Storia degli Italiani, vol. 07 (di 15) - 27

primo e difendere contro il secondo Federico la loro indipendenza;
ma quando le guerre si prolungarono, e divennero schermaglie di
partiti, o da un signore decretate per proprio interesse e capriccio,
essi prendeano le armi di tanto minor voglia, quanto più venivansi
avvezzando alle dolcezze della quiete e all’applicazione delle arti.
Ai signori nulla poteva tornare più desiderevole che questo svogliarsi
dalle armi, le quali in man de’ cittadini sono terribile ritegno alle
prepotenze: onde di lieto animo li sgravarono di tal peso, cambiandolo
con un tributo, del quale si valeano per condurre truppe a stipendio.
Si trovò dunque chi speculasse su questo nuovo lucro, e uomini disposti
a «versar l’alma a prezzo», e _condottieri_ che li comprarono, rizzando
una bandiera di ventura per far guerra dove avessero maggior derrata.
Costoro, trovandovi guadagno e fama, esercitarono meglio le bande, che
applicate per elezione alle armi, dovettero possederne l’abilità, se
non il vero coraggio che nasce dal sentimento del dovere. La milizia
cessava dunque d’essere, come deve, una istituzione dello Stato,
e diveniva mestiere d’individui: da gente poi senza patria, senza
causa, senz’altro movente che l’oro, poteasi più aspettare nè cortesia
cavalleresca, nè lealtà, nè l’altre doti che sceverano il masnadiero
dal campione?
Questa genìa nuova, principal parte sostenne nelle guerre non solo, ma
nelle vicende politiche del periodo sul quale ora ci esercitiamo, e che
forma una nuova fasi della vita signorile. Perocchè da prima vedemmo
i castellani imperare sul suolo sbocconcellato. Dappoi che furono la
più parte costretti a divenire cittadini, cercarono primeggiare nei
Comuni colle magistrature o col capitanare le fazioni; e Giano della
Bella, Vieri de’ Cerchi, Corso Donati, non meno che i Torriani, i
Carrara, i Da Camino, andarono podestà o capitani del popolo in varie
città o nella natìa col mescere partiti. Or ecco nuovo campo aprirsi
ai gentiluomini, il condurre soldati a servizio di questo o di quel
belligerante, col nome in prima di capitani, poi di condottieri: e
già per tal via vedemmo ingrandire Uguccione, poi Castruccio: e fu
col costoro ajuto che le città, divezzate dalle armi, si sottoposero a
principi.
I Comuni dovettero anch’essi adottare questo sistema, e appunto colle
bande Firenze resistette a Castruccio, poi ai Visconti e al papa. Nel
1322 alcuni, partiti dal soldo de’ Fiorentini, si unirono a Deo Tolomei
fuoruscito di Siena, che, raccoltine oltre cinquecento a cavallo e
moltissimi a piedi, corse infestando il Senese[316], finchè il verno e
la fame li sbrancò. Narrammo le vicende e la baldanza di quei che dal
Ceruglio pericolarono Lucca e Pisa.
Guarnieri duca di Urslingen, con molti altri tedeschi a cavallo
condotto a provvigione dai Pisani contro Firenze nella guerra di Lucca,
congedato assunse imprese per proprio conto, e spinto (1343) o anche
pagato dai Pisani e dai signori lombardi per danneggiare i principotti
di Romagna, unì a sè le bande di Ettore Panigo e di Mazarello da Cusano
bolognesi, e intitolandosi _signore della Gran Compagnia, nemico di
Dio, di pietà, di misericordia_, taglieggiava tutt’Italia, dando mano
a ribelli e vendicativi. Tremila barbute lo seguivano con infinita
ciurma, ogni dì cresciuta dalla schiuma de’ paesi traversati; correvano
a man salva sopra chiunque differisse a dare quanto pretendevano; e
incendj, devastazioni, e quantità di villani appiccati agli alberi
segnavano il loro passaggio. Alfine Guarnieri pel Friuli se n’andò
ben arricchito: ma quando i pochi resti della sua banda ebbero al
giuoco, ai bagordi, a postriboli sguazzato le prede, egli tornò
con Luigi d’Ungheria venuto a conquistare il regno di Napoli, e che
blandiva questo masnadiero al punto di volere da esso ricevere l’ordine
cavalleresco. Accordatosi col vaivoda di Transilvania e con altri
capibanda, fino a raccorre diecimila armati, Guarnieri taglieggia la
Capitanata e la Terra di Lavoro (1348), e ogni luogo dove trapiantasse
gli alloggiamenti; e il bottino che i suoi spartirono alla fine si
valutò mezzo milione di fiorini, non contando l’armi, i cavalli, i
panni e le cose d’uso o trafugate; e dopo strazj infandi traendosi
dietro prigionieri e donne rapite, attraversarono la spaventata Italia.
