Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 29

_croce del campo_, che credesi fosse portata in cima a un vessillo dai
crociati in quella spedizione. A San Geminiano in Toscana pretendono
che i Baccinelli andassero con altri alla prima crociata, e ritornando,
colle spoglie de’ nemici, ergessero una magione di Templari sotto
l’invocazione di San Jacobo.
Della credulità si abusò per moltiplicare reliquie, e non fu paese
che non volesse averne di Terrasanta; e ciascuna fu autenticata da
miracoli, certo non meno credibili delle mille baje che la critica
moderna raccoglie ogni dì dalle gazzette, e dalle storie che sulle
gazzette si compilano.
Alcuni monaci portarono da Gerusalemme a Montecassino un pezzo del
tovagliuolo con cui Cristo asciugò i piedi agli apostoli; e vedendosi
poco creduti, il posero in un turibolo, e all’istante divenne color
di fuoco, e ne fu tolto intatto, e riposto fra oro, argento e gemme.
Altri pellegrini navigando con uno de’ santi chiodi, giunti davanti
a Torno sul lago di Como, non poterono più progredire, e dovettero
lasciarlo colà, dove si venera ancora. Allorchè Saladino spediva in
dono all’imperatore di Costantinopoli la vera croce, un Pisano trovò
modo d’involarla, e traversando i mari a piede asciutto, la recò alla
sua patria: ma un Dondadio Bo Fornaro genovese diceasi aver trovato
in una nave di Veneziani essa croce, e toltala per arricchirne la
sua città; e questi doppj sono vulgare soggetto d’epigrammi. L’anno
che Acri fu presa, parve che la santa casa dove Cristo era cresciuto
sdegnasse rimanere in una terra contaminata da Infedeli, e da Nazaret
fu dagli Angeli trasportata a Tersacto di Dalmazia: statavi tre anni,
eccola trasferita di qua dall’Adriatico, e deposta in una macchia sui
poderi di una Lauretta di Recanati: i pastori la mattina trovarono
quest’edifizio dove mai non n’aveano veduto, e tosto cominciò affluenza
di forestieri e di doni, tanto che là presso si fondò una città detta
Loreto.
Roma fu piena di devoti cimelj, ed oggi ancora i sacristani vi
riportano continuamente coi loro racconti ai tempi delle crociate e
ai portenti compilati nel libro de’ _Sette Viaggi_. Padova tiene le
spoglie di tre degli Innocenti, di Levante portate dal beato Giuliano
in Santa Giustina. L’altare di santo Stefano a Cremona fu consacrato
il 1141 col porvi alcun che de’ vestiti di Maria Vergine, della
porpora onde fu beffeggiato Cristo, del legno della croce, del santo
sepolcro. A Bologna fra Vitale Avanzi depose una delle idrie in cui
Cristo mutò in vino l’acqua, e ogn’anno esponevasi nella chiesa de’
Servi la prima domenica dopo l’Epifania: un altro di quei vasi era
nella certosa di Firenze. Genova nella crociata dalla Licia portò il
corpo del Battista, e da Cesarea il sacro catino in cui fu operata la
consacrazione nell’ultima cena; dal prode Montaldo, che l’avea ottenuta
dall’imperatore Giovanni Paleologo, ebbe in dono l’effigie di Cristo,
fatta fare da Abgaro re di Edessa, veneratissima in San Bartolomeo,
benchè anche Roma si vanti tenerla. A un Lucchese ito a Gerusalemme
vien rivelato in estasi che il volto santo ed altre reliquie del
Salvatore giaciono ignorate nella cattedrale di Lucca, dove rinvenute,
furono poste in devota venerazione. Non taciamo il santo latte a
Montevarchi, donato a Guido Guerra da Carlo d’Angiò; sul quale diceva
un valente scrittore che «la fede è buona, e salva ciascuno che l’ha;
e chi archimia sì fatte cose, ne porta pena in questo e nell’altro
mondo».
