Storia degli Italiani, vol. 07 (di 15) - 02
forze dei Ghibellini di Lombardia, e di conserva presero e guastarono
Brescia, nodo de’ Guelfi. Ma ad Ezelino non bastava la signoria divisa,
e mentre adoprava il valore contro i nemici, tesseva artifizj per
iscemare il potere del marchese e del Dovara; e quando essi credeano
avere stabilito un triumvirato, egli si pianta despoto di Brescia,
donde corre a recuperare un dopo uno i castelli toltigli dai Crociati,
sbranandoli col fuoco, col sacco, col macello.
Sempre invalse che dell’alta Italia non potesse considerarsi padrone
chi non tenesse Milano, la quale estendeva il dominio sopra alcune
città vicine, l’influenza su tutte. La lunga guerra coi Federichi ne
aveva esauste le finanze. Tentò risanguarle Beno de’ Gozzadini (1256)
bolognese, che chiamato podestà, gravò di nuove imposte l’estimo per
ispegnere un prestito ch’erasi fatto in bisogno di guerre: e vi arrivò;
ma poi suggerì di prolungare quella imposta onde finire il Naviglio
che traeva fin a Milano le acque del Ticino. La plebe, grata a chi la
liscia più che a chi la giova, sorse a furore, e trucidatolo, il buttò
in quel canale che forma la ricchezza del Milanese e la gloria di lui.
Memore di Federico Barbarossa, Milano tenevasi corifea della parte
guelfa: alla ghibellina invece propendevano i castellani del vicinato;
di che s’invelenivano le ire fra nobili e plebei, e riotte intestine,
e alterni scacciamenti e disastri della città e della campagna, e
trascuranza del pubblico bene. E già potea dirsi sciolto il Comune,
poichè i varj ordini dello Stato ne formavano altrettanti, con governo
distinto, e due o tre podestà, e consoli opposti a consoli, assemblee
ad assemblee, impaccio ad ogni buona provvisione.
Accennammo come vi allignassero gli eretici Patarini, alcuni de’ quali
fecero ammazzare frà Pietro da Verona inquisitore (t. VI, p. 351).
Il Carino, uccisore di lui, fu côlto e messo in mano del podestà; ma
presto fuggì: e il vulgo, credendo connivente il podestà, prese questo,
e ne saccheggiò il palazzo; impedì ai nobili di dare la signoria a
Leon da Perego arcivescovo, e domandò che anche plebei potessero esser
canonici della metropolitana, privilegio delle maggiori famiglie, per
modo che l’arcivescovo da loro eletto era sempre dei primi patrizj.
Sostenuti da questo, dai proprj vassalli e dipendenti, e dall’uso delle
armi, i nobili sormontavano la _motta_ popolare, sino a voler ridestare
un’antica legge de’ tempi feudali, per cui potessero dell’uccisione
d’un plebeo riscattarsi per sette lire e dodici soldi di terzuoli
(lire 114). Un popolano, scontrato il nobile Guglielmo da Landriano,
lo sollecita a pagargli un antico debito, e questi l’uccide: il popolo
insorge a furia, respinge i nobili, che con Leon da Perego alla testa
ricovrano ne’ castelli del contado del Seprio, donde, alleati con
Novaresi e Comaschi, poteano recidere il commercio e i viveri alla
città.
La plebe vedevasi costretta o a stipendiare qualche capitano forestiero
che la proteggesse anche coll’armi, o a cercare fra’ castellani un
capo cui l’aura popolare piacesse più che l’arroganza patrizia. Quando
i Milanesi ritiravansi in rotta da Cortenova (1257) abbandonando il
carroccio a Federico II, furono raccolti e pasciuti da Pagano della
Torre, signore della Valsassina, il quale perciò era divenuto idolo
dei popolani, ch’egli sosteneva a spada tratta, fosse virtù o quella
affettazione di generosità con cui i nobili demagoghi velano spesso
l’egoismo. Fatto è che il popolo, volendo un magistrato proprio che lo
schermisse dalla prepotenza de’ nobili, elesse lui a capitano (1242),
finchè si calmarono le ire. Scoppiate di nuovo, fu sortito a quel
grado il suo discendente Martino (1257), il quale represse i nobili,
diè mano a riformare gli ordini sottraendo le maestranze dal dipendere
dall’arcivescovo, e così montò in istato di vero signore. Tolto a
stipendio il marchese Manfredi Lancia con mille cavalli, trasse fuori
il carroccio, e cominciava la guerra civile contro i nobili fuorusciti;
se non che persone prudenti rabbonacciarono, e condussero la _pace di
Sant’Ambrogio_.
In essa da una parte i nobili e valvassori, dall’altra la motta,
credenza e popolo, stabilirono che ogni singolar lite, causa, discordia
e controversia tra le parti avessero a ridursi a pace perpetua:
ogni ingiuria si rimettesse, eccetto se alcuno fosse ingiustamente
possessore di qualche bene: gli elettori, il consiglio, il Governo,
i consoli del Comune o della giustizia, e tutti gli altri uffiziali
ordinarj e straordinarj, emendatori dello statuto, ambasciadori, metà
dovessero essere del Comune, e metà di valvassori e capitanei: tre
trombetti per il popolo potessero eleggere gli altri tre per la parte
de’ capitanei: tutti gli sbanditi a titolo di Stato fossero riammessi,
e i beni mobili ed immobili restituiti a loro od agli eredi. Seguivano
concessioni e convenzioni speciali per gli abitanti di Como, di Varese,
di Cantù, d’Angera e pei capitanei d’Arsago: e per riparare i danni
fatti, il podestà spenderebbe ogni anno in granaglia lire seimila del
Comune di Milano; e i Comuni, borghi, luoghi e cascine consegnerebbero
le biade a Milano, secondo il consueto: ciaschedun cittadino fosse
obbligato far condurre a Milano due moggia di mistura per ogni
centinajo di libbre del valsente suo, e chiunque non fosse in estimo
potesse condurre ed estrarre grani da Milano: in tempo di carestia
si potesse cercarne anche ne’ solaj degli ecclesiastici, e quel che
sovrabbondava al viver loro, tradurlo a Milano. Si tenessero riparate
le strade; non si riscotessero dazj o gabelle più dell’usato; i pretori
farebbero soddisfare all’offeso delle ruberie sofferte intorno a
Milano a quattro miglia. Martin della Torre e suoi agnati, e tutti
i capitanei e valvassori collegati col popolo, potessero a volontà
ritornare alla parte de’ capitanei e valvassori, senz’altro carico che
di pagare i foderi passati e presenti. I castelli di singole persone
non fossero molestati dal Comune, se non per decreto del consiglio. Ne’
borghi e nelle ville le persone maggiori di vent’anni avessero facoltà
di eleggere il proprio rettore per un anno quando non fossero per
consuetudine sottoposti al podestà di Milano[11].
Particolareggiammo questa famosa pace per mostrare come la politica
non fosse la predominante nelle transazioni d’allora, e sempre vi si
mescolassero ordinamenti civili ed economici, che poi si registravano
negli statuti. Sanciva essa l’eguaglianza civile fra nobili e plebei,
e intitolavasi perpetua: ma non seppero nè le famiglie chetarvisi, nè
i popolani usarne con dignità; e ben presto ecco i nobili costretti
a fuoruscire di nuovo, e cercare ajuto da Como, ove la loro parte
prevaleva: più volte vennero alle prese con avvicendata fortuna, e
Filippo arcivescovo di Ravenna legato pontifizio, accorso a pacare,
mandò in esiglio il Torriano e Guglielmo da Soresina, l’uno capo de’
popolani, l’altro de’ nobili. Ma quegli tornò, e prevalse: i nobili,
perduta la patria, accolsero il furioso partito di darla ad Ezelino.
