Storia degli Italiani, vol. 07 (di 15) - 21

Carlo Denina, di sufficiente imparzialità e di viste non profonde
ma estese, possono ancora raccomandarsi come libro elementare. Il
difendere le istituzioni ecclesiastiche come egli fece, trovasi
comune a tutti gli storici leali[260]; eppure la lealtà era merito
raro, quando la storia si facea facilmente mediante le sentenze, la
dissertazione e la declamazione, e veniva riducendosi in una gran
congiura contro la verità. Della quale era campione Voltaire, che anche
troppo si occupò delle cose italiche, principalmente nel _Saggio_; e
pedissequo di lui con maggiori studj l’inglese Gibbon, la cui _Storia
della decadenza e caduta dell’impero romano_ abbraccia tutto il
medioevo italiano. Di amplissima erudizione, ma freddo schernitore,
non conosce entusiasmo, non crede ad eroismo o a sagrifizj, sieno
a vantaggio della Chiesa, della patria o della scienza; travolge
le intenzioni dove non osa i fatti, e con una celia o con qualche
lubricità sverta le fame più intemerate. Idoli entrambi dell’età
passata, si trovò chi ardì affrontare gli scherni e i soprannomi per
combattere i loro pregiudizj, e strappare il manto porporino che ne
copriva l’inumano egoismo.
Meglio di qualunque nostro i materiali adunati compaginò un
ginevrino, che gloriavasi d’origine italiana, e che fra noi lungamente
dimorò, e le cose nostre affezionò sempre, Sismondo de’ Sismondi.
Quell’esposizione sua famigliare; l’attenzione allargata ai fatti
contemporanei di tutta Europa; l’evitare i trabalzi, cercando la
connessione degli avvenimenti parziali col punto di azione comune
d’un dato tempo; la felice scelta di quelle particolarità, le quali
presentano l’allettativo d’una storia municipale, mentre egli sa
intarsiare ciascuna colle vicine, e indicarne le cause e lo spirito; la
costanza nelle vedute che al suo tempo pareano liberali, e che prima
di morire egli si udì rinfacciare come aristocratiche; un invariabile
rispetto per la dignità dell’uomo, un interesse continuo per la classe
più numerosa, una predilezione decisa per la forma di governo che nel
medioevo prevaleva in Italia, senza quella cieca deferenza pei re che
da un secolo era l’alito degli storici, fanno che non v’abbia colta
persona che non voglia averlo letto, e a lui attinge le cognizioni e i
sentimenti la gioventù.
Ma prima di tutto egli difetta d’ordine. — L’Italia ne’ tempi di mezzo
offre tale un labirinto di Stati uguali e indipendenti, che a ragione
si teme smarrirvi il filo. Noi non ci dissimuliamo quest’essenziale
difetto dell’argomento assuntoci; ma quand’anche i nostri sforzi
fallissero, il lettore vorrà saperci grado di quel che femmo per
raggiungere l’intento». Queste parole della sua prefazione adduciamo
più a nostra scusa che a sua incriminazione, troppo noi sapendo quanto
lo sminuzzamento dell’Italia tolga che o la rarità de’ fatti renda
spedito il racconto, o la loro importanza gli rechi interesse: ma in
quel labirinto egli non cercò orientarsi col filo delle idee; ravvicina
e aggruppa gli eventi e li drammatizza, ma nulla più; e alla giusta
intelligenza di secoli eminentemente cattolici gli metteva ostacolo non
tanto l’arida negazione calvinica, quanto la filosofistica disistima
per le istituzioni vitali di quel tempo. In conseguenza muove da
convenzionali assiomi per giudicare le specialità d’un tempo; nelle
controversie tra i principi e i preti parteggia sempre coi primi, egli
che pur sentenzia sempre pei popoli contro i principi; trova ridicole
quelle quistioni, sotto la cui forma si producevano i capitali problemi
economici e governativi; non vede che una trica da sacristia in quella
guerra de’ preti a Milano, che diede occasione all’emancipazione
comunale; pretenderebbe che Gregorio VII, Innocenzo III, Tommaso
d’Aquino, non solo avessero le idee, ma usassero il linguaggio di De
l’Olme o di Rousseau.