I Pisani vollero dormire dopo morti entro terra della Palestina, e ne
trasportarono di che empire il loro cimitero. I Veneziani recarono da
Scio il corpo di sant’Isidoro, collocandolo in San Marco, dove anche
la pietra dell’altare della cappella del battistero; da Cefalonia san
Donato, ch’è in Santa Maria di Murano; da Costantinopoli santo Stefano,
san Pantalèone, san Giacomo, e l’altre reliquie onde sono ricchissimi
San Giorgio e San Marco. Il cardinale Ugolino, che poi fu papa Gregorio
IX, persuase il doge a fabbricare nelle lagune Santa Maria Nuova di
Gerusalemme, a memoria d’altra del titolo stesso, allora occupata dai
Musulmani.
D’altro genere reliquie piacquero agl’italiani, i capi d’arte della
Grecia e dell’Asia. Già era costume a Veneziani, Pisani e Genovesi
trasportarne; e le loro cattedrali, cominciando fin dalla vetustissima
di Torcello, furono, si può dire, fabbricate con avanzi antichi. Si
estese quest’usanza nelle crociate, e massime da Costantinopoli i
Veneziani trassero insigni lavori, fra i tanti che andarono perduti
in quel fatto; e i cavalli della facciata di San Marco, e i leoni
dell’arsenale, le colonne di San Marco e Teodoro sono trofei di buon
gusto e di violenza.
Alle crociate si riferiscono pure molte fondazioni di spedali per
lebbrosi e pellegrini; e buon numero ne alloggiava in Genova la
commenda di San Giovanni in Pre, del pari che l’ospedale di San
Lazzaro, cui arrivavasi per l’unica via che allora sboccasse in
Polcevera, e un altro in Savona.
Le genealogie vollero tutte innestarsi sopra le crociate, e fu vanto
l’ostentare nel proprio blasone la croce. Anzi il blasone ci venne
dalle crociate e dalla cavalleria, con tutta la raffinatezza degli
stemmi e delle divise. Finchè il cavaliero combatteva attorno al suo
castello, qual mestieri avea di distintivo? uscendo lontano, ciascuno
assumeva una divisa, cioè esprimeva l’affetto o l’intento particolare,
mediante il colore della sopraveste e del cimiero, o qualche disegno
fatto sul pezzo più insigne dell’armadura, qual era lo scudo. Quegli
scudi poi si sospendeano nelle sale avite, testimonianza ai fasti e
vanto ai figli che si piacquero di adottare l’insegna paterna, e così
gli stemmi diventarono ereditarj, e distintivo non più dell’individuo
ma delle famiglie. Nella presente uguaglianza più non è di verun conto
l’araldica: ma lungamente fu arte di arguto studio il disporre gli
stemmi, combinarne gli elementi, cioè i colori e le figure, e leggerli,
e assicurarli come titoli domestici. Se ne moltiplicarono poi gli
elementi e la disposizione, ma sempre i più vantati furono quelli che
mostravano la croce, come indizio che un avo era stato a combattere in
Palestina. I Michieli di Venezia portavano sopra una fascia d’argento i
bisanti d’oro, perchè il doge Domenico Michiel alla crociata, venutogli
meno il denaro, pagò con pezzi di cuojo, che poi al ritorno cambiò in
sonanti. I Visconti di Milano vantavano che Ottone di loro famiglia
avesse, alla prima crociata, ucciso un gigante che portava per cimiero
un serpe con un fanciullo in gola; figura ch’essi adottarono. Il
cardinale Giovanni, legato in Terrasanta, ne riportò la colonna della
flagellazione, che la famiglia Colonna assunse per stemma, d’argento
in campo azzurro; aggiungendovi la corona quando Stefano ebbe coronato
l’imperatore Lodovico il Bavaro, e le quattordici bandiere turche che
Marcantonio acquistò alla battaglia di Lépanto.