Fra queste bande e nelle guerre del Napoletano (1351) si era segnalato
Monreale d’Albano frate spedaliere, che, affidatisi alcuni masnadieri
ed esibendosi a un signore o all’altro, era venuto in fiducia che
nulla fosse impossibile alla forza; onde mandò inviti e promesse
a quanti erano mercenarj per Italia, e arrolati millecinquecento
cavalli e duemila fanti, mise a sacco la Romagna. Avvezzò egli i
suoi a rubare e assassinare con ordine: teneva tesoriere, segretarj,
consiglieri con cui discutere; giudici che mantenessero fra i soldati
una giustizia a modo suo, e reprimessero i saccardi: il bottino doveva
essere compartito equamente tra uffiziali e soldati, poi venduto a
certi mercanti privilegiati: una repubblica insomma di masnadieri
disciplinati. E per tutto se ne parlava; i venturieri non vedeano
l’ora d’aver finito la propria condotta per mettersi ne’ ruoli di
frà Moriale, e fin principi e baroni di Germania. Così aggomitolò
da settemila cavalli e millecinquecento fanti scelti, ma l’ondata
seguace saliva sin a ventimila; e ognun pensi come i paesi doveano
rimanere in isgomento, e se pagavano di grosso acciocchè non venissero
a far di loro Dio sa che. Le città toscane si serrarono in lega per
difendersi, ma egli bravando di volerne far quel peggio che mai,
seppe sconnetterle, ciascuna tagliando di pingui riscatti: Siena di
sedicimila fiorini, d’altrettanti Pisa, di venticinquemila Firenze
per rimanerne lontano due anni, oltre i regali ai capi. E corsa per
sua la campagna, andò a servire la lega formata contro i Visconti,
patteggiando cencinquantamila fiorini per quattro mesi di servizio.
Finito il quale (1354), traversò Italia onde andare ad accaparrarsi
imprese per la nuova stagione; ma Cola Rienzi il colse, come vedremo.
Tal modo di guerra aggeniava agli Stati piccoli e trafficanti, che
col denaro sapeano di avere in pronto truppe ad ogni occorrenza, e
ripristinavano in certo qual modo l’equilibrio, rotto dal crescere
d’alcune potenze. Ai tiranni conveniva onde perfidiare la pace,
giacchè, se volessero nel cuor di questa rovinare un loro nemico,
congedavano una banda con segreto concerto che la si gettasse sulle
terre di quello. Il condottiere tornava opportunissimo alla diffidenza
di Stati non eretti saldamente sopra le istituzioni: e l’aristocrazia,
temente la popolarità d’un guerriero vittorioso; la democrazia, gelosa
di non affidare il comando a un cittadino; i principi, che repugnavano
dall’armare nè i nobili nè la plebe, trovavano al caso loro questo
nomade eroe, che combatteva perchè pagato, che se ne andava al cessar
degli stipendj, che alla peggio potevasi reprimere collo stipendiare
un suo emulo. Venezia, che, per gelosia, ai proprj nobili non avea mai
consentito i comandi, menò soldati a mercede in tutte le campagne di
terraferma; Firenze si piacque di un sistema, che i cittadini lasciava
attendere alla mercatura e alle industrie di mano e d’ingegno; se ne
piacque Roma pretesca: e così si estese questo vil modo, che della
guerra faceva una speculazione, togliendole quel decoro che la rende
men trista.
