Storia degli Italiani, vol. 07 (di 15) - 13

o di qualsiasi altra gente. Le legioni nostre che per le provincie
accampavano, e quelle reclutate di stranieri che s’assidevano poi in
Italia, doveano trasportar qui voci e modi ignoti ai colti parlatori.
Aggiungansi le varietà di pronunzia. Il vecchio latino era aspro,
quanto lo prova il _rozzo_ numero saturnino; e tale si conservò in
gran parte nello scritto: ma favellando si temperava per sentimento
d’eufonia, sin a ledere la grammatica. Quest’alterazione, già operata
dal vulgo ne’ bei tempi romani, e talora accettata dagli scrittori,
teneva, cred’io, ai prischi idiomi o dialetti italici, nei quali quanto
si amasse la terminazione in o appare dalle monete della bassa e media
Italia, dal famoso senatoconsulto de’ Baccanali, e dagli epitafi degli
Scipioni. Colla lingua dunque a terminazione variata, consueta negli
scritti, viveva quella a terminazione fissa che parlavasi, e che crebbe
col volger de’ secoli, tanto che nell’italiano noi ci troviamo aver
conservato le parole che escono in vocale (_acqua, stella, porta_...),
mentre a quelle in consonante appiccicammo una vocale, o ne prendemmo
l’ablativo (_fronte, ardore, arbore, libro_...). Dappertutto ci salterà
all’occhio questo studio, o dirò meglio istinto del raddolcimento,
manifestato col troncare, aggiungere, trasporre: e che di più si
richiede per ridurre italiane la più parte delle voci latine?
Segnalate vestigia n’abbiamo nelle iscrizioni, massime in quelle de’
primi Cristiani, fatte da persone vulgari, cioè che scriveano secondo
uso, non secondo grammatica. Per tali accidenti, sopprimevansi spesso
la _s_, la _c_, la _m_ finale, stringevasi il dittongo _au_ in _o_,
proferivasi l’_e_ per l’_o_ e per l’_i_, il _v_ pel _b_, sicchè
_mundus, fides, tres, aurum, scribere, sic_ diventavano _mondo, fede,
tre, oro, scrivere, sì_; e più la coltura diminuiva, più gli scriventi
s’avvicinavano alla pronunzia, anzichè all’uso letterario.
Quando poi la gente meglio stante e la Corte si trapiantarono a
Costantinopoli, e ringhiera e senato qui ammutolirono, nè v’ebbe corpo
di scrittori o impero di tradizioni che gli conservasse l’aristocratica
castigatezza, il latino, come uno stromento complicato in mani
inesperte, doveva alterarsi viepiù perchè così sintetico, e perchè non
procede per mezzi semplici secondo il rigoroso bisogno delle idee, ma
con tanti casi e conjugazioni e artificiosa inversione di sintassi.
Sottentra allora il pieno arbitrio dell’uso, cui stromenti sono il
tempo e il popolo, operanti nel senso medesimo. Il popolo vuole
speditezza, e purchè il pensiero sia espresso, non sta a cercare
d’esattamente articolar la parola o di adoprare tutti gli elementi,
lusso grammaticale. Adunque, invece della finezza di declinazioni
e conjugazioni, adoperò la generalità delle preposizioni e degli
ausiliarj, specificò gli oggetti coll’articolo, mozzò le desinenze.
Pei quali modi la lingua latina, forbita dagli scrittori classici,
non imbarbariva, come dicono i più, ma tornava verso i principj suoi,
riducendosi in una più semplice, poco o nulla distante dalla nostra
odierna; sicchè il parlare che chiamano del ferro era un’altra fasi
della lingua, ove la scritta accolse in maggior copia voci e forme
della parlata, e modificate secondo paesi: donde quel lamento di san
Girolamo, che la latinità ogni giorno mutasse e di paese e di tempo.
