. Passò poi la morte nera in Savoja, nella
Spagna, nelle Baleari, in Francia, ove la sola Parigi dava cinquecento
vittime al giorno, Vienna d’Austria milleseicento; ad Avignone durò
sei mesi, uccidendo sette cardinali e duemila persone: in Inghilterra
per nove anni mietè cinquantamila vite l’anno; l’Irlanda ne rimase
deserta: insomma dicesi che se ne portasse un terzo d’Europa; ove
rimase spaventevolmente ricordata. «Non fia creduto ai posteri che
siavi stata un’età in cui il mondo rimase quasi totalmente spopolato, e
le case di famiglia vuote, e di cittadini le città, e le campagne senza
lavoratori. Come lo crederanno gli avvenire, se noi medesimi a fatica
prestiamo fede ai nostri occhi? Usciti di casa, scorriamo le vie, e le
troviamo piene di morti e di morenti: tornati fra le domestiche pareti,
più nessuno troviamo di vivo, essendo tutti morti nella breve nostra
assenza. Fortunati i posteri, a cui tali calamità sembreranno finzioni
e sogni»[323].
Le analogie de’ sintomi con quelli dell’avvelenamento fecero supporre
che una malizia, smisurata quanto il male, propagasse ad arte la morte:
principalmente imputavansi gli Ebrei di avvelenare le fonti, e per
Germania e Spagna fu fatto strazio di questi infelici, dei quali papa
Clemente VI attestò l’innocenza e diede loro ricovero in Avignone.
Alcuni vedevano in quel flagello la punizione divina perchè si
violavano la domenica e il digiuno, e si commettevano adulterj, usure,
bestemmie; e si bucinò che in Gerusalemme fosse arrivata una lettera
dal cielo, ove diceasi che Cristo non concederebbe misericordia se
ognuno non si flagellasse e andasse ramingo per trentaquattro giorni.
Pertanto moltissimi buttavansi alle penitenze, alle macerazioni, e
si rinnovarono le scene de’ Flagellanti, che a centinaja passavano di
terra in terra, con litanie e miserere, ed anche con superstizioni di
miracoli e liberazione d’ossessi, e dogmi nuovi e strani. Fu profuso a
cause pie quel che ritenere non si potea, e di venticinquemila fiorini
l’ospedale di Santa Maria Nuova, di trecencinquantamila la Compagnia
d’Or San Michele restarono eredi in Firenze: la Compagnia della
misericordia, istituita un secolo prima dai facchini che servivano
all’arte della lana, prestò intrepidamente soccorsi, e ne fu compensata
con lasciti dell’ammontare di trentacinquemila fiorini.
Altri, all’opposto, si persuasero che rimedio fosse lo svagarsi e il
darsi buon tempo; e ne seguì un enorme rilassamento di costumi, volendo
ciascuno godere una vita che fuggiva, o allietarla d’ogni piacere, se
l’avea campata; i popolani vestivano delle robe lasciate dai ricchi;
eredità improvvise mutando fortune, davano spirito ad abusarne, come
appiglio a complicatissime liti; i latrocinj al par che gli amori
furono agevolati dal pericolo e dagli abbandoni. E quel misto di
devozione e d’allegria può dirsi rappresentato nei _Balli dei morti_,
stravaganti pitture ove si effigiano scheletri che menano danze o
s’atteggiano bizzarramente con persone vive, papi, re, belle, mercanti,
letterati, fanciulli, vegliardi, per intimare a tutti la necessità
del morire. La Svizzera e la Germania ne abbondano, non ne manca
l’Italia[324].
Questa peste fu anche deplorabile pel numero di valentuomini che
l’Italia perdette, fra i quali mentoveremo Giovan Villani e Giovanni
Andrea canonista peritissimo; ma «tiranni e grandi signori non morì
nessuno»[325]. Fu poi descritta nel primo lavoro di prosa italiana
elaborata, il _Decameron_ di Giovanni Boccaccio. Finge egli che sette
gentildonne, durante la peste, scontratesi in chiesa con tre loro
amanti, prendano accordo di uscire alla campagna[326], e tuffare
i timori e la compassione nella vita sollazzevole e nel raccontar
novelle: le quali, distribuite in dieci giornate, finite ognuna con
una canzone, formano appunto quel libro. Precede la descrizione della
peste, ma come d’uomo che non la vide, adoprando le riflessioni e le
particolarità di Tucidide e di Lucrezio, e su queste diffondendosi
in modo, che sono in quantità assai meno e in parole assai più che
nell’originale. E il concetto e le parti dell’opera risentono d’un
colto egoismo; e laide avventure, e la facilità delle donne e la
spensierataggine degli uomini insinuano di goder la vita e non darsi
altro pensiero. La pittura stessa della peste finisce con un’idea
scherzevole e affatto pagana[327]. Piacque alla società gaudente; ma
gli spiriti serj ne restarono scandolezzati, e il certosino Gioachino
Cino si presentò al Boccaccio dicendogli come il suo compagno Pier
Petroni da Siena morendo gli avesse lasciato l’incarico di venire a
richiamarlo a coscienza. Ne rimase tocco Boccaccio, e dato migliore
indirizzo all’ingegno, fece libri di pietà, e a Mainardo Cavalcanti
scriveva: — Lascia le mie novelle ai petulanti seguaci delle passioni,
che sono bramosi di essere creduti dall’universale contaminatori
frequenti della pudicizia delle matrone. E se tu non vuoi perdonare
al decoro delle tue donne, perdona all’onor mio, se tanto mi ami
da sparger lagrime pe’ miei patimenti. Leggendole, mi reputeranno
turpe mezzano, incestuoso vecchio, uomo impuro e maledico, ed avido
raccontatore delle altrui scelleraggini. Non v’ha dappertutto chi
sorga e dica per iscusarmi: _Scrisse da giovane, e vi fu astretto da
autorevole comando_».
Ebbe amicissimo Francesco Petrarca, che nato (1304) in Arezzo da un
Petracco sbandito di Firenze coll’Alighieri, visse poveramente colla
madre all’Incisa in val d’Arno, poi si avviò nelle scienze a Pisa sotto
Convenevole, a Bologna sotto Giovanni d’Andrea, a Montpellier sotto
il celebre giurista Bartolomeo d’Osio bergamasco: ma dagli studj del
diritto impostigli da suo padre divagavasi per la lettura di Cicerone
e la compagnia di Cino da Pistoja e Cecco d’Ascoli, dai quali prese
vaghezza della poesia italiana. Rimasto orfano e scarso di patrimonio,
si acconciò allo stato ecclesiastico, e stabilì mutarsi ad Avignone
a cercarvi fortuna come faceano tutti (1326). Il trattar cortese e
il limpido ingegno lo fecero il ben arrivato alla Corte pontificia,
dove ai principali prelati lo introdusse l’amico suo Jacopo Colonna,
vescovo che fu poi di Lombez. Il papa, a cui diresse un’elegante
prosopopeja di Roma che lo richiamava, gli assegnò un canonicato a
Padova, e l’aspettativa della prima prebenda che vacasse. Comprossi
anche un poderetto presso la fontana di Valchiusa, e vi si ritirò co’
suoi libri. A questi applicò allora tutto l’animo, e venuto idolatro
dell’antica civiltà, fantasticava sempre i vetusti eroi e la città di
Romolo e d’Augusto in quella che i pontefici abbandonavano alle masnade
dei Colonna e degli Orsini; ed applaudiva a chi tentasse restaurarvi il
buono stato.
