Storia degli Italiani, vol. 07 (di 15) - 25
rappattumò le fazioni, diede quanto bastasse per raddobbare la flotta,
colla quale, avendo invano intromesso la mediazione del Petrarca,
entrati nell’Adriatico sotto il comando di Paganino Doria (1353), i
Genovesi sconfissero e presero l’ammiraglio veneto Niccolò Pisani con
cinquemila ottocensettanta uomini, e obbligarono i Veneziani a chieder
pace, pagare ducentomila fiorini d’oro, e rinunziare per tre anni al
commercio sul mar Nero, eccetto Caffa.
Adunque i Visconti possedevano tutta Lombardia, la Liguria, parte
del Piemonte e della Romagna, e minacciavano la Toscana. Tanta
potenza era bilanciata dai signori della Scala di Verona, i primi
che, senza possedere antichi feudi ereditarj, aspirassero ad estesa
signoria. Succeduti in una parte de’ dominj di Ezelino, stettero
capitani de’ Ghibellini contro Roberto re e Giovanni XXII, e favoriti
dagl’imperatori (1312). Cane, che da’ suoi partigiani ottenne il nome
di Grande, seppe sostenerlo nella non lunga vita; abbellì Verona;
letterati ed artisti accoglieva; savio in consigli, e, cosa rara fra
que’ signorotti, fedele alle promesse; prode e fortunato in armi,
sicchè, oltre Verona sua sede, recossi in mano Feltre, Belluno,
Treviso. Ma non teneva assodata la propria grandezza finchè non
acquistasse anche Padova.
Questa città, rifattasi dalla tirannia di Ezelino al favore della
libertà, avea sottomesso Vicenza e Bassano, e fioriva di studj per
la sua Università; ma trasmodando nella democrazia, escludeva dal
governo tutti i nobili: eppure affidava larghi poteri alla famiglia
de’ Carrara, sopravissuta alle altre della Marca. Come guelfa, era
incorsa nell’ira di Enrico VII, che incitò Vicenza a sottrarsele, e
che diede questa a governare a Can della Scala, suo braccio destro.
Cane vi introdusse soldati mercenarj, soprusò militarmente e aprì
guerra ai Padovani. Il territorio n’andò guasto; file di contadini
vedeva lo storico Ferreto condotti tratto tratto in Vicenza colle mani
legate alle reni, e trattati alla peggio finchè si riscattassero; nè
maggiore umanità mostravano i mercenarj di Padova. Frequenti tornavano
a battaglie, ciascuno coi proprj alleati; e Padova riuscì a mettere in
piedi quarantamila fanti e diecimila cavalli[296]; tant’era in fiore
sinchè non la guastò una terribile epidemia.
Dentro v’erano perseguitati i Ghibellini; e i Carrara, blandendo alle
invidie del vulgo e gridando — Viva il popolo, morte ai traditori»,
assalsero chi ostava alle loro ambizioni (1314), e massime Pietro
Alticlinio, ricco e creduto avvocato, nella cui casa, allora data al
saccheggio, si pretese trovar le prove dei più atroci delitti[297].
Esso e i parenti e gli amici furono mandati a strazio; lo storico
Albertino Mussato, reo d’aver proposta una tassa e di starne formando
il catasto, a fatica si salvò.
Intanto continuava la guerra collo Scaligero, sebbene più di oltraggi e
latrocinj che d’uccisioni; e nell’assalto di Vicenza, Giacomo Carrara,
caduto prigioniero di Cane, s’intese con esso per darsi di spalla nelle
mutue ambizioni. Di fatto, valendosi della stanchezza prodotta dalle
lunghe ostilità, Rolando di Piazzola giureconsulto[298] con una brava
arringa persuase i Padovani a scegliersi un principe, e Giacomo Carrara
fu proclamato. Marsiglio suo nipote non tardò a guastarsi con Cane,
e a’ danni di lui invitò il duca di Carintia e Ottone d’Austria. Con
Tedeschi e Ungheresi, che i cronisti fanno ascendere a quindicimila
cavalli, vennero quelli saccheggiando il Friuli come Dio vel dica;
e il Padovano e tutta Lombardia spedivano soldati per arrestare quel
flagello: ma Cane riuscì meglio col denaro, facendoli dar volta senza
che avessero danneggiato altro che gli amici. Poi si vendicò dei
Padovani guastando se alcun che vi era rimasto non guasto; e seguitò le
nimicizie tanto, che indusse Marsiglio a cedergli Padova (1328), e così
si trovò contentato del lungo desiderio.
Mastino II, succeduto a lui con coraggio eguale e ambizione maggiore,
ebbe Parma a patti, occupò Brescia cacciandone il vicario di Giovanni
di Luxenburg, e abbandonando i Ghibellini alla vendetta de’ Guelfi.
Tenea corte splendidissima; lo storico Cortusio lo trovò circondato
da ventitre principi, spossessati dalle catastrofi consuete; durante
il pranzo, musici, buffoni, giocolieri; le sale erano coperte di
quadri rappresentanti le vicende della fortuna; appartamenti aveva
allestiti con simboli e insegne convenienti alla varia condizione di
chi gli cercava ricovero, il trionfo pe’ guerrieri, la speranza per
gli esuli, le muse pei poeti, Mercurio per gli artisti, il paradiso pei
predicatori[299].
Lucca era stata da re Giovanni venduta ai Rossi, e Firenze diè
commissione a Mastino (1335) di trattarne per essa la compra: egli
strinse la pratica, poi per le spese e l’incomodo pretese trentaseimila
zecchini. Sperava sgomentarli coll’enorme domanda, ma i Fiorentini
senza dibattere un soldo accettarono: se non che egli allora soggiunse
non aver bisogno di siffatte miserie, e tenne per sè la lieta città.
Così sopra nove ebbe balìa, le quali gli rendeano l’anno settecentomila
fiorini, quanti neppur la Francia al suo re. E meditava nulla meno
che farsi signore di tutta Italia; intanto Lucca gli sarebbe scala
a sommettere la Toscana, mediante l’alleanza co’ signorotti degli
Appennini.
Firenze legossi al dito l’affronto ricevuto da Mastino, e gli ruppe
guerra; dove, se sottostava di valor militare e d’alleanze, avea denaro
e volontà di spenderlo per l’onor nazionale. Avrebbe dovuto sostenerla
la lega guelfa; ma re Roberto era invecchiato; Bologna non pareva aver
recuperato la libertà che per tempestare sanguinosamente fra Scacchesi
e Maltraversi; Siena e Perugia erano minacciate da Pier Saccone de’
Tarlati signore di Pietramala, che, avendo spossessato la famiglia
d’Uguccione della Faggiuola, gli Ubertini, i conti di Montefeltro
e Montedoglio, dominava su tutte le montagne della Toscana e della
Romagnola, oltre Arezzo possedeva Castello e Borgo Sansepolcro, ed
essendosi alleato con Mastino, di molto pregiudizio poteva essere ai
Fiorentini. Essi dunque cercarono un amico lontano.
I Veneziani, che fin allora non s’erano mescolati alle vicende del
continente italiano se non come stranieri, e che nessun’ombra prendeano
dalla vicinanza de’ vescovi di Padova, di Vicenza, d’Aquileja, vennero
sospettosi dell’incremento degli Scaligeri. In fatti Mastino pensò
sottrarre i suoi paesi alla privativa che i Veneziani s’arrogavano di
somministrare il sale; onde eresse fortezze sul Po per esigere gabelle
da chi lo navigasse, e proteggere le saline colà stabilite. Ne venne
rottura, e Venezia pigliò concerto con Firenze, la quale pagando metà
delle spese, si obbligava a lasciarle tutti gli acquisti. Capitanò la
loro lega Pietro de’ Rossi, famiglia già signora di Lucca e Parma, la
qual ultima pure era stata obbligata a cedere a Mastino dopo che si
vide tolti anche i castelli aviti attorno a Pontremoli. Pietro, che
aveva rinomanza del cavaliere più perfetto d’Italia, appoggiato a molte
bande tedesche, condusse prosperamente i collegati contro lo Scaligero.
