Storia degli Italiani, vol. 07 (di 15) - 15
centinaja di migliaja di pellegrini vi accorrevano al giubileo, mossi
da un unico pensiero, la salute dell’anima, eppur ciascuno portandovi
gli affetti, le passioni, le fantasie proprie. Il devoto entusiasmo
di tutta cristianità si accentrò nel poeta, il quale tolse a cantar
l’uomo, e come i suoi meriti in terra sono retribuiti nell’altro
mondo. Il dispetto verso gli uomini, l’aver toccato con mano le miserie
d’Italia, il conversare cogli artisti che allora, innovando la pittura,
gli davano esempio di nobili ardimenti, maturarono la vasta sua facoltà
poetica; e amore, politica, teologia, sdegno gli dettarono la _Divina
Commedia_, che, come l’epopea più ardita, così è l’opera più lirica di
nostra favella, giacchè nel canto egli trasfonde l’ispirazione propria,
l’entusiasmo onde ardeva per la religione, per la patria, per l’impero,
e gl’immortali suoi rancori.
Nel tempio, nel duomo eransi tutte le arti novamente congiunte,
com’erano state prima che il separarsi raffinasse le singole, a scapito
dell’universale espressione. Così Dante ripigliava l’epopea vera, che
comprendesse i tre elementi di racconto, rappresentazione, ispirazione,
i lanci dell’immaginativa e le speculazioni del raziocinio; toccasse
all’origine e alla fine del mondo; descrivesse terra e cielo, uomo,
angelo e demonio, il dogma e la leggenda, l’immenso, l’eterno,
l’infinito, colle cognizioni tutte dell’intelligenza sua e del popolo.
Laonde il suo poema riuscì teologico, morale, storico, filosofico,
allegorico, enciclopedico; pure coordinato a insegnar verità salutevoli
alla vita civile[168].
Il Boccaccio, di poco a lui posteriore, lasciò cadersi dalla penna
che scopo unico ne fosse il distribuir lodi o biasimo a coloro, di
cui la politica e i costumi reputava onorevoli o vergognosi, utili
o micidiali. Ridurre un sì vasto concetto alla misura di un libello
d’occasione! e forse era siffatta l’opinione de’ vulgari, soliti a non
veder che allusioni e attualità, perchè in fatto stanno racchiuse nelle
verità eterne, e in quella vastità dei generali che è il carattere
degl’ingegni elevati. Ma a gran torto s’appongono coloro che solo
un’allegoria politica vogliono trovare in un poema, cui poser mano
cielo e terra. Il problema cardinale, che Eschilo presentiva nel
_Prometeo_, che Shakspeare atteggiò nell’_Amleto_, che Faust cercò
risolvere colla scienza, don Giovanni colla voluttà, Werter coll’amore,
fu l’indagine di Dante come di tutti i pensatori; questo contrasto
fra il niente e l’immortalità, fra le aspirazioni a un bene supremo, e
l’avvilimento di mali incessanti.
«L’autore, in quel tempo che cominciò questo trattato, era peccatore
e vizioso, ed era quasi in una selva di vizj e d’ignoranza; ma poichè
egli pervenne al monte, cioè al conoscimento della virtù, allora la
tribolazione e le sollecitudini e le varie passioni procedenti da
quelli peccati e difetti cessarono e si chetarono »[169]. Ciò fu _nel
mezzo del cammin della vita_ del poeta, quando il giubileo lo richiamò
a coscienza.
I poeti pagani sono pieni di calate all’inferno. I Padri cristiani non
insistettero sul descriverlo, e di volo vi passa sopra anche l’estatico
di Patmos; ma cresciuta la barbarie, parve si volessero rinforzare
i ritegni col divisare a minuto que’ fieri supplizj. Divenuto unico
sentimento comune il religioso, in centinaja di leggende ricomparivano
viaggi all’altro mondo. Pel pozzo di San Patrizio in Irlanda Guerrino
il Meschino scende a laghi di fiamme, ove l’anime si purgano: e
nell’inferno, disposto in sette cerchj concentrici un sotto l’altro,
in ciascuno dei quali è punito uno de’ peccati mortali, trova molte
persone conosciute: infine Enoch ed Elia lo elevano alle delizie
del paradiso, e risolvono i dubbj suoi[170]. Le lepide composizioni
del _Sogno d’inferno_ di Rodolfo di Houdan, e del _Giocoliere che
va all’inferno_, correano per le mani come espressioni di credenze
vulgatissime, e comuni ai popoli più lontani. In Italia principalmente
dovea essere conosciuta la visione d’Alderico, monaco a Montecassino
attorno al 1127, il quale dopo lunga malattia rimane nove giorni e nove
notti privo di sentimento; nel qual tempo, portato su ali di colomba e
assistito da due angeli, va nell’inferno, poi nel purgatorio, donde è
assunto ai sette cieli e all’empireo. Da tali credenze Brunetto Latini,
maestro di Dante, avea dedotto l’idea d’un viaggio, in cui dicevasi
salvato per opera d’Ovidio da una selva diversa, dove avea smarrito il
gran cammino[171].
Ben sarebbe meschino l’imputar Dante d’imitazione. Forse la Madonna col
bambino non è la stessa, sgorbiata dall’imbianchino del villaggio, e
dipinta da Rafaello? Dante vi era portato dai tempi e dalle credenze
universali; e il libro più comune e quasi unico del medio evo gli
somministrava queste allegorie, e le visioni, e perfino le tre fiere
che l’impediscono al cominciar dell’erta[172]. E talmente la visione è
forma essenziale dell’opera di Dante, che durò anche dopo lui morto, e
si disse che otto mesi dopo la tomba foss’egli apparso a Pier Giardino
ravignano per indicargli dove stessero riposti gli ultimi tredici canti
del poema, di cui in conseguenza la terza parte fu pubblicata solo
postuma.
La predilezione di Dante pei concetti simbolici trapela da tutte le
opere sue. Conobbe Beatrice a nove anni, la rivide a diciotto alla
nona ora, la sognò nella prima delle nove ultime ore della notte, la
cantò ai diciott’anni, la perdè ai ventisette, il nono mese dell’anno
giudaico; e questo ritorno delle potenze del numero più augusto
gl’indicava alcun che di divino[173], come il nome di lei parevagli
cosa di cielo, aggiuntivo della scienza e delle idee più sublimi; onde
la divinizzò come simbolo della luce interposta fra l’intelletto e la
verità.
Adunque Dante non poeteggia per istinto, ma tutto calcola e ragiona;
compagina l’uno e trino suo poema in tre volte trentatrè canti, oltre
l’introduzione, e ciascuno in un quasi ugual numero di terzine[174]; e
gli scomparti numerici cominciati nel bel primo verso (_nel mezzo_),
lo accompagnano per le bolge, pei balzi, pei cieli, a nove a nove
coordinati. Questo rispetto per la regola, questo _fren dell’arte_
che crea egli stesso e al quale pure si tiene obbligato, non deriva da
quell’amore dell’ordine, per cui vagheggiava la monarchia universale?
La mistura del reale coll’ideale, del fatto col simbolo, della storia
coll’allegoria, comune nel medio evo[175], valse all’Alighieri per
innestare nella favola mistica l’esistenza reale e casi umani recenti;
sicchè i due mondi sono il riflesso l’uno dell’altro, e Beatrice è la
donna sua insieme e la scienza di Dio, come dalle quattro stelle vere
son figurate le virtù cardinali, e dalle tre le teologiche.
Smarrito nella selva selvaggia delle passioni e delle brighe civili,
dalla letteratura e dalla filosofia, personificate in Virgilio, vien
Dante condotto per l’esperienza fin dove può conoscere il vero positivo
della teologia, raffigurata in Beatrice, alla cui vista, prima gioja
del suo paradiso, egli arriva traverso al castigo ed all’espiamento.