Era capace di apprezzare le bellezze dei classici, e non ostante
presunse poterle raggiungere, e scrisse l’_Africa_, poema sul
soggetto stesso di Silio Italico. È un racconto senza macchina, nè
episodj nuovi, nè sospensione curiosa: ma versi di così buona lega
non si erano più uditi da Claudiano in poi, tanto avea convertito
in sostanza propria quella de’ classici meditati. Riesce più poetico
nelle _Egloghe_, ove sotto nomi pastorali allude a fatti d’allora, non
rifuggendo dall’adulazione.
Da questi versi latini promettevasi egli l’immortalità, che invece gli
venne da un usuale incidente. Bell’uomo, accuratissimo nel vestire,
frequente ai convegni, in una chiesa d’Avignone (1327) s’invaghì di
Laura, figlia d’Odiberto di Noves e moglie ad Ugo di Sade[328]; amore
ben poco romanzesco, giacchè ella seguitò a vivere in pace col marito,
cui partorì undici figliuoli, ed egli, pur assediandone la virtù
cogl’istinti d’un temperamento riottoso, non si distolse da studj nè
da amori più positivi, dal maneggiarsi alla corte, e dal vagheggiare
la gloria, prima e preponderante sua passione. Se non che per Laura
tratto tratto componeva o imitava dal provenzale qualche sonetto o
canzone, che il nome dell’autore e l’intrinseca loro soavità facea
cercare e ripetere, e gli guadagnava anche presso al bel mondo quella
fama, per cui era insigne fra i dotti. Da questa pubblicità gli venne
una specie d’obbligo a perseverare ne’ sentimenti stessi verso Laura,
la quale pare si guardasse dall’impedirli soddisfacendoli; poi quando,
dopo venti anni, ella soccombette alla morte nera, il Petrarca si
fece onore della costanza al cenere di lei, «di sua memoria e di dolor
pascendosi».
Nella bella Avignonese piacevangli le vaghezze corporee, i bei crini
d’oro, le mani bianche sottili, e le gentili braccia, e il bel giovanil
petto, e le altre leggiadrie per le quali essa diveniva superba[329]
e stancava gli specchi a vagheggiarsi; e lei vedeva nelle _chiare,
fresche e dolci acque_; e lei sopra l’erba verde, e in bianca nube; e
colla mente ne disegnava nel sasso il viso leggiadro. Tanto basterebbe
a smentire coloro che supposero ente simbolico questa Laura; che anzi
quel sempre mostrarcela come persona vera, lo salvò dallo sfumare in
astrazioni come i suoi seguaci. Amò, bramò[330], e nel dialogo con
sant’Agostino confessa le irrequietudini, i trasporti, le veglie, le
noje di quella sua passione, e implora soccorso per disvincolarsene.
Ben è vero che a Cicerone, a Virgilio, a Varrone, a Seneca, a Livio
egli dirizzava lettere spiranti un ardore forse più verace, certo più
vivamente espresso che non per Laura: poi nelle prose in tutt’altro
tenore favella delle donne; doversi il matrimonio schifare chi a studj
intende, al più accettar la concubina; pazzo chi deplora la defunta
moglie, quando ne dovrebbe menare tripudio[331].
Da quell’affetto suo uscì un canzoniere, tutto d’amore se togli dodici
sonetti e tre canzoni oltre le due a bisticci. Nella forma si piacque
delle difficoltà, sia colle sestine, disposizione provenzale ove da
nessun’armonia è redenta la fatica del replicare le medesime desinenze;
sia col sonetto, ordito per lo più sopra quattro sole rime; sia colle
canzoni, legate a norme impreteribili. Soggiunse i _Trionfi_, sogni
allegorici ed erotici, ove in terzine divisa i trionfi dell’Amore sopra
il poeta, della castità di Laura sopra Amore, della Morte sopra Laura,
di Laura sopra la Morte, della Fama sopra il cuore del poeta ch’essa
divide coll’Amore; in ultimo il Tempo annichila i trofei dell’Amore, e
l’Eternità quelli del Tempo.
Sono concetti e forme secondo l’età; ma per quanto si provi che da
altri, massime da Provenzali e Spagnuoli e nostri anteriori, togliesse
molti pensieri suoi, altri si appuntino d’esagerati, di lambiccati,
di falsi, resta al Petrarca la lode d’una lingua candidissima,
fresca ancora dopo cinque secoli, d’uno stile vivo e corretto,
d’una inesauribile varietà nell’esprimere quei miti dolori, quelle
placide repulse, quelle pitture monotone eppur varianti, passionate
insieme e sottili; della soave melanconia e della casta delicatezza
con cui trattò la più sdrucciolevole delle passioni. Studiò egli
moltissimo ciascun sonetto; eppure sembrano messi fuori d’un fiato,
e colla squisitezza che nell’espressione riproduce le gradazioni del
sentimento, con quella grazia d’elocuzione che allo spirito presenta
l’attrattiva della novità insieme col merito della limpidezza.
Più altre opere condusse il Petrarca: nella raccolta di _Memorabili_
imita Valerio Massimo: nella _Vera sapienza_ mette un di cotesti
saccenti a fronte d’un idioto di buon senso, onde svergognare la
dialettica d’allora, frivola, nè giovevole al cuore nè all’ingegno.
Certi garzonetti veneziani, trinciatori delle reputazioni più sode
come tanti se n’incontra, avendolo sentenziato uom dabbene ma di
piccola levatura, egli rispose col libro _Dell’ignoranza propria e
dell’altrui_, ove qualche sentenza buona può pescarsi in un mare di
sottigliezze e d’erudizione facile e presuntuosa, e dove conchiude
che «la letteratura a molti è stromento di follia, di superbia a
quasi tutti, se non cada in anima buona e costumata». Ribattendo un
Avignonese, vitupera tutti i medici, come incettatori di scienza vana
e ambiziosi nell’andare in volta con un vestone di porpora e anella
smaglianti, e sproni dorati quasi aspirino al trionfo, benchè pochi
abbiano ucciso i cinquemila che la legge romana richiedeva.
Il libro _Degli uffizj e delle virtù d’un capitano_ chiama alle
labbra il riso d’Annibale; quello _Del governare uno Stato_ barcola
su luoghi comuni, che nè rischiarano i savj, nè correggono i ribaldi.