Secondo la segreta pratica tenuta con loro, costui mosse in fatti
alla sorda da Brescia per sorprendere Milano, e già varcata l’Adda,
difilavasi battendo per Monza e Vimercato sopra la metropoli della
Lombardia, quando Martino, avutone spia, radunò a stormo l’esercito
plebeo, e gli girò alle spalle, sollevando i popoli. Onde non vedersi
intercetta la ritirata, Ezelino diè volta verso l’Adda; ma al ponte
di Cassano si trovò a fronte i nostri (1259), e costretto a battaglia,
cadde ferito, e poco poi spirò da disperato in Soncino. Fu una medesima
esultanza per tutta la Lombardia e la Marca; città e castella già
sue si rendettero o furono prese; suo fratello Alberico, assediato
nella rôcca di San Zenone, e costretto darsi a discrezione (1260),
fu coll’innocente famiglia mandato agli orribili strazj con cui si
manifestano le vendette popolari; e il grido di libertà sonò con
entusiasmo per tutta la valle padana.
Ma troppo spesso i popoli liberati da un padrone non hanno maggior
premura che di trovarsene un altro; e al cadere degli Ezelini supremò
la Casa d’Este. Questa, avversata da Federico II perchè stretta parente
dei Guelfi di Baviera suoi emuli, oltre il castello e la borgata da
cui traeva il titolo, possedeva il marchesato di Ancona, e come feudi
imperiali Rovigo, Calaone, Monselice, Montagnana, Adria, Aviano,
la signoria di Gavello, e un’infinità di masserie, giurisdizioni,
avocherie su quel di Padova, Vicenza, Ferrara, Brescia, Cremona, Parma,
nel Polesine meridionale, nella Lunigiana e ne’ monti toscani, poi
nel Modenese e Piacentino, spingendosi fin verso Tortona a confinare
coi marchesi di Monferrato. Alcuni erano liberi allodj, altri feudi
militari o benefizj ecclesiastici, e ne domandavano la conferma dai
papi e dagli imperatori: ma la potenza cui erano sorti, dava arbitrio
agli Estensi di considerarli come beni proprj. Ferrara, tiranneggiata
da Salinguerra, vecchione indomito e in fatti d’armi famoso, aveva
esibito il primo esempio di sottomettersi a un principe (1208),
attribuendo ad Azzo d’Este arbitrio di far e disfare il giusto e
l’ingiusto[12]. Anche Modena, straziata da discordie, elesse signore
Obizzo d’Este: sette anni dopo, Reggio la imitò, indi Comacchio,
Treviso, Feltre, Belluno obbedivano direttamente o indirettamente ai
Da Camino. I Veronesi si diedero in signoria a Mastin della Scala, che
cacciò i conti di Sanbonifazio, i quali per sessant’anni non poterono
rientrare in una città dove aveano signoreggiato. Mastino, ucciso nel
1277, trasmise il dominio al fratello, e questo ai figliuoli.
I Cremonesi, smaniosi di vendicare la sconfitta tocca nel 1248 sotto
Parma, elessero podestà il marchese Oberto Pelavicino, ghibellino
affocato; il quale, secondato da fuorusciti, li menò contro Parma
(1250), ed entratovi, ne tolse il Gajardo, carroccio cremonese, e molti
prigionieri, che furono poi spediti a casa sbracati. Da questa, che i
Parmigiani intitolarono la _Mala Giobia_, cominciò la grandezza di quel
marchese, che già signore di Cremona, nel 1252 ottenne d’essere gridato
signore perpetuo di Piacenza, e sarebbe stato anche di Parma se un _vil
sartore_ non fosse sorto a persuadere quanto valesse meglio la libertà.
La vittoria sopra Ezelino crebbe in Milano oltre misura il credito
di Martin Torriano, il quale, inseguendo i nobili che, fallito il
tradimento concertato, s’erano rifuggiti presso la famiglia Sommariva
di Lodi (1259), sottomise anche questa città. Novecento nobili,
afforzatisi nel castello di Tabiago in Brianza, vi furono presi e
tradotti a Milano (1261), con insulti d’ogni peggior maniera: però
Martino impedì fossero trucidati, e sempre si astenne dal sangue,
dicendo: — Poichè non ho potuto dar la vita a nessuno, non soffrirò di
torla a chichessia». E veramente egli seppe temperarsi nell’ambizione;
e vedendo che la milizia plebea non bastava a tener testa ai nobili,
non esitò a lasciar nominare capitano generale il Pelavicino, che così
tenne in signoria quella città, cui Ezelino aveva indarno aspirato.
Forte di tale appoggio, la fazione popolare cercò incremento col
portare arcivescovo Raimondo, parente di Martino. Si opposero con
ogni lor possa i nobili, proclamando Uberto da Settala; onde, per
riparare allo scisma, Urbano IV nominò a quella sede il canonico
Ottone Visconti, che coll’appoggio de’ nobili suoi pari tenne la
campagna, ed occupò molti castelli, massime nelle parti del lago
Maggiore, dove erano i feudi di sua famiglia. I Torriani presero
e spianarono i castelli di Arona, d’Angera, di Brebbia, occuparono
altre terre dell’arcivescovo; lo perchè essi e la città furono posti
all’interdetto, e bandita contro loro la croce.
Amareggiato da ciò, Martino moriva immaturo (1263), e Filippo suo
fratello otteneva l’autorità di esso e la tutelava coll’armi. Como,
per insinuazione de’ Vitani, davasi a lui; per forza la Valtellina,
e così Lodi, Novara, Vercelli, Bergamo: ed egli dissimulava il suo
ingrandimento, tanto che della signoria fece investire Carlo d’Angiò.
Napoleone gli succedette (1265) col titolo d’anziano perpetuo,
quasi ereditario tramandandosi il dominio, benchè i Torriani non ne
cercassero il titolo.
A differenza degli altri tiranni, stavano essi coi Guelfi, onde
prosperarono per le vittorie degli Angioini. Accampava coi Ghibellini
il Pelavicino, che avea sottoposte anche Pavia e Brescia: ma questa,
all’udire la morte di Manfredi, trucidò i soldati di esso, e invocò i
Torriani, che, accolti a rami d’ulivo, vi rimpatriarono i Guelfi, e ne
furono gridati signori. Un altro Torriano era governatore di Vercelli,
ma i Ghibellini milanesi fuorusciti il sorpresero ed uccisero. Emberra
del Balzo, podestà di Milano per re Carlo, consigliò a trucidare
cinquantadue parenti degli assassini; della quale atrocità piansero
tutti i buoni, e Napoleone sclamò: — Il sangue di questi innocenti
ricadrà su’ figli miei». Quando poi, al comparire di Corradino, quei
che erano a parte d’impero rialzarono il capo, e Oberto Pelavicino e
Buoso da Dovara minacciarono rinnovare i tempi di Federico e d’Ezelino,
Milano incalorì le città, e con Vercelli, Novara, Como, Ferrara,
Mantova, Parma, Vicenza, Padova, Bergamo, Lodi, Brescia, Cremona,
Piacenza ritessè la Lega Lombarda (1267), unendosi col marchese d’Este
e con quel di Monferrato, il quale fu nominato capitano.
Allora Cremona e Piacenza, buon o malgrado, indussero il Pelavicino
ad abdicarsi della signoria, ond’egli si ritirò ne’ suoi castelli di
Gusaliggio, Busseto, Scipione, Borgo San Donnino, e morì lasciando
la sua famiglia ricca ma non sovrana. Il Dovara, di cui il legato
pontifizio erasi valso per snidare il predetto, sperava rimanere
signor di Cremona; ma ne fu egli pure cacciato, abbattute le sue case,
assediata la sua rocchetta sull’Oglio, e poichè la vide capitolare ed
essere rasa, ricoverò fra’ monti a morire senza dovizie nè potenza.