Al limitare dell’inferno, incontra gli sciagurati che vissero senza
infamia e senza lode, inettissima genia, chiamata prudente dalle
età che conoscono per unica virtù quella fiacca moderazione la quale
distoglie dall’_esser vivi_. Con minore acerbità sono castigati coloro,
di cui le colpe restano nella persona; e peggior ira del cielo crucia
quelli che ingiuriarono altrui. Così nel secondo regno si purgano le
colpe con pene proporzionate al nocumento che indussero alla società;
e a questo assunto sociale si riferiscono, chi ben guardi, le quistioni
che in quel tragitto presenta e discute il poeta, le nimistanze civili,
il libero arbitrio, l’indissolubilità dei voti, la volontà assoluta o
mista, come di buon padre nasca figlio malvagio, e come nell’eleggere
uno stato non devasi andare a ritroso della natura.
Erano tempi, ove, non conoscendosi i temperamenti dell’educazione,
tutto veniva spinto all’assoluto; e Dante ce li dipinge colla
credulità, coll’ira, la morale, la vendetta. Secondo è uffizio del
poeta, s’erge consigliere delle nazioni, giudice degli avvenimenti e
degli uomini, re dell’opinione: ma la mal cristiana rabbia onde tesse
l’orditura religiosa, pregiudica non meno alla forma che all’interna
bellezza.
E bellezza sua originale è quella rapidità di procedere, per cui non
s’arresta a far pompa d’arte, di figure rettoriche, di descrizioni,
a ripetere pensieri altrove uditi; ma cammina difilato alla meta,
colpisce e passa. Insigne nel cogliere o astrarre i caratteri degli
enti su cui si fissa, egli è sempre particolare nelle dipinture; vedi
i suoi quadri, odi i suoi personaggi. Libero genio, adopera stile
proprio, tutto nerbo e semplicità, con quelle parole rattenute che
dicono men che il poeta non abbia sentito, ma fanno meglio intravvedere
l’infinito, acciocchè ne cerchiamo il senso in noi medesimi. La forza
e la concisione mai non fecero miglior prova che in questo poema,
dove ogni parola tante cose riassume, dove in un verso si compendia
un capitolo di morale[176], in una terzina un trattato di stile[177];
e in eleganti versi si risolvono le quistioni più astruse, come la
generazione umana, e l’accordo fra la preveggenza di Dio e la libertà
dell’uomo, le quali non apparivano fin là che nell’ispido involucro
dell’argomentazione scolastica[178]. Ond’è che Dante opera sul lettore
non tanto per quel che esprime quanto per quel che suggerisce; non
tanto per le idee che eccita direttamente, quanto per quelle che
in folla vengono associarsi alle prime. Capirlo è impossibile se
l’immaginazione del lettore non ajuti quella dell’autore: egli schizza,
lasciando che il lettore incarni; dà il motivo, lasciando a questo il
trovarvi l’armonia, il quale esercizio dell’attività lo fa sembrare più
grande.
Ma egli non è un autor da tavolino; _fa parere la sua nobiltà_
scrivendo ciò che vide; laonde con libero genio, non teme la critica,
pecca di gusto, manca della pulitura qual richiedono i tempi forbiti;
e intese la natura dello _stil nuovo_, che non può reggersi colla
indeclinabile dignità degli antichi: ma, come nella società, mette
accanto al terribile il ridicolo; donde quel titolo di Commedia[179].
Dell’introdurre tante questioni scolastiche nol vorrò difendere io;
ma, oltrechè è natura de’ poemi primitivi il raccorre e ripetere
tutto quanto si sa, se oggi appaiono strane a noi disusati, allora
si discuteano alla giornata, ed ogni persona colta avea parteggiato
per l’una o per l’altra, non altrimenti che oggi avvenga delle
disquisizioni politiche.
Neghi chi vuole, ma il maggior difetto di Dante resterà
l’oscurità[180]. Locuzioni stentate, improprie; voci e frasi inzeppate
per necessità di rima; parole di senso nuovo; allusioni stiracchiate,
o parziali, o troppo di fuga accennate; circostanze effimere e
municipali, poste come conosciute e perpetue, l’ingombrano sì, che
Omero e Virgilio richiedono men commenti; e tu italiano sei costretto a
studiarlo come un libro forestiere, alternando gli occhi fra il testo
e le chiose; e poi trovi concetti che, dopo volumi di discussioni,
non sanno risolversi. Vero è che quel fraseggiare talmente s’incarna
col modo suo di concepire e di poetare, da doverlo credere il più
opportuno a rivelar l’anima e i pensamenti di esso. Anzi si direbbe
che l’allettativo di Dante consista in una virtù occulta delle parole,
le quali devono essere disposte a tal modo nè più nè meno; movetele,
cambiate un aggettivo, sostituite un sinonimo, e non son più desse: ha
versi senza significato, e che pure tutti sanno a memoria: udite que’
terzetti quali stanno, ed eccovi la vanità divien persona, e presente
il passato, e figurato l’avvenire.
Con sì stupendi cominciamenti rivelavasi la nostra lingua. Dante nella
_Vita nuova_ avea riprovato coloro «che rimano sopra altra materia
che amorosa; conciossiachè cotal modo di parlare (l’italiano) fosse da
principio trovato per dire d’amore». Ma nelle trattazioni civili ebbe a
riconoscere la forza del vulgar nostro, e come «la lingua dev’essere un
servo obbediente a chi l’adopera, e il latino è piuttosto un padrone,
mentre il vulgare a piacimento artificiato si transmuta»; onde nel
_Convivio_ diceva: — Questo sarà luce nuova e sole nuovo, il quale
sorgerà ove l’usato (il latino) tramonterà, e darà luce a coloro che
son in tenebre e in oscurità per lo usato sole che loro non luce».
Frate Ilario, priore del monastero di Santa Croce del Corvo nella
diocesi di Luni, dirigendo la prima cantica a Uguccione della Faggiuola
così gli scrive: — Qui capitò Dante, o lo movesse la religione
del luogo, o altro qualsiasi affetto. Ed avendo io scorto costui,
sconosciuto a me ed a tutti i miei frati, il richiesi del suo volere
e del suo cercare. Egli non fece motto, ma seguitava silenzioso
a contemplare le colonne e le travi del chiostro. Io di nuovo il
richiedo che si voglia e chi cerchi; ed egli girando lentamente il
capo, e guardando i frati e me, risponde, _Pace!_ Acceso più e più
della volontà di conoscerlo e sapere chi mai si fosse, io lo trassi
in disparte, e fatte seco alquante parole, il conobbi: chè, quantunque
non lo avessi visto mai prima di quell’ora, pure da molto tempo erane
a me giunta la fama. Quando egli vide ch’io pendeva della sua vista,
e lo ascoltavo con raro affetto, e’ si trasse di seno un libro, con
gentilezza lo schiuse, e sì me l’offerse dicendo: _Frate, ecco parte
dell’opera mia, forse da te non vista; questo ricordo ti lascio, non
dimenticarmi_. Il portomi libro io mi strinsi gratissimo al petto,
e, lui presente, vi fissi gli occhi con grande amore. Ma vedendovi le
parole vulgari, e mostrando per l’atto della faccia la mia meraviglia,
egli me ne richiese. Risposi ch’io stupiva egli avesse cantato in
quella lingua, perchè parea cosa difficile e da non credere che quegli
altissimi intendimenti si potessero significare per parole di vulgo;
nè mi parea convenire che una tanta e sì degna scienza fosse vestita a
quel modo plebeo. Ed egli: _Hai ragione, ed io medesimo lo pensai; e
allorchè da principio i semi di queste cose, infusi forse dal cielo,
presero a germogliare, scelsi quel dire che più n’era degno; nè
solamente lo scelsi, ma in quello presi di botto a poetare così:_
_Ultima regna canam fluido contermina mundo,_
_Spiritibus quæ late patent, quæ præmia solvunt_
_Pro meritis cuicumque suis._
_Ma quando pensai la condizione dell’età presente e vidi i canti
degl’illustri poeti tenersi abjetti, laonde i generosi uomini, per
servigio de’ quali nel buon tempo scrivevansi queste cose, lasciarono
ahi dolore! le arti liberali a’ plebei; allora quella piccioletta
lira onde m’era provveduto, gittai, ed un’altra ne temprai conveniente
all’orecchio de’ moderni, vano essendo il cibo ch’è duro apprestar a
bocche di lattanti_».