A conforto di Azzo Correggio spodestato espose i _Rimedj d’ambe le
fortune_, dialoghi prolissi e scolorati fra enti di ragione, ove
sfoggia argomenti ed erudizione per mostrare che i beni di quaggiù
sono fallaci, e che le sventure si possono colla ragione disacerbare e
convertire a bene. Due libri _Della vita solitaria_ diresse a Filippo
di Cabassole vescovo di Cavaillon, i tedj del cittadino comparando
alle dolcezze del solitario: antitesi non troppo sociale, dover nostro
essendo l’operare anche in mezzo a questa ciurma che c’impaccia,
frantende e calunnia.
Coll’amore e colla filosofia, terza sua ispiratrice fu la devozione.
Anche nei tempi del suo _primo giovanile errore_ pregava Dio a _ridurre
a miglior vita i pensier vaghi_; delle bellezze di Laura si fa scala
al suo Fattore; e dopo morte spera vedere il Signor suo e la sua donna,
per la quale, dice un contemporaneo, «ha facto tante limosine et facto
dir tante messe et orationi con tanta devotione, che s’ella fosse
stata la più cattiva femina del mondo, l’avrebbe tratta dalle mani del
diavolo; benchè se rexona che morì pura et santa». Questo sentimento
gli dettò il _Disprezzo del mondo_, specie di confessione, scevra dalla
sguajataggine ostentata da certuni, e dove, a imitazione della _Vita
nuova_ di Dante, commenta i proprj carmi, ed analizza i sentimenti
profondi e i dilicati.
Di maggior conto è la raccolta di sue epistole _famigliari, senili,
varie, e senza titolo_, carteggio coi migliori dell’età sua. Prolisso
sempre e ammanierato, perchè sapeva che quelle circolavano, e spesso
erano state lette da cento prima che giungessero al loro indirizzo;
tocca però gli avvenimenti, i costumi, le missioni sue, massime i
disordini della Corte avignonese, e certi difetti del suo tempo che
sono pure del nostro. Or riprova i _moderni filosofi_, cui non pare
essere a nulla approdati se non abbajano contro Cristo e sua dottrina:
«soltanto da timore di temporali castighi rattenuti dall’impugnare la
fede, in disparte se ne ridono, adorano Aristotele senza intenderlo,
e disputando professano di prescindere dalla fede»; or move querela di
coloro «che s’appellano dotti delle scienze, nei qual degno di riso è
tutto, e soprattutto quel primo ed eterno patrimonio degl’ignoranti,
la boria sfolgorata»; or quelli rimorde che «mentre si dicono italiani
e sono in Italia nati, fanno ogni opera per sembrar barbari: e se
non basta a questi sciagurati l’aver perduto per ignavia propria
la virtù, la gloria, le arti della pace e della guerra che fecero
divini i padri nostri, disonestano ancora la nostra favella e fino le
vestimenta»[332].
Con quelle lettere è curioso seguirlo ne’ viaggi che fece alle _città
de’ Barbari_, le cui costumanze delineò pelle pelle. Parigi trovò
veramente gran cosa, ma inferiore all’aspettazione, più sucida e
puzzolenta di qual altra città sia, eccetto Avignone, e che tutto
deve alle ciancie de’ suoi[333]. Passò buon tempo a discernere il
vero dal falso su quell’Università, «simigliante a paniere, ove si
raccolgono le più rare frutte d’ogni paese..... Oserà comparar la
Francia all’Italia chi abbia la minima nozione di storia? Discuter
sulle doti intellettuali de’ due paesi sarebbe ridicolo, quando s’ha il
testimonio de’ libri. Se qualche straniero produsse alcuna cosa sopra
l’arti liberali, la morale, la filosofia, l’ha scritta o studiata in
Italia; ambo i diritti furono stabiliti e spiegati da Italiani; fuor di
qui non si cerchino oratori, non poeti; qua nacquero, qua si formarono
letteratura, politica, tutto insomma qui si perfezionò. A tanti lavori,
a studj così serj e variati cosa possono opporre i Francesi? Le scuole
nella via degli strami (_rue du Fouarre_, dov’era l’Università). Son
gente lepida, sempre soddisfatti di se stessi, bravi sonatori, allegri
cantanti, intrepidi bevitori, buoni convitati, lo concedo. Beata
nazione, che pensa sempre male degli altri e bene di sè: chi non le
invidierebbe coteste illusioni?»[334]
Vaglia a mostrare in che i tempi sono cangiati, e come allora non men
che adesso rendesse ingiusti il patriotismo. Eppure in quella Francia
che gli pare così barbara, il Delfino, di precoce maturità, amava
metterlo a disputa coi dotti e cogl’ingegnosi del suo paese, accettò
l’omaggio dei _Rimedj d’ambo le fortune_, e li fece tradurre dal
suo precettore. Chiestogli da Guido Gonzaga qualche libro francese,
Petrarca gli mandò il _Romanzo della rosa_ di Giovanni de Meun, della
natura della Divina Commedia, cioè che abbraccia tutto lo scibile,
con sottigliezze scolastiche, misticismo, personificazioni, allegorie
abusate, digressioni scientifiche, e che era commentato, lodato,
biasimato in Francia, quanto Dante da noi. — La superiorità della
letteratura nostra (gli scrisse) è provata da questo libro, che la
Francia leva a cielo, e pretende comparare ai capolavori. L’autore vi
racconta i suoi sogni, la possa dell’amore, le fiamme giovanili, le
senili astuzie, le pene di chi serve a Venere, le frequenti lacrime
sopra gioje passeggere. Qual vasto e fecondo campo al talento del
poeta! eppure narrando i suoi sogni e’ sonnecchia. Quanto meglio
non espressero la passione que’ divini cantori dell’amore, Virgilio,
Catullo, Properzio, Ovidio e tant’altri, che l’antico o il moderno
tempo vide sulle nostre rive italiane? Tu però riceverai con giubilo
questo libro; poichè, se ne desideravi uno straniero e in lingua
vulgare, non potevo offrirtene un migliore, se pur Francia tutta non
s’inganna sul merito di esso»[335].
Nelle Fiandre e nel Brabante, Petrarca vide il popolo occupato dietro
a tappezzerie e lavori di lana: a Liegi penò ad avere inchiostro onde
trascrivere due orazioni di Cicerone: a Colonia stupì di scorgere
urbanità tanta in città barbara, e onesto contegno negli uomini,
studiata lindura nelle donne; e non di Virgilio, ma vi trovò copie
d’Ovidio. Gli amici il trassero ad ammirare il tramonto del sole in
riva al Reno, ed essendo la vigilia di san Giovanni, un’infinità di
donne ne empivano la spiaggia, senza tumulto, coronate di fiori, colle
maniche rimboccate fin al gomito, per lavare le mani e le braccia
nella corrente, recitando versi in loro favella, e dandosi a credere
che quella lustrazione le assicurasse da calamità nel corso dell’anno.