Al contrario, Napoleone continuava da signore in Milano, sostenuto
anche dal cugino Raimondo, ch’era stato fatto patriarca di Aquileja,
e che, andando alla sua sede (1274), menò seco sessanta nobili
garzoni milanesi per scudieri, riccamente divisati con arme e cavalli
bellissimi; cinquanta cavalieri aurati, ciascuno con quattro cavalli e
uno scudiere; sessanta militi con due cavalli ciascuno, e cento uomini
d’arme cremonesi (CORIO). Tanto era ricca quella casa. Napoleone,
assoldate truppe, tenne la lancia alle reni dei nobili, e più volte ne
uscì vittorioso; tutto guelfo ch’egli era, si fece costituire vicario
dall’imperatore Rodolfo d’Habsburg; e senza lasciarsi lusingare da
favori nè atterrire da scomuniche, resisteva al papa e all’arcivescovo
Ottone Visconti.
Men costante di lui, il marchese di Monferrato mutossi capitano della
parte ghibellina, con sè traendo Pavia, Asti, Como e i fuorusciti di
Milano. Questi ultimi aveano per centro Como e per capo il Visconti,
che, escluso sempre dall’arcivescovado, menava fazioni e battaglie
nelle pianure e sui laghi che fanno deliziosa l’alta Lombardia.
I nobili, disperati d’altro soccorso, riduconsi a Pavia (1276), e
inducono Gotifredo conte di Langosco a farsi loro capo e aspirare così
alla signoria del Milanese: di fatto egli campeggiò sul lago Maggiore,
e prese Arona e Angera; ma Cassone della Torre, avuto una smannata
di Tedeschi da Rodolfo, prese lo stesso conte con molti nobili, a
trentaquattro de’ quali fe’ mozzare la testa in Gallarate. Era fra
essi Teobaldo Visconti padre di Matteo; onde l’arcivescovo Ottone si
incalorì alla vendetta: da’ Canobiesi fece allestire una flottiglia,
comandata da Simone di Locarno, famoso prode, il quale, ito a Como,
resuscitò la parte de’ Visconti. Quivi attestatisi, e soccorsi da
Pavesi e Novaresi guidati da Ricardo conte di Lomello (1277), i
Visconti ripresero Lecco, Civate ed altre rôcche, e attraverso alla
Martesana procedeano sopra Milano. I Torriani stavano a malaguardia
in Desio, dove furono sorpresi e messi in isbaraglio: Napoleone co’
suoi parenti Mosca, Guido, Rocco, Lombardo, Carnevale furono chiusi in
gabbie nel castel Baradello di Como: Cassone ebbe tempo di fuggire a
Milano, ma solo per vedere il popolo saccheggiare i palazzi de’ suoi,
onde ricoverò presso Raimondo patriarca, col cui appoggio alimentò a
lungo la guerra; finchè, spintosi co’ suoi sin alle porte di Milano
(1281), a Vaprio fu interamente sconfitto.
A Ottone si fece incontro il popolo gridando _Pace, pace_, ed egli
la diede; proibì ogni persecuzione o vendetta, e tolse per capitano
Guglielmo marchese di Monferrato, al quale allora obbedivano Pavia,
Novara, Asti, Torino, Alba, Ivrea, Alessandria, Tortona, Casale.
Costui, sentendosi forte, facea da padrone; onde l’arcivescovo si
guadagnò le case Carcano, Castiglioni, Mandello, Pusterla ed altre
caporali; e côlto il destro che colui stava fuor di città, occupò
il Broletto, chiuse le porte in faccia al marchese, e restato unico
padrone, fecesi proclamare signore perpetuo. Il popolo sotto i Torriani
erasi già avvezzo a un padrone; i nobili, da questi abbattuti e spinti
in esiglio, non sentivansi forza a resistere: talchè senza molti
ostacoli la maggiore repubblica dell’antica Lega Lombarda diveniva un
principato.
L’arte e la fortuna giovarono i Visconti a renderlo ereditario ed
abbracciarvi tutta Lombardia, spodestando o ereditando de’ principotti
insignoritisi di ciascuna città.
E l’un dopo l’altro tutti i paesi che erano usciti repubblicani dalla
pace di Costanza, si restringeano a signoria di un solo, e invece di
giovarsi dell’interregno per consolidare le proprie costituzioni, si
disperdevano in superbie iraconde; invece della ragionevole soggezione
per cui gli Stati fioriscono, riottavano nell’anarchia, che fa parer
desiderabile la servitù. Tutti gli uomini si erano dati a una fazione,
e le fazioni sempre si danno a un uomo, il quale trovasi padrone di
quanti ad essa si addissero, e che non gli domandano se non di farla
trionfare; trionfato, attribuivano i poteri ad un capitano o difensore
del popolo, e glieli prorogavano per tre, cinque, dieci anni, abituando
lui a principare, sè ad obbedire. E poichè il popolo vincitore
sentivasi inetto a governare, se ne rimetteva a qualche signore,
nobile per lo più, eppure destinato a reprimere i nobili. Così nella
moderna Inghilterra si ebbe sempre bisogno di un lord, anche per far
provvedimenti contro i lord.
Consueto effetto delle rivoluzioni, non si esitava a sagrificare la
libertà ad un nome vano, alla passione del momento, diritti smisurati
commettendo ad un’assemblea o ad un magistrato. Milano nel 1301 al
capitano del popolo, al giudice della credenza di Sant’Ambrogio e al
priore degli anziani del popolo concedeva la podestà più preziosa,
quella di far leggi. I popolani fiorentini riusciti vincitori, «a ser
Lando da Gubbio puosono uno gonfalone di giustizia in mano, e diengli
imperio sopra chi attentasse contro li Guelfi e lo presente stato;
il quale bargello avea balìa niuna solennità servare, ma di fatto
senza condannazione procedere in avere e in persona». Nel 1380 fecero
riformagione che gli otto di _balìa_ potessero spendere diecimila
fiorini, senza darne conto segreto o palese, in perseguire e far morire
i ribelli del Comune in ogni forma e via e modo che a loro meglio
paresse[13]. Altrove le balìe, i _cinque dell’arbitrio_ o simili
riceveano mandati temporarj, che intepidivano la gelosa cura della
libertà e spianavano il calle alla tirannide.
Rimosso il pericolo della dominazione forestiera e cresciute le
dovizie e gli agi del vivere, i cittadini si applicarono all’industria
smettendo le armi. Ne crebbero d’importanza i nobili, i quali dalla
fanciullezza si educavano agli esercizj e a portare un’armadura di
ferro a tutta botta, sotto la quale invulnerabili dalle picche della
milizia cittadina, trionfavano quasi senza pericolo; la sicurezza
del vincere crescea baldanza di osare, e facilmente argomentavansi di
dominare sopra gente ch’era invalida a resistere. Più lo fecero quando
i capitani di ventura posero il valore a servizio di chi pagava, e
patteggiavano coi tirannelli per sostenersi, o aspiravano essi medesimi
al primo grado.
Il tempestare cittadino aveva indotto stanchezza, e sempre è il
benvenuto chi, all’estremo d’una rivoluzione, giunge a ricompor le
cose, quand’anche al tumulto sostituisca l’abjezione e il letargo.
Voi che vedeste i Romani, repubblicani affocati, acconciarsi alla
stemperata tirannia degl’imperadori, non istupirete che di nuovo i
ridesti Italiani soffrissero i duri sproni de’ tirannelli. Del cadere
sotto un signore soffrivano i grandi, impediti dai loro arbitrj e dagli
sfrenati appetiti d’una più o men ristretta oligarchia: ma la plebe si
trovava giovata del non esser più esposta alle ire di tutta una parte,
e al soperchiare d’ogni emulo e d’ogni avversario; e dell’obbedire,
anzichè a molti, ad un signore solo e lontano, il quale non avrebbe
passione d’offendere gl’individui, anzi interesse di procacciare il
fiore di tutti: e ne sperava quella giustizia e quella sicurezza che,
se non un compenso, sono un ristoro alla privazione della libertà.