Di fatto l’Alighieri osò adoprare l’italiano a descriver fondo a
tutto l’universo; e vi pose il vigore, la rapidità, la libertà d’una
lingua viva. Che se egli non la creò, la eresse al volo più sublime;
se non fissolla, la determinò, _e mostrò ciò che potea_. Togli le
voci dottrinali, o quelle ch’egli creava per bisogno o per capriccio
(avvegnachè vantavasi di non far mai servire il pensiero alla parola,
o la parola alla rima)[181], le altre sue son quasi tutte vive. Se,
come alcuno fantastica, egli fosse andato ripescandole da questo o
da quel dialetto, avrebbe formato una mescolanza assurda, pedantesca,
senza l’alito popolare che solo può dar vita. Forse le prose e i versi
de’ suoi contemporanei, quanto a parole, differiscono da’ suoi? Nato
toscano, non ebbe mestieri che di adoperare l’idioma materno; e le
voci d’altri dialetti che per comodo di verso pose qua e là, sono in
minore numero che non le latine o provenzali, a cui non per questo
pretese conferire la cittadinanza. Irato però alla sua patria, volle
predicare teoriche in perfetto contrasto colla propria pratica; e
nel libro _Della vulgare eloquenza_ (dettato in latino per una nuova
contraddizione), dopo aver ragionato dell’origine del parlare[182],
della divisione degli idiomi e di quelli usciti dal romano, che sono
la lingua d’_oc_, la lingua d’_oui_ e la lingua di _sì_, riconosce in
quest’ultima quattordici dialetti, simili a piante selvaggie, di cui
bisogna diboscare la patria. E prima svelle il romagnolo, lo spoletino,
l’anconitano, indi il ferrarese, il veneto, il bergamasco, il genovese,
il lombardo, e gli altri traspadani _irsuti ed ispidi_, e _i crudeli
accenti_ degli Istrioti; dice «il vulgare de’ Romani, o per dir
meglio il suo tristo parlare, essere il più brutto di tutti i vulgari
italiani, e non è meraviglia, sendo ne’ costumi o nelle deformità degli
abiti loro sopra tutti puzzolenti»; dice che Ferrara, Modena, Reggio,
Parma non possono aver poeti, in grazia della loro loquacità[183].
Insomma lascia trasparire che quel che meno gl’importa è la questione
grammaticale; ma sovratutto condanna i Toscani perchè _arrogantemente
si attribuiscono il titolo del vulgare illustre_, il quale, a dir suo,
«è quello che in ciascuna città appare ed in niuna riposa; vulgare
cardinale, aulico, il quale è di tutte le città italiane, e non pare
che sia in niuna; col quale i vulgari di tutte le città d’Italia
si hanno a misurare, ponderare e comparare». Per disservire questa
patria, ne _depompa_ il linguaggio; i dialetti disapprova quanto più
s’accostano al fiorentino; eppure insulta ai Sardi perchè dialetto
proprio non hanno, ma parlano ancora latino: loda invece il siciliano,
dicendo che così si chiama l’italiano e si chiamerà sempre; eppure
all’ultimo capitolo mette che il parlar nostro, _quod totius Italiæ
est, latinum vulgare vocatur_; e semprechè gli cade menzione del parlar
suo o del comune italiano, lo chiama vulgare, o parlar tosco, o latino,
e neppure una volta siciliano.
A rinfianco del suo sofisma reca poche voci di ciascun dialetto, prova
inconcludentissima; e versi di poeti di ciascuna regione, lodando
quelli che si applicarono a cotesta lingua aulica, riprovando quelli
che tennero la popolare, massimamente i Toscani. Nulla men giusto che
tali giudizj, e basta leggere anche solo le poesie da lui addotte,
per vedere che le toscane popolesche sono similissime alle cortigiane
d’altri paesi: donde deriva che il cortigiano d’altrove, cioè lo
studiato, era il naturale e vulgato di Firenze[184].
Malgrado i commenti di eruditissimi, o forse in grazia di quelli, io
non so se meglio di me altri sia riuscito a cogliere l’assunto preciso
di Dante in questo lavoro; tanto spesso si contraddice, tanto esce
ne’ giudizj più inattesi. Chi volesse vedervi qualcosa più che un
dispetto di fuoruscito, potrebbe supporre che i dotti avesser mostrato
poco conto della sua Commedia, perchè scritta nella lingua che egli
avea dalla balia, senza i pazienti studj che richiedeva il latino;
quindi egli tolse a mostrare che nessun dialetto è buono a scrivere,
ma da tutti vuolsi scernere il meglio. E qui v’è parte di verità: chè
chi voglia formare un mazzo, non coglie tutti i fiori d’un giardino,
ma i più belli; e quest’arte del _crivellare_ e dello scriver bene
non può impararsi se non da chi bene scrive, nè a questi è prefisso
verun paese. Ma il giardino dove trovare i fiori più abbondevoli e
genuini, qual sarà se non la Toscana? e di fatto egli confessa che
fin d’allora _non solo l’opinione dei plebei, ma molti uomini famosi_
attribuivano il titolo di vulgare illustre al fiorentino; nel che dice
_impazzivano_, egli che pur credea necessario dare per fondamento alla
lingua scritta un dialetto, benchè lo sdegno gli facesse ai Fiorentini,
_obtusi in suo turpiloquio_, preferire sino il disavvenente bolognese;
egli che asseriva il latino dovere scriversi per grammatica, ma il
_bello vulgare seguita l’uso_.
Nella scarsa metafisica d’allora, confondeva la lingua collo stile,
giacchè è affatto vero che, adottando quella dei Fiorentini, bisognava
poi aggiungervi l’ingegno e l’arte perchè divenisse colta; e poichè
a ciò serve non poco l’usare con chi ben parla e ben pensa, Bologna
per la sua Università offriva campo a migliorar lo stile, più che
non la mercantesca Firenze. L’appunteremo noi se non seppe fare una
distinzione, la cui mancanza offusca anc’oggi i tanti ragionacchianti
in siffatta quistione? Al postutto egli non argomenta della lingua in
generale, ma di quella che s’addice alle canzoni: lo che dovrebbero non
dimenticare mai coloro che vogliono di Dante fiorentino far un campione
contro quel fiorentino parlare, ch’egli pose in trono inconcusso.
Altri versi dettò, e massime canzoni amorose, delle quali poi fece un
commento nel _Convivio_, fatica mediocre, dove maturo tolse a indagar
ragioni filosofiche a sentimenti venutigli direttamente da vaghezze
giovanili, e vorrebbe che per amore s’intendesse lo studio, per donna
la filosofia, per terzo cielo di venere la retorica, terza scienza del
trivio; per gli angeli motori di questa sfera, Tullio e Boezio unici
suoi consolatori. Ivi esprime di valersi dell’italiano «per confondere
li suoi accusatori, li quali dispregiano esso, e commendano gli altri,
massimamente quello di lingua d’oc, dicendo ch’è più bello e migliore
di questo»: eppure altrove soggiunge «molte regioni e città essere più
nobili e deliziose che Toscana e Firenze, e molte nazioni e molte genti
usare più dilettevole e più utile sermone che gli Italiani». Locchè
vedasi se a que’ tempi potea dirsi con giustizia.