Intanto i Fiorentini indussero il Saccone a vender loro la signoria
d’Arezzo, dove costituirono una magistratura propria. In Lombardia poi
sollecitavano quanti erano nemici allo Scaligero; e Azzone Visconti,
i Gonzaga, i Carrara, gli altri da lui spodestati collegaronsi _ad
desolationem et ruinam, dominorum Alberti et Mastini fratrum de la
Scala_, spartendosene in fantasia i possessi e ribellandogli le città.
Padova fu presa (1338), arrestandovi Alberto: ma l’essere morto in
battaglia Pietro de’ Rossi troncò il corso alle vittorie. Mastino,
ridotto alle strette, maneggiò la pace, cedendo molti acquisti;
Padova tornava ai guelfi Carraresi, Brescia al Visconti; i Veneziani
occupavano Treviso, Castelfranco e Céneda, primi loro possessi di
Terraferma, e otteneano libera la navigazione del Po.
Mastino, amareggiato dai disinganni, infellonì; sospettando del vescovo
Bartolomeo della Scala, per istrada lo ammazzò, donde fu scomunicato
dal papa; poi, fatta onorevole ammenda, ricevè il titolo di vicario
pontifizio.
Anche Parma gli fu tolta (1341) dai Correggio suoi zii a cui l’avea
fidata; sicchè, interrottagli la comunicazione con Lucca, esibì questa
a Firenze, che con ciò avrebbe potuto rifarsi dei seicentomila fiorini
che le era costata la guerra di Lombardia. Ma mentre essa stitica sul
prezzo, i Pisani, che se ne sentivano minacciati, la prevengono e la
occupano coll’ajuto dei Visconti e d’altri Ghibellini e massime di
fuorusciti, lieti di sottrarsi dalla incomoda vicinanza. I Fiorentini,
tardi riconsigliati, vollero ricuperarla facendo sforzi ingenti; ma
alfine le bande da essi assoldate furono sconfitte alla Ghiaja.
Gli Scaligeri più non fecero che decadere (1387) e disonorarsi, finchè
ai tempi di Gian Galeazzo perdettero le restanti giurisdizioni, e
cessarono d’essere dominanti. Verona ne attesta ancora co’ monumenti la
grandezza, e le loro tombe sono chiari testimonj delle arti risorte e
non ancora svigorite colla servile imitazione[300].
Al contrario, gli Estensi (1317), gridati nuovamente signori di
Ferrara, come dicemmo, vi aggiunsero Modena per cessione di casa Pio,
e da Carlo IV ottennero la conferma de’ feudi imperiali di Rovigo,
Adria, Aviano, Lendinara, Argenta, Sant’Alberto, Comacchio importante
per le saline. Barcheggiando fra i papi, Venezia e Milano, Obizzo
III s’acconciò col papa, retribuendo un annuo canone per Ferrara
(1344). Comprò Parma da Azzone Correggio per settantamila fiorini;
ma mentre andava a prenderne possesso, Filippino Gonzaga di Mantova,
ajutato da Luchino Visconti, l’appostò, molti della sua scorta uccise,
settecentoventidue condusse prigioni. I più liberò a prezzo; ma Giberto
da Fogliano e suo figlio Lodovico tenne in una gabbia di ferro, ove
morto questo dalle ferite, il padre dovette rimanere col suo cadavere.
Filippino mosse guerra ad Obizzo e a Mastin della Scala, e dopo gran
viluppo di leghe e di guerre, Parma fu comprata da Luchino (1340).
Oltre questi tiranni creati dal popolo, altri provenivano dall’antica
feudalità, e principale tra questi fu la casa di Savoja. Da un cumulo
di favole inventate o raccolte da frà Jacopo d’Acqui (1003?), par di
dedurre che capostipite di quella fosse un Umberto Biancamano, forse
discendente da Vitichindo emulo di Carlo Magno, o da un sassone Beroldo
nipote di Ottone III, che fu vicerè d’Arles e conte di Moriana e del
Ciablese. Quest’origine argomentò il Guichenon per ordine di Cristina
di Francia vedova di Vittorio Amedeo I, quando ella, aspirando a far
salire quella casa al trono di Germania, trovava opportuno il mostrarla
oriunda da una germanica.
L’altro concetto di Enrico IV d’unire sotto ai principi savojardi
tutta l’alta Italia, fece trarli da famiglia italiana, cioè dai conti
d’Ivrea: asserto portato dal giudizioso Lodovico Della Chiesa, ed
appoggiato nel secolo scorso dal Napione, quando il perire di tutte le
dinastie italiche concentrava gli sguardi su quest’unica superstite;
poi nel secolo nostro colle nuove speranze di fare di quel principato
il piedistallo della futura Italia. Supposero dunque che il Beroldo o
Geroldo, favoleggiato padre di Umberto, sia Ottone Guglielmo duca di
Borgogna[301], figlio di re Adalberto e nipote di Berengario II, re che
furono d’Italia; pronipote di Gisla, figlia di Berengario I imperatore;
abnepote d’Anscario marchese d’Ivrea, figlio di Guido di Spoleto,
fratello di Guido re d’Italia. Il Cibrario, che con viaggi e documenti
appoggiò quest’assunto, conchiude che «s’aspettano documenti che
forniscano la prova diretta di ciò»: e di fatto, come in tutte coteste
genealogie, non manca se non l’anello che congiunga il ramo discendente
coll’ascendente. Del resto, che la famiglia regnante in Piemonte
indagasse avi incerti per ricordarsi e ricordare ch’è d’origine
italiana, è la più perdonabile delle vanità.
Che che sia de’ primi, ornati col titolo di conti di Moriana, i
successivi vi aggiunsero nuovi dominj anche di qua dall’Alpi e
nominalmente Aosta. La posizione fra queste rendeva importante il
marchesato di Susa, il quale per le nozze della contessa Adelaide,
celebre nelle lotte de’ concubinarj e dell’imperatore Enrico IV, fu
unito al contado di Moriana (1045) nel figlio di lei Amedeo II; pel
quale innesto la casa di Savoja metteva un piede in Italia. Quando
Enrico IV veniva a invocar l’assoluzione da Gregorio VII, Amedeo
per concedergli libero passo ne pretese cinque vescovadi in Italia e
un’ubertosa provincia della Borgogna, che forse fu il Bugey. Molti
sorsero pretendenti all’eredità di Adelaide, donde si formarono
parecchi contadi rurali e principati, e segnatamente quelli di
Monferrato e Saluzzo; e varj paesi si stabilirono a Comune, fra cui
Asti, riconosciuta libera (1098) da Umberto II il Rinforzato[302],
il quale, a detta di sant’Anselmo di Aosta, «usava del principato
a mantenere la pace e la giustizia», e fu forse il primo che
s’intitolasse conte di Moriana e marchese d’Italia.
Amedeo III, figlio di questo (1103), diede carta di Comune a Susa, e ad
onore di san Bernardo fondò in riva al lago del Borghetto l’abbazia di
Altacomba, celebre pei sepolcri de’ principi di Savoja, sperperata al
fine del secolo scorso, restaurata ai dì nostri; come il padre, fu alla
crociata, e morì a Cipro. Umberto III, detto il Santo pel tenore di sua
vita (1148), vedendo il Barbarossa voler attenuare le giurisdizioni
di lui colle ampie concessioni fatte al vescovo di Torino, avversò
quell’imperatore, poi mediò la pace fra esso e i Lombardi. Tommaso
I ampliò le franchigie a Susa, le diede ad Aosta (1188), acquistò
Testona, Pinerolo, Carignano, e fu vicario di Federico II in Italia,
valendosi di tali dignità per reprimere i prelati e i baroni. Ad
Amedeo IV esso Federico conferì il titolo di duca del Ciablese e conte
d’Aosta, e una costui figlia sposò al suo Manfredi che fu re di Sicilia
(1233): legati così agli Svevi, que’ duchi ebbero a patire dalla venuta
di Carlo d’Angiò, talchè si restrinsero di nuovo fra le Alpi. Pietro,
già ministro d’Enrico III d’Inghilterra, tornò alla propria devozione
i paesi di qua dell’Alpi (1263) fino a Torino; conoscendo la necessità
d’essere forte, munì il paese, condusse truppe, regolò le finanze e la
giustizia, e fu detto il Piccolo Carlo Magno.