Contenta della quiete interna, del freno posto agli oligarchi, degli
spettacoli e delle pompe, ne voleva bene ai principi; e contro quegli
stessi che ci sono dipinti pei peggio ribaldi, rado o non mai la
vedremo insorgere, benchè non mai cessassero quelle congiure di pochi,
che fallendo rinfiancano la potenza che aveano inteso demolire. I
letterati e i leggisti, dei quali crescevano il numero e l’importanza,
attingevano dal diritto romano canoni di servilità, e sempre aveansi
in pronto una diceria, colla quale alle assemblee popolari persuadere
i vantaggi della tirannide. I nobili, a cui danno cadeva questa
rivoluzione, ribramando il passato e invidiando gli uomini nuovi, pur
non sapevano affratellarsi nè ai Comuni nè tra sè in quell’accordo,
che in altri paesi li ridusse opportuno contrappeso alla monarchia
nascente: pertanto poneansi a corteggiare il signore onde ottenere
qualche brano di autorità, di godimenti, di arroganza; o gittavansi
a macchinazioni, che porgeano a quello buona ragione di sterminarli
o comprimerli. Insomma mancava a tutti il sentimento della legalità,
fosse per assodare le repubbliche, fosse per temperare i principati.
E le repubbliche a breve andare mutavansi in signorie senza
avvedersene, come senza avvedersene erano salite alla libertà. I
tiranni (tal nome i nostri, al modo greco[14], davano a coloro, buoni o
malvagi, che usurpavano dominio in libera terra) aveano cura di farsi
decretare solennemente, dagli anziani o dalle assemblee popolari, il
titolo e i poteri di signori generali per tempo limitato, e ricevere
l’investitura colla tradizione dello stendardo e del carroccio.
Faceasi dunque mostra di rispettare la sovranità del popolo; sicchè,
al governo monarchico innestando forme costituzionali, pareva dovesse
impedirsi il despotismo, le magistrature popolari moderare i signori,
che di rimpatto resterebbero protetti dalle leggi e dalla nazionale
garanzia. Ma come in Roma gl’imperatori dominarono assoluti perchè
rappresentavano il popolo sovrano, così questi tirannelli nessun limite
legale trovavano ad un potere che dal popolo era attribuito.
Non era dunque necessario frutto della democrazia la tirannide,
bensì conseguenza aristocratica, giacchè ogni oligarchia è gelosa ed
esclusiva, e chiede ingrandire a scapito degli altri. La tirannide
poi serviva effettivamente gl’interessi popolari, elevando gli infimi
contro i prischi prevalenti: per modo che, quand’anche fosse cacciato
il tiranno, rimaneva la gente nuova ed estrania, da lui assisa sui
beni confiscati. Allora i primi spogliati s’affacciavano alla riscossa,
cacciavano la gente nuova, faceano nuovo spartimento, e quella vicenda
irrequieta non lasciava tampoco il riposo, che erasi sperato compenso
alla servitù.
Le rivolte non erano impeti di libertà; voleasi cangiare di signoria,
ma il governo restava pur sempre militare e dispotico, giacchè
ai disuniti bisognavano capi assoluti; s’applaudiva ai giudici
che castigassero i caduti dominatori, per quanto eccedessero; i
partigiani dei nuovi pretendeano franchigie e indipendenza; i vinti
fuoruscivano, istituendo un governo tirannico perchè indipendente dalla
pubblica volontà, e che pretendeva dal di fuori governare la patria,
sovvertirla, mutarla; il nuovo padrone secondava le proprie passioni,
e conoscendosi vacillante, si reggea con politica subdola e giustizia
inumana, gettando a spalle ogni moderazione e generosità.
Il dominio che una città aveva già acquistato sopra altre, diveniva
una signoria, che gli ambiziosi attendevano ad ampliare; onde l’Italia
settentrionale, che alla pace di Costanza trovavasi sminuzzata in tante
repubbliche quante città, queste vide aggregarsi attorno ad alcuni
centri, e formare gli Stati nuovi, la cui storia così varia è ribelle
a quel procedimento sistematico che si rivela dove un signore unico
determina o almeno dirige gli avvenimenti d’un paese.
CAPITOLO XCV.
Toscana.
La salda dominazione degli antichi marchesi Bonifazj aveva impedito
alla Toscana di ridursi libera come le città lombarde ma estinti quelli
colla contessa Matilde (1115), le dispute che intorno alla costei
eredità si agitarono fra i pontefici e gl’imperatori, offrirono ai
Comuni il destro d’emanciparsi, e agli uni o agli altri appoggiandosi
acquistar privilegi, o nella lotta usurparli[15]. Federico II, erede
dell’ultimo duca di Svevia fratello del Barbarossa, vi tenne de’
vicarj, ma ognora più scadenti d’autorità, e ricoverati in qualche
terra castellata, come Sanminiato, che perciò fu detto al Tedesco.
Del territorio rimanevano in dominio signori forestieri; o longobardi,
come i marchesi di Lunigiana, i conti Guido, quei della Gherardesca;
o franchi, come i marchesi Oberto, quei del Monte Santa Maria, i conti
Aldobrandeschi, gli Scialenga, i Pannochieschi, gli Alberti del Vernio,
della Bevardenga, dell’Ardenghesca, e così via.
Fiesole, avanzo delle città onde gli Etruschi aveano coronato le alture
italiche, già da Cicerone notata per gran lusso e spese d’imbandigione,
deliziosi poderi, fabbriche suntuose, mutati i tempi, avea ridotto
a battistero un bellissimo avanzo di antichità pagana; eretto il
duomo, ove nel 1028 il vescovo Jacopo Bavaro trasportò le reliquie
di san Romolo patrono della città; e di lassù le famiglie patrizie
minacciavano gli uomini del piano. Ma era giunto il tempo che questi
a quelle prevalessero; e Firenze, inferiore per postura a Fiesole come
a Pisa per opportunità di commercio, maturava la libertà, che a lungo
dovea poi custodire e sempre amare. La prima adunanza generale di
popolo vi si tenne il 1105 per istanza del vescovo Ranieri: la prima
impresa che se ne rammenti è la spedizione del 1113 contro Ruperto
vicario imperiale, il quale, postato a Montecáscioli, bicocca dei conti
Cadolingi, molestava i Fiorentini, finchè essi non l’ebbero scovato e
ucciso, e spianata la sua rôcca.
Trascinata da Pisa nella briga contro Lucca, Firenze conosce le proprie
forze, e le usa a sottomettere i castellani; «perocchè in tutte le
terre sono molti nobili uomini, conti e cattani, i quali l’amano più
in discordia che in pace, e ubbidisconla più per paura che per amore»
(DINO COMPAGNI); abbatte i castelli, che impacciano il traffico e
ricoverano i prepotenti; obbliga le famiglie antiche a scendere dalla
minacciosa Fiesole[16], e i popoletti ad accettare le sue leggi,
come fece coi cattani di Montorlandi e con quei di Chiavello, che,
riscattatisi dai conti Guido, s’erano collocati in un bel _prato_ sul
Bisenzio, donde prese nome la lieta città che vi fabbricarono[17].
Dai Buondelmonti, che nel castello di Montebuono esigeano pedaggi
da chiunque passasse, non potendo ottener ragione, Firenze li vinse
(1143), ed obbligò a venire in città. Dal conte Uggero volle promessa
di non far male ad alcun Fiorentino, anzi ajutarli, esser con loro
in guerra, abitare tre mesi in città, dando in pegno i castelli di
Collenuovo, Sillano, Trémali. I signori di Pogna, che non posavano di
molestare il Valdelsa, furono domi coll’arme, e demolite quella e le
torri di Certaldo e quante n’erano sin a Firenze, che che strepitasse
il Barbarossa di questa che a lui pareva lesione del potere imperiale.