D’altra parte egli, intitolando _Storia delle repubbliche_ la sua,
saltò di piè pari la fasi più problematica del nostro medioevo, vale
a dire l’invasione dei Barbari, lo stato di conquista, la feudalità.
Soltanto dallo studio di questi può raccogliersi la trasformazione
del mondo romano nel nuovo; laonde egli il cardinale problema della
formazione de’ Comuni non isnoda, ma recide, facendone una concessione,
da re Ottone prodigata onde umiliare i contumaci vassalli; di maniera
che ad un re straniero dovrebbe attribuirsi il merito d’un ordine
di cose, al cui svolgimento i re stranieri furono sempre l’ostacolo
maggiore. Poi in Italia fino al Mille s’era chiamato _regno_ la metà
superiore; dappoi questo nome passò a indicare il paese meridionale;
estese porzioni della penisola durarono costantemente a dominio
di dinasti: ond’egli, prefiggendosi di descrivere le repubbliche,
avrebbe dovuto decomporre la storia nostra, se fortunatamente non
avesse rotto le barriere che improvvidamente si era poste, e non si
fosse affezionato agli ultimi Svevi e avversato agli Angioini, quanto
già per amore dei Milanesi e de’ Veneziani riprovava il Barbarossa e
Massimiliano[261].
Parte vitale nella storia d’Italia sono le arti e le lettere. Saverio
Quadrio e Mario Crescimbeni aveano già diretto pazienti ricerche
sulla letteratura, ma soffogando fatti vitali sotto insignificanti
particolarità: e di ciò ha peccato pure Girolamo Tiraboschi. Con
solerzia disseppellì nomi, accertò date e titoli di libri in modo da
ben poco lasciar da correggere e supplire; ma nulla più; non seppe
esaminare l’intento degli autori, non assimilarsi ai tempi, non
connettere l’andamento letterario colle grandi quistioni, sotto la
cui varietà ad ogni suo passo l’umanità riproduce i problemi sociali;
non presentare insomma la letteratura come espressione della civiltà.
Invece di giudizj proprj, appoggia o riprova gli altrui, limitandosi
a metterli a fronte, e pretendendo conciliarli anche dove è men
possibile; pronto sempre a ridirsi quando altri, fosse pure il ciclico
Andres, gli oppongano argomenti o anche soltanto asserzioni[262]. Del
resto, non grazia di linguaggio, non scelta d’immagini, non cura di
rendersi piacevole, non costante elevazione del pensiero; nè si accorse
quanti fatti letterarj sfuggano inavvertiti, a segno che per iscriverne
la storia bisogna, collo studiare l’immaginazione e la natural legge
de’ suoi sviluppi, compiere i documenti che ci pervennero mutilati, e
domandarne alla scienza dello spirito umano.
Alle dispute cronologiche sostituite l’analisi de’ libri, siano pur
inconcludenti da non meritarla, o così capitali da non bastarvi;
moltiplicate que’ ravvicinamenti di altre letterature, di cui
difetta il nostro; animate la vita degli autori cogli aneddoti,
pei quali si dimentichi la fisionomia generale del tempo; il tutto
spolverate coi frizzi irreligiosi e cogli epigrammi disumani della
bottega di Voltaire, e avrete travestito il gesuita Tiraboschi
nell’enciclopedistico Ginguené. La sciagurata inclinazione a
raccogliere e tracannare tutto ciò che ne piove di Francia, od è
pensato e scritto alla francese, fece raccomandato alla gioventù
anche questo libro; per modo che la storia del paese che è centro del
cattolicismo s’impara sopra un autore calvinista ed uno incredulo. Ma
come osare di muoverne lamento se non sappiamo apprestar nulla di più
piacevole a chi legge, di più ragionevole a chi pensa?