Ed altre famiglie dallo stemma dedussero il nome; mentre d’alcune
dietro al nome fu inventato lo stemma, con quelle che si dissero armi
parlanti, come un orso per gli Orsini di Roma e gli Orseoli di Venezia,
un gelso pe’ Moroni, un majale pe’ Porcelletti, un gambaro pei Gambara,
un bove pei Vitelleschi, i Bossi, i Boselli, i Cavalcabò, le coste pei
Costanzo, la carretta pei Del Carretto, pei Canossi un cane coll’osso
in bocca, per gli Scaligeri la scala portante un’aquila. Il vulgo pure
volle avere i suoi stemmi, e il tesserandolo e il merciajo adottava
un’insegna che di padre in figlio trasmetteasi con sollecita cura di
conservarla incontaminata.
I nostri videro il lusso orientale, e si proposero imitarlo; la seta si
propagò, e i tessuti serici di Damasco e quelli di pelo di camello ne
eccitarono l’emulazione; a Venezia s’imitarono i Vetri di Tiro, e ben
presto si fabbricarono specchi di cristallo e conterie; si conobbero
i lavori a cesello e all’agiamina, l’applicazione dello smalto; e
l’oreficeria ebbe grande esercizio nello incastonare le tante gemme e
ornare le tante reliquie tolte all’Oriente.
Esteso il viaggiare non a soli negozianti ma a moltitudini innumere,
vennero sotto gli occhi altri costumi, la qual cosa chi non sa quanto
serva a digrossare i proprj? I Settentrionali in Italia trovavano
civiltà ben più raffinata; a Bologna udivano leggere le Pandette,
in Salerno e a Montecassino scuole mediche, in Sicilia e a Venezia
regolati governi, e i cittadini congregati dar l’assenso alle
deliberazioni del doge; e Giacomo di Vitry, storico di quelle imprese,
ammirava questi Italiani, segreti ne’ consigli, diligenti, studiosi nel
procurare le pubbliche cose, provvidi del futuro, repugnanti da ogni
giogo, di loro libertà acerrimi difensori. Anche i nostri avevano di
che imparare sia dalla civiltà greca ancora in piedi, sia dall’araba
allora fiorente, sia anche dal regolare governo istituito dalle Assise
di Gerusalemme.
I metodi allora introdotti dalla Chiesa per raccorre la decima e le
limosine servirono di scuola per esigere le tasse meno arbitrariamente.
E poichè a queste aveano dovuto sottoporsi anche gli ecclesiastici,
s’imparò a farli coadjuvare alle pubbliche gravezze.
Romanzi e novelle a josa passarono dall’Asia in Europa, eccitando e
pascendo le giovani immaginazioni. La filosofia si valse di quanto le
aveano aggiunto le scuole arabe; la medicina, se non metodi, adottò
farmachi orientali, droghe nuove, nuovi composti; razze di cavalli
arabi, cani da caccia vennero portati; e se Federico II ebbe elefanti
a sola pompa, i Pisani si valsero dei camelli per coltivare la
fattoria di San Rossore, dove ancora non sono dismessi. La cannamele
avea ristorato la sete de’ Crociati, che la trapiantarono in Sicilia,
donde passò in Ispagna, e di quivi a Madera e all’America, per
procacciarci uno de’ condimenti oggi più usitati, lo zuccaro. Certe
cipolle di Ascalona, certe prugne di Damasco allora arricchirono i
nostri giardini; e se a torto si crede venuto di là il granoturco[427],
v’imparammo l’uso dell’allume, dello zafferano, dell’indaco. Vorrebbe
credersi che la vista degli aerei edifizj orientali e degli emisferici
greci producesse l’ordine gotico, certo esteso in quel tempo; e i
furti fatti da Pisa, Genova, Sicilia, Venezia ridestarono l’amore delle
arti belle, che, compostesi a quegli esemplari, s’accostarono ai segni
dell’eleganza.
Tanto movimento di popolo aumentò la marineria, del che principale
vantaggio trassero gl’italiani, i quali lautamente guadagnarono dal
trasportare i Crociati, poi stabilirono banchi su tutte le coste della
Siria, del mar Jonio e del Nero, e convennero di vantaggiosi privilegi
nelle terre sottomesse. Le navi si migliorarono[428], e a’ lenti
tragitti per terra si surrogarono i viaggi per acqua. A vantaggio de’
pellegrini si stesero itinerarj, che, se erano dettati dall’entusiasmo,
valsero però tanto quanto a migliorare la geografia[429].