E fu un nuovo e gravissimo flagello della patria nostra. Que’
venturieri, terribili per barba, per cimieri strani, per nomi
strepitanti, unendosi improvvisi e guerreggiando senza ragione, nessun
più lasciavano sicuro della pace. Combattendo senza sentimento nè
onore, ispiravano diffidenza anche ai proprj compratori, disposti
com’erano ad abbandonarli appena ne trovassero uno più generoso. Ad
ogni impresa ben riuscita, pretendeano _paga doppia e mese compiuto_;
se finita la loro _ferma_ non fossero ricondotti, o la pace li
mettesse _in aspetto_, i capitani assumevano imprese per conto proprio:
riuscivano? ecco terre da saccheggiare, prigionieri da taglieggiare,
conquiste da rivendere: fallivano? aveano scemato le bocche da
mantenere. Dietro a loro traeva sempre una ribaldaglia di spie,
saccomanni, guastatori, che sperperavano il paese, non peritandosi
fra pace e guerra, fra amici e nemici. Aveano l’accortezza di non
badarsi in un paese tanto da eccitare i natii a difesa disperata, e
gl’inducevano a soffrire colla lusinga che presto ripartirebbero.
Nerbo degli eserciti restava sempre la cavalleria pesante, poco
reputandosi la fanteria, cernita fra vulgari, e che supponevasi
incapace a sostenere l’urto de’ corazzieri. Ma la grave armadura,
disposta alla difesa anzichè all’offesa, rendeva i militi più
formidabili per massa che per agilità; e se dai molti arcieri e
pochi balestrieri che erano allora negli eserciti non poteva essere
trapassata, disserviva però ne’ paesi caldi; e caduto che uno fosse,
più non poteva rialzarsi, e rimanea prigione o ucciso o soffocato.
Qualunque ostacolo poi frangeva quelle massicce ordinanze, nulla
poteano fra le montagne, poco al varco de’ fiumi; in conseguenza
evitavano le battaglie in campagna rasa, o bisognava che i due generali
nemici si mettessero d’accordo per scegliervi luogo opportuno, come si
farebbe in duello o in un torneo.
Rare perciò le giornate campali, limitandosi a _cavalcate_ sul terreno
nemico per bottinare, distruggere, coglier prigioni; e consumavasi
talvolta la guerra senza neppure una battaglia. Pertanto i paesani
ritiravansi entro terre castellate, quali allora faceansi tutte, e che,
per la natura delle armi d’allora, erano a gran vantaggio superiori
nella difesa, e anche i villani poteano sostenervi raffrontata sinchè o
si fosse patteggiato coi condottieri, o questi stancati non volgessero
sopra un altro castello. Imperocchè una tela continua ne trovavano
sui loro passi, e vicino un breve spazio alla piccola terra di
Sanminiato contavansene ventotto, ventitrè nel contorno di Montecatino,
ventiquattro ne possedeva attorno ad Asti la famiglia Solari; e
la Toscana, che oggi non ha tampoco una piazza, non sariasi potuta
conquistare che dopo tre o quattrocento assedj. La difficoltà d’essere
espugnati rendeva animosi a resistere, come oggi la certezza del dover
soccombere predispone a capitolare.