Ajutarono siffatta evoluzione gli scrittori ecclesiastici, che più non
dirigendosi a corrompere ricchi e ingrazianire letterati, ma recando
al vulgo le parole della vita e della speranza, non assunsero la lingua
eletta, ma la comune, la vernacola. Essi mostrano sprezzare l’eleganza
e perfino la correzione; sant’Agostino dice che Dio intende anche
l’idiota, il quale proferisca _inter hominibus_; san Girolamo professa
voler abusare del parlare, per facilità di chi legge. Chi dunque
abbia mente alla purezza ciceroniana, dee nausearsi ai tanti modi che
si scontrano ne’ Padri, e fulminarli col nome di barbarismi: ma il
fatto era che il cristianesimo, come le altre cose, così trasformava
la lingua. Nel tradurre la Bibbia, destinata non ad aristocratico
allettamento, ma ad edificazione della plebe, si sbandirono le forme
convenzionali e l’artifizioso periodare de’ classici, il quale del
resto non s’incontra in coloro che con minore arte scrissero, come
nell’inarrivabile Cesare o nelle epistole di Cicerone e de’ suoi
amici; ma secondo il parlar comune, si tenne semplice l’andamento,
ingenua l’esposizione. I precettori, che la sentenziano di corruzione
e barbarie, dovrebbero riflettere che l’antichissima versione detta
_italica_ fu eseguita nel fiore della latina favella; e in quei
salmi l’idioma del Lazio prende un vigore inusato, e per secondare la
sublimità dei concetti ripiglia la nobile altezza che dovette avere
ne’ sacerdotali suoi primordj, un’armonia, diversa da quella che i
prosatori cercavano nel periodeggiare e i poeti nell’imitazione dei
metri greci, e che pure è tanta, da farla ai maestri di canto preferire
persino all’italiano.
Questo rifarsi della favella plebea, questo ritorno verso l’Oriente
dond’era l’origine sua, avrebbe potuto ringiovanire il latino,
infondendogli l’ispirato vigore delle belle lingue aramee e la semplice
costruzione del greco; ma troppo violenti casi sconvolsero quell’andar
di cose; e quando l’Impero cadeva a fasci, era egli a promettersi un
ristoramento della letteratura?
L’esclusivo patriotismo degli antichi idolatrava la patria favella,
repudiando ogni altra. Temistocle fece dannare a morte l’interprete
venuto cogli ambasciadori di Persia, perchè aveva profanato il greco
coll’esporre in questa lingua l’intimata del fuoco e della terra:
ai Cartaginesi fu proibito di studiare il greco: latino parlavano i
magistrati romani anche ai Greci, nè altrimenti che in quella lingua
poteano darsi gli editti del pretore. Tra le altre servitù che Roma
imponeva ai vinti, era l’obbligo di parlar latino; e Claudio imperatore
tolse la cittadinanza ad uno di Licia, il quale non seppe così
rispondergli. Davanti al senato contendevasi se avventurare o no un tal
vocabolo di greca etimologia, e Tiberio imperatore voleva ricorrere ad
una circonlocuzione piuttosto che dire _monopolio_. Da ciò alle antiche
favelle l’unità, il carattere specifico, non alterato nelle derivazioni
e ne’ composti; mentre le moderne sono formate dei frantumi di varie,
sicchè in un solo periodo potresti incontrar voci delle origini più
distanti: e più popolare essendo la letteratura, meno squisita riesce
la forma.
Ma che a generare le lingue nostre, dette _romanze_ perchè uscite dal
romano, principal parte avessero i Barbari, a noi sembra tutt’altro
che provato. I Goti dominarono lungo tempo la Spagna, eppure non
riscontri vocabolo gotico in quell’idioma: Venezia non fu invasa da
alcun Barbaro, Verona da tutti, e i loro dialetti si somigliano ben più
che non il veronese col contiguo bresciano, o questo col bergamasco, o
il bergamasco col milanese, separati appena da qualche fiume. E appunto
un corso d’acque o la cresta d’un monte frapponevansi a due linguaggi
diversissimi, quanto è il toscano dal bolognese. Qui che hanno a fare i
Barbari?