Salda alla monarchia, quella casa compresse i germi di libertà
comunale, che l’esempio delle lombarde confinanti sviluppava nelle
città subalpine; e nè guelfa nè ghibellina, dalle altrui gare traea
profitto per consolidarsi di governo, di possessi, di forze. Nè
poeti, nè storici ne tramandarono i fasti, ma incerte tradizioni e
contraddicentisi, e soprannomi capricciosi.
Lungo sarebbe a seguire il dividersi e ricomporsi di essa. Nel ramo
di Piemonte Tommaso II era detto anche conte di Fiandra e di Hainault
perchè sposo a Giovanna erede di que’ paesi e figlia di Baldovino IX
imperatore di Costantinopoli. In sette anni ch’egli regnò colà, estese
molto i Comuni (_keure_) al modo d’Italia: perduta poi la moglie, tornò
in patria, ed ampliò i possessi (1244), e non solo ebbe dal fratello
Amedeo IV il Piemonte proprio, cioè il paese fra l’Alpi, il Sangone e
il Po, di cui era principal terra Pinerolo, ma Federico II imperatore
se l’amicò concedendogli Torino col ponte e col castelletto, Cavoretto,
Castelvecchio, Moncalieri, stato sostituito a Testona distrutta
da Astigiani e Chieresi; onde con questa linea sulla destra del Po
dominava le strade commerciali di Asti e di Genova con oltremonte
(1248): aggiunse il Canavese, Ivrea ed altre terre, e fu nominato
vicario imperiale dal Lambro in su.
Caduto Federico, egli corteggia il papa Innocenzo IV, che
dall’imperatore Guglielmo d’Olanda gli ottiene concessioni nuove, e
feudi, e diritto di moneta, di mettere pedaggi, d’aprire mercati. Molto
ebbe a cozzare con Asti, e seppe interessare nel litigio Luigi IX di
Francia, il quale fece arrestare quanti Astigiani trovavansi colà. A
vendetta questi occuparono fin Moncalieri, a Montebruno sconfissero
Tommaso (1257), contro del quale essendosi rivoltati i Torinesi, lo
presero e consegnarono agli Astigiani. Di Francia, d’Inghilterra, di
Fiandra, dal papa vennero preghiere a favor di lui; ma non fu voluto
rilasciare finchè non ebbe rinunziato a tutti i diritti sopra Torino ed
altri luoghi, dando statichi agli Astigiani i proprj figliuoli.
Due nobili sposi tedeschi pellegrinavano a Roma, quando, giunti
nel Monferrato, la donna partorisce un bambino, e quivi il lascia a
nutrire. Essi muojono in viaggio, e il fanciullo Aleramo acquista
nome di valore; e ito a soccorrere l’imperatore Ottone il Grande
contro Brescia, invaghisce di sè Adelaide figlia d’esso imperatore,
e con lei fugge tra i carbonaj de’ liguri monti; finchè Ottone gli
perdona, e gli assegna le terre fra l’Orba, il Po e il mare, facendone
i sette marchesati di Monferrato, Garessio, Ponzone, Ceva, Savona,
Finale, Bosco. A un nuovo assedio di Brescia, Aleramo uccide senza
conoscerlo il proprio figlio Ottone; dagli altri fratelli Bonifazio e
Teodorico derivano le famiglie di Bosco, Ponzone, Occimiano, Carretto,
Saluzzo, Lanza, Clavesana, Ceva, Incisa, e da Guglielmo i marchesi
di Monferrato. Questi furono cantati spesso dai poeti, dei quali è
fantasia una tale origine, viemeno probabile perchè nessuna figlia
d’Ottone il Grande ebbe uno sposo di quel nome. Qualunque però si
fosse e di qualunque tempo questo Aleramo, la sua discendenza dominò il
pendìo dell’Appennino ligure dalla riva destra del Po fino a Savona;
e ne vennero le famiglie che dominarono il Monferrato, Saluzzo verso
le sorgenti del Po, e le città occidentali di Torino, Chieri, Asti,
Vercelli, Novara, disputandole ai Visconti e alla libertà comunale.
I marchesi di Monferrato vedemmo mescolarsi alle vicende dell’Italia
superiore e nelle crociate, tanto che vennero i più illustri di quei
dintorni, cercata l’alleanza loro, temuta la nimicizia. Ma ristretti
fra le ambizioni de’ duchi di Savoja e de’ signori di Milano, non
poterono ampliarsi; intanto che una nobiltà potente, la quale si
vantava d’origine pari ai dominanti, li contrastava dentro, non
lasciando che il paese prendesse ordinamento nè monarchico nè a popolo.
Bonifazio IV, essendogli tolto dai Musulmani (1222) il suo principato
di Tessalonica, per ricuperarlo cercò novemila marchi a Federico II,
dandogli in pegno i proprj Stati; col che non solo dimezzò la propria
potenza, ma pose a repentaglio l’indipendenza del Piemonte, se la casa
Sveva non fosse perita. Anche a signori e Comuni cedette le ragioni
sopra molte città.
Guglielmo VI, detto il gran marchese, figlio a Margherita di Savoja
(1254), sposo ad Isabella di Glocester, poi a Beatrice di Castiglia,
maritò la figlia Jolanda al greco imperatore Andronico II Paleologo,
dandole in dote l’infruttuoso regno di Tessalonica, e ricevendone
grosse somme e la promessa di cinquecento cavalieri, mantenuti a suo
servizio in Lombardia. Con questi egli facea pendere la bilancia a
favore de’ Guelfi o de’ Ghibellini, secondo che vi si accostava. Per
tradimento entrato in Torino, molti uccise, molti imprigionò, fra
cui il vescovo Melchiorre, che sempre avea contrariato i disegni
del marchese sulla sua patria, e che, non volendo far rilasciare
i suoi castelli al vincitore, fu ucciso. Mentre egli andava in
Spagna a trovare il suocero, Tommaso III di Savoja lo arrestò a
tradimento, e costrinse rinunziare i diritti sopra Torino. Tornati
con alquanti uomini e denari, prometteva conquistar tutta Italia, ma
vide ribellarsegli le città, e fu preso dagli Alessandrini (1292),
che quanto visse lo tennero in una gabbia di ferro; morto, vollero
accertarsene col fargli sgocciolare sul corpo del lardo bollente e del
piombo fuso.
Allora le città di sua dipendenza consolidarono le loro franchigie;
molto paese fu occupato da Matteo Visconti, che si vendicava del
suo nemico, e che fu dai popoli dichiarato capitano del Monferrato;
sicchè il figlio Giovanni II, succedutogli a quindici anni, si trovò
ristretto nel primitivo dominio. Questi fu l’ultimo di quella linea;
e morto improle (1305), doveva ereditarne la sorella Jolanda. Se non
che Manfredi di Saluzzo, del sangue stesso, aspirava a quel dominio,
e l’occupò armatamano; e perchè prese anche molte delle terre ch’erano
state di Carlo d’Angiò, chetò i reali di Napoli coll’accettare da loro
come feudo il Monferrato, sebbene non v’avessero titolo di sorta.
L’imperatore greco spedì Teodoro suo secondogenito, che sposata una
figlia d’Obizzino Spinola genovese per averne appoggio, coll’armi
recuperò l’eredità, e per combattere a vantaggio i Visconti, dai
vassalli esigette uomini e denaro di là dal convenuto.
La casa di Savoja, che distesasi oltr’Alpi verso l’Elvezia e la
Francia, voltava le sue ambizioni all’Italia, presto si trovò in gara
coi marchesi di Monferrato; e il possesso d’Ivrea fu seme di guerra,
in cui arrivarono ad acquistare sovranità sopra i conti di Piemonte e
i marchesi di Saluzzo. Nel 1285, morto Tommaso III, che dai marchesi
di Monferrato avea ricuperato il Piemonte, dovea succedergli il nipote
Filippo; ma Amedeo V di Savoja suo zio governò il paese come suo,
mentre a Filippo non restò che il titolo di principe d’Acaja, col quale
i suoi successori s’ingegnarono di dominare qualche parte del Piemonte.