Quella che l’Alighieri creò veramente, è la lingua poetica, che
fin ad oggi s’adopera con più o men d’arte, ma sempre la stessa, e
per la quale sin d’allora egli era cantato fin nelle strade[185].
La sua prosa invece è povera d’artifizio, pesante, prolissa, con
clausole impaccianti, periodi complicati. Quanto più doveva essere ne’
coetanei suoi, eccetto que’ Toscani che s’accontentassero di usarla
nell’ingenuità natìa? Pure la prosa su que’ primordj va più originale
che non divenisse in man di coloro i quali di poi vollero applicarvi la
costruzione latina.
Doveva l’eloquenza ingrandire fra’ pubblici interessi: ma quel gran
sintomo dello sviluppo di un popolo, la potenza politica della parola,
il talento applicato a governar le nazioni, non ad esilarare gli
spiriti, rimase impacciato dall’inesperienza delle lingue. I pochi
discorsi riferiti dagli storici non mostrano aspetto d’autenticità;
pure sappiamo che, uniformandosi alle consuetudini scolastiche, gli
oratori di tribuna si appoggiavano a un testo, sovente plebeo, e su
quello ragionavano senz’arte. Farinata degli Uberti, quando, dopo
la battaglia dell’Arbia, si alzò a viso aperto contro la proposta di
distruggere Firenze, prese per testo due triti proverbj: — Come asino
sape, così minuzza rape. Si va la capra zoppa, se lupo non la intoppa».
E san Francesco predicando a Montefeltro, tolse un altro motto
vulgare: — Tanto è il ben che aspetto, che ogni pena m’è diletto».
Que’ predicatori che traevansi dietro le moltitudini, spingevanle alla
guerra e, ch’è più mirabile, alla pace, li trovi rozzi e inordinati
raccozzatori di scolastiche sottigliezze o di mistiche aspirazioni,
lardellati di testi scritturali e di trascinate allusioni, dividendo
e suddividendo a modo dialettico, senz’ombra di genio e rado di
sentimento. Predicavano forse in latino rustico, e a tanta folla che a
ben pochi era dato di sentirli e a meno d’intenderli, sicchè i cronisti
ricorrono al miracolo. E davvero l’efficacia portentosa va attribuita
al concetto di loro santità, e alla persuasione con cui parlavano, e
che facilmente trasfondesi in chi ascolta.
CAPITOLO CII.
Ingerenza francese. — I Vespri siciliani, e la guerra conseguente.
Parve la parte guelfa avesse confitto la ruota della fortuna al cadere
degli Svevi e al piantarsi Carlo d’Angiò nelle Due Sicilie (Cap. XCII).
Questo avea tributarj il bey di Tunisi e molte città del Piemonte,
ligie quelle della Romagna e della Lombardia; vicario della Toscana,
governator di Bologna, senatore di Roma, protettore degli Estensi e
perciò della marca Trevisana; arbitro de’ papi e del re di Francia
suo nipote; da Baldovino II, imperatore spodestato di Costantinopoli,
si fa cedere i titoli sull’Acaja e la Morea; il regno di Gerusalemme
da Maria figlia di Boemondo IV d’Antiochia; da Melisenda, il regno di
Cipro; titoli vani, ai quali sperava ottener realtà facendo dai papi
scomunicare Michele Paleologo imperatore bisantino, e allestendo grosse
armi per isbalzarlo.
Nel Regno egli non mutò gran fatto della costituzione, conservando i
pesi e i freni che la robusta mano di Federico II e i bisogni della
guerra v’aveano introdotto; migliorò Napoli di edifizj, fra’ quali il
Castel Nuovo per assicurar l’accesso al mare, il duomo, Santa Maria
la Nuova con ampio monastero di frati Minori; San Lorenzo, eretto
sul Palazzo del Comune, da lui abbattuto; fece lastricare le vie
interne; favorì l’Università attribuendole un giustiziere proprio,
e determinando i prezzi degli oggetti di consumo per gli scolari,
cui esentò dalle gabelle. Estese l’usanza di far cavalieri in tutte
le solennità, e con quest’onore si amicò alcuni popolani grassi,
come molti signori francesi col distribuir loro i feudi sottratti ad
amici degli Svevi. Soltanto gentiluomini, o notevoli per ricchezza o
per senno ammise nei _seggi_, ristretti ai cinque di Capuana, Nido,
Montagna, Porto, Portanuova; i quali gareggiarono a fabbricare nel
proprio quartiere palazzo e teatro; nominavano ciascuno cinque o sei
capitani annui, che potessero convocare i nobili per qualunque pubblico
affare; e gli Eletti, che governavano la città insieme coll’Eletto
della piazza del Popolo. I parlamenti, che si accoglievano or qua or
là, allora furono fissati a Napoli, e v’intervenivano la più parte de’
baroni, i sindaci di tutto il regno, e i due ordini de’ nobili e della
plebe; i prelati soltanto in qualità di baroni.
Ma la nobiltà antica prendeva in dispetto la nuova; le sventure della
dinastia caduta convertirono l’odio in compassione; il popolo fremeva
ai supplizj di coloro che non erano stati tanto vili da rinnegare
gli antichi benefattori. I baroni, che soleano retribuire soltanto un
donativo ne’ casi preveduti dal diritto feudale, cioè per invasione
del paese, prigionia del re, nozze della sua figliuola o sorella,
e nell’ornar cavaliere lui o suo figlio, erano stati sottomessi da
Federico a gravezze regolari, mantenute o aumentate da Manfredi pel
bisogno della guerra; e se Carlo avea promesso esoneraneli, si giovò
del favore mostrato a Corradino per mancare agli accordi.
Ragioni di popoli e ragioni della Chiesa aveva egli a rispettare,
ed entrambe violò. Alla santa Sede avea giurato abolire le esazioni
arbitrarie inventate dagli Svevi, e ripristinare le immunità come
al tempo di Guglielmo il Buono; poi, per ambizione ed avarizia e per
soddisfare l’esercito, introduceva sottigliezze fiscali, tasse sopra
ogni minimo consumo; e se non trovasse pubblicani, obbligava qualche
ricco a pigliarne l’appalto, come per forza dava in socida i beni del
regio dominio, stabilendo a sua discrezione il fitto; estendeva le
bandite per la caccia, ripristinava i servizj di corpo, di carri, di
navi; arrogavasi ragioni di acque: la prigione era spalancata per ogni
ritardo, per ogni richiamo, pur beato chi potesse fuggire, lasciando
incolto il campo, deserta la casa, che talora veniva diroccata. Pose
in corso la moneta scadente del carlino, minacciando chi la ricusasse
di marchiarlo in fronte colla moneta stessa rovente[186], e producendo
scompigli nelle private contrattazioni. Che diremo dei delitti di
maestà, delle fiere procedure per sospetti, del proibire che i figli
de’ rei di Stato non potessero accasarsi senza licenza del re?[187]
Il quale pure o gli eredi di pingui feudi condannava al celibato, o le
ricche ereditiere maritava co’ suoi stranieri.
Ad esempio di lui soprusavano i ministri, smungeano denaro per ogni
occasione, rubavano, poi otteneano connivenza spartendo col re; sopra
gente avvezza alle franchigie normanne e alla cortesia sveva, si
comportavano con quella sbadata insolenza, per cui i Francesi in Italia
non seppero farsi amare se non quando non vi sono.