Traversare la _fámosa Ardenna_ non si ardiva allora senza buona scorta,
tra pei ladroni, tra per le nimicizie del conte di Fiandra col duca di
Barbante. Lieto fu dunque allorchè, uscendo da que’ monti, rivide _il
bel paese e ’l dilettoso fiume_ del Rodano ed Avignone. Quivi fremeva
nell’udire alcuni cardinali aborrire dal tornare in Italia, perchè non
vi gusterebbero il vin di Francia[336].
Nulla però incontrava che lo facesse scontento d’essere nato italiano.
La Francia ottenne da Roma i doni di Bacco e di Minerva, ma non vi si
coltivano che pochi ulivi e nessun arancio; i montoni non danno buona
lana; non miniere od acque termali la terra. In Fiandra non bevesi
che idromele, in Inghilterra birra e sidro. Che dire dei climi gelati
cui bagnano il Danubio, il Bog, il Tanai? ebbero matrigna la natura;
quali senza legna, sicchè vi si riscaldano solo con torba; quali tristi
da fetide esalazioni de’ paduli, senz’acqua a bere; quali di erica e
sterile sabbione; quali di serpi e tigri e lioni e leopardi (?). Italia
sola fu prediletta dal cielo, che le largheggiò il supremo impero,
gl’ingegni, le arti, e principalmente la cetra, per cui i Latini
sorpassarono i Greci; nè cosa le mancherebbe se Marte non nocesse.
A Roma trova che a dritto quelle donne si preferiscono a tutt’altre
per pudore, modestia femminile e virile costanza; gli uomini son buona
pasta, affabili a chi li tratta con dolcezza; ma v’è un punto sopra
cui non intendono celia, la virtù delle mogli; e non che in ciò sieno
conniventi come gli Avignonesi, han sempre in bocca il motto d’un loro
antico: — Batteteci, ma la pudicizia sia salva». Stupì di trovarvi
sì pochi mercanti ed usurieri, forse perchè il commercio n’era sviato
coll’andarsene della Corte.
Firenze mandò Giovan Boccaccio ad annunziargli come avesse determinato
di elevare la propria repubblica, secondo avea fatto Roma antica, di
sopra delle altre città d’Italia anche mediante l’istruzione. E «per
tuo mezzo soltanto può essa raggiungere il suo desiderio, e perciò ti
prega a scegliere qualunque libro ti piaccia interpretare, qualunque
scienza tu trovi confacente alla tua fama e alla tua quiete. Altri
senni elevati forse dal tuo esempio prenderan coraggio a pubblicarvi i
loro versi. Intanto lascia che ti confortiamo a terminare l’immortale
tuo poema dell’_Africa_, sicchè le Muse, da secoli neglette, ripiglino
stanza fra noi. Abbastanza viaggiasti, hai veduto abbastanza costumi
e caratteri di nazioni; or ascolta a’ tuoi magistrati, a’ concittadini
tuoi nobili e popolo, e torna all’antica casa, al patrimonio avito che
ti restituiranno».
Siena durava indipendente e metteva freno a’ nobili campagnuoli.
In quei disastri, ciascuno trovandosi obbligato a riparare colle
forze proprie, le conosce e vuole esercitarle, sicchè la democrazia
prevale. E già ne’ passati tempi per mozzare la potenza dei nobili
si agevolavano ai servi le guise di venir liberi, od accogliendoli
ne’ Comuni, o sorreggendoli nelle querele contro i padroni. Ora
a quattordici persone coll’arcivescovo fu data balìa di riformare
d’uffizj Firenze; e giacchè tutti aveano cooperato a spezzare la
tirannide, accomunarono a’ magnati un terzo delle cariche. Ma questi,
appena uscirono dallo anteriore svilimento, trascesero la civile
modestia, non soffrendo eguali ne’ privati o superiori ne’ magistrati;
sicchè da un lato crescendo le insolenze, dall’altro i dispetti, il
popolo, inizzato da Giovan della Tosa, insorse contro le famiglie,
abbattendone i palazzi, segnatamente que’ de’ Bardi e Frescobaldi, e
riordinò a signoria di plebe la città, divisa in quartieri, invece
dei sesti. I nobili restavano esclusi dalle magistrature; finchè,
lentato il rigore, si accettarono molti casati fra’ popolani. «E nota
e ricogli, lettore (avverte qui il Villani), che in poco più d’un anno
la nostra città ha avuto tante rivolture, e mutati quattro stati di
reggimento: prima signoreggiò il popolo grasso, e guidandosi male, per
loro difetto venne alla tirannica signoria del duca; cacciato il duca,
ressono i grandi e popolani insieme, tutto fosse piccolo tempo e con
uscita di gran fortuna; ora siamo al reggimento quasi degli artefici e
minuto popolo. Piaccia a Dio che sia esaltamento e salute della nostra
repubblica; ma mi fa temere per li nostri peccati e difetti, e perchè i
cittadini sono vuoti d’ogni amore e carità tra loro, ed è rimasa questa
maledetta arte in quelli che sono rettori, di promettere bene e fare il
contrario».
Qui nuovo flagello percosse non la Toscana sola ma tutto il mondo. Per
la nessuna precauzione nel comunicare coi paesi di Levante, facilmente
ricorreva la peste, che il 1340 rapì dodicimila persone alla sola
Firenze, moltissime e delle meglio stanti a Siena, talchè fu vietato
di sonar le campane, o radunarsi a mortorio, o mandare attorno, come
si soleva, banditori ad annunziare i defunti. Poco poi una nevata
straordinaria corruppe i seminati, donde seguì gravissima strettezza
di vettovaglie. Firenze non badò a spese, e consumati cinquantamila
fiorini d’oro a tirare grano, lo distribuiva in tal quantità, che
novantaquattromila persone riceveano pane dal pubblico, non negandolo
a verun forestiero nè pellegrino o villano; furono sciolti di carcere
gl’indebitati verso il Comune, concesso di redimersi col quindici
per cento dalle vecchie multe. Pure la fame affralì i corpi, e li
predispose ai guasti di quella che chiamarono la morte nera. La
precedettero stranissime meteore, disastrosi tremuoti, vascelli
sobbissati, voragini aperte, che per più giorni arsero infiniti spazj;
poi il nembo spinse innumerevoli cavallette in mare, i cui cadaveri
rigettati sulla riva, finirono d’appuzzare e corromper l’aria; e un
nebbione coprì lungamente la Grecia.