Uno straniero venne in Italia, come usano gli oltramontani, per farvi
una passeggiata, lodarne il sole e le donne, dare un’occhiata, e
oracolare sentenze, tutte sapienza di sensi: ma albergatosi a Roma,
prese vaghezza delle arti, e cominciò a studiarle; e sempre colla
valigia disposta al ripartire, vi rimase trent’anni. Dei suoi studj
fu frutto la _Storia delle arti_, dove esso D’Agincourt, sebbene non
guarito dallo sprezzo filosofico, raccolse o indicò tanti lavori del
medioevo, che neppure dall’aspetto del bello fu più lecito chiamarlo
barbaro. Viemeno poi dacchè l’attenzione si diresse sulla maestà
delle cattedrali, e smettendo d’idolatrare le sole forme, si riconobbe
la ispirazione sublime nell’esecuzione, per quanto scorretta, delle
miniature, dei sepolcri, delle vetriate.
Sicuramente a migliorarci contribuirono non poco gli stranieri, sia
pel modo nuovo con cui osservarono la storia del proprio paese, sia per
quel che dissero intorno al nostro, scarchi d’ire e d’amore per vicende
che non li concernono, e di quella boria che noi scambiamo per amor di
patria, e che si fa più viva quando una nazione sentesi più conculcata
e impotente a un risorgimento, di cui vorrebbe mostrarsi meritevole.
Però ci sia permesso credere che troppo facilmente si condiscenda a
sistemi venutici d’oltremonte, sino a contorcere i fatti acciocchè
capiscano in quelle cornici. Ad alcuni Tedeschi principalmente dobbiamo
senza fine chiamarci obbligati dell’avere esaminato dal proprio punto
d’aspetto i casi nostri in un’età nella quale le istituzioni tenevano
tanto del germanico; e se anche, per esaltare le proprie, han talora
depresso le cose nostre, a loro dobbiamo, non foss’altro, una più retta
conoscenza di quella civiltà germanica, che si combinò colla romana per
formare la moderna, e che valse a restituire all’individuo l’importanza
che prima era riservata al cittadino e allo Stato. Ma sminuiremo
per questo il sommo pregio delle reliquie romane e reputeremo che a
poco valesse una civiltà indigena, che pur tanto operò là dove non
era che importata? Questo annichilamento del popolo italiano, questa
trasfusione del sangue nordico, necessaria perchè il latin seme
disbarbarisse[263], come crederle, se, a tacer Roma, vediamo Venezia,
incontaminata da conquiste, rifarsi tanto magnifica coi soli corrotti
elementi dell’Impero declinante, ma colla libertà?
Ricerche più sagaci, esami più complessi; più meditati giudizj,
opinioni meno pregiudicate chi può negare alla nostra età? Arrivammo
a questa traverso una rivoluzione, di lunga mano preparata nel
campo delle idee, prima che fosse violentemente attuata nel campo
dei fatti; e cui carattere principale fu demolire il passato per
riformare radicalmente la società civile, scatenarsi sopratutto
contro il medioevo, perchè è il meno intelligibile a chi rifiuti le
evoluzioni storiche, e giudichi non dal complesso ma da frammenti.
Settant’anni[264] passarono da quella prima scossa, eppure non è tempo
ancora di giudicarla, perchè durano tuttavia, non che gli effetti,
i movimenti; essa divertì le menti dalle placide ricerche, dissipò
quelle società monastiche dove la fatica era alleggerita e completata
dall’affratellamento; e quasi si volesse far guerra al passato non
solo nelle sue conseguenze ma fin nelle sue memorie, parte si sperdeva,
parte si spostava de’ documenti. Pure tra il frastuono susseguito non
mancò fra noi chi continuasse le indagini erudite: Brunetti cominciava
in qualche modo il _Codice Diplomatico toscano_[265]; Meo gli Annali
critico-diplomatici del Regno di Napoli; la principessa Elisa Baciocchi
faceva compilare le _Memorie e documenti per servire all’istoria
del principato lucchese_, opera che, con più elevata intelligenza
proseguita sinora, è una delle più copiose fonti alla storia civile
italiana.