Più castigata fu la Sicilia quanto più dagli Svevi favorita; fraudata
da un unico pensiero, la salute dell’anima, eppur ciascuno portandovi
gli affetti, le passioni, le fantasie proprie. Il devoto entusiasmo
di tutta cristianità si accentrò nel poeta, il quale tolse a cantar
l’uomo, e come i suoi meriti in terra sono retribuiti nell’altro
mondo. Il dispetto verso gli uomini, l’aver toccato con mano le miserie
d’Italia, il conversare cogli artisti che allora, innovando la pittura,
gli davano esempio di nobili ardimenti, maturarono la vasta sua facoltà
poetica; e amore, politica, teologia, sdegno gli dettarono la _Divina
Commedia_, che, come l’epopea più ardita, così è l’opera più lirica di
nostra favella, giacchè nel canto egli trasfonde l’ispirazione propria,
l’entusiasmo onde ardeva per la religione, per la patria, per l’impero,
e gl’immortali suoi rancori.
Nel tempio, nel duomo eransi tutte le arti novamente congiunte,
com’erano state prima che il separarsi raffinasse le singole, a scapito
dell’universale espressione. Così Dante ripigliava l’epopea vera, che
comprendesse i tre elementi di racconto, rappresentazione, ispirazione,
i lanci dell’immaginativa e le speculazioni del raziocinio; toccasse
all’origine e alla fine del mondo; descrivesse terra e cielo, uomo,
angelo e demonio, il dogma e la leggenda, l’immenso, l’eterno,
l’infinito, colle cognizioni tutte dell’intelligenza sua e del popolo.
Laonde il suo poema riuscì teologico, morale, storico, filosofico,
allegorico, enciclopedico; pure coordinato a insegnar verità salutevoli
alla vita civile[168].
Il Boccaccio, di poco a lui posteriore, lasciò cadersi dalla penna
che scopo unico ne fosse il distribuir lodi o biasimo a coloro, di
cui la politica e i costumi reputava onorevoli o vergognosi, utili
o micidiali. Ridurre un sì vasto concetto alla misura di un libello
d’occasione! e forse era siffatta l’opinione de’ vulgari, soliti a non
veder che allusioni e attualità, perchè in fatto stanno racchiuse nelle
verità eterne, e in quella vastità dei generali che è il carattere
degl’ingegni elevati. Ma a gran torto s’appongono coloro che solo
un’allegoria politica vogliono trovare in un poema, cui poser mano
cielo e terra. Il problema cardinale, che Eschilo presentiva nel
_Prometeo_, che Shakspeare atteggiò nell’_Amleto_, che Faust cercò
risolvere colla scienza, don Giovanni colla voluttà, Werter coll’amore,
fu l’indagine di Dante come di tutti i pensatori; questo contrasto
fra il niente e l’immortalità, fra le aspirazioni a un bene supremo, e
l’avvilimento di mali incessanti.
«L’autore, in quel tempo che cominciò questo trattato, era peccatore
e vizioso, ed era quasi in una selva di vizj e d’ignoranza; ma poichè
egli pervenne al monte, cioè al conoscimento della virtù, allora la
tribolazione e le sollecitudini e le varie passioni procedenti da
quelli peccati e difetti cessarono e si chetarono »[169]. Ciò fu _nel
mezzo del cammin della vita_ del poeta, quando il giubileo lo richiamò
a coscienza.
I poeti pagani sono pieni di calate all’inferno. I Padri cristiani non
insistettero sul descriverlo, e di volo vi passa sopra anche l’estatico
di Patmos; ma cresciuta la barbarie, parve si volessero rinforzare
i ritegni col divisare a minuto que’ fieri supplizj. Divenuto unico
sentimento comune il religioso, in centinaja di leggende ricomparivano
viaggi all’altro mondo. Pel pozzo di San Patrizio in Irlanda Guerrino
il Meschino scende a laghi di fiamme, ove l’anime si purgano: e
nell’inferno, disposto in sette cerchj concentrici un sotto l’altro,
in ciascuno dei quali è punito uno de’ peccati mortali, trova molte
persone conosciute: infine Enoch ed Elia lo elevano alle delizie
del paradiso, e risolvono i dubbj suoi[170]. Le lepide composizioni
del _Sogno d’inferno_ di Rodolfo di Houdan, e del _Giocoliere che
va all’inferno_, correano per le mani come espressioni di credenze
vulgatissime, e comuni ai popoli più lontani. In Italia principalmente
dovea essere conosciuta la visione d’Alderico, monaco a Montecassino
attorno al 1127, il quale dopo lunga malattia rimane nove giorni e nove
notti privo di sentimento; nel qual tempo, portato su ali di colomba e
assistito da due angeli, va nell’inferno, poi nel purgatorio, donde è
assunto ai sette cieli e all’empireo. Da tali credenze Brunetto Latini,
maestro di Dante, avea dedotto l’idea d’un viaggio, in cui dicevasi
salvato per opera d’Ovidio da una selva diversa, dove avea smarrito il
gran cammino[171].
Ben sarebbe meschino l’imputar Dante d’imitazione. Forse la Madonna col
bambino non è la stessa, sgorbiata dall’imbianchino del villaggio, e
dipinta da Rafaello? Dante vi era portato dai tempi e dalle credenze
universali; e il libro più comune e quasi unico del medio evo gli
somministrava queste allegorie, e le visioni, e perfino le tre fiere
che l’impediscono al cominciar dell’erta[172]. E talmente la visione è
forma essenziale dell’opera di Dante, che durò anche dopo lui morto, e
si disse che otto mesi dopo la tomba foss’egli apparso a Pier Giardino
ravignano per indicargli dove stessero riposti gli ultimi tredici canti
del poema, di cui in conseguenza la terza parte fu pubblicata solo
postuma.
La predilezione di Dante pei concetti simbolici trapela da tutte le
opere sue. Conobbe Beatrice a nove anni, la rivide a diciotto alla
nona ora, la sognò nella prima delle nove ultime ore della notte, la
cantò ai diciott’anni, la perdè ai ventisette, il nono mese dell’anno
giudaico; e questo ritorno delle potenze del numero più augusto
gl’indicava alcun che di divino[173], come il nome di lei parevagli
cosa di cielo, aggiuntivo della scienza e delle idee più sublimi; onde
la divinizzò come simbolo della luce interposta fra l’intelletto e la
verità.
Adunque Dante non poeteggia per istinto, ma tutto calcola e ragiona;
compagina l’uno e trino suo poema in tre volte trentatrè canti, oltre
l’introduzione, e ciascuno in un quasi ugual numero di terzine[174]; e
gli scomparti numerici cominciati nel bel primo verso (_nel mezzo_),
lo accompagnano per le bolge, pei balzi, pei cieli, a nove a nove
coordinati. Questo rispetto per la regola, questo _fren dell’arte_
che crea egli stesso e al quale pure si tiene obbligato, non deriva da
quell’amore dell’ordine, per cui vagheggiava la monarchia universale?
La mistura del reale coll’ideale, del fatto col simbolo, della storia
coll’allegoria, comune nel medio evo[175], valse all’Alighieri per
innestare nella favola mistica l’esistenza reale e casi umani recenti;
sicchè i due mondi sono il riflesso l’uno dell’altro, e Beatrice è la
donna sua insieme e la scienza di Dio, come dalle quattro stelle vere
son figurate le virtù cardinali, e dalle tre le teologiche.
Smarrito nella selva selvaggia delle passioni e delle brighe civili,
dalla letteratura e dalla filosofia, personificate in Virgilio, vien
Dante condotto per l’esperienza fin dove può conoscere il vero positivo
della teologia, raffigurata in Beatrice, alla cui vista, prima gioja
del suo paradiso, egli arriva traverso al castigo ed all’espiamento.