Continue relazioni mantenne l’Italia coll’Oriente, e ne sono piene
le cronache piemontesi di Benvenuto da San Giorgio; le famiglie più
insigni legarono parentadi coi principi levantini, e sei ne avvennero
tra i marchesi di Monferrato e gli imperiali di Costantinopoli; il
titolo di re di Gerusalemme e di Cipro ornava i duchi di Savoja prima
che altro regio acquistassero. Gli stabilimenti italiani colà durarono
più che quelli d’altra qualsiasi gente, e in modo si diffusero, che
l’italiano era lingua comune de’ traffici sulle coste.
Lasciam dunque ad altri deridere ciò che eccitò l’entusiasmo di due
secoli; e non crediamo inutili queste imprese, che diedero tanto
stimolo al sentimento, alla curiosità, all’immaginazione.

FINE DEL TOMO SESTO E DEL LIBRO OTTAVO


INDICE

LIBRO OTTAVO
Capitolo LXXXI. Origine dei Comuni pag. 1
» LXXXII. Effetti dei Comuni. Nomi e titoli.
Emancipazione dei servi » 60
» LXXXIII. I Comuni lombardi. Lotario II e
Corrado III imperatori. Ruggero
re di Sicilia. Arnaldo da Brescia » 88
» LXXXIV. Federico Barbarossa » 112
» LXXXV. Ordinamento e governo delle
Repubbliche » 153
» LXXXVI. Ultimi Normanni in Sicilia.
Enrico VI » 218
» LXXXVII. Innocenzo III. Quarta crociata.
L’impero latino in Oriente » 242
» LXXXVIII. Ottone IV. Sviluppo delle
Repubbliche, e secondo loro
stadio. Nobili e plebei in lotta.
Guelfi e Ghibellini » 268
» LXXXIX. Frati. Eresie. Patarini.
Inquisizione » 313
» XC. La Scolastica. Efficacia civile
del Diritto romano e del canonico.
Le Università. Le Scienze occulte » 356
» XCI. Federico II. Seconda guerra
dell’investitura » 415
» XCII. Fine degli Svevi e della seconda
guerra dell’investitura » 472
» XCIII. I Mongoli. — Fine delle crociate e
loro effetti. Gli stemmi » 507


NOTE:

[1] SAVIGNY, _Storia del Diritto romano_; — PAGNONCELLI, _Dell’antica
origine e continuazione dei governi municipali in Italia_, 1823 —
RAYNOUARD, _Histoire du droit municipal en France_, 1838.
[2] È l’opinione del Leo, _Entwickelung der Verfassung der
lombardischen Städte bis zu Friedrich I_, 1824; del RAUMER, _Ueber die
staatsrehtlichen Verhältnisse der italienischen Städte_; dell’EICHHORN,
di EKSTEIN, di BEHLMANN-HOLWEG, _Ursprung der lombardischen Städte
Freiheit_, 1846, in confutazione del Savigny, dell’Hegel ecc. Fra i
nostri la sostennero Cesare Balbo e Carlo Troya. Secondo questo, i
Romani spossessati da Autari mai più non entrarono nel Comune; bensì
i Romani giustinianei e teodosiani, cioè quelli sopravissuti in paesi
ove si mantennero in vigore il diritto giustinianeo e il teodosiano;
ma neppur questi mai non si pareggiarono ai dominatori, fin al tempo
di Ottone I, quando tolsero la superiorità ai Franchi; talchè non
ricuperarono i diritti antichi, ma acquistarono quelli dei vincitori.