Intanto, a differenza di ciò che si fa o si cerca oggi, il danno cadeva
non sugli eserciti, ma sul popolo, lasciando costoro dappertutto luridi
segni di gola e di lussuria, e per lo meno mercatando degli alloggi
risparmiati, del cammino cansato. Dopo la vittoria di Meleto (1349) il
vaivoda di Transilvania, i conti Landò e Guarnieri doveano alle bande
doppia paga, montante a cencinquantamila fiorini; e non trovandoseli,
abbandonarono ad esse i gentiluomini prigionieri, che distesi su travi
per terra, vennero a furore flagellati finchè non s’obbligassero a
quel tributo. La Compagnia Bianca, capitanata dall’inglese Giovanni
Acuto (Hawkwood), allorchè prese Faenza (1376), pose in catene trecento
signori, undicimila cittadini cacciò, e sulle robe e sulle donne
avventossi furiosa: due connestabili si contendeano una monaca rapita,
quando l’Acuto sopravenne, e — Abbiatela metà per uno», disse, e la
tagliò in due. Un’altra banda mandavasi avanti un villano, di cui aveva
arrostito un fianco sopra la graticola, perchè i costui strilli ne
annunziassero l’avvicinarsi.
Racconta Franco Sacchetti, che, essendo iti due frati Minori ad esso
Acuto, lo salutarono al loro modo dicendo, — Monsignore, Dio vi dia
pace»; e quegli subito rispose: — Dio vi tolga la vostra elemosina»; e
meravigliandosi essi dello scortese ricambio, — Non sapete (soggiunse)
ch’io vivo di guerre, come voi di elemosine, e la pace mi disfarebbe?»
Dove l’autore, meno frivolo del solito, riflette: «Guaj a quelli uomini
e popoli che troppo credono a’ suoi pari, perocchè popoli e Comuni
e tutte le città vivono e accrescono della pace; ed eglino vivono
e accrescono della guerra, la quale è disfacimento delle città, e
struggonsi e vengon meno. In loro non è nè amore nè fede; peggio fanno
spesse volte a chi dà loro i soldi, che non fanno ai soldati dell’altra
parte; perocchè, benchè mostrino di voler pugnare e combattere l’uno
contro all’altro, maggior bene si vogliono insieme, che non vogliono a
quelli che gli hanno condotti alli loro soldi; e par che dicano, _Ruba
di costà, ch’io ruberò ben di qua_. Non se n’avveggono le pecorelle,
che tuttodì con malizia da questi tali sono indotte a far guerra, la
quale è quella cosa che ne’ popoli non può gittare altro che pessima
ragione. E per qual ragione sono sottomesse tante città in Italia a
signore, le quali erano libere? per qual cagione è la Puglia nello
stato ch’ella è? e la Sicilia? e la guerra di Padova e di Verona ove le
condusse, e molte altre città, le quali oggi sono triste ville?»[317].
Una milizia che si proponea per fine il saccheggio e lo stupro,
di rado conduceva a risultamenti decisivi; principi e repubbliche
rimanendo a loro arbitrio, supplicavano, in vece di comandare; donavano
titoli, stemmi, parentele ai capitani, e per reprimerli non sapeano
che ricorrere a inganni e veleni; e il rigore che era necessario
per isgomentar le bande, introduceva nuova ferocia negli statuti
criminali. Armeggiando per mestiere, i venturieri non dimenticavano
che domani forse servirebbero a quello che oggi combattevano; onde
s’accordavano di nuocersi il men possibile, far prigionieri più che
uccidere, sovrattutto risparmiare i cavalli, meno facili a rifarsi che
gli uomini; e quando facessero de’ prigionieri, se li scambiavano.
Essendo una volta Francesco Piccinino trascorso incautamente fra’
nemici, «subito che questi lo conobbero, gittarono le armi, e coi capi
scoperti riverentemente lo salutarono; e qualunque poteva, con ogni
riverenza gli toccava la mano, perchè lo imputavano padre della milizia
e ornamento di quella» (CORIO). Dopo il fatto di Montorio, Roberto
Sanseverino rimandò i fatti prigioni, ma con lettera in cui si doleva
che i soldati avversi «con poco rispetto l’avessero sonato, e datogli
molte punte di spada»[318].