Esso Amedeo (1287), che assistette a trentacinque assedj, e battagliò
continuo col Delfino, col conte di Ginevra, col sire di Faucigny e
con altri, fu creato principe dell’impero da Enrico VII suo cognato,
che gli assegnò pure la contea d’Asti, gloriosa repubblica scaduta
dalla sua grandezza: ma questa fu tenuta da Roberto di Napoli finchè
il marchese di Monferrato gliela tolse per sorpresa, e se ne chiamò
signore. Amedeo stabilì l’indivisibilità della monarchia di Savoja
e l’esclusione delle femmine, e cominciò a pigliare il titolo di
principe: ebbe da Enrico anche Ivrea e il Canavese, e Fossano dal
marchese di Saluzzo. Allora detta monarchia comprendeva otto baliaggi;
Savoja, con cui la Moriana, la Tarantasia e diciotto castellanie; la
Novalesa con nove castellanie; il Viennese con altrettante; la Bressa
con dieci; il Bugey con sette; il Ciablese con sedici; val d’Aosta con
cinque; val di Susa con tre.
Amedeo VI, detto il Conte Verde (1343) dal colore onde comparve
divisato egli e il cavallo in un torneo a Chambéry, tolse alla
contessa di Provenza Chieri, Cherasco, Mondovì, Savigliano, Cuneo; bene
amministrando le finanze per l’abilità del ministro Guglielmo De la
Beaume, potè ottenere il Faucigny, comprare la baronia di Vaud, e le
signorie di Bugey e Valromey. Vedendo agli antichi Delfini surrogata
la Francia, potenza più robusta, non sperò ingrandire ulteriormente da
quel lato, e si volse più specialmente all’Italia.
Passando l’imperatore Carlo IV dalla Savoja, Amedeo l’accolse con
sommi onori, gli mosse incontro con sei cavalieri banderesi riccamente
in addobbo, lo convitò suntuosamente, egli stesso e i suoi a cavallo
servendolo di vivande quasi tutte dorate, mentre due fontane giorno e
notte sprizzavano vin bianco e chiaretto, che ognuno poteva prendere
a piacere[303]. In ricompensa fu costituito vicario imperiale, e fe
pace con Giovanni Paleologo di Monferrato, spartendosene il possesso.
Ito a Costantinopoli (1366) a soccorrere questo suo cugino, conquistò
Gallipoli, Mesembria, Lemona sopra i Turchi, assediò Varna, e costrinse
i Bulgari a far pace con esso imperatore. Il papa abilitò i vescovi ad
assolvere da usure e mali acquisti chi contribuisse per essa impresa,
concesse al conte le decime ecclesiastiche, mentre ciascun feudo
dava armi ed oro. Il conte se ne valse per continuare anche poi le
esazioni; col papa entrò in lega a danno de’ Visconti qual capitano
generale; e neppure alla pace volle restituire alcuni castelli ad essi
occupati, avido sempre di gloria e denaro; ma per ottenere la prima
rovinò le finanze, ed oltre impegnare a lombardi ed ebrei le gemme e
gli argenti, vendette gli uffizj. Aspirava a formare uno Stato solo,
riunendo a Savoja il Piemonte tolto ai principi d’Acaja, e mozzando
le giurisdizioni feudali: ma in quanto acquistava verso l’Italia
introduceva forme d’amministrazione alla francese, restringeva in senso
principesco i liberi statuti; moltiplicò le imposizioni, fallì alla
fede quando gli giovò, servì agli stranieri nel conquisto di Napoli
(1383), dove morì miseramente (Cap. CXIV). Dell’ordine dell’Annunziata,
da esso istituito, abbiamo già parlato[304].
Amedeo VII, soprannomato il Conte Rosso, più valente in armi che in
consigli, si tenne all’amicizia di Francia come il padre. Ai tempi
di Carlo Magno, la Provenza già era divisa in contadi, due dei quali
formavano quel che ora dicesi di Nizza. I popolani di questa, mentre
Raimbaldo loro conte stava oltremare crociato, si vendicarono in
libertà; e quegli, reduce, si accontentò d’esservi console. Non era
spenta però la soggezione, e Nizza nel XII secolo obbediva ai conti di
Arles, il restante paese a quelli di Tolosa, di Forcalchieri, d’Orange,
del Balzo, finchè i conti di Barcellona si fecero marchesi di Provenza.
I Nizzardi spesso tentarono, alfine riuscirono a sottrarsene nel 1215
giurando la _compagnia_ di Genova, e i marchesi di Provenza giuravano
rispettare i loro statuti. Con Beatrice, figlia di Raimondo Berengario,
passò quel dominio a Carlo d’Angiò, che ne fece fondamento alla futura
sua grandezza in Italia. Frattanto le fazioni non risparmiavano Nizza,
e la città era divisa fra nobili che abitavano la villa di sopra, e
cittadini della villa di sotto. I mali cui andò soggetta la stirpe di
re Roberto di Napoli, furono risentiti dai Nizzardi, finchè regnando
il fanciullo Ladislao, essi per opera dei Grimaldi chiesero ad Amedeo
VII di venire aggregati al suo dominio. Amedeo vi riunì i contadi di
Ventimiglia e Villafranca (1388) e la valle di Barcellonetta, allegando
o crediti verso le due case d’Angiò, o dedizione de’ baroni, o il
titolo di vicario imperiale.
Amedeo da un ciarlatano lasciossi dare un beveraggio che rifiorisse la
sua debolezza, e gliene costò la vita (1391). Bona di Berry sua vedova
e sospetta autrice della morte di lui, fatta reggente, tempestò in
contese di potere colla suocera e coi grandi, in guerre coi conti di
Ginevra, coi vescovi di Sion, con Berna, con Friburgo, coi parenti;
e menò pace. Amedeo VIII, loro figlio, detto il Pacifico perchè
all’armi preferì la politica, con questa vantaggiò assai, attento
a tor via i feudi, trarre a sè il Monferrato e Saluzzo, rodere il
Milanese. Ebbe in fatti omaggio dagli Avogadri di Quinto, di Quaregna,
di Valdengo, di Casanova, di Collobiano, di Pezzana, dagli Alciati,
dagli Arborj, dai Dionisj, dai Pettinati, da molti monasteri e Comuni,
tra cui val d’Ossola, e infine anche da Vercelli. Questa città, che
vedemmo (vol. VI, p. 201) una delle prime ad acquistar le franchigie
municipali, e delle più gloriose nel sostenerle, straziò le proprie
viscere nelle fazioni degli Avogadri coi Tizzoni, della società nobile
di Sant’Eusebio colla popolana di Santo Stefano, e infine cadde in
signoria de’ Visconti di Milano. Amedeo VIII, il cui avo già aveva
acquistato Santhià, San Germano e Biella, e che riceveva omaggio dai
tanti Avogadri di quel paese, soggettava or per forza or a persuasione
alcuni Comuni, profittando delle discordie scoppiate nel Milanese
alla morte di Gianmaria Visconti; poi dal costui successore ottenne
Vercelli, col patto di spiccarsi dalla lega con Venezia e Firenze.
Acquistò inoltre il Genevese (1414), disputato fra molti dopo finita la
stirpe dei prischi conti; e il Piemonte quando si estinsero i principi
d’Acaja. A questo titolo erasi dovuto accontentare Filippo di Savoja
(1294); ma sebbene del Piemonte giurasse vassallaggio alla Savoja,
lo tenne come indipendente, e così suo figlio Jacopo; onde i signori
di Savoja miravano sempre a tarparli, intanto che il paese era mal
condotto dal dover obbedire a due padroni, e soddisfarne i bisogni o
l’avidità. Lodovico, il quale di buoni ordini confortò il Piemonte e di
studj Torino, fu l’ultimo principe d’Acaja (1418); Amedeo VIII occupò
il paese di lui, e da quell’ora principe di Piemonte fu il titolo del
primogenito di Savoja.