Il morbo scoppiò nella Cina (1348), poi nell’India, nella Persia,
nell’Armenia, nell’Egitto e nella Siria con tal furore, che al Cairo
perivano da dieci a quindicimila persone al giorno; ventiduemila ne
perdette Gaza in sei settimane, e quasi tutti gli animali. A Cipro fu
recato dal vivissimo commercio; così nelle altre isole dell’Arcipelago
e alla foce del Don. I mercanti italiani, numerosi per tutti quei
porti, cercarono salvezza fuggendo; ma otto galee genovesi, salpate dal
mar Nero, approdando in Sicilia, aveano già perduto tanto equipaggio,
che quattro furono abbandonate; gli altri sbarcando comunicarono il
male, che presto ammorbò quell’isola, la Corsica, la Sardegna, le coste
del Mediterraneo, la Toscana.
I sintomi variavano secondo i paesi, anzi dal cominciamento al
dechino della malattia. Da noi per lo più manifestavasi con febbre
violenta, poi delirio, stupore, insensibilità; la lingua e il
palato illividivano; fetidissimi il fiato, il sudore, le dejezioni;
insaziabile sete; a molti sopragiungeva violenta peripneumonia con
emorragie di pronto esito; e macchie nere e sozzi gavoccioli rivelavano
la cancrena. Alcuni cadeano come di colpo; i più perivano il primo
giorno; fortunato cui succedevano ascessi esterni: ma rimedj umani
non menomavano il male, e il minimo contatto bastava a comunicarlo.
Invano si fecero processioni di reliquie, si portò il tabernacolo
devotissimo dell’Impruneta attorno per Firenze gridando misericordia, e
davanti a quella facendo gran paci di quistioni e di ferite. Fuggivasi
alla campagna, ma la morte veniva a disabbellirla. I medici che
sopravivessero, voleano smisurato prezzo in mano, a appena col viso
addietro stendere le dita a tastar il polso, e da lungi veder le orine
con essenze odorifere al naso. Quei medesimi che a principio per arte,
per carità, per prezzo studiavano gl’infetti, gli abbandonavano poi a
morire nell’isolamento, fossero anche i padri, i figli, i mariti; se
l’infermo si trovasse confortato, facevasi alla finestra, e stava buon
tempo innanzichè passasse persona; e quando fosse udito, o non gli
era risposto, o non soccorso; molti morivano così senza sacramenti,
e stavano sul letto finchè la puzza annunziasse che là entro erano
cadaveri, e i vicini per borsa mandavano a raccoglierli e sepellire
senza pietà d’esequie. I becchini esigevano tal ricompensa, che molti
vi arricchirono, come arricchirono speziali, pollajuoli, trecche di
malva, d’ortiche e d’altre erbe d’impiastri: smisuratamente valevano
i confetti, e lo zucchero fin tre in otto fiorini la libbra, e bazza
chi ne trovasse: non aveasi più cera, non bare e stamigne, delle quali
usavasi ai morti: lanajuoli e ritagliatori che si trovarono panni
bruni, li vendettero a peso d’oro[320].
A tal modo Firenze perdette centomila abitatori, altrettanti Venezia,
Pisa sette ogni dieci, Siena ottantamila in quattro mesi se si credesse
a un cronista, il quale soggiunge che «morivano uomini e donne quasi di
subito; ed io Angelo di Tura sotterrai i miei figliuoli in una fossa
con le mie mani, ed il simile fecero molti altri»[321]. Quarantamila
ne pianse Genova, Roma censessantamila, e così Napoli, e fra tutto il
Regno cinquecentotrentamila; in molti luoghi non rimase che un decimo
degli abitanti, a Trapani nessuno: cinquecentomila perirono in Sicilia,
quasi tutti quelli di Cipro. Trovaronsi vascelli erranti a grado
dell’onde, essendo perito tutto l’equipaggio; la messe e la vendemmia
infradiciarono non côlte; a Bologna Taddeo Pepoli faticò a tirar grano
e tenerlo a basso prezzo, ma entrato il morbo, moltissime famiglie
terminarono, delle quali dà la lista il Ghirardacci.
Luchino Visconti orlò i confini del Milanese di forche, dove appendere
chiunque li varcasse, col che tenne immune il paese, come fu pure di
Parma e del Piemonte[322]. Passò poi la morte nera in Savoja, nella
Spagna, nelle Baleari, in Francia, ove la sola Parigi dava cinquecento
vittime al giorno, Vienna d’Austria milleseicento; ad Avignone durò
sei mesi, uccidendo sette cardinali e duemila persone: in Inghilterra
per nove anni mietè cinquantamila vite l’anno; l’Irlanda ne rimase
deserta: insomma dicesi che se ne portasse un terzo d’Europa; ove
rimase spaventevolmente ricordata. «Non fia creduto ai posteri che
siavi stata un’età in cui il mondo rimase quasi totalmente spopolato, e
le case di famiglia vuote, e di cittadini le città, e le campagne senza
lavoratori. Come lo crederanno gli avvenire, se noi medesimi a fatica
prestiamo fede ai nostri occhi? Usciti di casa, scorriamo le vie, e le
troviamo piene di morti e di morenti: tornati fra le domestiche pareti,
più nessuno troviamo di vivo, essendo tutti morti nella breve nostra
assenza. Fortunati i posteri, a cui tali calamità sembreranno finzioni
e sogni»[323].
Le analogie de’ sintomi con quelli dell’avvelenamento fecero supporre
che una malizia, smisurata quanto il male, propagasse ad arte la morte:
principalmente imputavansi gli Ebrei di avvelenare le fonti, e per
Germania e Spagna fu fatto strazio di questi infelici, dei quali papa
Clemente VI attestò l’innocenza e diede loro ricovero in Avignone.
Alcuni vedevano in quel flagello la punizione divina perchè si
violavano la domenica e il digiuno, e si commettevano adulterj, usure,
bestemmie; e si bucinò che in Gerusalemme fosse arrivata una lettera
dal cielo, ove diceasi che Cristo non concederebbe misericordia se
ognuno non si flagellasse e andasse ramingo per trentaquattro giorni.
Pertanto moltissimi buttavansi alle penitenze, alle macerazioni, e
si rinnovarono le scene de’ Flagellanti, che a centinaja passavano di
terra in terra, con litanie e miserere, ed anche con superstizioni di
miracoli e liberazione d’ossessi, e dogmi nuovi e strani. Fu profuso a
cause pie quel che ritenere non si potea, e di venticinquemila fiorini
l’ospedale di Santa Maria Nuova, di trecencinquantamila la Compagnia
d’Or San Michele restarono eredi in Firenze: la Compagnia della
misericordia, istituita un secolo prima dai facchini che servivano
all’arte della lana, prestò intrepidamente soccorsi, e ne fu compensata
con lasciti dell’ammontare di trentacinquemila fiorini.