Nondimeno, a sentire certuni, avrebbe a credersi che un bel giorno i
nostri d’accordo avessero dismesso il parlare romano, e assunto quello
dei Barbari. Ma a qual fine? l’Italiano non aveva nulla a chiedere
al conquistatore se non misericordia: questi invece bisognando dei
vinti per tutte le necessità della vita, era costretto modificare la
sua loquela sulle nostre, non il contrario. E che ciò sia vero, voi
trovate nella nostra rimasti ben pochi termini d’origine teutonica,
e questi significano armi e generi nuovi di oppressioni; i pochi che
si applicano alle occorrenze della vita, hanno a fianco ancora vivo
il sinonimo latino; a ogni modo son meno assai che non le voci latine
accettate dai Tedeschi. Anzi alla storia dice qualche cosa il vedere
che le parole de’ vincitori adottate furono spesso tratte al peggio
senso; e _land,_ che pei Tedeschi è _terra_, per noi fu un terreno
incolto; e _ross_ non espresse un cavallo, ma un cavallaccio; e
_barone_ divenne sinonimo di paltoniere e birbo; e _grosso_ significò
tutt’altro che grandezza.
Ben troveremo nel parlar nostro voci e locuzioni assai, che non
traggono origine dalle latine, o dirò più preciso, non dalle latine
scritte; e queste sono spesso delle più necessarie; di molte la radice
non si riscontra neppure fra i Settentrionali; e più frequentano
nei paesi ove i Nordici non posero mai nido, come sarebbero Toscana,
Sicilia, Venezia, Romagna. Ora, donde vennero elle se non dai prischi
dialetti, ch’erano sopravissuti alla dominazione romana? e non n’è
altra prova la conformità mantenutasi tra dialetti di paesi ove pure
si parlano due lingue differenti? Se fossero certe due carte addotte
dal Muratori, sino dal 900 i Corsi e i Sardi avrebbero usato un vulgare
assai simile al nostro; eppure non vi presero dimora le genti tedesche.
Adunque la nostra lingua (e vale a un bel circa lo stesso delle altre
romanze) non è che la parlata dagli antichi Latini, colle modificazioni
che necessariamente, in qualunque favella, introduce il volgere di
venti secoli. Altre prove ne troverà chi osservi come noi tuttodì
usiamo termini che il latino classico repudiava come vecchi o corrotti,
ma che doveano correre tra il popolo, giacchè li vediamo resuscitare
quando si guasta o ammutolisce il linguaggio letterario. E poichè noi
non nasciamo dai pochi letterati, ma dal grosso della popolazione
latina, perciò le parole d’oggi tengono il significato de’ bassi
Latini, anzi che quello degli aurei.
Più che delle parole vuolsi tener conto delle differenze
grammaticali che dicemmo, come il supplire alla varietà di desinenze
colle preposizioni, l’anteporre ai nomi l’articolo, il formare
coll’ausiliario molti tempi della maniera attiva e tutti quelli della
passiva, l’abbandono dell’inutile genere neutro e dell’inesplicabile
verbo deponente. Ma è natura di tutte le lingue, nel loro procedere,
di farsi più chiare, più analitiche, in ragione che s’impoveriscono
di forme grammaticali; e ciò si avvera ben anche nel tedesco e nel
persiano, per accennare solo a lingue del gruppo stesso della latina,
e a paesi cui non arrivarono immigrazioni della natura delle nostre.