Con tali cortesie la guerra si trovò ridotta ad una scherma da
scacchiere, a una manovra di marcie e contromarcie; le battaglie
a un accalcarsi piuttosto che azzuffarsi; nè versavasi sangue che
per inavvertenza, e un’abbaruffata in città costava di più che una
giornata campale; ingegno e astuzia sottentrarono al coraggio, e molti
invecchiarono nell’armi senza trovarsi mai esposti a pericolo. Nel
capitano però richiedevasi abilità personale; atteso che le truppe,
massime di fanteria, non erano tenute alla bandiera da punto d’onore,
non da vergogna de’ commilitoni coi quali trovavansi accozzati per
un solo momento, onde si sbandavano appena perduta la speranza della
vittoria o del bottino.
Alcuni capitani di ventura fondarono chiese e cappelle, massime a san
Giorgio, del qual titolo è un ospedale a Firenze, posto il 1347 dagli
stipendiati della Compagnia di quel nome; una cappella a Pisa del
1346, fondata da due degli Scolari; Bonifazio Lupo istituì a Firenze
l’ospedale che conserva il suo nome; Pippo Span il tempio degli Angeli;
Percival Doria l’Annunziata a Genova; Bartolomeo Coleoni ricchissima
cappella e pie istituzioni a Bergamo e a Venezia. Anna Elena, dopo la
tragica fine di Balduccio d’Anghiari suo marito, in Borgo San Gattolino
a Firenze fonda un ospizio di vedove e povere, da lei denominato
convento d’Annalena. E (ciò ch’è inonesto più che raro) in guerre di
speculazione ottennero gloria; all’Acuto Firenze poneva il ritratto e
un mausoleo nella propria cattedrale; esequie splendidissime rendeva
a Niccolò da Tolentino, con venti bandiere e più di tremila libbre di
cera, poi il ritratto in essa chiesa; statue equestri al Gattamelata
Padova, al Coleoni Venezia, anche dopo che il sepolcro avea tolto che
paressero formidabili.
Talora invece erano condotti a trista fine: si sa come Venezia si
disfece del Carmagnola; i Fiorentini fecero dipingere impiccato per un
piede il conte Francesco di Pontadera, capo di bande avversarie; Giovan
Tomacelli fratello del papa, marchese delle Marche, fatto chiamare il
famoso Boldrino da Panicale, lo fe trucidare, di che le costui bande
vollero vendetta su quanti uomini della Chiesa colsero. Trionfi e
supplizj, vicende d’ogni condizione avventuriera.
Le popolazioni non restavano assolte da ogni peso guerresco, anzi
doveano far la guardia delle città e dei contorni, custodire e
difendere le fortezze, dare i carri e i servigiali, preparar le
strade. Ciò pesava piuttosto sulla gente del contado; quei di città
contribuivano invece tasse o gabelle, con cui pagare le masnade.
Così il grosso della nazione italiana disusavasi del valore in
mezzo alle battaglie; arbitro delle nimicizie e delle paci restava
un gentame vendereccio; e le guerre non terminavano mai, perchè non
toglievano le forze ai vinti, i quali al domani d’una solenne sconfitta
poteano riaffacciarsi con esercito più poderoso, purchè avessero
onde comprarlo. Ai condottieri medesimi stava a cuore di non lasciar
soccombere i piccoli Stati ed i rivali, perchè non venisser meno
le occasioni di guadagni. Quando i Fiorentini volevano obbligare re
Ladislao di Napoli a restituir le terre tolte alla santa Sede, egli
domandò: — Che truppe avete ad oppormi?» ed essi: — Le tue medesime».


CAPITOLO CIX.
Incrementi di Firenze. Il duca d’Atene. La Morte nera. Petrarca e
Boccaccio.

Da costoro furono agitate le guerricciuole di Toscana. Dalla campagna
devastata accorreasi per sussidj a Firenze: eppure l’industria dentro
e i banchi di fuori le recavano tal floridezza, che, aggrandita
di possessioni, di castelli, di moneta, potè rappresentare parte
principale nelle vicende di tutta Italia.