Altri, all’opposto, si persuasero che rimedio fosse lo svagarsi e il
darsi buon tempo; e ne seguì un enorme rilassamento di costumi, volendo
ciascuno godere una vita che fuggiva, o allietarla d’ogni piacere, se
l’avea campata; i popolani vestivano delle robe lasciate dai ricchi;
eredità improvvise mutando fortune, davano spirito ad abusarne, come
appiglio a complicatissime liti; i latrocinj al par che gli amori
furono agevolati dal pericolo e dagli abbandoni. E quel misto di
devozione e d’allegria può dirsi rappresentato nei _Balli dei morti_,
stravaganti pitture ove si effigiano scheletri che menano danze o
s’atteggiano bizzarramente con persone vive, papi, re, belle, mercanti,
letterati, fanciulli, vegliardi, per intimare a tutti la necessità
del morire. La Svizzera e la Germania ne abbondano, non ne manca
l’Italia[324].
Questa peste fu anche deplorabile pel numero di valentuomini che
l’Italia perdette, fra i quali mentoveremo Giovan Villani e Giovanni
Andrea canonista peritissimo; ma «tiranni e grandi signori non morì
nessuno»[325]. Fu poi descritta nel primo lavoro di prosa italiana
elaborata, il _Decameron_ di Giovanni Boccaccio. Finge egli che sette
gentildonne, durante la peste, scontratesi in chiesa con tre loro
amanti, prendano accordo di uscire alla campagna[326], e tuffare
i timori e la compassione nella vita sollazzevole e nel raccontar
novelle: le quali, distribuite in dieci giornate, finite ognuna con
una canzone, formano appunto quel libro. Precede la descrizione della
peste, ma come d’uomo che non la vide, adoprando le riflessioni e le
particolarità di Tucidide e di Lucrezio, e su queste diffondendosi
in modo, che sono in quantità assai meno e in parole assai più che
nell’originale. E il concetto e le parti dell’opera risentono d’un
colto egoismo; e laide avventure, e la facilità delle donne e la
spensierataggine degli uomini insinuano di goder la vita e non darsi
altro pensiero. La pittura stessa della peste finisce con un’idea
scherzevole e affatto pagana[327]. Piacque alla società gaudente; ma
gli spiriti serj ne restarono scandolezzati, e il certosino Gioachino
Cino si presentò al Boccaccio dicendogli come il suo compagno Pier
Petroni da Siena morendo gli avesse lasciato l’incarico di venire a
richiamarlo a coscienza. Ne rimase tocco Boccaccio, e dato migliore
indirizzo all’ingegno, fece libri di pietà, e a Mainardo Cavalcanti
scriveva: — Lascia le mie novelle ai petulanti seguaci delle passioni,
che sono bramosi di essere creduti dall’universale contaminatori
frequenti della pudicizia delle matrone. E se tu non vuoi perdonare
al decoro delle tue donne, perdona all’onor mio, se tanto mi ami
da sparger lagrime pe’ miei patimenti. Leggendole, mi reputeranno
turpe mezzano, incestuoso vecchio, uomo impuro e maledico, ed avido
raccontatore delle altrui scelleraggini. Non v’ha dappertutto chi
sorga e dica per iscusarmi: _Scrisse da giovane, e vi fu astretto da
autorevole comando_».
Ebbe amicissimo Francesco Petrarca, che nato (1304) in Arezzo da un
Petracco sbandito di Firenze coll’Alighieri, visse poveramente colla
madre all’Incisa in val d’Arno, poi si avviò nelle scienze a Pisa sotto
Convenevole, a Bologna sotto Giovanni d’Andrea, a Montpellier sotto
il celebre giurista Bartolomeo d’Osio bergamasco: ma dagli studj del
diritto impostigli da suo padre divagavasi per la lettura di Cicerone
e la compagnia di Cino da Pistoja e Cecco d’Ascoli, dai quali prese
vaghezza della poesia italiana. Rimasto orfano e scarso di patrimonio,
si acconciò allo stato ecclesiastico, e stabilì mutarsi ad Avignone
a cercarvi fortuna come faceano tutti (1326). Il trattar cortese e
il limpido ingegno lo fecero il ben arrivato alla Corte pontificia,
dove ai principali prelati lo introdusse l’amico suo Jacopo Colonna,
vescovo che fu poi di Lombez. Il papa, a cui diresse un’elegante
prosopopeja di Roma che lo richiamava, gli assegnò un canonicato a
Padova, e l’aspettativa della prima prebenda che vacasse. Comprossi
anche un poderetto presso la fontana di Valchiusa, e vi si ritirò co’
suoi libri. A questi applicò allora tutto l’animo, e venuto idolatro
dell’antica civiltà, fantasticava sempre i vetusti eroi e la città di
Romolo e d’Augusto in quella che i pontefici abbandonavano alle masnade
dei Colonna e degli Orsini; ed applaudiva a chi tentasse restaurarvi il
buono stato.
Era capace di apprezzare le bellezze dei classici, e non ostante
presunse poterle raggiungere, e scrisse l’_Africa_, poema sul
soggetto stesso di Silio Italico. È un racconto senza macchina, nè
episodj nuovi, nè sospensione curiosa: ma versi di così buona lega
non si erano più uditi da Claudiano in poi, tanto avea convertito
in sostanza propria quella de’ classici meditati. Riesce più poetico
nelle _Egloghe_, ove sotto nomi pastorali allude a fatti d’allora, non
rifuggendo dall’adulazione.
Da questi versi latini promettevasi egli l’immortalità, che invece gli
venne da un usuale incidente. Bell’uomo, accuratissimo nel vestire,
frequente ai convegni, in una chiesa d’Avignone (1327) s’invaghì di
Laura, figlia d’Odiberto di Noves e moglie ad Ugo di Sade[328]; amore
ben poco romanzesco, giacchè ella seguitò a vivere in pace col marito,
cui partorì undici figliuoli, ed egli, pur assediandone la virtù
cogl’istinti d’un temperamento riottoso, non si distolse da studj nè
da amori più positivi, dal maneggiarsi alla corte, e dal vagheggiare
la gloria, prima e preponderante sua passione. Se non che per Laura
tratto tratto componeva o imitava dal provenzale qualche sonetto o
canzone, che il nome dell’autore e l’intrinseca loro soavità facea
cercare e ripetere, e gli guadagnava anche presso al bel mondo quella
fama, per cui era insigne fra i dotti. Da questa pubblicità gli venne
una specie d’obbligo a perseverare ne’ sentimenti stessi verso Laura,
la quale pare si guardasse dall’impedirli soddisfacendoli; poi quando,
dopo venti anni, ella soccombette alla morte nera, il Petrarca si
fece onore della costanza al cenere di lei, «di sua memoria e di dolor
pascendosi».
Nella bella Avignonese piacevangli le vaghezze corporee, i bei crini
d’oro, le mani bianche sottili, e le gentili braccia, e il bel giovanil
petto, e le altre leggiadrie per le quali essa diveniva superba[329]
e stancava gli specchi a vagheggiarsi; e lei vedeva nelle _chiare,
fresche e dolci acque_; e lei sopra l’erba verde, e in bianca nube; e
colla mente ne disegnava nel sasso il viso leggiadro. Tanto basterebbe
a smentire coloro che supposero ente simbolico questa Laura; che anzi
quel sempre mostrarcela come persona vera, lo salvò dallo sfumare in
astrazioni come i suoi seguaci. Amò, bramò[330], e nel dialogo con
sant’Agostino confessa le irrequietudini, i trasporti, le veglie, le
noje di quella sua passione, e implora soccorso per disvincolarsene.