I signori d’Acaja e quelli di Savoja aveano sempre avuto l’occhio
colla quale, avendo invano intromesso la mediazione del Petrarca,
entrati nell’Adriatico sotto il comando di Paganino Doria (1353), i
Genovesi sconfissero e presero l’ammiraglio veneto Niccolò Pisani con
cinquemila ottocensettanta uomini, e obbligarono i Veneziani a chieder
pace, pagare ducentomila fiorini d’oro, e rinunziare per tre anni al
commercio sul mar Nero, eccetto Caffa.
Adunque i Visconti possedevano tutta Lombardia, la Liguria, parte
del Piemonte e della Romagna, e minacciavano la Toscana. Tanta
potenza era bilanciata dai signori della Scala di Verona, i primi
che, senza possedere antichi feudi ereditarj, aspirassero ad estesa
signoria. Succeduti in una parte de’ dominj di Ezelino, stettero
capitani de’ Ghibellini contro Roberto re e Giovanni XXII, e favoriti
dagl’imperatori (1312). Cane, che da’ suoi partigiani ottenne il nome
di Grande, seppe sostenerlo nella non lunga vita; abbellì Verona;
letterati ed artisti accoglieva; savio in consigli, e, cosa rara fra
que’ signorotti, fedele alle promesse; prode e fortunato in armi,
sicchè, oltre Verona sua sede, recossi in mano Feltre, Belluno,
Treviso. Ma non teneva assodata la propria grandezza finchè non
acquistasse anche Padova.
Questa città, rifattasi dalla tirannia di Ezelino al favore della
libertà, avea sottomesso Vicenza e Bassano, e fioriva di studj per
la sua Università; ma trasmodando nella democrazia, escludeva dal
governo tutti i nobili: eppure affidava larghi poteri alla famiglia
de’ Carrara, sopravissuta alle altre della Marca. Come guelfa, era
incorsa nell’ira di Enrico VII, che incitò Vicenza a sottrarsele, e
che diede questa a governare a Can della Scala, suo braccio destro.
Cane vi introdusse soldati mercenarj, soprusò militarmente e aprì
guerra ai Padovani. Il territorio n’andò guasto; file di contadini
vedeva lo storico Ferreto condotti tratto tratto in Vicenza colle mani
legate alle reni, e trattati alla peggio finchè si riscattassero; nè
maggiore umanità mostravano i mercenarj di Padova. Frequenti tornavano
a battaglie, ciascuno coi proprj alleati; e Padova riuscì a mettere in
piedi quarantamila fanti e diecimila cavalli[296]; tant’era in fiore
sinchè non la guastò una terribile epidemia.
Dentro v’erano perseguitati i Ghibellini; e i Carrara, blandendo alle
invidie del vulgo e gridando — Viva il popolo, morte ai traditori»,
assalsero chi ostava alle loro ambizioni (1314), e massime Pietro
Alticlinio, ricco e creduto avvocato, nella cui casa, allora data al
saccheggio, si pretese trovar le prove dei più atroci delitti[297].
Esso e i parenti e gli amici furono mandati a strazio; lo storico
Albertino Mussato, reo d’aver proposta una tassa e di starne formando
il catasto, a fatica si salvò.
Intanto continuava la guerra collo Scaligero, sebbene più di oltraggi e
latrocinj che d’uccisioni; e nell’assalto di Vicenza, Giacomo Carrara,
caduto prigioniero di Cane, s’intese con esso per darsi di spalla nelle
mutue ambizioni. Di fatto, valendosi della stanchezza prodotta dalle
lunghe ostilità, Rolando di Piazzola giureconsulto[298] con una brava
arringa persuase i Padovani a scegliersi un principe, e Giacomo Carrara
fu proclamato. Marsiglio suo nipote non tardò a guastarsi con Cane,
e a’ danni di lui invitò il duca di Carintia e Ottone d’Austria. Con
Tedeschi e Ungheresi, che i cronisti fanno ascendere a quindicimila
cavalli, vennero quelli saccheggiando il Friuli come Dio vel dica;
e il Padovano e tutta Lombardia spedivano soldati per arrestare quel
flagello: ma Cane riuscì meglio col denaro, facendoli dar volta senza
che avessero danneggiato altro che gli amici. Poi si vendicò dei
Padovani guastando se alcun che vi era rimasto non guasto; e seguitò le
nimicizie tanto, che indusse Marsiglio a cedergli Padova (1328), e così
si trovò contentato del lungo desiderio.
Mastino II, succeduto a lui con coraggio eguale e ambizione maggiore,
ebbe Parma a patti, occupò Brescia cacciandone il vicario di Giovanni
di Luxenburg, e abbandonando i Ghibellini alla vendetta de’ Guelfi.
Tenea corte splendidissima; lo storico Cortusio lo trovò circondato
da ventitre principi, spossessati dalle catastrofi consuete; durante
il pranzo, musici, buffoni, giocolieri; le sale erano coperte di
quadri rappresentanti le vicende della fortuna; appartamenti aveva
allestiti con simboli e insegne convenienti alla varia condizione di
chi gli cercava ricovero, il trionfo pe’ guerrieri, la speranza per
gli esuli, le muse pei poeti, Mercurio per gli artisti, il paradiso pei
predicatori[299].
Lucca era stata da re Giovanni venduta ai Rossi, e Firenze diè
commissione a Mastino (1335) di trattarne per essa la compra: egli
strinse la pratica, poi per le spese e l’incomodo pretese trentaseimila
zecchini. Sperava sgomentarli coll’enorme domanda, ma i Fiorentini
senza dibattere un soldo accettarono: se non che egli allora soggiunse
non aver bisogno di siffatte miserie, e tenne per sè la lieta città.
Così sopra nove ebbe balìa, le quali gli rendeano l’anno settecentomila
fiorini, quanti neppur la Francia al suo re. E meditava nulla meno
che farsi signore di tutta Italia; intanto Lucca gli sarebbe scala
a sommettere la Toscana, mediante l’alleanza co’ signorotti degli
Appennini.
Firenze legossi al dito l’affronto ricevuto da Mastino, e gli ruppe
guerra; dove, se sottostava di valor militare e d’alleanze, avea denaro
e volontà di spenderlo per l’onor nazionale. Avrebbe dovuto sostenerla
la lega guelfa; ma re Roberto era invecchiato; Bologna non pareva aver
recuperato la libertà che per tempestare sanguinosamente fra Scacchesi
e Maltraversi; Siena e Perugia erano minacciate da Pier Saccone de’
Tarlati signore di Pietramala, che, avendo spossessato la famiglia
d’Uguccione della Faggiuola, gli Ubertini, i conti di Montefeltro
e Montedoglio, dominava su tutte le montagne della Toscana e della
Romagnola, oltre Arezzo possedeva Castello e Borgo Sansepolcro, ed
essendosi alleato con Mastino, di molto pregiudizio poteva essere ai
Fiorentini. Essi dunque cercarono un amico lontano.
I Veneziani, che fin allora non s’erano mescolati alle vicende del
continente italiano se non come stranieri, e che nessun’ombra prendeano
dalla vicinanza de’ vescovi di Padova, di Vicenza, d’Aquileja, vennero
sospettosi dell’incremento degli Scaligeri. In fatti Mastino pensò
sottrarre i suoi paesi alla privativa che i Veneziani s’arrogavano di
somministrare il sale; onde eresse fortezze sul Po per esigere gabelle
da chi lo navigasse, e proteggere le saline colà stabilite. Ne venne
rottura, e Venezia pigliò concerto con Firenze, la quale pagando metà
delle spese, si obbligava a lasciarle tutti gli acquisti. Capitanò la
loro lega Pietro de’ Rossi, famiglia già signora di Lucca e Parma, la
qual ultima pure era stata obbligata a cedere a Mastino dopo che si
vide tolti anche i castelli aviti attorno a Pontremoli. Pietro, che
aveva rinomanza del cavaliere più perfetto d’Italia, appoggiato a molte
bande tedesche, condusse prosperamente i collegati contro lo Scaligero.