Per la guerra contro Mastin della Scala, Firenze spediva a Venezia
venticinquemila fiorini d’oro il mese, oltre tenere al soldo mille
cavalieri, e guarnigioni nelle terre e castelli, de’ quali ben
diciannove sorgeano nel solo contado di Lucca, uno ad Arezzo, a
Pistoja, a Colle. Ma i soldi della cavalleria cessavano al cessar della
guerra, e ai magistrati invece di stipendj bastava l’onore di servire
alla patria. Quarantasei terre murate ne dipendevano, oltre quelle
di cittadini e le aperte: non grossa l’entrata diretta, ma le gabelle
fruttarono fin trecentomila fiorini annui, che oggi si valuterebbero il
quadruplo, e che sorpassavano l’entrata dei re di Sicilia, di Napoli,
d’Aragona. La zecca coniava da trecencinquanta in quattrocentomila
fiorini d’oro l’anno, e ventimila lire di moneta erosa: le spese
non arrivavano a quarantamila fiorini d’oro, tra le quali, oltre
le uffiziali, figurano le limosine a monaci e spedali, le feste al
popolo e ad illustri avveniticci, e il mantenimento de’ leoni, animali
pregiati colà non meno che a Venezia.
In città v’avea centodieci chiese, di cui cinquantasei parrocchiali,
cinque badie, due priorati con ottanta regolari, ventiquattro
monasteri con cinquecento religiose, settecento monaci d’ordini
differenti, ducencinquanta e più cappellani, trenta spedali con mille
letti. Lievissimo il tributo; bisognando denaro, se ne cavava dal
vendere spazio da fabbricar case; e s’ampliava la cerchia della mura
comprendendovi Borgognissanti e il Prato. Fra il 1284 e il 1300 si
ergevano la loggia dei Lanzi, Santa Maria del Fiore, Santa Croce,
futuro panteon de’ grandi Italiani.
Venticinquemila persone da quindici in settant’anni erano capaci
dell’armi, fra cui millecinquecento nobili, sottoposti alle rigide
cautele delle ordinanze di giustizia; non più di settantacinque
cavalieri di corredo, atteso gli ordinamenti democratici;
millecinquecento forestieri, ottantamila abitanti in contado. Ottanta
in cento persone componevano il Consiglio de’ giudici, seicento
quello de’ notaj: sessanta fra medici e chirurghi, cento droghieri,
cenquarantasei mastri di muro e di legname, cinquecento calzolaj,
e senza numero merciajuoli ambulanti. Da otto a diecimila fanciulli
frequentavano le scuole di leggere, da mille a milleducento quelle
d’aritmetica, un seicento quelle di grammatica e logica. Volgendo
a morale perfino l’astrologia, i Fiorentini diceano la loro città
esser nata sotto la costellazione dell’ariete, e perciò predestinata
al commercio, e che già Carlo Magno l’avesse divisa in arti; volendo
l’industria favolose genealogie, come l’aristocrazia. V’erano dunque
ducento e più esercizj d’arte della lana, e venti fondachi di panni
forestieri occupavano più di trentamila operaj: ventiquattro case
trafficavano di banca.
I contorni erano popolati di ville, deliziose per posto, e arricchite
di capi d’arte; e «uno forestiere non usato (conchiude Giovan Villani
questo lusinghiero ritratto della sua patria) venendo di fuori, i più
credeano per li ricchi e belli palagi ch’erano a tre miglia a Firenze,
tutti fossero della stessa città, al modo di Roma; senza dire delle
case, torri, cortili e giardini murati più da lungi, talchè si stimava
che intorno a sei miglia vi aveva tanti ricchi e nobili abituri, che
due Firenze non n’avrebbono tanto».