Al limitare dell’inferno, incontra gli sciagurati che vissero senza
infamia e senza lode, inettissima genia, chiamata prudente dalle
età che conoscono per unica virtù quella fiacca moderazione la quale
distoglie dall’_esser vivi_. Con minore acerbità sono castigati coloro,
di cui le colpe restano nella persona; e peggior ira del cielo crucia
quelli che ingiuriarono altrui. Così nel secondo regno si purgano le
colpe con pene proporzionate al nocumento che indussero alla società;
e a questo assunto sociale si riferiscono, chi ben guardi, le quistioni
che in quel tragitto presenta e discute il poeta, le nimistanze civili,
il libero arbitrio, l’indissolubilità dei voti, la volontà assoluta o
mista, come di buon padre nasca figlio malvagio, e come nell’eleggere
uno stato non devasi andare a ritroso della natura.
Erano tempi, ove, non conoscendosi i temperamenti dell’educazione,
tutto veniva spinto all’assoluto; e Dante ce li dipinge colla
credulità, coll’ira, la morale, la vendetta. Secondo è uffizio del
poeta, s’erge consigliere delle nazioni, giudice degli avvenimenti e
degli uomini, re dell’opinione: ma la mal cristiana rabbia onde tesse
l’orditura religiosa, pregiudica non meno alla forma che all’interna
bellezza.
E bellezza sua originale è quella rapidità di procedere, per cui non
s’arresta a far pompa d’arte, di figure rettoriche, di descrizioni,
a ripetere pensieri altrove uditi; ma cammina difilato alla meta,
colpisce e passa. Insigne nel cogliere o astrarre i caratteri degli
enti su cui si fissa, egli è sempre particolare nelle dipinture; vedi
i suoi quadri, odi i suoi personaggi. Libero genio, adopera stile
proprio, tutto nerbo e semplicità, con quelle parole rattenute che
dicono men che il poeta non abbia sentito, ma fanno meglio intravvedere
l’infinito, acciocchè ne cerchiamo il senso in noi medesimi. La forza
e la concisione mai non fecero miglior prova che in questo poema,
dove ogni parola tante cose riassume, dove in un verso si compendia
un capitolo di morale[176], in una terzina un trattato di stile[177];
e in eleganti versi si risolvono le quistioni più astruse, come la
generazione umana, e l’accordo fra la preveggenza di Dio e la libertà
dell’uomo, le quali non apparivano fin là che nell’ispido involucro
dell’argomentazione scolastica[178]. Ond’è che Dante opera sul lettore
non tanto per quel che esprime quanto per quel che suggerisce; non
tanto per le idee che eccita direttamente, quanto per quelle che
in folla vengono associarsi alle prime. Capirlo è impossibile se
l’immaginazione del lettore non ajuti quella dell’autore: egli schizza,
lasciando che il lettore incarni; dà il motivo, lasciando a questo il
trovarvi l’armonia, il quale esercizio dell’attività lo fa sembrare più
grande.
Ma egli non è un autor da tavolino; _fa parere la sua nobiltà_
scrivendo ciò che vide; laonde con libero genio, non teme la critica,
pecca di gusto, manca della pulitura qual richiedono i tempi forbiti;
e intese la natura dello _stil nuovo_, che non può reggersi colla
indeclinabile dignità degli antichi: ma, come nella società, mette
accanto al terribile il ridicolo; donde quel titolo di Commedia[179].
Dell’introdurre tante questioni scolastiche nol vorrò difendere io;
ma, oltrechè è natura de’ poemi primitivi il raccorre e ripetere
tutto quanto si sa, se oggi appaiono strane a noi disusati, allora
si discuteano alla giornata, ed ogni persona colta avea parteggiato
per l’una o per l’altra, non altrimenti che oggi avvenga delle
disquisizioni politiche.
Neghi chi vuole, ma il maggior difetto di Dante resterà
l’oscurità[180]. Locuzioni stentate, improprie; voci e frasi inzeppate
per necessità di rima; parole di senso nuovo; allusioni stiracchiate,
o parziali, o troppo di fuga accennate; circostanze effimere e
municipali, poste come conosciute e perpetue, l’ingombrano sì, che
Omero e Virgilio richiedono men commenti; e tu italiano sei costretto a
studiarlo come un libro forestiere, alternando gli occhi fra il testo
e le chiose; e poi trovi concetti che, dopo volumi di discussioni,
non sanno risolversi. Vero è che quel fraseggiare talmente s’incarna
col modo suo di concepire e di poetare, da doverlo credere il più
opportuno a rivelar l’anima e i pensamenti di esso. Anzi si direbbe
che l’allettativo di Dante consista in una virtù occulta delle parole,
le quali devono essere disposte a tal modo nè più nè meno; movetele,
cambiate un aggettivo, sostituite un sinonimo, e non son più desse: ha
versi senza significato, e che pure tutti sanno a memoria: udite que’
terzetti quali stanno, ed eccovi la vanità divien persona, e presente
il passato, e figurato l’avvenire.
Con sì stupendi cominciamenti rivelavasi la nostra lingua. Dante nella
_Vita nuova_ avea riprovato coloro «che rimano sopra altra materia
che amorosa; conciossiachè cotal modo di parlare (l’italiano) fosse da
principio trovato per dire d’amore». Ma nelle trattazioni civili ebbe a
riconoscere la forza del vulgar nostro, e come «la lingua dev’essere un
servo obbediente a chi l’adopera, e il latino è piuttosto un padrone,
mentre il vulgare a piacimento artificiato si transmuta»; onde nel
_Convivio_ diceva: — Questo sarà luce nuova e sole nuovo, il quale
sorgerà ove l’usato (il latino) tramonterà, e darà luce a coloro che
son in tenebre e in oscurità per lo usato sole che loro non luce».
Frate Ilario, priore del monastero di Santa Croce del Corvo nella
diocesi di Luni, dirigendo la prima cantica a Uguccione della Faggiuola
così gli scrive: — Qui capitò Dante, o lo movesse la religione
del luogo, o altro qualsiasi affetto. Ed avendo io scorto costui,
sconosciuto a me ed a tutti i miei frati, il richiesi del suo volere
e del suo cercare. Egli non fece motto, ma seguitava silenzioso
a contemplare le colonne e le travi del chiostro. Io di nuovo il
richiedo che si voglia e chi cerchi; ed egli girando lentamente il
capo, e guardando i frati e me, risponde, _Pace!_ Acceso più e più
della volontà di conoscerlo e sapere chi mai si fosse, io lo trassi
in disparte, e fatte seco alquante parole, il conobbi: chè, quantunque
non lo avessi visto mai prima di quell’ora, pure da molto tempo erane
a me giunta la fama. Quando egli vide ch’io pendeva della sua vista,
e lo ascoltavo con raro affetto, e’ si trasse di seno un libro, con
gentilezza lo schiuse, e sì me l’offerse dicendo: _Frate, ecco parte
dell’opera mia, forse da te non vista; questo ricordo ti lascio, non
dimenticarmi_. Il portomi libro io mi strinsi gratissimo al petto,
e, lui presente, vi fissi gli occhi con grande amore. Ma vedendovi le
parole vulgari, e mostrando per l’atto della faccia la mia meraviglia,
egli me ne richiese. Risposi ch’io stupiva egli avesse cantato in
quella lingua, perchè parea cosa difficile e da non credere che quegli
altissimi intendimenti si potessero significare per parole di vulgo;
nè mi parea convenire che una tanta e sì degna scienza fosse vestita a
quel modo plebeo. Ed egli: _Hai ragione, ed io medesimo lo pensai; e
allorchè da principio i semi di queste cose, infusi forse dal cielo,
presero a germogliare, scelsi quel dire che più n’era degno; nè
solamente lo scelsi, ma in quello presi di botto a poetare così:_
_Ultima regna canam fluido contermina mundo,_
_Spiritibus quæ late patent, quæ præmia solvunt_
_Pro meritis cuicumque suis._
_Ma quando pensai la condizione dell’età presente e vidi i canti
degl’illustri poeti tenersi abjetti, laonde i generosi uomini, per
servigio de’ quali nel buon tempo scrivevansi queste cose, lasciarono
ahi dolore! le arti liberali a’ plebei; allora quella piccioletta
lira onde m’era provveduto, gittai, ed un’altra ne temprai conveniente
all’orecchio de’ moderni, vano essendo il cibo ch’è duro apprestar a
bocche di lattanti_».