Già nel latino de’ migliori tempi si trovano indicate le relazioni per
via di segnacasi, non erano ignoti gli ausiliarj _avere_ e _stare_, del
qual ultimo ci sopravive il participio _stato_. L’articolo, proprio
della lingua greca e delle germaniche, non era raro fra i Latini,
sia il determinante _ille_ o l’indeterminato _unus_; e sentendosi
il vantaggio di quella precisione nel parlare ordinario, anche nello
scrivere si ammetteva l’_ipse_ e _ille_, o si surrogava l’articolo a
questi prenomi, come oggi si fa; talchè nelle litanie che cantavansi in
chiesa al tempo di Carlo Magno, il popolo rispondeva _Ora pro nos, Tu
lo adjuva_. In tal modo s’introduceva o confermava l’uso dell’articolo,
caratteristico alle lingue dell’Europa latina, differente però da
quel de’ Greci e del gotico, i quali non escludono la declinazione.
Ed esso e gli ausiliarj vennero a risarcire in chiarezza e analitica
precisione ciò che le lingue perdevano in dovizia e simmetria. Il fondo
però restava sempre latino, ed è noto che in varj dialetti d’Italia
occorrono intere frasi prettamente latine, nel friulano per esempio; si
scrissero poesie bilingui, lunghe composizioni sardo-latine.
Nè le parole, dunque, nè il sistema grammaticale fa mestieri derivare
dagli invasori: ma poichè monumenti mancano onde seguire storicamente
questa trasformazione, siam ridotti cercarla a tentone in qualche
parola sfuggita a quei che usavano la lingua letteraria.
Un singolare documento ci rimane nei comandi militari dei tribuni:
_Silentio mandata implete — Non vos turbatis — Ordinem servate — Bandum
sequite — Nemo dimittat bandum — Inimicos seque_. Quel _bandum_ per
_vexillum_, quel _sequite_ e quel _turbatis_, imperativi insoliti,
sono i precursori delle contorsioni che in ogni parlare si fanno pel
comando delle milizie. Dell’anno trentotto di Giustiniano trovasi
un istromento sopra papiro, fatto in Ravenna e già pieno di modi
all’italiana, come _Domo quæ est ad sancta Agata; intra civitate
Ravenna; valentes solido uno; tina clusa, buticella, orciolo, scotella,
bracile, baudilos_. Ammiano Marcellino dice che i Romani del suo tempo
giacevansi _in carrucis solito altioribus_; e _carrocia_ per carrozza
dice oggi il vulgo lombardo. La _Storia miscella_ riferisce al 583,
che, mentre Commentiolo generale guerreggiava gli Unni, un mulo gittò
il carico, ed i soldati gridarono al lontano mulattiere nella favella
natia, _Torna, torna fratre_; onde gli altri lo credettero un ordine
di tornare indietro e fuggirono. Ajmonino racconta che Giustiniano
ebbe prigioniero il re di certi Barbari, e fattoselo sedere a lato, gli
comandò di restituire le provincie conquistate, e poichè quegli rispose
_Non dabo_, l’imperatore replicò _Daras_; forma nostrale del verbo
_dare_ al futuro.
Così la lingua parlata scostavasi più sempre dalla scritta, sin a
formarne due diverse; siccome anche i Barbari conservavano la favella
nazionale, ma per ispiegarsi coi vinti adottavano un gergo fra il
tedesco e il latino, bilingui anch’essi. Ma se in altri paesi il vinto
gloriavasi di usar la lingua del vincitore come segno d’emancipazione,
l’Italiano preferiva l’antica come ricordo di gloria; e il vincitore
stesso che non avea letteratura, si serviva di secretarj nostri, e
perciò della lingua latina onde scrivere le leggi. In queste sovente
alle parole latine s’aggiunge il sinonimo vulgare: prova evidente
dell’esistenza di questo, e che trapela anche dalle poche carte di
quell’età. Nel feudalismo, trovandosi i signori diffusi ne’ castelli,
in contatto cogl’indigeni e non coi nazionali, smetteano più sempre il
tedesco, e diventava comune anche a loro il vulgar nostro nel parlare,
il latino nello scrivere.