Brescia, nodo de’ Guelfi. Ma ad Ezelino non bastava la signoria divisa,
e mentre adoprava il valore contro i nemici, tesseva artifizj per
iscemare il potere del marchese e del Dovara; e quando essi credeano
avere stabilito un triumvirato, egli si pianta despoto di Brescia,
donde corre a recuperare un dopo uno i castelli toltigli dai Crociati,
sbranandoli col fuoco, col sacco, col macello.
Sempre invalse che dell’alta Italia non potesse considerarsi padrone
chi non tenesse Milano, la quale estendeva il dominio sopra alcune
città vicine, l’influenza su tutte. La lunga guerra coi Federichi ne
aveva esauste le finanze. Tentò risanguarle Beno de’ Gozzadini (1256)
bolognese, che chiamato podestà, gravò di nuove imposte l’estimo per
ispegnere un prestito ch’erasi fatto in bisogno di guerre: e vi arrivò;
ma poi suggerì di prolungare quella imposta onde finire il Naviglio
che traeva fin a Milano le acque del Ticino. La plebe, grata a chi la
liscia più che a chi la giova, sorse a furore, e trucidatolo, il buttò
in quel canale che forma la ricchezza del Milanese e la gloria di lui.
Memore di Federico Barbarossa, Milano tenevasi corifea della parte
guelfa: alla ghibellina invece propendevano i castellani del vicinato;
di che s’invelenivano le ire fra nobili e plebei, e riotte intestine,
e alterni scacciamenti e disastri della città e della campagna, e
trascuranza del pubblico bene. E già potea dirsi sciolto il Comune,
poichè i varj ordini dello Stato ne formavano altrettanti, con governo
distinto, e due o tre podestà, e consoli opposti a consoli, assemblee
ad assemblee, impaccio ad ogni buona provvisione.
Accennammo come vi allignassero gli eretici Patarini, alcuni de’ quali
fecero ammazzare frà Pietro da Verona inquisitore (t. VI, p. 351).
Il Carino, uccisore di lui, fu côlto e messo in mano del podestà; ma
presto fuggì: e il vulgo, credendo connivente il podestà, prese questo,
e ne saccheggiò il palazzo; impedì ai nobili di dare la signoria a
Leon da Perego arcivescovo, e domandò che anche plebei potessero esser
canonici della metropolitana, privilegio delle maggiori famiglie, per
modo che l’arcivescovo da loro eletto era sempre dei primi patrizj.
Sostenuti da questo, dai proprj vassalli e dipendenti, e dall’uso delle
armi, i nobili sormontavano la _motta_ popolare, sino a voler ridestare
un’antica legge de’ tempi feudali, per cui potessero dell’uccisione
d’un plebeo riscattarsi per sette lire e dodici soldi di terzuoli
(lire 114). Un popolano, scontrato il nobile Guglielmo da Landriano,
lo sollecita a pagargli un antico debito, e questi l’uccide: il popolo
insorge a furia, respinge i nobili, che con Leon da Perego alla testa
ricovrano ne’ castelli del contado del Seprio, donde, alleati con
Novaresi e Comaschi, poteano recidere il commercio e i viveri alla
città.
La plebe vedevasi costretta o a stipendiare qualche capitano forestiero
che la proteggesse anche coll’armi, o a cercare fra’ castellani un
capo cui l’aura popolare piacesse più che l’arroganza patrizia. Quando
i Milanesi ritiravansi in rotta da Cortenova (1257) abbandonando il
carroccio a Federico II, furono raccolti e pasciuti da Pagano della
Torre, signore della Valsassina, il quale perciò era divenuto idolo
dei popolani, ch’egli sosteneva a spada tratta, fosse virtù o quella
affettazione di generosità con cui i nobili demagoghi velano spesso
l’egoismo. Fatto è che il popolo, volendo un magistrato proprio che lo
schermisse dalla prepotenza de’ nobili, elesse lui a capitano (1242),
finchè si calmarono le ire. Scoppiate di nuovo, fu sortito a quel
grado il suo discendente Martino (1257), il quale represse i nobili,
diè mano a riformare gli ordini sottraendo le maestranze dal dipendere
dall’arcivescovo, e così montò in istato di vero signore. Tolto a
stipendio il marchese Manfredi Lancia con mille cavalli, trasse fuori
il carroccio, e cominciava la guerra civile contro i nobili fuorusciti;
se non che persone prudenti rabbonacciarono, e condussero la _pace di
Sant’Ambrogio_.
In essa da una parte i nobili e valvassori, dall’altra la motta,
credenza e popolo, stabilirono che ogni singolar lite, causa, discordia
e controversia tra le parti avessero a ridursi a pace perpetua:
ogni ingiuria si rimettesse, eccetto se alcuno fosse ingiustamente
possessore di qualche bene: gli elettori, il consiglio, il Governo,
i consoli del Comune o della giustizia, e tutti gli altri uffiziali
ordinarj e straordinarj, emendatori dello statuto, ambasciadori, metà
dovessero essere del Comune, e metà di valvassori e capitanei: tre
trombetti per il popolo potessero eleggere gli altri tre per la parte
de’ capitanei: tutti gli sbanditi a titolo di Stato fossero riammessi,
e i beni mobili ed immobili restituiti a loro od agli eredi. Seguivano
concessioni e convenzioni speciali per gli abitanti di Como, di Varese,
di Cantù, d’Angera e pei capitanei d’Arsago: e per riparare i danni
fatti, il podestà spenderebbe ogni anno in granaglia lire seimila del
Comune di Milano; e i Comuni, borghi, luoghi e cascine consegnerebbero
le biade a Milano, secondo il consueto: ciaschedun cittadino fosse
obbligato far condurre a Milano due moggia di mistura per ogni
centinajo di libbre del valsente suo, e chiunque non fosse in estimo
potesse condurre ed estrarre grani da Milano: in tempo di carestia
si potesse cercarne anche ne’ solaj degli ecclesiastici, e quel che
sovrabbondava al viver loro, tradurlo a Milano. Si tenessero riparate
le strade; non si riscotessero dazj o gabelle più dell’usato; i pretori
farebbero soddisfare all’offeso delle ruberie sofferte intorno a
Milano a quattro miglia. Martin della Torre e suoi agnati, e tutti
i capitanei e valvassori collegati col popolo, potessero a volontà
ritornare alla parte de’ capitanei e valvassori, senz’altro carico che
di pagare i foderi passati e presenti. I castelli di singole persone
non fossero molestati dal Comune, se non per decreto del consiglio. Ne’
borghi e nelle ville le persone maggiori di vent’anni avessero facoltà
di eleggere il proprio rettore per un anno quando non fossero per
consuetudine sottoposti al podestà di Milano[11].
Particolareggiammo questa famosa pace per mostrare come la politica
non fosse la predominante nelle transazioni d’allora, e sempre vi si
mescolassero ordinamenti civili ed economici, che poi si registravano
negli statuti. Sanciva essa l’eguaglianza civile fra nobili e plebei,
e intitolavasi perpetua: ma non seppero nè le famiglie chetarvisi, nè
i popolani usarne con dignità; e ben presto ecco i nobili costretti
a fuoruscire di nuovo, e cercare ajuto da Como, ove la loro parte
prevaleva: più volte vennero alle prese con avvicendata fortuna, e
Filippo arcivescovo di Ravenna legato pontifizio, accorso a pacare,
mandò in esiglio il Torriano e Guglielmo da Soresina, l’uno capo de’
popolani, l’altro de’ nobili. Ma quegli tornò, e prevalse: i nobili,
perduta la patria, accolsero il furioso partito di darla ad Ezelino.