Da così bel crescere la tracollarono gravissime sventure. Nel novembre
1333 piogge interminate flagellarono molti paesi, e peggio Firenze,
ove l’Arno traripando guastò mura, ponti, casamenti, e molte vite e
ricchezze inestimabili; e seguì devastando il Casentino, il val d’Arno
superiore e l’inferiore, e per tutto ove tenne sua corrente fin al
mare. Incalcolabile il danno de’ privati; quel che ricadde sul pubblico
passò i ducencinquantamila zecchini: ma la città si affretta al
riparo, spendendo cencinquantamila zecchini ne’ soli ristauri, sebbene
contemporaneamente menasse la sciagurata guerra per l’acquisto di Lucca
e quella contro Mastin della Scala. Pure, non avendo mai il granchio
alla borsa ne’ pubblici comodi, eleva anche il magnifico palazzo sopra
le logge d’Or San Michele, e getta le fondamenta del meraviglioso
campanile.
Ma ecco la squassano grossi fallimenti. I Bardi banchieri nel 1345
doveano avere novecentomila fiorini d’oro dalla corona d’Inghilterra,
e centomila da quella di Sicilia; i Peruzzi seicentomila dalla prima,
centomila dall’altra; e avendo il re inglese lasciato scadere le
cambiali, le due case furono ridotte a fallire, e i Bardi diedero ai
creditori il settantotto per cento, assai meno i Peruzzi. Anche gli
Scali fallirono di quattrocentomila fiorini, e dietro a loro i minori
mercanti, «e fu (dice il Villani) a’ Fiorentini maggiore sconfitta,
senza danno di persone, che quella d’Altopascio».
Di quel tempo Firenze fece un primo assaggio di tirannia. Già quando la
guerra con Mastino metteva a repentaglio lo Stato, e invaleva la paura
che i Ghibellini di dentro gli desser mano, si provvide ad un’autorità
dittatoria, invece dei sette bargelli istituendo un capitano della
guardia o conservatore del popolo, con cento uomini a cavallo e il
doppio pedoni, e la provvisione di diecimila fiorini annui; la cui
giurisdizione non solo si estendeva illimitatamente sopra i fuorusciti,
ma era disobbligata dagli ordini della giustizia, e dal render conto ad
altri che ai priori delle arti. Il primo fu Jacopo Gabrielli da Gubbio,
che severo e tirannico, a contemplazione della plebe oppresse i nobili,
tendendo a privarli delle castella venti miglia attorno alla città,
cercando al castigo alcuni de’ Bardi e Frescobaldi che studiavano a
novità; e n’acquistò tale odio, che, quando scadde, fu stanziato che
nessun da Gubbio si eleggesse più a pubblica funzione.
Avrebbero dovuto accertarsi che mal si ripara la libertà all’ombra
del dispotismo: eppure, scontenti della lentezza de’ magistrati
e della perdita di Lucca, conferirono la signoria a Gualtiero di
Brienne (1342). Proveniva costui da quel Brienne che campeggiò in
Italia, suocero poi nemico di Federico II: re titolare di Gerusalemme,
per donne avea conseguito il ducato d’Atene, donde cacciato dalle
bande catalane, si era posto al mestiero più lucroso, la guerra di
ventura, e con cenventi uomini e gran fama di valore stava al soldo
de’ Fiorentini, quand’essi il domandarono capitano e conservatore
del popolo, per quella funesta propensione che i vulghi hanno
verso i capi militari. «Non senno, non virtù, non lunga amicizia,
non servigi a meritare, non vendicate loro onte, ma la loro grande
discordia»[319] riduceva i Fiorentini a dominio di questo forestiero,
il quale, avaro quanto ambizioso, perfido, ostinato, senza pietà nè
confidenza, pensò vantaggiarsi delle passioni di tutte le sêtte,
e tutte ingannarle. Bardi, Frescobaldi, Cavalcanti, Buondelmonti,
Adimari, Donati, Gianfigliazzi ed altri nobili antichi, esclusi di
governo dalla mercantile oligarchia, e continuamente rimorsi per
un potere che più non aveano, aizzavanlo contro i popolani grassi,
dominatori superbi, ed esosi anche alla plebe; ed egli in fatto ne
processò alcuni, come Altoviti, Medici, Rucellaj, Ricci, rivedendo
antiche ragioni; e trovando aveano trassinato il denaro del Comune,
li mandò al supplizio. Ne sbigottì quella fazione: nobili e plebe
s’allegrarono che Dio avesse finalmente mandato un uomo (1342), il
quale non mirava in viso a nessuno, nè si lasciava metter la mano sotto
da tirannetti. Incontrandolo dunque, gli gridavano _Viva il signore_,
ne magnificavano la integrità, ne dipingevano l’arma su tutti i canti;
ond’egli carezzando chi lo favoriva, salvando i falliti dalla prigione,
s’acquistò tanti fautori, da poter fidarsi a interrogare il voto
universale.