Quando poi lo strepito della guerra si tacque, cessate le paure d’un
passato irremeabile e la rabbia del distruggere, la scienza potè le
accumulate ruine contemplare senza beffa e senz’odio. Il crollo delle
istituzioni denigrate lasciò un tal vuoto, da convincere quanto bene
poteano aver fatto in altri tempi: si conobbe che la civiltà e la
verità non entrano nel mondo di sbalzo, non per decreti di re, non
per insurrezioni di plebe, ma progressive, e pigliando le mosse dalle
istituzioni anteriori, sicchè rannodata la catena de’ fatti e dei
concetti, e considerata l’umanità come un uomo solo che progredisce
sempre e non muore mai, nulla dovea considerarsi con disprezzo, perchè
tutto era acconcio coi tempi, e perchè scala al ben presente, il quale
pure non è che un avviamento a progressi futuri. Sarebbe ragionevole
chi uscisse colle maschere ne’ giorni di Passione? o chi l’albero
maledicesse di primavera perchè mostra soltanto i fiori e non ancora le
poma?
Allora anche fra noi si tornò a studiare il passato senza iracondia nè
vilipendio, con intendimenti più acuti e meno declamazioni; e a tacere
per ora gli storici, abbondarono i raccoglitori, preziosi anche quando
manchino d’intelligenza, come il Daverio, il Ronchetti, il Marsand
e qualche vivente[266]. Cognizioni non ordinarie cumulò il Cicogna
nella _Raccolta delle iscrizioni venete_: altre sono sparpagliate ne’
giornali e in opuscoli di circostanza. Ma a due pubblicazioni vuolsi
retribuire lode speciale. L’_Archivio Storico_ del Vieusseux, con una
erudizione scevra di pedanteria e conscia dei più recenti problemi
storici, che sono anche problemi sociali, se più abbonda in memorie
moderne, non poche ne apprestò intorno al medio evo. Di queste poi fu
generosissima la Deputazione di storia patria, istituita a Torino, e
che coi nove volumi finora pubblicati[267], di materie in gran parte
inedite o almeno rimigliorate, ajuta i cercatori delle patrie storie,
tanto più che de’ collaboratori alcuni sono insigni essi medesimi in
questi studj.
Di potente sussidio ci vennero anche pubblicazioni forestiere, fra cui
principalmente i monumenti storici della Germania dal 476 al 1500, dal
Pertz ideati sul modello del Muratori; i _Regesta_ degl’imperatori di
Böhmer, di Döniges, d’altri; quelli dei pontefici di Jaffe[268]; le
vite di Gregorio VII, d’Innocenzo III, d’altri papi, concepite in senso
diverso dal vulgare.
Ed ora che la storia è divenuta l’arsenale donde assumono armi la
teologia, la politica, la statistica, la morale, quella d’Italia fu
un tema di moda, e non solo tra i confini delle Alpi: ma se degli
illustri contemporanei io devo farmi scolaro anzichè erigermi giudice,
da chi è competente odo asserire che i nostri non parvero avanzarsi a
paro coi passi del secolo; che ci mostriamo piuttosto dilettanti che
studiosi; che l’opera più estesa in tal fatto, la _Storia d’Italia_ del
Bossi, è compilazione indigesta, scompleta, avventata e cosparsa delle
stizze d’un levita apostato; nel che le somigliano quella del Levati
in continuazione alla _Storia Universale_ del Ségur, e d’alcuni altri
che si permisero di esser frivoli in materia sì grave, di pensare come
Voltaire quando Voltaire più non avrebbe pensato così, di avere pel
proprio soggetto un dispregio ancor più di pigrizia che di riflessione,
o d’isterilirsi nel pedantesco sussiego, nelle frasi generiche, ne’
sentimenti convenzionali e preconcetti.