Quando gli studj erano così scarsi, difficile dovea riuscire lo
scrivere questa lingua, mentre già in un’altra si pensava e parlava;
e ciascuna v’inseriva gli idiotismi del proprio paese; e, come in
idioma non famigliare, vacillavasi per l’ortografia, pei reggimenti,
pei costrutti. Laonde ne’ rozzi scrittori di carte e di cronache è a
cercare l’origine dell’italiana, o dirò meglio il progressivo mutarsi
dell’antica nella nostra favella.
Nel musaico che papa Leone III poneva in Laterano il 798, cioè nella
città più colta del mondo e pel ristoratore degli studj, è scritto:
_Beate Petrus dona vita Leoni pp. e victoria Carulo regi dona_; dove
già vedete abbandonate le desinenze, e raccorcia la congiunzione. Il
testamento di Andrea arcivescovo di Milano nel 908 legge: _Xenodochium
istum sit rectum et gubernatum per Warimbertus humilis diaconus,
de ordine sancte mediolanensi ecclesiae nepote meo et filius b. m.
Ariberti de befana, diebus vite sue_. E quattro anni più tardi un
altro: _Pro me, et parentorum meorum, seu domni Landulphi archiepiscopi
seniori meo, animas salutem._ E altrove: _Foris porte qui Ticinensi
vocatur — Ego Radaperto presbitero edificatus est hanc civorio sub
tempore domno nostro_.... Strafalcioni così madornali, e fra persone
addottrinate come erano prelati roganti e notaj rogati, convincono
che il latino non parlavasi più nemmeno fra la classe elevata; giacchè
chi detta in lingua propria accorda nomi e verbi senza dare in fallo,
mentre in bizzarre sconcordanze inciampa chi presume adoperarne una
differente. Di qui pure la durezza delle costruzioni, la ineleganza
degl’idiotismi, la mancanza di spontaneità, la varietà degli stessi
solecismi, attesochè non provenivano da un comune modo di favellare,
ma dal capriccioso stento di ciascuno nel latinizzare il proprio
linguaggio.
Siccome Romani erano chiamati dal conquistatore tutti i vinti, così
romana o romanza fu detta la loro favella, non solo in Italia, ma
dovunque a colonie latine si sovrapposero i Barbari. Nè però noi
sogniamo con quelli che credono una lingua romanza fosse parlata in
tutta l’Europa latina; fatto da nessun documento provato, e dalla
ragione smentito. Se latino non parlavano le provincie neppure ai
tempi più robusti dell’Impero, allorchè da Roma venivano e leggi e
magistrati, quanto meno dopochè furono inondate da popoli di vulgari
differenti e incolti?
Papa Gregorio V nel suo epitafio è lodato perchè
_Usus francisca, vulgati et voce latina,_
_Instituit populos eloquio triplici._
Questa lingua vulgare in Italia tenea molta conformità col latino
letterale: talchè Gonzone, italiano del 960, dice che nel parlar
latino gli era talvolta d’impaccio l’abitudine della lingua vulgare,
tanto a quella somigliante. Pure que’ notaj o cronisti molte volte si
tengono obbligati a spiegare la parola latina con una più conosciuta,
la quale si riscontra identica a quella che oggi usiamo; a modo
de’ vulgari italiani sono nominate alcune località indicate in esse
carte, o persone e mestieri; il vulgo poi attribuendo, come è suo
stile, soprannomi di beffa o di qualificazione, lo facea con parole
che diremmo italiane. Talvolta ancora lo storico mette voci vulgari
in bocca de’ suoi personaggi, o lasciasi per abitudine cascar dalla
penna idiotismi e frasi, quali usavano nel parlare casalingo, e che
ritraggono non meno dell’ignoranza dello scrittore, che del paese
ond’egli è. Tutte prove che già era distinto il linguaggio nuovo
dall’antico.