[3] Dissi _quasi_, acciocchè non ci si opponga qualche menzione di
comunità. Nel 764, un Crispino fonda e dota la chiesa di San Martino
d’Ussiano, lasciandone il patronato ai vescovi di Lucca; e nel
descrivere i confini dei beni dice: _Alia petiola de terra mea, qui est
similiter tenente capite uno in via publica et in ipso rivo Caprio,
et vocitatur ad Campora _communalia__. Ma era il Comune de’ vinti,
o quel de’ vincitori? Più conchiuderebbe il diploma dell’imperatore
Lamberto (_Antiq. M. Æ._, VI. 341) che a Gamenulfo vescovo di Modena
nell’898 concede e conferma tutti i beni, e la giurisdizione sui
medesimi anche nella città, soggiungendo: _Sancimus etiam pretaxate
ecclesie, juxta antecessorum nostrorum decreta, loca in quibus predicta
civitas constructa est, stabilia maneant cum cancellariis, quos prisca
consuetudo prefate ecclesie de clericis sui ordinis ad scribendos
sue potestatis libellos et feothecarios habeat; vias quoque, portas,
pontes, et _quicquid antiquo jure eidem civitati ac curatoribus
reipublice solvebantur_, nostra vice liberam capiendi debitum ex eis
censum habeat potestatem..._ Qui respublica parmi abbia il senso che
sotto gl’imperatori romani, ed equivalga al fisco. Anche Lodovico II
nell’852, confermando alla chiesa di San Lorenzo di Giovenalta nel
Cremonese il mercato, l’acquedotto e altri diritti, comanda che _nulla
quelibet persona aut quislibet reipublice minister ullam contrarietatem
facere presumat_ (Antiq. M. Æ., II. 868). Merita pure riflesso la
costituzione di Carlo Magno del 787, dove conferma il dazio da pagarsi
ai porti, già istituito da re Liutprando, stabilendo quel che dovranno
pagare il vescovo di Comacchio, _et ceteri homines fideles nostri
Comaclo civitate commanentes_, sottraendoli dalle eccessive esigenze
dei Mantovani: ivi i Comacchiesi sono sempre trattati in corpo, non
come individui, nè come spettanti a un signore.
[4] Vedilo nel Canciani; e giudicato dal Savigny, V. 132. Hennel
ne scoperse una nuova copia nella biblioteca di Sangallo, che è
desiderabile venga pubblicata. Il signor Bunturini promise una nuova
lezione assai migliorata del testo udinese, che noi potemmo esaminare.
C. HEGEL (_Gesch. der italienischen Städtefreiheit_, Lipsia 1847)
attribuisce quel documento alla Curia Retiense cioè al paese de’
Grigioni.
[5] Uno de’ più antichi esempj raccolgo dal _Codice diplomatico
bresciano_, ove nel 781 Carlo Magno a Radoara badessa di San Salvadore
in Brescia conferma i possessi _sub immunitatis nomine; quatenus nullus
judex publicus ibidem ad causas audiendas, vel freda exigenda, seu
mansiones vel paratas faciendum, nec fidejussores tollendum, nec nullas
redibitiones publicas requirendum, judiciaria potestas quoquo tempore
ingredere nec exactare non presumat_.
Poi nell’822 Lodovico imperatore alle monache stesse, conforme alla
carta d’immunità concessa da suo padre, ordina che _nullus judex
publicus, vel quislibet ex judiciaria potestate in ecclesias aut agros
et loca et reliquas possessiones, ad causas audiendas, vel freda
exigenda... ingredi audeat; sed liceat conjugi nostrae_ (Giuditta)
_atque successores ejus cum omnes fredos concessos, et cum rebus_ VEL
HOMINIBUS LIBERIS _seu comendatis ad idem monasterium pertinentes, sub
immunitatis nostrae defensione quieto ordine possidere_.
[6] Vedi qui sopra la nota 3.
[7] Espone che il vescovo mandò a lui dicendo, _eandem urbem
hostili quadam impugnatione devictam, unde nunc maxime sævorum
Ungarorum incursione et ingenti comitum, suorumque ministrorum
oppressione tenebatur, postulantes ut turres et muri ipsius civitatis
rehedificentur studio et labore præfati episcopi, suorumque
_concivium_, et ibi confugentium sub defensione ecclesiæ beati
Alexandri in pristinum rehedificentur, et deducantur in statum_.