Intanto i Fiorentini indussero il Saccone a vender loro la signoria
d’Arezzo, dove costituirono una magistratura propria. In Lombardia poi
sollecitavano quanti erano nemici allo Scaligero; e Azzone Visconti,
i Gonzaga, i Carrara, gli altri da lui spodestati collegaronsi _ad
desolationem et ruinam, dominorum Alberti et Mastini fratrum de la
Scala_, spartendosene in fantasia i possessi e ribellandogli le città.
Padova fu presa (1338), arrestandovi Alberto: ma l’essere morto in
battaglia Pietro de’ Rossi troncò il corso alle vittorie. Mastino,
ridotto alle strette, maneggiò la pace, cedendo molti acquisti;
Padova tornava ai guelfi Carraresi, Brescia al Visconti; i Veneziani
occupavano Treviso, Castelfranco e Céneda, primi loro possessi di
Terraferma, e otteneano libera la navigazione del Po.
Mastino, amareggiato dai disinganni, infellonì; sospettando del vescovo
Bartolomeo della Scala, per istrada lo ammazzò, donde fu scomunicato
dal papa; poi, fatta onorevole ammenda, ricevè il titolo di vicario
pontifizio.
Anche Parma gli fu tolta (1341) dai Correggio suoi zii a cui l’avea
fidata; sicchè, interrottagli la comunicazione con Lucca, esibì questa
a Firenze, che con ciò avrebbe potuto rifarsi dei seicentomila fiorini
che le era costata la guerra di Lombardia. Ma mentre essa stitica sul
prezzo, i Pisani, che se ne sentivano minacciati, la prevengono e la
occupano coll’ajuto dei Visconti e d’altri Ghibellini e massime di
fuorusciti, lieti di sottrarsi dalla incomoda vicinanza. I Fiorentini,
tardi riconsigliati, vollero ricuperarla facendo sforzi ingenti; ma
alfine le bande da essi assoldate furono sconfitte alla Ghiaja.
Gli Scaligeri più non fecero che decadere (1387) e disonorarsi, finchè
ai tempi di Gian Galeazzo perdettero le restanti giurisdizioni, e
cessarono d’essere dominanti. Verona ne attesta ancora co’ monumenti la
grandezza, e le loro tombe sono chiari testimonj delle arti risorte e
non ancora svigorite colla servile imitazione[300].
Al contrario, gli Estensi (1317), gridati nuovamente signori di
Ferrara, come dicemmo, vi aggiunsero Modena per cessione di casa Pio,
e da Carlo IV ottennero la conferma de’ feudi imperiali di Rovigo,
Adria, Aviano, Lendinara, Argenta, Sant’Alberto, Comacchio importante
per le saline. Barcheggiando fra i papi, Venezia e Milano, Obizzo
III s’acconciò col papa, retribuendo un annuo canone per Ferrara
(1344). Comprò Parma da Azzone Correggio per settantamila fiorini;
ma mentre andava a prenderne possesso, Filippino Gonzaga di Mantova,
ajutato da Luchino Visconti, l’appostò, molti della sua scorta uccise,
settecentoventidue condusse prigioni. I più liberò a prezzo; ma Giberto
da Fogliano e suo figlio Lodovico tenne in una gabbia di ferro, ove
morto questo dalle ferite, il padre dovette rimanere col suo cadavere.
Filippino mosse guerra ad Obizzo e a Mastin della Scala, e dopo gran
viluppo di leghe e di guerre, Parma fu comprata da Luchino (1340).
Oltre questi tiranni creati dal popolo, altri provenivano dall’antica
feudalità, e principale tra questi fu la casa di Savoja. Da un cumulo
di favole inventate o raccolte da frà Jacopo d’Acqui (1003?), par di
dedurre che capostipite di quella fosse un Umberto Biancamano, forse
discendente da Vitichindo emulo di Carlo Magno, o da un sassone Beroldo
nipote di Ottone III, che fu vicerè d’Arles e conte di Moriana e del
Ciablese. Quest’origine argomentò il Guichenon per ordine di Cristina
di Francia vedova di Vittorio Amedeo I, quando ella, aspirando a far
salire quella casa al trono di Germania, trovava opportuno il mostrarla
oriunda da una germanica.
L’altro concetto di Enrico IV d’unire sotto ai principi savojardi
tutta l’alta Italia, fece trarli da famiglia italiana, cioè dai conti
d’Ivrea: asserto portato dal giudizioso Lodovico Della Chiesa, ed
appoggiato nel secolo scorso dal Napione, quando il perire di tutte le
dinastie italiche concentrava gli sguardi su quest’unica superstite;
poi nel secolo nostro colle nuove speranze di fare di quel principato
il piedistallo della futura Italia. Supposero dunque che il Beroldo o
Geroldo, favoleggiato padre di Umberto, sia Ottone Guglielmo duca di
Borgogna[301], figlio di re Adalberto e nipote di Berengario II, re che
furono d’Italia; pronipote di Gisla, figlia di Berengario I imperatore;
abnepote d’Anscario marchese d’Ivrea, figlio di Guido di Spoleto,
fratello di Guido re d’Italia. Il Cibrario, che con viaggi e documenti
appoggiò quest’assunto, conchiude che «s’aspettano documenti che
forniscano la prova diretta di ciò»: e di fatto, come in tutte coteste
genealogie, non manca se non l’anello che congiunga il ramo discendente
coll’ascendente. Del resto, che la famiglia regnante in Piemonte
indagasse avi incerti per ricordarsi e ricordare ch’è d’origine
italiana, è la più perdonabile delle vanità.
Che che sia de’ primi, ornati col titolo di conti di Moriana, i
successivi vi aggiunsero nuovi dominj anche di qua dall’Alpi e
nominalmente Aosta. La posizione fra queste rendeva importante il
marchesato di Susa, il quale per le nozze della contessa Adelaide,
celebre nelle lotte de’ concubinarj e dell’imperatore Enrico IV, fu
unito al contado di Moriana (1045) nel figlio di lei Amedeo II; pel
quale innesto la casa di Savoja metteva un piede in Italia. Quando
Enrico IV veniva a invocar l’assoluzione da Gregorio VII, Amedeo
per concedergli libero passo ne pretese cinque vescovadi in Italia e
un’ubertosa provincia della Borgogna, che forse fu il Bugey. Molti
sorsero pretendenti all’eredità di Adelaide, donde si formarono
parecchi contadi rurali e principati, e segnatamente quelli di
Monferrato e Saluzzo; e varj paesi si stabilirono a Comune, fra cui
Asti, riconosciuta libera (1098) da Umberto II il Rinforzato[302],
il quale, a detta di sant’Anselmo di Aosta, «usava del principato
a mantenere la pace e la giustizia», e fu forse il primo che
s’intitolasse conte di Moriana e marchese d’Italia.
Amedeo III, figlio di questo (1103), diede carta di Comune a Susa, e ad
onore di san Bernardo fondò in riva al lago del Borghetto l’abbazia di
Altacomba, celebre pei sepolcri de’ principi di Savoja, sperperata al
fine del secolo scorso, restaurata ai dì nostri; come il padre, fu alla
crociata, e morì a Cipro. Umberto III, detto il Santo pel tenore di sua
vita (1148), vedendo il Barbarossa voler attenuare le giurisdizioni
di lui colle ampie concessioni fatte al vescovo di Torino, avversò
quell’imperatore, poi mediò la pace fra esso e i Lombardi. Tommaso
I ampliò le franchigie a Susa, le diede ad Aosta (1188), acquistò
Testona, Pinerolo, Carignano, e fu vicario di Federico II in Italia,
valendosi di tali dignità per reprimere i prelati e i baroni. Ad
Amedeo IV esso Federico conferì il titolo di duca del Ciablese e conte
d’Aosta, e una costui figlia sposò al suo Manfredi che fu re di Sicilia
(1233): legati così agli Svevi, que’ duchi ebbero a patire dalla venuta
di Carlo d’Angiò, talchè si restrinsero di nuovo fra le Alpi. Pietro,
già ministro d’Enrico III d’Inghilterra, tornò alla propria devozione
i paesi di qua dell’Alpi (1263) fino a Torino; conoscendo la necessità
d’essere forte, munì il paese, condusse truppe, regolò le finanze e la
giustizia, e fu detto il Piccolo Carlo Magno.