Secondo la segreta pratica tenuta con loro, costui mosse in fatti
alla sorda da Brescia per sorprendere Milano, e già varcata l’Adda,
difilavasi battendo per Monza e Vimercato sopra la metropoli della
Lombardia, quando Martino, avutone spia, radunò a stormo l’esercito
plebeo, e gli girò alle spalle, sollevando i popoli. Onde non vedersi
intercetta la ritirata, Ezelino diè volta verso l’Adda; ma al ponte
di Cassano si trovò a fronte i nostri (1259), e costretto a battaglia,
cadde ferito, e poco poi spirò da disperato in Soncino. Fu una medesima
esultanza per tutta la Lombardia e la Marca; città e castella già
sue si rendettero o furono prese; suo fratello Alberico, assediato
nella rôcca di San Zenone, e costretto darsi a discrezione (1260),
fu coll’innocente famiglia mandato agli orribili strazj con cui si
manifestano le vendette popolari; e il grido di libertà sonò con
entusiasmo per tutta la valle padana.
Ma troppo spesso i popoli liberati da un padrone non hanno maggior
premura che di trovarsene un altro; e al cadere degli Ezelini supremò
la Casa d’Este. Questa, avversata da Federico II perchè stretta parente
dei Guelfi di Baviera suoi emuli, oltre il castello e la borgata da
cui traeva il titolo, possedeva il marchesato di Ancona, e come feudi
imperiali Rovigo, Calaone, Monselice, Montagnana, Adria, Aviano,
la signoria di Gavello, e un’infinità di masserie, giurisdizioni,
avocherie su quel di Padova, Vicenza, Ferrara, Brescia, Cremona, Parma,
nel Polesine meridionale, nella Lunigiana e ne’ monti toscani, poi
nel Modenese e Piacentino, spingendosi fin verso Tortona a confinare
coi marchesi di Monferrato. Alcuni erano liberi allodj, altri feudi
militari o benefizj ecclesiastici, e ne domandavano la conferma dai
papi e dagli imperatori: ma la potenza cui erano sorti, dava arbitrio
agli Estensi di considerarli come beni proprj. Ferrara, tiranneggiata
da Salinguerra, vecchione indomito e in fatti d’armi famoso, aveva
esibito il primo esempio di sottomettersi a un principe (1208),
attribuendo ad Azzo d’Este arbitrio di far e disfare il giusto e
l’ingiusto[12]. Anche Modena, straziata da discordie, elesse signore
Obizzo d’Este: sette anni dopo, Reggio la imitò, indi Comacchio,
Treviso, Feltre, Belluno obbedivano direttamente o indirettamente ai
Da Camino. I Veronesi si diedero in signoria a Mastin della Scala, che
cacciò i conti di Sanbonifazio, i quali per sessant’anni non poterono
rientrare in una città dove aveano signoreggiato. Mastino, ucciso nel
1277, trasmise il dominio al fratello, e questo ai figliuoli.
I Cremonesi, smaniosi di vendicare la sconfitta tocca nel 1248 sotto
Parma, elessero podestà il marchese Oberto Pelavicino, ghibellino
affocato; il quale, secondato da fuorusciti, li menò contro Parma
(1250), ed entratovi, ne tolse il Gajardo, carroccio cremonese, e molti
prigionieri, che furono poi spediti a casa sbracati. Da questa, che i
Parmigiani intitolarono la _Mala Giobia_, cominciò la grandezza di quel
marchese, che già signore di Cremona, nel 1252 ottenne d’essere gridato
signore perpetuo di Piacenza, e sarebbe stato anche di Parma se un _vil
sartore_ non fosse sorto a persuadere quanto valesse meglio la libertà.
La vittoria sopra Ezelino crebbe in Milano oltre misura il credito
di Martin Torriano, il quale, inseguendo i nobili che, fallito il
tradimento concertato, s’erano rifuggiti presso la famiglia Sommariva
di Lodi (1259), sottomise anche questa città. Novecento nobili,
afforzatisi nel castello di Tabiago in Brianza, vi furono presi e
tradotti a Milano (1261), con insulti d’ogni peggior maniera: però
Martino impedì fossero trucidati, e sempre si astenne dal sangue,
dicendo: — Poichè non ho potuto dar la vita a nessuno, non soffrirò di
torla a chichessia». E veramente egli seppe temperarsi nell’ambizione;
e vedendo che la milizia plebea non bastava a tener testa ai nobili,
non esitò a lasciar nominare capitano generale il Pelavicino, che così
tenne in signoria quella città, cui Ezelino aveva indarno aspirato.
Forte di tale appoggio, la fazione popolare cercò incremento col
portare arcivescovo Raimondo, parente di Martino. Si opposero con
ogni lor possa i nobili, proclamando Uberto da Settala; onde, per
riparare allo scisma, Urbano IV nominò a quella sede il canonico
Ottone Visconti, che coll’appoggio de’ nobili suoi pari tenne la
campagna, ed occupò molti castelli, massime nelle parti del lago
Maggiore, dove erano i feudi di sua famiglia. I Torriani presero
e spianarono i castelli di Arona, d’Angera, di Brebbia, occuparono
altre terre dell’arcivescovo; lo perchè essi e la città furono posti
all’interdetto, e bandita contro loro la croce.
Amareggiato da ciò, Martino moriva immaturo (1263), e Filippo suo
fratello otteneva l’autorità di esso e la tutelava coll’armi. Como,
per insinuazione de’ Vitani, davasi a lui; per forza la Valtellina,
e così Lodi, Novara, Vercelli, Bergamo: ed egli dissimulava il suo
ingrandimento, tanto che della signoria fece investire Carlo d’Angiò.
Napoleone gli succedette (1265) col titolo d’anziano perpetuo,
quasi ereditario tramandandosi il dominio, benchè i Torriani non ne
cercassero il titolo.
A differenza degli altri tiranni, stavano essi coi Guelfi, onde
prosperarono per le vittorie degli Angioini. Accampava coi Ghibellini
il Pelavicino, che avea sottoposte anche Pavia e Brescia: ma questa,
all’udire la morte di Manfredi, trucidò i soldati di esso, e invocò i
Torriani, che, accolti a rami d’ulivo, vi rimpatriarono i Guelfi, e ne
furono gridati signori. Un altro Torriano era governatore di Vercelli,
ma i Ghibellini milanesi fuorusciti il sorpresero ed uccisero. Emberra
del Balzo, podestà di Milano per re Carlo, consigliò a trucidare
cinquantadue parenti degli assassini; della quale atrocità piansero
tutti i buoni, e Napoleone sclamò: — Il sangue di questi innocenti
ricadrà su’ figli miei». Quando poi, al comparire di Corradino, quei
che erano a parte d’impero rialzarono il capo, e Oberto Pelavicino e
Buoso da Dovara minacciarono rinnovare i tempi di Federico e d’Ezelino,
Milano incalorì le città, e con Vercelli, Novara, Como, Ferrara,
Mantova, Parma, Vicenza, Padova, Bergamo, Lodi, Brescia, Cremona,
Piacenza ritessè la Lega Lombarda (1267), unendosi col marchese d’Este
e con quel di Monferrato, il quale fu nominato capitano.
Allora Cremona e Piacenza, buon o malgrado, indussero il Pelavicino
ad abdicarsi della signoria, ond’egli si ritirò ne’ suoi castelli di
Gusaliggio, Busseto, Scipione, Borgo San Donnino, e morì lasciando
la sua famiglia ricca ma non sovrana. Il Dovara, di cui il legato
pontifizio erasi valso per snidare il predetto, sperava rimanere
signor di Cremona; ma ne fu egli pure cacciato, abbattute le sue case,
assediata la sua rocchetta sull’Oglio, e poichè la vide capitolare ed
essere rasa, ricoverò fra’ monti a morire senza dovizie nè potenza.