Nuovo guasto le recò l’epidemia politica, travisandola perchè
rappresentasse, o almeno alludesse al presente, e ad umbratili
dispute sovraponendo l’incubo dell’onor nazionale; e gli strapazzi
e le denunzie contro chi dipingeva al vero Teodorico, Carlo Magno,
Federico II, Innocenzo III, non erano ispirati da zelo del vero o da
intolleranza coscienziosa, bensì da avversioni e da amori per fatti e
persone odierne.
L’antipatia al dominio temporale dei papi, antica quanto esso, ed
incalorita oggidì dall’opposizione a chiunque governa, quand’anche
non governasse male, alterò sempre i giudizj su tempi ove i pontefici
supremavano; e come alcuni tessevano impavide apologie degli atti
meno scusabili, così altri divisarono un’ambizione tradizionale,
una cospirazione a danno del pensiero e della libertà, continuata
per quindici secoli fra ingegni e volontà così disparate; e mentre
un imperatore cancellava dai calendarj il nome di Gregorio VII, i
sofisti divinizzavano Crescenzio e Arnaldo da Brescia. Che dirò dei
sentimentali, che dappertutto mettono qualche frase di carità, di
fratellanza e, quel che più fu abusato a’ nostri giorni, di nazionalità
e d’odio agli stranieri? idee sconosciute al tempo che descrivono,
quanto quelle di barche a vapore o di telegrafi elettrici.
Di questi luoghi comuni si stomacarono alcuni; ma proponendosi
d’evitarli, fransero nel paradosso, inneggiando sol perchè vilipeso,
conculcando sol perchè venerato; solite eccedenze delle riazioni.
Non mancarono però scrutatori pazienti ed assennati estimatori, che
esercitando la critica su fatti d’erudizione e sentendo l’importanza
di opporre la realità al vago e all’incompleto, trovarono da cambiare
intere serie di fatti, convenzionalmente ricevuti per istorici, e più
spesso il modo di valutare qualche avvenimento che, messo in relazione
coi precessi e coi successivi, acquistava un color nuovo, dava un nuovo
significato ad un uomo o ad un’età.
Sebbene qui, all’opposto dei troppo imitati Francesi, si deprima, non
foss’altro col silenzio, ogni opera compaesana, adorando l’Italia e
conculcando ciascun Italiano, e, come Sansone, si adoperi la mascella
del giumento morto per uccidere i vivi, pure corrono al labbro di
ciascuno i nomi di que’ nostri che operarono a raddrizzare i concetti
scolastici sia intorno al medioevo in complesso, sia specialmente
intorno alla storia italiana, e massime all’età longobarda, alla
condizione delle plebi, all’origine dei Comuni: e forse non manca se
non una robusta sintesi che tutti quegli sforzi particolari assuma in
una potente unità, che ne sia insieme il frutto e la riprova, seguendo
quella catena di cognizioni, di sentimenti, di atti, di libertà che,
non mai interrotta, collega noi moderni con tutti gli antepassati
nella grand’opera del propagare la dottrina, e così elevare le classi
inferiori, estendere la libertà, proteggere la dignità, consacrare
l’eguaglianza sotto la disciplina della coscienza, anzichè sotto la
violenza ufficiale.


CAPITOLO CV.
Calata di Enrico VII.

Da Federico II in poi nessun re di Germania erasi coronato in Italia;
gli eletti assumevano il titolo di _re de’ Romani_, professavano sempre
di volere venirvi, come di volersi crociare, nè all’una adempivano nè
all’altra promessa: sicchè per sessantaquattro anni Italia non vide
principi tedeschi. Il cavalleresco Adolfo di Nassau della supremazia
imperiale diè segno col mandare qualche vicario, ma ben presto rimase
vinto ed ucciso da Alberto d’Austria.