Il domandare però quando la latina lingua nell’italiana si trasformò,
equivale al domandare in che giorno un fanciullo diventò giovane, e di
giovane adulto. E come voi oggi vi credete quel di jeri, e di giorno in
giorno, restando lo stesso, vi cambiaste pure di bambino in fanciullo,
poi in adolescente, in uomo, in vecchio; al modo stesso procede il
travaglio delle lingue. Ai pochi scienziati tornava comoda e gradita
una lingua comune, per cui mezzo partecipare i loro pensieri anche
a quelli d’altra favella; onde coltivarono il latino, negligendo i
vulgari. I signori avranno trattato degli affari in dialetti tedeschi;
ma quando era da ridurli in iscritto, ricorreano a _cherici_ nostrali,
che si servivano di quel gergo da loro chiamato latino; gli strumenti
stendevansi da notaj colle formole antiche; in latino erano dettate
leggi e convenzioni; nè verun grande interesse spingeva a svolgere le
lingue vulgari. Le prediche possiam credere fossero capite dalla gente
comune, come sono oggi quelle che, per mezza Italia, si recitano in
lingua tanto diversa dai dialetti: qualche volta però il predicatore
esponeva in latino, poi egli stesso o un altro spiegava in vulgare.
Nel 1189 consacrandosi Santa Maria delle Carceri, Goffredo patriarca
d’Aquileja predicò _liberaliter et sapienter_: Gherardo vescovo di
Padova spiegò al popolo _maternaliter_, cioè tradusse in vulgare. Nel
1267 assolvendosi il Comune di Milano da censura incorsa per avere
aggravezzato beni d’ecclesiastici, vien letto l’atto in presenza di
molti congregati, _primo literaliter et secundo vulgariter, diligenter,
per seriem de verbo ad verbum_.
Fanciulleggiarono le lingue finchè scarse le comunicazioni e gli affari
in cui adoperarle; ma quando anche il popolo, redento dalla servitù
feudale, fu chiamato a discutere de’ proprj interessi, dovettero
acquistare estensione e raffinamento i dialetti, non volendo l’uomo ne’
consigli parlare altrimenti che nell’usuale conversazione, nè potendo
ciascuno avere in pronto il notaro che esponesse i suoi sentimenti.
Non sorgono dunque le lingue nuove per arte e proposito, ma dietro
all’eufonia e all’analogia, secondo la logica naturale e quell’istinto
regolatore che così meraviglioso si manifesta ne’ fanciulli. Alla parte
poetica, educatrice di ciascun dialetto, si univa l’erudizione, cioè
gli elementi trasmessi dal mondo antico; e così le lingue moderne,
poetiche e popolari di natura, acquistarono coltura sull’esempio delle
precedenti.
La separazione dei Comuni e dei feudi avea portato prodigiosa varietà
di dialetti: quando si fusero in piccoli Stati, e i piccoli in grandi,
un dialetto speciale fu tolto a raffinare di preferenza, e le nazioni
acquistarono anche quel che n’è distintivo primario, la lingua.
Ed anche in questa si rivela la condizione politica; e mentre la
Francia riducevasi a unità di dominio, e con questa veniva unità di
linguaggio; da noi, fra tanto sminuzzamento di Stati, altrettanto se
n’ebbe dei parlari, e più d’uno recò innanzi pretensioni di priorità o
di coltura.
Un’opinione da scuola vorrebbe che prima in Sicilia siasi parlato
italiano. Se fosse, n’avrebbe rinfianco il nostro assunto sulla
poca influenza de’ Barbari: ma altro è parlare, altro scrivere; e
immiseriscono la quistione quelli che attribuiscono la formazione
della lingua ad alcuni, e fors’anche a tutti i letterati, mentre
solo dal popolo essa riconosce vita e sovranità. Forse che filosofi o
poeti hanno l’intelligenza che inventa, e la possanza che fa adottar
le parole? al più, sanno dall’uso arguire le leggi. Per ispiramento
ghibellino, e per adulazione a Federico II e sua corte si asserì che in
questa siasi primamente sostituita nel poetare la lingua italiana alla
provenzale. Ma i pochi frammenti che ce n’avanzano, non differiscono
dal toscano che contemporaneamente si usava; e per indurre col
Perticari che il buon italiano si parlasse in quell’isola prima che in
Toscana, bisognerebbe non avessimo canzoni in dialetto siculo, a gran
pezza discosto dalla lingua usata dagli scrittori.