Ben è vero che a Cicerone, a Virgilio, a Varrone, a Seneca, a Livio
egli dirizzava lettere spiranti un ardore forse più verace, certo più
vivamente espresso che non per Laura: poi nelle prose in tutt’altro
tenore favella delle donne; doversi il matrimonio schifare chi a studj
intende, al più accettar la concubina; pazzo chi deplora la defunta
moglie, quando ne dovrebbe menare tripudio[331].
Da quell’affetto suo uscì un canzoniere, tutto d’amore se togli dodici
sonetti e tre canzoni oltre le due a bisticci. Nella forma si piacque
delle difficoltà, sia colle sestine, disposizione provenzale ove da
nessun’armonia è redenta la fatica del replicare le medesime desinenze;
sia col sonetto, ordito per lo più sopra quattro sole rime; sia colle
canzoni, legate a norme impreteribili. Soggiunse i _Trionfi_, sogni
allegorici ed erotici, ove in terzine divisa i trionfi dell’Amore sopra
il poeta, della castità di Laura sopra Amore, della Morte sopra Laura,
di Laura sopra la Morte, della Fama sopra il cuore del poeta ch’essa
divide coll’Amore; in ultimo il Tempo annichila i trofei dell’Amore, e
l’Eternità quelli del Tempo.
Sono concetti e forme secondo l’età; ma per quanto si provi che da
altri, massime da Provenzali e Spagnuoli e nostri anteriori, togliesse
molti pensieri suoi, altri si appuntino d’esagerati, di lambiccati,
di falsi, resta al Petrarca la lode d’una lingua candidissima,
fresca ancora dopo cinque secoli, d’uno stile vivo e corretto,
d’una inesauribile varietà nell’esprimere quei miti dolori, quelle
placide repulse, quelle pitture monotone eppur varianti, passionate
insieme e sottili; della soave melanconia e della casta delicatezza
con cui trattò la più sdrucciolevole delle passioni. Studiò egli
moltissimo ciascun sonetto; eppure sembrano messi fuori d’un fiato,
e colla squisitezza che nell’espressione riproduce le gradazioni del
sentimento, con quella grazia d’elocuzione che allo spirito presenta
l’attrattiva della novità insieme col merito della limpidezza.
Più altre opere condusse il Petrarca: nella raccolta di _Memorabili_
imita Valerio Massimo: nella _Vera sapienza_ mette un di cotesti
saccenti a fronte d’un idioto di buon senso, onde svergognare la
dialettica d’allora, frivola, nè giovevole al cuore nè all’ingegno.
Certi garzonetti veneziani, trinciatori delle reputazioni più sode
come tanti se n’incontra, avendolo sentenziato uom dabbene ma di
piccola levatura, egli rispose col libro _Dell’ignoranza propria e
dell’altrui_, ove qualche sentenza buona può pescarsi in un mare di
sottigliezze e d’erudizione facile e presuntuosa, e dove conchiude
che «la letteratura a molti è stromento di follia, di superbia a
quasi tutti, se non cada in anima buona e costumata». Ribattendo un
Avignonese, vitupera tutti i medici, come incettatori di scienza vana
e ambiziosi nell’andare in volta con un vestone di porpora e anella
smaglianti, e sproni dorati quasi aspirino al trionfo, benchè pochi
abbiano ucciso i cinquemila che la legge romana richiedeva.
Il libro _Degli uffizj e delle virtù d’un capitano_ chiama alle
labbra il riso d’Annibale; quello _Del governare uno Stato_ barcola
su luoghi comuni, che nè rischiarano i savj, nè correggono i ribaldi.
A conforto di Azzo Correggio spodestato espose i _Rimedj d’ambe le
fortune_, dialoghi prolissi e scolorati fra enti di ragione, ove
sfoggia argomenti ed erudizione per mostrare che i beni di quaggiù
sono fallaci, e che le sventure si possono colla ragione disacerbare e
convertire a bene. Due libri _Della vita solitaria_ diresse a Filippo
di Cabassole vescovo di Cavaillon, i tedj del cittadino comparando
alle dolcezze del solitario: antitesi non troppo sociale, dover nostro
essendo l’operare anche in mezzo a questa ciurma che c’impaccia,
frantende e calunnia.
Coll’amore e colla filosofia, terza sua ispiratrice fu la devozione.
Anche nei tempi del suo _primo giovanile errore_ pregava Dio a _ridurre
a miglior vita i pensier vaghi_; delle bellezze di Laura si fa scala
al suo Fattore; e dopo morte spera vedere il Signor suo e la sua donna,
per la quale, dice un contemporaneo, «ha facto tante limosine et facto
dir tante messe et orationi con tanta devotione, che s’ella fosse
stata la più cattiva femina del mondo, l’avrebbe tratta dalle mani del
diavolo; benchè se rexona che morì pura et santa». Questo sentimento
gli dettò il _Disprezzo del mondo_, specie di confessione, scevra dalla
sguajataggine ostentata da certuni, e dove, a imitazione della _Vita
nuova_ di Dante, commenta i proprj carmi, ed analizza i sentimenti
profondi e i dilicati.
Di maggior conto è la raccolta di sue epistole _famigliari, senili,
varie, e senza titolo_, carteggio coi migliori dell’età sua. Prolisso
sempre e ammanierato, perchè sapeva che quelle circolavano, e spesso
erano state lette da cento prima che giungessero al loro indirizzo;
tocca però gli avvenimenti, i costumi, le missioni sue, massime i
disordini della Corte avignonese, e certi difetti del suo tempo che
sono pure del nostro. Or riprova i _moderni filosofi_, cui non pare
essere a nulla approdati se non abbajano contro Cristo e sua dottrina:
«soltanto da timore di temporali castighi rattenuti dall’impugnare la
fede, in disparte se ne ridono, adorano Aristotele senza intenderlo,
e disputando professano di prescindere dalla fede»; or move querela di
coloro «che s’appellano dotti delle scienze, nei qual degno di riso è
tutto, e soprattutto quel primo ed eterno patrimonio degl’ignoranti,
la boria sfolgorata»; or quelli rimorde che «mentre si dicono italiani
e sono in Italia nati, fanno ogni opera per sembrar barbari: e se
non basta a questi sciagurati l’aver perduto per ignavia propria
la virtù, la gloria, le arti della pace e della guerra che fecero
divini i padri nostri, disonestano ancora la nostra favella e fino le
vestimenta»[332].