Questo erasi ciuffato la corona (1298) col profondere privilegi agli
elettori, e al papa promettere di francheggiarne i diritti contro
qualsifosse aggressore, nè far pace o tregua coi nemici di esso; ma al
par di Rodolfo suo padre non volle pericolarsi nelle vicende d’Italia,
attento piuttosto a consolidare sua casa, meglio che non fossero
riusciti gl’imperatori sassoni e gli svevi. Se non che colle sue
tirannie disgustò i popoli, che gli si rivoltarono a Vienna, in Stiria,
e con migliore fortuna nella Svizzera, allora redentasi in libertà:
coll’avarizia esacerbò il nipote Giovanni di Svevia, che lo uccise.
Filippo il Bello re di Francia chiese allora (1308) al suo papa
un’altra grazia, che cingesse a Carlo di Valois la corona germanica;
e già aveva compro alquanti elettori, sicchè la Germania fu ad un
punto di subire uno straniero: ma il papa sollecitò perchè i voti si
concordassero sopra Enrico VII, ch’egli promise incoronare imperatore.
Costui, signore di poco più che della piccola contea di Luxemburg,
ma imparentato con molti principi, e fra altri con Amedeo V conte di
Savoja, allettando gli animi col valore e la cortesia, presto riuscì
a quel ch’era omai il primo intento degl’imperatori, aggrandire la
propria famiglia, collocando sul trono di Boemia suo figlio Giovanni
(1310).
Francesco da Garbagnate, nobile ghibellino, sturbato da Milano al
cadere dei Visconti, e come eretico condannato a portar sempre una
croce, viveva a Padova di fare il maestro, quando udita l’elezione del
nuovo cesare, vende i libri per comprare armi, e va a lui, e lo inanima
a calare in Italia per ristaurarvi la parzialità imperiale; troverebbe
ajuti non solo da questa, ma anche dai Guelfi, mal soddisfatti del
papa esulante e di chi facea per esso. All’umore cavalleresco di
Enrico talentava codesto sfoggiare in Italia un’autorità, della quale
aveva concetto meraviglioso; e senz’armi e senza ricchezze calava
in paese che un secolo e mezzo avea resistito a’ suoi predecessori
potenti. Ma nella lunga assenza degli imperatori erasi rintuzzato il
geloso sentimento repubblicano, alle ispirazioni franche della libertà
municipale sottentravano le reminiscenze romane, nè sopra Enrico pesava
l’odio giurato alla casa Sveva, nè a lui correva l’obbligo di vendette
ereditarie. Capo dei Ghibellini come imperatore, realmente professava
la grande imparzialità; a un Ghibellino che gli offriva averi e vita
purchè desse vantaggio alla sua parte, rispose: «Io venni per il tutto,
non per le parti»; anche il papa, desideroso di opporre qualcuno alla
prevalenza della Francia, mandò i suoi legati ad accompagnarlo, farlo
il ben arrivato nelle città guelfe, e imporgli la corona d’oro[269].
Ma la grande rappresentanza pontifizia, schiaffeggiata nella persona
di Bonifazio VIII, avea tagliato i proprj nervi col trasferirsi in
Avignone; senza ritegno sparlavasi contro la Babilonia d’Occidente,
la prostituta dell’Apocalissi; anche spiriti serj e pii guardavano la
supremazia del papa come distinta dalla causa della Chiesa; indignati
contro di quello, bramavano un’autorità che lo deprimesse, e al solito
ponevano grandi speranze in Enrico, «uom savio, di nobile sangue,
giusto e famoso, di gran lealtà, pro d’armi, di grande ingegno e di
grande temperanza, e che parte guelfa e ghibellina non voleva udire
ricordare» (COMPAGNI). In fatto Enrico, estranio a tali dissidj,
ammetteva e questa e quella, i tiranni e i magistrati municipali; i
Pisani, che gli spedivano sessantamila fiorini perchè avacciasse a
passare in Toscana; e i signorotti che promettevano condurlo traverso
all’Italia col falco in pugno, senza mestier di soldati.