Salda alla monarchia, quella casa compresse i germi di libertà
comunale, che l’esempio delle lombarde confinanti sviluppava nelle
città subalpine; e nè guelfa nè ghibellina, dalle altrui gare traea
profitto per consolidarsi di governo, di possessi, di forze. Nè
poeti, nè storici ne tramandarono i fasti, ma incerte tradizioni e
contraddicentisi, e soprannomi capricciosi.
Lungo sarebbe a seguire il dividersi e ricomporsi di essa. Nel ramo
di Piemonte Tommaso II era detto anche conte di Fiandra e di Hainault
perchè sposo a Giovanna erede di que’ paesi e figlia di Baldovino IX
imperatore di Costantinopoli. In sette anni ch’egli regnò colà, estese
molto i Comuni (_keure_) al modo d’Italia: perduta poi la moglie, tornò
in patria, ed ampliò i possessi (1244), e non solo ebbe dal fratello
Amedeo IV il Piemonte proprio, cioè il paese fra l’Alpi, il Sangone e
il Po, di cui era principal terra Pinerolo, ma Federico II imperatore
se l’amicò concedendogli Torino col ponte e col castelletto, Cavoretto,
Castelvecchio, Moncalieri, stato sostituito a Testona distrutta
da Astigiani e Chieresi; onde con questa linea sulla destra del Po
dominava le strade commerciali di Asti e di Genova con oltremonte
(1248): aggiunse il Canavese, Ivrea ed altre terre, e fu nominato
vicario imperiale dal Lambro in su.
Caduto Federico, egli corteggia il papa Innocenzo IV, che
dall’imperatore Guglielmo d’Olanda gli ottiene concessioni nuove, e
feudi, e diritto di moneta, di mettere pedaggi, d’aprire mercati. Molto
ebbe a cozzare con Asti, e seppe interessare nel litigio Luigi IX di
Francia, il quale fece arrestare quanti Astigiani trovavansi colà. A
vendetta questi occuparono fin Moncalieri, a Montebruno sconfissero
Tommaso (1257), contro del quale essendosi rivoltati i Torinesi, lo
presero e consegnarono agli Astigiani. Di Francia, d’Inghilterra, di
Fiandra, dal papa vennero preghiere a favor di lui; ma non fu voluto
rilasciare finchè non ebbe rinunziato a tutti i diritti sopra Torino ed
altri luoghi, dando statichi agli Astigiani i proprj figliuoli.
Due nobili sposi tedeschi pellegrinavano a Roma, quando, giunti
nel Monferrato, la donna partorisce un bambino, e quivi il lascia a
nutrire. Essi muojono in viaggio, e il fanciullo Aleramo acquista
nome di valore; e ito a soccorrere l’imperatore Ottone il Grande
contro Brescia, invaghisce di sè Adelaide figlia d’esso imperatore,
e con lei fugge tra i carbonaj de’ liguri monti; finchè Ottone gli
perdona, e gli assegna le terre fra l’Orba, il Po e il mare, facendone
i sette marchesati di Monferrato, Garessio, Ponzone, Ceva, Savona,
Finale, Bosco. A un nuovo assedio di Brescia, Aleramo uccide senza
conoscerlo il proprio figlio Ottone; dagli altri fratelli Bonifazio e
Teodorico derivano le famiglie di Bosco, Ponzone, Occimiano, Carretto,
Saluzzo, Lanza, Clavesana, Ceva, Incisa, e da Guglielmo i marchesi
di Monferrato. Questi furono cantati spesso dai poeti, dei quali è
fantasia una tale origine, viemeno probabile perchè nessuna figlia
d’Ottone il Grande ebbe uno sposo di quel nome. Qualunque però si
fosse e di qualunque tempo questo Aleramo, la sua discendenza dominò il
pendìo dell’Appennino ligure dalla riva destra del Po fino a Savona;
e ne vennero le famiglie che dominarono il Monferrato, Saluzzo verso
le sorgenti del Po, e le città occidentali di Torino, Chieri, Asti,
Vercelli, Novara, disputandole ai Visconti e alla libertà comunale.
I marchesi di Monferrato vedemmo mescolarsi alle vicende dell’Italia
superiore e nelle crociate, tanto che vennero i più illustri di quei
dintorni, cercata l’alleanza loro, temuta la nimicizia. Ma ristretti
fra le ambizioni de’ duchi di Savoja e de’ signori di Milano, non
poterono ampliarsi; intanto che una nobiltà potente, la quale si
vantava d’origine pari ai dominanti, li contrastava dentro, non
lasciando che il paese prendesse ordinamento nè monarchico nè a popolo.
Bonifazio IV, essendogli tolto dai Musulmani (1222) il suo principato
di Tessalonica, per ricuperarlo cercò novemila marchi a Federico II,
dandogli in pegno i proprj Stati; col che non solo dimezzò la propria
potenza, ma pose a repentaglio l’indipendenza del Piemonte, se la casa
Sveva non fosse perita. Anche a signori e Comuni cedette le ragioni
sopra molte città.
Guglielmo VI, detto il gran marchese, figlio a Margherita di Savoja
(1254), sposo ad Isabella di Glocester, poi a Beatrice di Castiglia,
maritò la figlia Jolanda al greco imperatore Andronico II Paleologo,
dandole in dote l’infruttuoso regno di Tessalonica, e ricevendone
grosse somme e la promessa di cinquecento cavalieri, mantenuti a suo
servizio in Lombardia. Con questi egli facea pendere la bilancia a
favore de’ Guelfi o de’ Ghibellini, secondo che vi si accostava. Per
tradimento entrato in Torino, molti uccise, molti imprigionò, fra
cui il vescovo Melchiorre, che sempre avea contrariato i disegni
del marchese sulla sua patria, e che, non volendo far rilasciare
i suoi castelli al vincitore, fu ucciso. Mentre egli andava in
Spagna a trovare il suocero, Tommaso III di Savoja lo arrestò a
tradimento, e costrinse rinunziare i diritti sopra Torino. Tornati
con alquanti uomini e denari, prometteva conquistar tutta Italia, ma
vide ribellarsegli le città, e fu preso dagli Alessandrini (1292),
che quanto visse lo tennero in una gabbia di ferro; morto, vollero
accertarsene col fargli sgocciolare sul corpo del lardo bollente e del
piombo fuso.
Allora le città di sua dipendenza consolidarono le loro franchigie;
molto paese fu occupato da Matteo Visconti, che si vendicava del
suo nemico, e che fu dai popoli dichiarato capitano del Monferrato;
sicchè il figlio Giovanni II, succedutogli a quindici anni, si trovò
ristretto nel primitivo dominio. Questi fu l’ultimo di quella linea;
e morto improle (1305), doveva ereditarne la sorella Jolanda. Se non
che Manfredi di Saluzzo, del sangue stesso, aspirava a quel dominio,
e l’occupò armatamano; e perchè prese anche molte delle terre ch’erano
state di Carlo d’Angiò, chetò i reali di Napoli coll’accettare da loro
come feudo il Monferrato, sebbene non v’avessero titolo di sorta.
L’imperatore greco spedì Teodoro suo secondogenito, che sposata una
figlia d’Obizzino Spinola genovese per averne appoggio, coll’armi
recuperò l’eredità, e per combattere a vantaggio i Visconti, dai
vassalli esigette uomini e denaro di là dal convenuto.
La casa di Savoja, che distesasi oltr’Alpi verso l’Elvezia e la
Francia, voltava le sue ambizioni all’Italia, presto si trovò in gara
coi marchesi di Monferrato; e il possesso d’Ivrea fu seme di guerra,
in cui arrivarono ad acquistare sovranità sopra i conti di Piemonte e
i marchesi di Saluzzo. Nel 1285, morto Tommaso III, che dai marchesi
di Monferrato avea ricuperato il Piemonte, dovea succedergli il nipote
Filippo; ma Amedeo V di Savoja suo zio governò il paese come suo,
mentre a Filippo non restò che il titolo di principe d’Acaja, col quale
i suoi successori s’ingegnarono di dominare qualche parte del Piemonte.