Con quelle lettere è curioso seguirlo ne’ viaggi che fece alle _città
de’ Barbari_, le cui costumanze delineò pelle pelle. Parigi trovò
veramente gran cosa, ma inferiore all’aspettazione, più sucida e
puzzolenta di qual altra città sia, eccetto Avignone, e che tutto
deve alle ciancie de’ suoi[333]. Passò buon tempo a discernere il
vero dal falso su quell’Università, «simigliante a paniere, ove si
raccolgono le più rare frutte d’ogni paese..... Oserà comparar la
Francia all’Italia chi abbia la minima nozione di storia? Discuter
sulle doti intellettuali de’ due paesi sarebbe ridicolo, quando s’ha il
testimonio de’ libri. Se qualche straniero produsse alcuna cosa sopra
l’arti liberali, la morale, la filosofia, l’ha scritta o studiata in
Italia; ambo i diritti furono stabiliti e spiegati da Italiani; fuor di
qui non si cerchino oratori, non poeti; qua nacquero, qua si formarono
letteratura, politica, tutto insomma qui si perfezionò. A tanti lavori,
a studj così serj e variati cosa possono opporre i Francesi? Le scuole
nella via degli strami (_rue du Fouarre_, dov’era l’Università). Son
gente lepida, sempre soddisfatti di se stessi, bravi sonatori, allegri
cantanti, intrepidi bevitori, buoni convitati, lo concedo. Beata
nazione, che pensa sempre male degli altri e bene di sè: chi non le
invidierebbe coteste illusioni?»[334]
Vaglia a mostrare in che i tempi sono cangiati, e come allora non men
che adesso rendesse ingiusti il patriotismo. Eppure in quella Francia
che gli pare così barbara, il Delfino, di precoce maturità, amava
metterlo a disputa coi dotti e cogl’ingegnosi del suo paese, accettò
l’omaggio dei _Rimedj d’ambo le fortune_, e li fece tradurre dal
suo precettore. Chiestogli da Guido Gonzaga qualche libro francese,
Petrarca gli mandò il _Romanzo della rosa_ di Giovanni de Meun, della
natura della Divina Commedia, cioè che abbraccia tutto lo scibile,
con sottigliezze scolastiche, misticismo, personificazioni, allegorie
abusate, digressioni scientifiche, e che era commentato, lodato,
biasimato in Francia, quanto Dante da noi. — La superiorità della
letteratura nostra (gli scrisse) è provata da questo libro, che la
Francia leva a cielo, e pretende comparare ai capolavori. L’autore vi
racconta i suoi sogni, la possa dell’amore, le fiamme giovanili, le
senili astuzie, le pene di chi serve a Venere, le frequenti lacrime
sopra gioje passeggere. Qual vasto e fecondo campo al talento del
poeta! eppure narrando i suoi sogni e’ sonnecchia. Quanto meglio
non espressero la passione que’ divini cantori dell’amore, Virgilio,
Catullo, Properzio, Ovidio e tant’altri, che l’antico o il moderno
tempo vide sulle nostre rive italiane? Tu però riceverai con giubilo
questo libro; poichè, se ne desideravi uno straniero e in lingua
vulgare, non potevo offrirtene un migliore, se pur Francia tutta non
s’inganna sul merito di esso»[335].
Nelle Fiandre e nel Brabante, Petrarca vide il popolo occupato dietro
a tappezzerie e lavori di lana: a Liegi penò ad avere inchiostro onde
trascrivere due orazioni di Cicerone: a Colonia stupì di scorgere
urbanità tanta in città barbara, e onesto contegno negli uomini,
studiata lindura nelle donne; e non di Virgilio, ma vi trovò copie
d’Ovidio. Gli amici il trassero ad ammirare il tramonto del sole in
riva al Reno, ed essendo la vigilia di san Giovanni, un’infinità di
donne ne empivano la spiaggia, senza tumulto, coronate di fiori, colle
maniche rimboccate fin al gomito, per lavare le mani e le braccia
nella corrente, recitando versi in loro favella, e dandosi a credere
che quella lustrazione le assicurasse da calamità nel corso dell’anno.
Traversare la _fámosa Ardenna_ non si ardiva allora senza buona scorta,
tra pei ladroni, tra per le nimicizie del conte di Fiandra col duca di
Barbante. Lieto fu dunque allorchè, uscendo da que’ monti, rivide _il
bel paese e ’l dilettoso fiume_ del Rodano ed Avignone. Quivi fremeva
nell’udire alcuni cardinali aborrire dal tornare in Italia, perchè non
vi gusterebbero il vin di Francia[336].
Nulla però incontrava che lo facesse scontento d’essere nato italiano.
La Francia ottenne da Roma i doni di Bacco e di Minerva, ma non vi si
coltivano che pochi ulivi e nessun arancio; i montoni non danno buona
lana; non miniere od acque termali la terra. In Fiandra non bevesi
che idromele, in Inghilterra birra e sidro. Che dire dei climi gelati
cui bagnano il Danubio, il Bog, il Tanai? ebbero matrigna la natura;
quali senza legna, sicchè vi si riscaldano solo con torba; quali tristi
da fetide esalazioni de’ paduli, senz’acqua a bere; quali di erica e
sterile sabbione; quali di serpi e tigri e lioni e leopardi (?). Italia
sola fu prediletta dal cielo, che le largheggiò il supremo impero,
gl’ingegni, le arti, e principalmente la cetra, per cui i Latini
sorpassarono i Greci; nè cosa le mancherebbe se Marte non nocesse.
A Roma trova che a dritto quelle donne si preferiscono a tutt’altre
per pudore, modestia femminile e virile costanza; gli uomini son buona
pasta, affabili a chi li tratta con dolcezza; ma v’è un punto sopra
cui non intendono celia, la virtù delle mogli; e non che in ciò sieno
conniventi come gli Avignonesi, han sempre in bocca il motto d’un loro
antico: — Batteteci, ma la pudicizia sia salva». Stupì di trovarvi
sì pochi mercanti ed usurieri, forse perchè il commercio n’era sviato
coll’andarsene della Corte.
Firenze mandò Giovan Boccaccio ad annunziargli come avesse determinato
di elevare la propria repubblica, secondo avea fatto Roma antica, di
sopra delle altre città d’Italia anche mediante l’istruzione. E «per
tuo mezzo soltanto può essa raggiungere il suo desiderio, e perciò ti
prega a scegliere qualunque libro ti piaccia interpretare, qualunque
scienza tu trovi confacente alla tua fama e alla tua quiete. Altri
senni elevati forse dal tuo esempio prenderan coraggio a pubblicarvi i
loro versi. Intanto lascia che ti confortiamo a terminare l’immortale
tuo poema dell’_Africa_, sicchè le Muse, da secoli neglette, ripiglino
stanza fra noi. Abbastanza viaggiasti, hai veduto abbastanza costumi
e caratteri di nazioni; or ascolta a’ tuoi magistrati, a’ concittadini
tuoi nobili e popolo, e torna all’antica casa, al patrimonio avito che
ti restituiranno».
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