Per la Savoja e val di Susa giunto a Torino (1310), surrogò vicarj
suoi a quelli del re di Napoli; ad Asti ebbe un incontro de’ signori
lombardi, cui promise non voler far divario tra imperiali e papalini,
ma venire a rimetter pace, a cancellare di bando i fuorusciti, e
tornar le città dalle private signorie sotto l’immediato suo dominio.
Di fatto riconciliò in Vercelli i Tizzoni cogli Avogadri, in Novara
i Brusati coi Tornielli, in Pavia i Beccaria coi Langosco; restituì i
Ghibellini a Como e a Mantova, i Guelfi a Brescia e a Piacenza; ma non
potè indurre gli Scaligeri a ricever in Verona i conti di Sanbonifazio,
esulanti da sessant’anni.
In Lombardia primeggiava sempre Milano, non dimentica dei tempi del suo
glorioso riscatto, ma dai Torriani già abituata al dominio d’un solo,
quando l’arcivescovo Ottone Visconti la acquistò (1277), e l’invigorì
coll’unire alla civile la podestà ecclesiastica (pag. 28). Fortunato
di non aver bisogno di supplizj per assodarsi, e fatto potente dalle
città ghibelline che gli si congiunsero, studiò tramandare la potestà
al nipote Matteo. Il quale fu eletto capitano dal popolo milanese, poi
da quello di Novara e Vercelli; indi vicario imperiale di Lombardia
(1295), a nome di Adolfo di Nassau; finalmente, alla morte di Ottone,
signore di Milano. Altre molte città imitarono l’esempio. A Bergamo
lottavano Colleoni e Suardi contro Bongi e Rivoli, e i primi mandarono
a chiedere Matteo, che corse in loro ajuto, e ne fu gridato signore.
In Pavia Manfredi de’ Beccaria, dopo sanguinose baruffe, soccombette a
Filippone Langosco, e Matteo carezzò costui e ne chiese la parentela;
ma egli, sospettatolo d’ambire quella città, ruppe gli accordi. Intanto
il Visconti s’imparentava colle due famiglie principali della parte
ghibellina e della guelfa, dando una figlia ad Alboino degli Scaligeri
di Verona (1293), e al suo primogenito Beatrice, sorella di Azzo
d’Este, vedova di Nino de’ Visconti di Pisa, signore d’un quarto della
Sardegna. Le feste di quell’occasione furono delle più splendide che si
vedessero, ripetute con gara di sontuosità a Modena, a Parma, a Milano.
Ma costei era già stata promessa ad Alberto Scotto signore di Piacenza,
il quale legossi al dito l’ingiuria. Vinta, non estirpata, la fazione
de’ Torriani rinforzavasi pei rancori e per le gelosie, consueti contro
un dominio nuovo. Vi soffiò lo Scotto, e strinse lega coi tiranni
Filippone Langosco predetto, Antonio Fisiraga di Lodi, Corrado Rusca
di Como, Venturino Benzone di Crema, i Cavalcabò di Cremona, i Brusati
di Novara, gli Avogadri di Vercelli, Giovanni II di Monferrato; Guido,
Mosca ed altri Torriani accorsero dal Friuli, dove s’erano rifuggiti
presso il patriarca loro zio; molti signori milanesi e fin di casa
Visconti tenner mano coi congiurati; e ben presto Milano a rumore
espelleva i Visconti (1302), il Rusca ribellava Como, benchè cognato di
Matteo, onde questi cesse alla fortuna: e un decreto dichiarò decaduti
i Visconti, un altro nominò capitano della città Guido della Torre.