Esso Amedeo (1287), che assistette a trentacinque assedj, e battagliò
continuo col Delfino, col conte di Ginevra, col sire di Faucigny e
con altri, fu creato principe dell’impero da Enrico VII suo cognato,
che gli assegnò pure la contea d’Asti, gloriosa repubblica scaduta
dalla sua grandezza: ma questa fu tenuta da Roberto di Napoli finchè
il marchese di Monferrato gliela tolse per sorpresa, e se ne chiamò
signore. Amedeo stabilì l’indivisibilità della monarchia di Savoja
e l’esclusione delle femmine, e cominciò a pigliare il titolo di
principe: ebbe da Enrico anche Ivrea e il Canavese, e Fossano dal
marchese di Saluzzo. Allora detta monarchia comprendeva otto baliaggi;
Savoja, con cui la Moriana, la Tarantasia e diciotto castellanie; la
Novalesa con nove castellanie; il Viennese con altrettante; la Bressa
con dieci; il Bugey con sette; il Ciablese con sedici; val d’Aosta con
cinque; val di Susa con tre.
Amedeo VI, detto il Conte Verde (1343) dal colore onde comparve
divisato egli e il cavallo in un torneo a Chambéry, tolse alla
contessa di Provenza Chieri, Cherasco, Mondovì, Savigliano, Cuneo; bene
amministrando le finanze per l’abilità del ministro Guglielmo De la
Beaume, potè ottenere il Faucigny, comprare la baronia di Vaud, e le
signorie di Bugey e Valromey. Vedendo agli antichi Delfini surrogata
la Francia, potenza più robusta, non sperò ingrandire ulteriormente da
quel lato, e si volse più specialmente all’Italia.
Passando l’imperatore Carlo IV dalla Savoja, Amedeo l’accolse con
sommi onori, gli mosse incontro con sei cavalieri banderesi riccamente
in addobbo, lo convitò suntuosamente, egli stesso e i suoi a cavallo
servendolo di vivande quasi tutte dorate, mentre due fontane giorno e
notte sprizzavano vin bianco e chiaretto, che ognuno poteva prendere
a piacere[303]. In ricompensa fu costituito vicario imperiale, e fe
pace con Giovanni Paleologo di Monferrato, spartendosene il possesso.
Ito a Costantinopoli (1366) a soccorrere questo suo cugino, conquistò
Gallipoli, Mesembria, Lemona sopra i Turchi, assediò Varna, e costrinse
i Bulgari a far pace con esso imperatore. Il papa abilitò i vescovi ad
assolvere da usure e mali acquisti chi contribuisse per essa impresa,
concesse al conte le decime ecclesiastiche, mentre ciascun feudo
dava armi ed oro. Il conte se ne valse per continuare anche poi le
esazioni; col papa entrò in lega a danno de’ Visconti qual capitano
generale; e neppure alla pace volle restituire alcuni castelli ad essi
occupati, avido sempre di gloria e denaro; ma per ottenere la prima
rovinò le finanze, ed oltre impegnare a lombardi ed ebrei le gemme e
gli argenti, vendette gli uffizj. Aspirava a formare uno Stato solo,
riunendo a Savoja il Piemonte tolto ai principi d’Acaja, e mozzando
le giurisdizioni feudali: ma in quanto acquistava verso l’Italia
introduceva forme d’amministrazione alla francese, restringeva in senso
principesco i liberi statuti; moltiplicò le imposizioni, fallì alla
fede quando gli giovò, servì agli stranieri nel conquisto di Napoli
(1383), dove morì miseramente (Cap. CXIV). Dell’ordine dell’Annunziata,
da esso istituito, abbiamo già parlato[304].
Amedeo VII, soprannomato il Conte Rosso, più valente in armi che in
consigli, si tenne all’amicizia di Francia come il padre. Ai tempi
di Carlo Magno, la Provenza già era divisa in contadi, due dei quali
formavano quel che ora dicesi di Nizza. I popolani di questa, mentre
Raimbaldo loro conte stava oltremare crociato, si vendicarono in
libertà; e quegli, reduce, si accontentò d’esservi console. Non era
spenta però la soggezione, e Nizza nel XII secolo obbediva ai conti di
Arles, il restante paese a quelli di Tolosa, di Forcalchieri, d’Orange,
del Balzo, finchè i conti di Barcellona si fecero marchesi di Provenza.
I Nizzardi spesso tentarono, alfine riuscirono a sottrarsene nel 1215
giurando la _compagnia_ di Genova, e i marchesi di Provenza giuravano
rispettare i loro statuti. Con Beatrice, figlia di Raimondo Berengario,
passò quel dominio a Carlo d’Angiò, che ne fece fondamento alla futura
sua grandezza in Italia. Frattanto le fazioni non risparmiavano Nizza,
e la città era divisa fra nobili che abitavano la villa di sopra, e
cittadini della villa di sotto. I mali cui andò soggetta la stirpe di
re Roberto di Napoli, furono risentiti dai Nizzardi, finchè regnando
il fanciullo Ladislao, essi per opera dei Grimaldi chiesero ad Amedeo
VII di venire aggregati al suo dominio. Amedeo vi riunì i contadi di
Ventimiglia e Villafranca (1388) e la valle di Barcellonetta, allegando
o crediti verso le due case d’Angiò, o dedizione de’ baroni, o il
titolo di vicario imperiale.
Amedeo da un ciarlatano lasciossi dare un beveraggio che rifiorisse la
sua debolezza, e gliene costò la vita (1391). Bona di Berry sua vedova
e sospetta autrice della morte di lui, fatta reggente, tempestò in
contese di potere colla suocera e coi grandi, in guerre coi conti di
Ginevra, coi vescovi di Sion, con Berna, con Friburgo, coi parenti;
e menò pace. Amedeo VIII, loro figlio, detto il Pacifico perchè
all’armi preferì la politica, con questa vantaggiò assai, attento
a tor via i feudi, trarre a sè il Monferrato e Saluzzo, rodere il
Milanese. Ebbe in fatti omaggio dagli Avogadri di Quinto, di Quaregna,
di Valdengo, di Casanova, di Collobiano, di Pezzana, dagli Alciati,
dagli Arborj, dai Dionisj, dai Pettinati, da molti monasteri e Comuni,
tra cui val d’Ossola, e infine anche da Vercelli. Questa città, che
vedemmo (vol. VI, p. 201) una delle prime ad acquistar le franchigie
municipali, e delle più gloriose nel sostenerle, straziò le proprie
viscere nelle fazioni degli Avogadri coi Tizzoni, della società nobile
di Sant’Eusebio colla popolana di Santo Stefano, e infine cadde in
signoria de’ Visconti di Milano. Amedeo VIII, il cui avo già aveva
acquistato Santhià, San Germano e Biella, e che riceveva omaggio dai
tanti Avogadri di quel paese, soggettava or per forza or a persuasione
alcuni Comuni, profittando delle discordie scoppiate nel Milanese
alla morte di Gianmaria Visconti; poi dal costui successore ottenne
Vercelli, col patto di spiccarsi dalla lega con Venezia e Firenze.
Acquistò inoltre il Genevese (1414), disputato fra molti dopo finita la
stirpe dei prischi conti; e il Piemonte quando si estinsero i principi
d’Acaja. A questo titolo erasi dovuto accontentare Filippo di Savoja
(1294); ma sebbene del Piemonte giurasse vassallaggio alla Savoja,
lo tenne come indipendente, e così suo figlio Jacopo; onde i signori
di Savoja miravano sempre a tarparli, intanto che il paese era mal
condotto dal dover obbedire a due padroni, e soddisfarne i bisogni o
l’avidità. Lodovico, il quale di buoni ordini confortò il Piemonte e di
studj Torino, fu l’ultimo principe d’Acaja (1418); Amedeo VIII occupò
il paese di lui, e da quell’ora principe di Piemonte fu il titolo del
primogenito di Savoja.
I signori d’Acaja e quelli di Savoja aveano sempre avuto l’occhio
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