Al contrario, Napoleone continuava da signore in Milano, sostenuto
anche dal cugino Raimondo, ch’era stato fatto patriarca di Aquileja,
e che, andando alla sua sede (1274), menò seco sessanta nobili
garzoni milanesi per scudieri, riccamente divisati con arme e cavalli
bellissimi; cinquanta cavalieri aurati, ciascuno con quattro cavalli e
uno scudiere; sessanta militi con due cavalli ciascuno, e cento uomini
d’arme cremonesi (CORIO). Tanto era ricca quella casa. Napoleone,
assoldate truppe, tenne la lancia alle reni dei nobili, e più volte ne
uscì vittorioso; tutto guelfo ch’egli era, si fece costituire vicario
dall’imperatore Rodolfo d’Habsburg; e senza lasciarsi lusingare da
favori nè atterrire da scomuniche, resisteva al papa e all’arcivescovo
Ottone Visconti.
Men costante di lui, il marchese di Monferrato mutossi capitano della
parte ghibellina, con sè traendo Pavia, Asti, Como e i fuorusciti di
Milano. Questi ultimi aveano per centro Como e per capo il Visconti,
che, escluso sempre dall’arcivescovado, menava fazioni e battaglie
nelle pianure e sui laghi che fanno deliziosa l’alta Lombardia.
I nobili, disperati d’altro soccorso, riduconsi a Pavia (1276), e
inducono Gotifredo conte di Langosco a farsi loro capo e aspirare così
alla signoria del Milanese: di fatto egli campeggiò sul lago Maggiore,
e prese Arona e Angera; ma Cassone della Torre, avuto una smannata
di Tedeschi da Rodolfo, prese lo stesso conte con molti nobili, a
trentaquattro de’ quali fe’ mozzare la testa in Gallarate. Era fra
essi Teobaldo Visconti padre di Matteo; onde l’arcivescovo Ottone si
incalorì alla vendetta: da’ Canobiesi fece allestire una flottiglia,
comandata da Simone di Locarno, famoso prode, il quale, ito a Como,
resuscitò la parte de’ Visconti. Quivi attestatisi, e soccorsi da
Pavesi e Novaresi guidati da Ricardo conte di Lomello (1277), i
Visconti ripresero Lecco, Civate ed altre rôcche, e attraverso alla
Martesana procedeano sopra Milano. I Torriani stavano a malaguardia
in Desio, dove furono sorpresi e messi in isbaraglio: Napoleone co’
suoi parenti Mosca, Guido, Rocco, Lombardo, Carnevale furono chiusi in
gabbie nel castel Baradello di Como: Cassone ebbe tempo di fuggire a
Milano, ma solo per vedere il popolo saccheggiare i palazzi de’ suoi,
onde ricoverò presso Raimondo patriarca, col cui appoggio alimentò a
lungo la guerra; finchè, spintosi co’ suoi sin alle porte di Milano
(1281), a Vaprio fu interamente sconfitto.
A Ottone si fece incontro il popolo gridando _Pace, pace_, ed egli
la diede; proibì ogni persecuzione o vendetta, e tolse per capitano
Guglielmo marchese di Monferrato, al quale allora obbedivano Pavia,
Novara, Asti, Torino, Alba, Ivrea, Alessandria, Tortona, Casale.
Costui, sentendosi forte, facea da padrone; onde l’arcivescovo si
guadagnò le case Carcano, Castiglioni, Mandello, Pusterla ed altre
caporali; e côlto il destro che colui stava fuor di città, occupò
il Broletto, chiuse le porte in faccia al marchese, e restato unico
padrone, fecesi proclamare signore perpetuo. Il popolo sotto i Torriani
erasi già avvezzo a un padrone; i nobili, da questi abbattuti e spinti
in esiglio, non sentivansi forza a resistere: talchè senza molti
ostacoli la maggiore repubblica dell’antica Lega Lombarda diveniva un
principato.
L’arte e la fortuna giovarono i Visconti a renderlo ereditario ed
abbracciarvi tutta Lombardia, spodestando o ereditando de’ principotti
insignoritisi di ciascuna città.
E l’un dopo l’altro tutti i paesi che erano usciti repubblicani dalla
pace di Costanza, si restringeano a signoria di un solo, e invece di
giovarsi dell’interregno per consolidare le proprie costituzioni, si
disperdevano in superbie iraconde; invece della ragionevole soggezione
per cui gli Stati fioriscono, riottavano nell’anarchia, che fa parer
desiderabile la servitù. Tutti gli uomini si erano dati a una fazione,
e le fazioni sempre si danno a un uomo, il quale trovasi padrone di
quanti ad essa si addissero, e che non gli domandano se non di farla
trionfare; trionfato, attribuivano i poteri ad un capitano o difensore
del popolo, e glieli prorogavano per tre, cinque, dieci anni, abituando
lui a principare, sè ad obbedire. E poichè il popolo vincitore
sentivasi inetto a governare, se ne rimetteva a qualche signore,
nobile per lo più, eppure destinato a reprimere i nobili. Così nella
moderna Inghilterra si ebbe sempre bisogno di un lord, anche per far
provvedimenti contro i lord.
Consueto effetto delle rivoluzioni, non si esitava a sagrificare la
libertà ad un nome vano, alla passione del momento, diritti smisurati
commettendo ad un’assemblea o ad un magistrato. Milano nel 1301 al
capitano del popolo, al giudice della credenza di Sant’Ambrogio e al
priore degli anziani del popolo concedeva la podestà più preziosa,
quella di far leggi. I popolani fiorentini riusciti vincitori, «a ser
Lando da Gubbio puosono uno gonfalone di giustizia in mano, e diengli
imperio sopra chi attentasse contro li Guelfi e lo presente stato;
il quale bargello avea balìa niuna solennità servare, ma di fatto
senza condannazione procedere in avere e in persona». Nel 1380 fecero
riformagione che gli otto di _balìa_ potessero spendere diecimila
fiorini, senza darne conto segreto o palese, in perseguire e far morire
i ribelli del Comune in ogni forma e via e modo che a loro meglio
paresse[13]. Altrove le balìe, i _cinque dell’arbitrio_ o simili
riceveano mandati temporarj, che intepidivano la gelosa cura della
libertà e spianavano il calle alla tirannide.
Rimosso il pericolo della dominazione forestiera e cresciute le
dovizie e gli agi del vivere, i cittadini si applicarono all’industria
smettendo le armi. Ne crebbero d’importanza i nobili, i quali dalla
fanciullezza si educavano agli esercizj e a portare un’armadura di
ferro a tutta botta, sotto la quale invulnerabili dalle picche della
milizia cittadina, trionfavano quasi senza pericolo; la sicurezza
del vincere crescea baldanza di osare, e facilmente argomentavansi di
dominare sopra gente ch’era invalida a resistere. Più lo fecero quando
i capitani di ventura posero il valore a servizio di chi pagava, e
patteggiavano coi tirannelli per sostenersi, o aspiravano essi medesimi
al primo grado.
Il tempestare cittadino aveva indotto stanchezza, e sempre è il
benvenuto chi, all’estremo d’una rivoluzione, giunge a ricompor le
cose, quand’anche al tumulto sostituisca l’abjezione e il letargo.
Voi che vedeste i Romani, repubblicani affocati, acconciarsi alla
stemperata tirannia degl’imperadori, non istupirete che di nuovo i
ridesti Italiani soffrissero i duri sproni de’ tirannelli. Del cadere
sotto un signore soffrivano i grandi, impediti dai loro arbitrj e dagli
sfrenati appetiti d’una più o men ristretta oligarchia: ma la plebe si
trovava giovata del non esser più esposta alle ire di tutta una parte,
e al soperchiare d’ogni emulo e d’ogni avversario; e dell’obbedire,
anzichè a molti, ad un signore solo e lontano, il quale non avrebbe
passione d’offendere gl’individui, anzi interesse di procacciare il
fiore di tutti: e ne sperava quella giustizia e quella sicurezza che,
se non un compenso, sono un ristoro alla privazione della libertà.