Dante imperiale dice: «Perchè il seggio regale era in Sicilia, accadde
che tutto quello che i nostri precessori composero in vulgare si chiama
siciliano; il che ritenemmo ancora noi, e i nostri non lo potranno
mutare». Ebbene, noi sfidiamo a trovare che altri mai lo dicesse; e
solo il Petrarca per condiscendenza d’erudito scrive che il genere
della lingua poetica apud _Siculos, ut fama est, non multis ante
seculis renatum, brevi per omnem Italiam ac longius manavit._ Ove,
del resto, s’intende di poesia, non di lingua; e potrebb’essere che
Federico, viste in Germania le canzoni che i minnesingeri ripetevano
per le Corti, volesse averne alla sua in lingua italiana. Dante stesso,
quando antepone i Siciliani, non vuole intendere del loro parlare; anzi
i parlari riprova tutti, e quel della gente media di Sicilia non trova
migliore degli altri: ma poichè colà sedevano que’ da lui vantatissimi
Federico e Manfredi, e accoglievano il fiore di tutta Italia, al
contrario de’ sordidi e illiberali principi del restante paese, gli
scrittori riuscivano in nulla diversi da ciò ch’è lodevolissimo. Nè si
creda (conchiude) che il siculo o il pugliese sia il più bel vulgare
d’Italia, giacchè quei che bene scrissero se ne discostarono.
Dante pone che cose per rima vulgare in lingua d’_oc_, cioè in
provenzale, e in lingua di _sì_, cioè in italiano, non siensi dette se
non cencinquant’anni prima di lui, lo che riporterebbe al 1150; e lo
rincalza il commento di Benvenuto da Imola. Quanto al provenzale, egli
è smentito da numerosi documenti; dell’italiano nulla abbiamo di più
certa antichità, tardi sentendosi il bisogno di scriverlo, perchè già
si possedeva il latino, formato e nazionale. Una lingua che succede
ad un’antica, difficilmente sa sciogliersi dall’imitarla, anche dopo
che, formata ed ingrandita, viene assunta dagli scrittori. Così avvenne
della nostra, ove nel Trecento si riscontra ancora la fisionomia
materna nel non restringere l’_au_ in _o_, non mutare la _l_ in _i_
avanti ad _a b c f p_, nè lo _j_ in _g_, nè inserire la _i_ avanti ad
_e_.
È conforme alla natura dei vulghi che colla lingua a parola finita,
adoprata negli scritti, restasse la parlata a parola tronca. Oltre
poi il toscano, che fu elevato a lingua nazionale, io penso che
anche gli altri dialetti avessero già allora preso il carattere
proprio che tennero dappoi, e che traevano da fonti più lontane. Se
il Lombardo pronunzia l’_eu_, l’_u_ e l’_on_ e l’_an_, nasali a modo
francese, e contrae l’_au_ in _o_, forse è debito alle immigrazioni
de’ Galli, anteriori ai Romani; donde pure i tanti nomi di località,
affatto gallici o celti, e l’udirsi dal vulgo nostro voci proferite
tal quale si fa colle antiche galliche. Anche in altri dialetti si
rinvengono modi non adottati dagli scrittori, e che hanno riscontro con
provenzali; prova che sono anteriori alla separazione delle due lingue.