Radunato il parlamento, fattasi la proposta di dargli la signoria per
un anno, «il popolo cominciò a rugghiare, com’era deliberato per li
traditori; e gridarono, _A vita a vita, viva il signor duca, in tutto
sia signore_; e così pesolone preso e portato alla porta del palagio»
(STEFANI), ottenne il potere (8 7bre) senza verun termine o salvo,
bruciandosi i libri degli ordinamenti della giustizia e i gonfaloni
delle compagnie, tra feste incredibili: Arezzo, Pistoja, Colle, San
Geminiano, Volterra secondarono l’esempio. Egli (primo fondamento
d’ogni tirannia) soldò ottocento cavalieri francesi, eppure fe pace
con Pisa mentre i Fiorentini speravano la ricuperasse; si legò cogli
Estensi, coi Pepoli, cogli Scaligeri, garantendosi reciprocamente i
dominj, mentre nelle cariche ai gentiluomini preferiva i ciompi, cioè
la gente bassa: con ciò e coi mangiari e colle giostre otteneva la
vulgare reputazione di democratico, e con questa esercitò tirannia.
Allora seguirono i soliti corredi; prestiti forzati, divieto delle
armi, nuove inventie di gabelle ed imposte, giudizj ingiusti,
prepotenze, e tentar donne oneste, e cingersi di Francesi assetati
di preda e di femmine; fraudò i creditori del pubblico per ammassare
denaro che asportava: e puniva senza pietà chiunque appuntasse il suo
dominio, «sicchè (conchiude il Rinuccini), carissimi miei cittadini,
guardatevi di venire a tiranno».
Non tardò a prorompere la pubblica indignazione; e mentre i piccoli
artieri e il vulgo lo fiancheggiavano (1343), i grandi, i popolani
grassi e gli artefici, stanchi di vedersi sempre innanzi agli occhi
la mannaja e l’oltraggio, formarono tre congiure, una ignorando
dell’altra: poi unitisi nell’intento comune, e levando popolo al grido
di _Libertà_, in un batter d’occhio (luglio) misero fuori tutte le
bandiere, abbarrarono le strade, assalsero in palazzo il duca e per le
vie i suoi scherani: Guglielmo d’Assisi, Cerrettieri de’ Visdomini ed
altri di quegli abjetti che mai non mancano per assistere e invelenire
i tiranni contro la propria patria, furono uccisi con rabbia sì
furibonda, da mordere e mangiar persino delle loro carni, «che, secondo
che si legge, in inferno non si fa peggio di un’anima» (STEFANI). Il
duca, per intromessa dell’arcivescovo, potè ritirarsi, rinunziando a
qualsifosse diritto: si prese che il giorno di sant’Anna fosse festivo
come Pasqua; ed oggi ancora si commemora sventolando in Or San Michele
i ventuni gonfaloni delle arti.
A denaro i Fiorentini recuperarono molte rôcche, dal duca concesse ad
altri: ma quasi la libertà acquistata da Firenze invitasse le costei
suddite a ricuperarla esse pure, Arezzo, Colle, San Geminiano si fecero
di propria balìa; Volterra tornò a Ottaviano de’ Belforti; Pistoja,
in nome alleata, in fatto serva, cacciò il capitano e la guarnigione