Di fatto l’Alighieri osò adoprare l’italiano a descriver fondo a
tutto l’universo; e vi pose il vigore, la rapidità, la libertà d’una
lingua viva. Che se egli non la creò, la eresse al volo più sublime;
se non fissolla, la determinò, _e mostrò ciò che potea_. Togli le
voci dottrinali, o quelle ch’egli creava per bisogno o per capriccio
(avvegnachè vantavasi di non far mai servire il pensiero alla parola,
o la parola alla rima)[181], le altre sue son quasi tutte vive. Se,
come alcuno fantastica, egli fosse andato ripescandole da questo o
da quel dialetto, avrebbe formato una mescolanza assurda, pedantesca,
senza l’alito popolare che solo può dar vita. Forse le prose e i versi
de’ suoi contemporanei, quanto a parole, differiscono da’ suoi? Nato
toscano, non ebbe mestieri che di adoperare l’idioma materno; e le
voci d’altri dialetti che per comodo di verso pose qua e là, sono in
minore numero che non le latine o provenzali, a cui non per questo
pretese conferire la cittadinanza. Irato però alla sua patria, volle
predicare teoriche in perfetto contrasto colla propria pratica; e
nel libro _Della vulgare eloquenza_ (dettato in latino per una nuova
contraddizione), dopo aver ragionato dell’origine del parlare[182],
della divisione degli idiomi e di quelli usciti dal romano, che sono
la lingua d’_oc_, la lingua d’_oui_ e la lingua di _sì_, riconosce in
quest’ultima quattordici dialetti, simili a piante selvaggie, di cui
bisogna diboscare la patria. E prima svelle il romagnolo, lo spoletino,
l’anconitano, indi il ferrarese, il veneto, il bergamasco, il genovese,
il lombardo, e gli altri traspadani _irsuti ed ispidi_, e _i crudeli
accenti_ degli Istrioti; dice «il vulgare de’ Romani, o per dir
meglio il suo tristo parlare, essere il più brutto di tutti i vulgari
italiani, e non è meraviglia, sendo ne’ costumi o nelle deformità degli
abiti loro sopra tutti puzzolenti»; dice che Ferrara, Modena, Reggio,
Parma non possono aver poeti, in grazia della loro loquacità[183].
Insomma lascia trasparire che quel che meno gl’importa è la questione
grammaticale; ma sovratutto condanna i Toscani perchè _arrogantemente
si attribuiscono il titolo del vulgare illustre_, il quale, a dir suo,
«è quello che in ciascuna città appare ed in niuna riposa; vulgare
cardinale, aulico, il quale è di tutte le città italiane, e non pare
che sia in niuna; col quale i vulgari di tutte le città d’Italia
si hanno a misurare, ponderare e comparare». Per disservire questa
patria, ne _depompa_ il linguaggio; i dialetti disapprova quanto più
s’accostano al fiorentino; eppure insulta ai Sardi perchè dialetto
proprio non hanno, ma parlano ancora latino: loda invece il siciliano,
dicendo che così si chiama l’italiano e si chiamerà sempre; eppure
all’ultimo capitolo mette che il parlar nostro, _quod totius Italiæ
est, latinum vulgare vocatur_; e semprechè gli cade menzione del parlar
suo o del comune italiano, lo chiama vulgare, o parlar tosco, o latino,
e neppure una volta siciliano.
A rinfianco del suo sofisma reca poche voci di ciascun dialetto, prova
inconcludentissima; e versi di poeti di ciascuna regione, lodando
quelli che si applicarono a cotesta lingua aulica, riprovando quelli
che tennero la popolare, massimamente i Toscani. Nulla men giusto che
tali giudizj, e basta leggere anche solo le poesie da lui addotte,
per vedere che le toscane popolesche sono similissime alle cortigiane
d’altri paesi: donde deriva che il cortigiano d’altrove, cioè lo
studiato, era il naturale e vulgato di Firenze[184].
Malgrado i commenti di eruditissimi, o forse in grazia di quelli, io
non so se meglio di me altri sia riuscito a cogliere l’assunto preciso
di Dante in questo lavoro; tanto spesso si contraddice, tanto esce
ne’ giudizj più inattesi. Chi volesse vedervi qualcosa più che un
dispetto di fuoruscito, potrebbe supporre che i dotti avesser mostrato
poco conto della sua Commedia, perchè scritta nella lingua che egli
avea dalla balia, senza i pazienti studj che richiedeva il latino;
quindi egli tolse a mostrare che nessun dialetto è buono a scrivere,
ma da tutti vuolsi scernere il meglio. E qui v’è parte di verità: chè
chi voglia formare un mazzo, non coglie tutti i fiori d’un giardino,
ma i più belli; e quest’arte del _crivellare_ e dello scriver bene
non può impararsi se non da chi bene scrive, nè a questi è prefisso
verun paese. Ma il giardino dove trovare i fiori più abbondevoli e
genuini, qual sarà se non la Toscana? e di fatto egli confessa che
fin d’allora _non solo l’opinione dei plebei, ma molti uomini famosi_
attribuivano il titolo di vulgare illustre al fiorentino; nel che dice
_impazzivano_, egli che pur credea necessario dare per fondamento alla
lingua scritta un dialetto, benchè lo sdegno gli facesse ai Fiorentini,
_obtusi in suo turpiloquio_, preferire sino il disavvenente bolognese;
egli che asseriva il latino dovere scriversi per grammatica, ma il
_bello vulgare seguita l’uso_.
Nella scarsa metafisica d’allora, confondeva la lingua collo stile,
giacchè è affatto vero che, adottando quella dei Fiorentini, bisognava
poi aggiungervi l’ingegno e l’arte perchè divenisse colta; e poichè
a ciò serve non poco l’usare con chi ben parla e ben pensa, Bologna
per la sua Università offriva campo a migliorar lo stile, più che
non la mercantesca Firenze. L’appunteremo noi se non seppe fare una
distinzione, la cui mancanza offusca anc’oggi i tanti ragionacchianti
in siffatta quistione? Al postutto egli non argomenta della lingua in
generale, ma di quella che s’addice alle canzoni: lo che dovrebbero non
dimenticare mai coloro che vogliono di Dante fiorentino far un campione
contro quel fiorentino parlare, ch’egli pose in trono inconcusso.
Altri versi dettò, e massime canzoni amorose, delle quali poi fece un
commento nel _Convivio_, fatica mediocre, dove maturo tolse a indagar
ragioni filosofiche a sentimenti venutigli direttamente da vaghezze
giovanili, e vorrebbe che per amore s’intendesse lo studio, per donna
la filosofia, per terzo cielo di venere la retorica, terza scienza del
trivio; per gli angeli motori di questa sfera, Tullio e Boezio unici
suoi consolatori. Ivi esprime di valersi dell’italiano «per confondere
li suoi accusatori, li quali dispregiano esso, e commendano gli altri,
massimamente quello di lingua d’oc, dicendo ch’è più bello e migliore
di questo»: eppure altrove soggiunge «molte regioni e città essere più
nobili e deliziose che Toscana e Firenze, e molte nazioni e molte genti
usare più dilettevole e più utile sermone che gli Italiani». Locchè
vedasi se a que’ tempi potea dirsi con giustizia.