Già le carte venete del XII secolo mutano _g_ in _z_ (_verzene,
zorzi_); le bolognesi ci offrono _altare sanctæ Luziae, Cazzavillanus,
Cazzanimicus, Bonazunta, rivum Anzeli, Delai de la Bogna, Adam de
Amizo, Mulus de Bataja, Arderici de Mugnamigolo_; sull’arco alzato
dai Milanesi, quando riedificarono la patria, eran nominati _Settara,
Mastegnianega, Prevede_, idiotismi odierni; Boso Tosabò è uno de’
cinque consoli di giustizia che nel 1170 compilarono gli statuti di
Milano; frà Buonvicino da Riva, che scriveva nel secolo seguente, ha un
dialogo fra la Madonna e un villano, che comincia:
_Chi loga se lumenta lo satanas rumor_
_D’la verzene Maria matre del Salvator;_
e anch’oggi i villani dicono _chiloga_ per qua (_hoc loco_), e
_lumentà_ per ricordare, rammentare. Altre voci dei dialetti serbano
l’impronto delle dominazioni e comunicazioni forestiere, greche a
Ravenna, tedesche e spagnuole in Lombardia, arabe e greche in Sicilia,
levantine a Venezia, francesi in Piemonte, mentre nei paesi de’
Volsci, Sabini, Vejenti, Falisci, Sanniti, Marsi e di là dal Tevere,
maggiori reliquie sopravivono di romano rustico. Tant’era lontano
che tutte le città italiche parlassero il linguaggio stesso; fatto
repugnante a natura quand’anche non restassero prove del contrario, e
non vedessimo Dante poco di poi riprovare quattordici dialetti, cioè le
voci troppo zotiche e troppo municipali, per iscegliere le più acconce
_alla poesia_. Ben merita considerazione che que’ primi scrittori
(comunque il lor paese natìo parli trinciato, e squarti e scortichi le
parole; o sdruccioli sulle desinenze, o le strascichi, o adoperi voci
bazzesche e croje quale le lombarde già parevano a Dante, o accumuli
frasi sgraziate e villani costrutti), di qualunque parte fossero,
ingegnavansi, come oggi ancora si fa, d’accostarsi al dialetto toscano.
La quale norma generale, se non si fosse voluta disconoscere da coloro
che vennero a ragionar poi sopra ciò che già si praticava, avrebbe
schivate deh! quante sofisterie e discussioni, che empirono biblioteche
intere per fare avviluppato e controverso ciò che è chiaro e consentito
col fatto.
Perocchè il linguaggio è come il diritto. Una logica naturale domina
la sua prima formazione, poi qualche alto ingegno ajuta il popolo nel
costituirlo; prende il cumulo informe degli elementi di esso, ne trae
il bello, e dà norme alla lingua e la fissa. In quell’alto ingegno il
popolo non vede un tirannico comando, bensì la fedele espressione del
suo modo di essere, pensare, sentire, quantunque nobilitato.
Ma mentre il nostro popolo conservò il titolo di toscana alla lingua,
i dotti la chiamarono dapprima vulgare, quasi non conveniente che
a vulgo; quando essi l’assunsero, vollero dirla cortigiana, come
destinata a blandire le Corti dei signorotti; vergognatine poi, la
vollero dotta e letterata, non osando rifondervi la popolare vitalità:
di modo che la lingua che, svoltasi prima ne’ paesi meno imbrattati
da Barbari e retti a Comune, potè ben presto divenire variata di
melodie, dolce di cadenze, ricchissima di passaggi, flessibile ad
esporre concetti sublimi con Dante, teneri con Petrarca, vivaci con
Ariosto, civili con Machiavelli, ci tocca sentir ancora discutere come
nominarla, e quel ch’è più tristo, a quali autorità conformarla.


CAPITOLO CI.
Italiani letterati. Primordj della poesia nostra fino a Dante.

E già la letteratura, che è espressione delle credenze, degli
usi, delle passioni de’ popoli, col fissarsi di questi comincia a
individuarsi anch’essa: ma la nostra non fu la primogenita fra le
neolatine. Il mezzodì dell’odierna Francia, ridotto di buon’ora
provincia (_Provenza_) dai Romani, e che conservò traverso alla