Contenta della quiete interna, del freno posto agli oligarchi, degli
spettacoli e delle pompe, ne voleva bene ai principi; e contro quegli
stessi che ci sono dipinti pei peggio ribaldi, rado o non mai la
vedremo insorgere, benchè non mai cessassero quelle congiure di pochi,
che fallendo rinfiancano la potenza che aveano inteso demolire. I
letterati e i leggisti, dei quali crescevano il numero e l’importanza,
attingevano dal diritto romano canoni di servilità, e sempre aveansi
in pronto una diceria, colla quale alle assemblee popolari persuadere
i vantaggi della tirannide. I nobili, a cui danno cadeva questa
rivoluzione, ribramando il passato e invidiando gli uomini nuovi, pur
non sapevano affratellarsi nè ai Comuni nè tra sè in quell’accordo,
che in altri paesi li ridusse opportuno contrappeso alla monarchia
nascente: pertanto poneansi a corteggiare il signore onde ottenere
qualche brano di autorità, di godimenti, di arroganza; o gittavansi
a macchinazioni, che porgeano a quello buona ragione di sterminarli
o comprimerli. Insomma mancava a tutti il sentimento della legalità,
fosse per assodare le repubbliche, fosse per temperare i principati.
E le repubbliche a breve andare mutavansi in signorie senza
avvedersene, come senza avvedersene erano salite alla libertà. I
tiranni (tal nome i nostri, al modo greco[14], davano a coloro, buoni o
malvagi, che usurpavano dominio in libera terra) aveano cura di farsi
decretare solennemente, dagli anziani o dalle assemblee popolari, il
titolo e i poteri di signori generali per tempo limitato, e ricevere
l’investitura colla tradizione dello stendardo e del carroccio.
Faceasi dunque mostra di rispettare la sovranità del popolo; sicchè,
al governo monarchico innestando forme costituzionali, pareva dovesse
impedirsi il despotismo, le magistrature popolari moderare i signori,
che di rimpatto resterebbero protetti dalle leggi e dalla nazionale
garanzia. Ma come in Roma gl’imperatori dominarono assoluti perchè
rappresentavano il popolo sovrano, così questi tirannelli nessun limite
legale trovavano ad un potere che dal popolo era attribuito.
Non era dunque necessario frutto della democrazia la tirannide,
bensì conseguenza aristocratica, giacchè ogni oligarchia è gelosa ed
esclusiva, e chiede ingrandire a scapito degli altri. La tirannide
poi serviva effettivamente gl’interessi popolari, elevando gli infimi
contro i prischi prevalenti: per modo che, quand’anche fosse cacciato
il tiranno, rimaneva la gente nuova ed estrania, da lui assisa sui
beni confiscati. Allora i primi spogliati s’affacciavano alla riscossa,
cacciavano la gente nuova, faceano nuovo spartimento, e quella vicenda
irrequieta non lasciava tampoco il riposo, che erasi sperato compenso
alla servitù.
Le rivolte non erano impeti di libertà; voleasi cangiare di signoria,
ma il governo restava pur sempre militare e dispotico, giacchè
ai disuniti bisognavano capi assoluti; s’applaudiva ai giudici
che castigassero i caduti dominatori, per quanto eccedessero; i
partigiani dei nuovi pretendeano franchigie e indipendenza; i vinti
fuoruscivano, istituendo un governo tirannico perchè indipendente dalla
pubblica volontà, e che pretendeva dal di fuori governare la patria,
sovvertirla, mutarla; il nuovo padrone secondava le proprie passioni,
e conoscendosi vacillante, si reggea con politica subdola e giustizia
inumana, gettando a spalle ogni moderazione e generosità.
Il dominio che una città aveva già acquistato sopra altre, diveniva
una signoria, che gli ambiziosi attendevano ad ampliare; onde l’Italia
settentrionale, che alla pace di Costanza trovavasi sminuzzata in tante
repubbliche quante città, queste vide aggregarsi attorno ad alcuni
centri, e formare gli Stati nuovi, la cui storia così varia è ribelle
a quel procedimento sistematico che si rivela dove un signore unico
determina o almeno dirige gli avvenimenti d’un paese.
CAPITOLO XCV.
Toscana.
La salda dominazione degli antichi marchesi Bonifazj aveva impedito
alla Toscana di ridursi libera come le città lombarde ma estinti quelli
colla contessa Matilde (1115), le dispute che intorno alla costei
eredità si agitarono fra i pontefici e gl’imperatori, offrirono ai
Comuni il destro d’emanciparsi, e agli uni o agli altri appoggiandosi
acquistar privilegi, o nella lotta usurparli[15]. Federico II, erede
dell’ultimo duca di Svevia fratello del Barbarossa, vi tenne de’
vicarj, ma ognora più scadenti d’autorità, e ricoverati in qualche
terra castellata, come Sanminiato, che perciò fu detto al Tedesco.
Del territorio rimanevano in dominio signori forestieri; o longobardi,
come i marchesi di Lunigiana, i conti Guido, quei della Gherardesca;
o franchi, come i marchesi Oberto, quei del Monte Santa Maria, i conti
Aldobrandeschi, gli Scialenga, i Pannochieschi, gli Alberti del Vernio,
della Bevardenga, dell’Ardenghesca, e così via.
Fiesole, avanzo delle città onde gli Etruschi aveano coronato le alture
italiche, già da Cicerone notata per gran lusso e spese d’imbandigione,
deliziosi poderi, fabbriche suntuose, mutati i tempi, avea ridotto
a battistero un bellissimo avanzo di antichità pagana; eretto il
duomo, ove nel 1028 il vescovo Jacopo Bavaro trasportò le reliquie
di san Romolo patrono della città; e di lassù le famiglie patrizie
minacciavano gli uomini del piano. Ma era giunto il tempo che questi
a quelle prevalessero; e Firenze, inferiore per postura a Fiesole come
a Pisa per opportunità di commercio, maturava la libertà, che a lungo
dovea poi custodire e sempre amare. La prima adunanza generale di
popolo vi si tenne il 1105 per istanza del vescovo Ranieri: la prima
impresa che se ne rammenti è la spedizione del 1113 contro Ruperto
vicario imperiale, il quale, postato a Montecáscioli, bicocca dei conti
Cadolingi, molestava i Fiorentini, finchè essi non l’ebbero scovato e
ucciso, e spianata la sua rôcca.
Trascinata da Pisa nella briga contro Lucca, Firenze conosce le proprie
forze, e le usa a sottomettere i castellani; «perocchè in tutte le
terre sono molti nobili uomini, conti e cattani, i quali l’amano più
in discordia che in pace, e ubbidisconla più per paura che per amore»
(DINO COMPAGNI); abbatte i castelli, che impacciano il traffico e
ricoverano i prepotenti; obbliga le famiglie antiche a scendere dalla
minacciosa Fiesole[16], e i popoletti ad accettare le sue leggi,
come fece coi cattani di Montorlandi e con quei di Chiavello, che,
riscattatisi dai conti Guido, s’erano collocati in un bel _prato_ sul
Bisenzio, donde prese nome la lieta città che vi fabbricarono[17].
Dai Buondelmonti, che nel castello di Montebuono esigeano pedaggi
da chiunque passasse, non potendo ottener ragione, Firenze li vinse
(1143), ed obbligò a venire in città. Dal conte Uggero volle promessa
di non far male ad alcun Fiorentino, anzi ajutarli, esser con loro
in guerra, abitare tre mesi in città, dando in pegno i castelli di
Collenuovo, Sillano, Trémali. I signori di Pogna, che non posavano di
molestare il Valdelsa, furono domi coll’arme, e demolite quella e le
torri di Certaldo e quante n’erano sin a Firenze, che che strepitasse
il Barbarossa di questa che a lui pareva lesione del potere imperiale.
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