Quella che l’Alighieri creò veramente, è la lingua poetica, che
fin ad oggi s’adopera con più o men d’arte, ma sempre la stessa, e
per la quale sin d’allora egli era cantato fin nelle strade[185].
La sua prosa invece è povera d’artifizio, pesante, prolissa, con
clausole impaccianti, periodi complicati. Quanto più doveva essere ne’
coetanei suoi, eccetto que’ Toscani che s’accontentassero di usarla
nell’ingenuità natìa? Pure la prosa su que’ primordj va più originale
che non divenisse in man di coloro i quali di poi vollero applicarvi la
costruzione latina.
Doveva l’eloquenza ingrandire fra’ pubblici interessi: ma quel gran
sintomo dello sviluppo di un popolo, la potenza politica della parola,
il talento applicato a governar le nazioni, non ad esilarare gli
spiriti, rimase impacciato dall’inesperienza delle lingue. I pochi
discorsi riferiti dagli storici non mostrano aspetto d’autenticità;
pure sappiamo che, uniformandosi alle consuetudini scolastiche, gli
oratori di tribuna si appoggiavano a un testo, sovente plebeo, e su
quello ragionavano senz’arte. Farinata degli Uberti, quando, dopo
la battaglia dell’Arbia, si alzò a viso aperto contro la proposta di
distruggere Firenze, prese per testo due triti proverbj: — Come asino
sape, così minuzza rape. Si va la capra zoppa, se lupo non la intoppa».
E san Francesco predicando a Montefeltro, tolse un altro motto
vulgare: — Tanto è il ben che aspetto, che ogni pena m’è diletto».
Que’ predicatori che traevansi dietro le moltitudini, spingevanle alla
guerra e, ch’è più mirabile, alla pace, li trovi rozzi e inordinati
raccozzatori di scolastiche sottigliezze o di mistiche aspirazioni,
lardellati di testi scritturali e di trascinate allusioni, dividendo
e suddividendo a modo dialettico, senz’ombra di genio e rado di
sentimento. Predicavano forse in latino rustico, e a tanta folla che a
ben pochi era dato di sentirli e a meno d’intenderli, sicchè i cronisti
ricorrono al miracolo. E davvero l’efficacia portentosa va attribuita
al concetto di loro santità, e alla persuasione con cui parlavano, e
che facilmente trasfondesi in chi ascolta.
CAPITOLO CII.
Ingerenza francese. — I Vespri siciliani, e la guerra conseguente.
Parve la parte guelfa avesse confitto la ruota della fortuna al cadere
degli Svevi e al piantarsi Carlo d’Angiò nelle Due Sicilie (Cap. XCII).
Questo avea tributarj il bey di Tunisi e molte città del Piemonte,
ligie quelle della Romagna e della Lombardia; vicario della Toscana,
governator di Bologna, senatore di Roma, protettore degli Estensi e
perciò della marca Trevisana; arbitro de’ papi e del re di Francia
suo nipote; da Baldovino II, imperatore spodestato di Costantinopoli,
si fa cedere i titoli sull’Acaja e la Morea; il regno di Gerusalemme
da Maria figlia di Boemondo IV d’Antiochia; da Melisenda, il regno di
Cipro; titoli vani, ai quali sperava ottener realtà facendo dai papi
scomunicare Michele Paleologo imperatore bisantino, e allestendo grosse
armi per isbalzarlo.
Nel Regno egli non mutò gran fatto della costituzione, conservando i
pesi e i freni che la robusta mano di Federico II e i bisogni della
guerra v’aveano introdotto; migliorò Napoli di edifizj, fra’ quali il
Castel Nuovo per assicurar l’accesso al mare, il duomo, Santa Maria
la Nuova con ampio monastero di frati Minori; San Lorenzo, eretto
sul Palazzo del Comune, da lui abbattuto; fece lastricare le vie
interne; favorì l’Università attribuendole un giustiziere proprio,
e determinando i prezzi degli oggetti di consumo per gli scolari,
cui esentò dalle gabelle. Estese l’usanza di far cavalieri in tutte
le solennità, e con quest’onore si amicò alcuni popolani grassi,
come molti signori francesi col distribuir loro i feudi sottratti ad
amici degli Svevi. Soltanto gentiluomini, o notevoli per ricchezza o
per senno ammise nei _seggi_, ristretti ai cinque di Capuana, Nido,
Montagna, Porto, Portanuova; i quali gareggiarono a fabbricare nel
proprio quartiere palazzo e teatro; nominavano ciascuno cinque o sei
capitani annui, che potessero convocare i nobili per qualunque pubblico
affare; e gli Eletti, che governavano la città insieme coll’Eletto
della piazza del Popolo. I parlamenti, che si accoglievano or qua or
là, allora furono fissati a Napoli, e v’intervenivano la più parte de’
baroni, i sindaci di tutto il regno, e i due ordini de’ nobili e della
plebe; i prelati soltanto in qualità di baroni.
Ma la nobiltà antica prendeva in dispetto la nuova; le sventure della
dinastia caduta convertirono l’odio in compassione; il popolo fremeva
ai supplizj di coloro che non erano stati tanto vili da rinnegare
gli antichi benefattori. I baroni, che soleano retribuire soltanto un
donativo ne’ casi preveduti dal diritto feudale, cioè per invasione
del paese, prigionia del re, nozze della sua figliuola o sorella,
e nell’ornar cavaliere lui o suo figlio, erano stati sottomessi da
Federico a gravezze regolari, mantenute o aumentate da Manfredi pel
bisogno della guerra; e se Carlo avea promesso esoneraneli, si giovò
del favore mostrato a Corradino per mancare agli accordi.
Ragioni di popoli e ragioni della Chiesa aveva egli a rispettare,
ed entrambe violò. Alla santa Sede avea giurato abolire le esazioni
arbitrarie inventate dagli Svevi, e ripristinare le immunità come
al tempo di Guglielmo il Buono; poi, per ambizione ed avarizia e per
soddisfare l’esercito, introduceva sottigliezze fiscali, tasse sopra
ogni minimo consumo; e se non trovasse pubblicani, obbligava qualche
ricco a pigliarne l’appalto, come per forza dava in socida i beni del
regio dominio, stabilendo a sua discrezione il fitto; estendeva le
bandite per la caccia, ripristinava i servizj di corpo, di carri, di
navi; arrogavasi ragioni di acque: la prigione era spalancata per ogni
ritardo, per ogni richiamo, pur beato chi potesse fuggire, lasciando
incolto il campo, deserta la casa, che talora veniva diroccata. Pose
in corso la moneta scadente del carlino, minacciando chi la ricusasse
di marchiarlo in fronte colla moneta stessa rovente[186], e producendo
scompigli nelle private contrattazioni. Che diremo dei delitti di
maestà, delle fiere procedure per sospetti, del proibire che i figli
de’ rei di Stato non potessero accasarsi senza licenza del re?[187]
Il quale pure o gli eredi di pingui feudi condannava al celibato, o le
ricche ereditiere maritava co’ suoi stranieri.
Ad esempio di lui soprusavano i ministri, smungeano denaro per ogni
occasione, rubavano, poi otteneano connivenza spartendo col re; sopra
gente avvezza alle franchigie normanne e alla cortesia sveva, si
comportavano con quella sbadata insolenza, per cui i Francesi in Italia
non seppero farsi amare se non quando non vi sono.
Più castigata fu la Sicilia quanto più dagli Svevi favorita; fraudata
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