Mutazioni effimere, e Matteo, che facea sua vita in quiete nella villa
di Nogarola, chiesto da alcuno come gli parea di stare, rispose: —
Bene, perchè so adattarmi al tempo»; e quando pensasse rientrare in
Milano: — Quando i peccati de’ Torriani soverchieranno quelli ch’io
aveva allorchè fui cacciato».
Per le città lombarde allora tornarono a galla quei ch’erano sommersi;
e Alberto Scotto, principale macchina di quelle vicende, ottenne
signoria su varj paesi, autorità su tutti. Ma ben presto egli s’ebbe
inimicato signori e popoli; e avendo mosso l’esercito contro i
Pavesi, trovossi di fronte Cremaschi, Lodigiani, Vercellini, Novaresi,
Milanesi, Comaschi e il marchese di Monferrato, che posero anche a ruba
il Piacentino. Per lo Scotto campeggiarono i Correggio, i Visconti,
gli Alessandrini, i Tortonesi, gli Astigiani; e i nomi di Guelfi e
Ghibellini riviveano dappertutto con mutata significazione, il primo
indicando i fautori de’ Torriani, l’altro quei de’ Visconti, cui
lo Scotto offrì di rimetterli nella città d’onde poc’anzi gli avea
snidati. Sebbene non ne seguisse battaglia, i Piacentini erano sazj di
tanti guasti, e ordirono una congiura che non valse se non a portare
alcuni al patibolo: ma poi insorti popolarmente, cacciarono lo Scotto,
cacciarono Giberto Correggio che volea farsi signore, e al grido di
_Popolo_ richiamarono i Landi, i Pelavicini, gli Anguissola fuorusciti,
dai quali fu chiesto capitano della città Guido Torriano. Costui
era dunque sul montare; ma ben presto egli pure eccitò scontento nei
popoli, dissensioni nella propria famiglia, fino a dover imprigionare
l’arcivescovo Cassone suo cugino co’ fratelli, imputati di attentare
alla sua vita.
A Guido non dovea dar per lo genio il proposito di Enrico VII di trarre
a immediato suo dominio le città lombarde, contro i patti della pace
di Costanza; ma non avendo potuto opporgli una lega guelfa, si piegò al
volere del popolo, ed uscì inerme ad incontrare Enrico (1310 — 3 xbre),
che con lungo codazzo di signori entrò in Milano da dominante, e prese
la corona di ferro, presenti i deputati di tutte le città di Lombardia
e della Marca. Guido solo non aveva abbassato l’insegna quando fu ad
incontrarlo; ma i Tedeschi gliela abbatterono, ed Enrico gl’intimò:
— Riconosci il tuo re; duro è ricalcitrare contro lo stimolo»; pur
risoluto a tenersi imparziale, lo riconciliò coi Visconti. Dappertutto
intanto sostituiva vicarj imperiali ai podestà eletti dai cittadini,
rimpatriava gli esuli, e godeva sentirsi acclamato ristoratore della
pace, della giustizia, della libertà.
Sul principio era in fatto universalmente il ben venuto, ma non tardò
a scontentare i Milanesi col voler introdurre in città uomini armati,
e coll’esigere un donativo. Di questo trattossi nel consiglio, e
Guglielmo Pusterla propose cinquantamila zecchini; Matteo Visconti,
liberale colla roba altrui, soggiunse: — Vorrete almeno assegnarne
diecimila altri per la regina». Al che Guido Torriano indispettito: —
E perchè non fare addirittura il numero tondo, centomila?» e il notajo
regio protocollò centomila, e non ci fu modo di dibatterne uno.
Per questo valsente Enrico concedette un amplissimo privilegio
ai Milanesi (1311 — 20 marzo); per cinquemila ne diede un altro
ai Monzaschi[270], comminando a chi li violasse gravissime pene,
pagabili non già ad essi Comuni, ma alla sua camera. In procinto
poi di calare verso la bassa Italia, pensò tôrre degli ostaggi, e in
apparenza di onore domandò al Comune cinquanta cavalieri, fra’ quali