Alle quali suppliche annuendo, egli stabilisce che sia ricostrutta
_civitas ipsa pergamensis, ubicumque prædictus episcopus et _concives_
necessarium duxerint... Turres quoque et muri, seu portæ urbis... sub
potestate et defensione supradictæ ecclesiæ et prænominati episcopi
suorumque successorum perpetuis consistant temporibus; domos quoque
in turribus, et supra muros ubi necesse fuerit, potestatem habeat
aedificandi, ut vigiliæ et propugnacula non minuantur, et sint sub
potestate ejusdem ecclesiæ beati Alexandri. Districta vero omnia ipsius
civitatis, quæ ad regis pertinent potestatem, sub ejusdem ecclesiæ
tuitione, defensione et potestate predestinamus permanere etc._ Ap.
LUPO, lib. II. Merita troppo poca fede l’Odorici perchè si accolga
il documento del 13 maggio 909 da lui pubblicato, ove re Berengario
riferisce che Troilo Volungo e Pamfilo de Lanternis(?) _legati_
COMUNITATIS NOSTRÆ _de Lonato comitatus Brixiæ_ gli esposero i danni
recati dagli Ungheri, e a nome dell’arciprete Lupo, del clero, di tutta
la plebe di quel luogo, imploravano che, sovrastando ancora la rabbia
de’ Barbari, possano costruire fortezze e mura a difesa de’ fedeli e
delle cose sante; il che egli concede.
[8] Vedi MORIONDI, _Monum. Aquensia_, I. 7. 9. 14. 21. 26; — GIULINI,
II. 340. 353; — LEO, _Vicende delle costituzioni delle città lombarde_,
part. III. § 2.
[9] Ottone I al vescovo Anpaldo di Novara nel 969 concedeva la
giurisdizione della città e d’un circuito di 24 stadj, vietando
_ne aliquis ejusdem civitatis quandocumque habitator, murum ipsius
civitatis ad portas vel pusterulas faciendas sine episcopi jussu
frangere præsumat_.
Nel 1013 già Novara era in grado di resistere ad Arduino marchese
d’Ivrea, e nel 1110 ad Enrico V, e Ottone di Frisinga al tempo di
Barbarossa la qualificava _non magna, sed muro novo et vallo non modico
munita_.
[10] _Monumenta Historiæ patriæ_, Chartarum II. 49.
[11] _Antiq. M. Æ._, VI. 47; AFFÒ, II. 13.
Del 1037 Corrado conferma al vescovo d’Ascoli la donazione di Ottone:
_Omnem terram sui episcopii, tam ad matricam ecclesiam pertinentem
infra et extra civitatem suam, quam ad ceteras capellas sive
monasteria... Monetam etiam in civitate construere... et quidquid ad
regiam censuram et potestatem nostram pertinet, transfundimus in ejus
et successorum illius jus et dominium._ Lo conferma nel 1045 Enrico
re ad altri. _Archivio capitolare d’Ascoli._ Vedi _Giornale Arcadico_,
vol. XLIII.
[12] TIRABOSCHI, Storia della badia di Nonantola, II. 188: _Confirmamus
tam mutinensi ecclesiæ quam ejus civibus universos bonos usus quos
antiquitus habuerunt._
[13] _Prædictum districtum et aquam ac ripam Padicam omni theloneo seu
curatura atque ripatico a Dulpariolo usque ad caput Adduæ, cunctasque
piscationes cum molendinorum molitura et navium debito censu, et omnes
rectitudines et redibitiones et forum seu ceteras consuetudines, et
vias publicas, et cætera quæ in præceptis et notitiis antecessorum
nostrorum continentur._ Ap. CAMPI, _Hist. eccl._, I.
[14] _Antiq. M. Æ._, I. 708. E nel 1084 concedeva al monastero di San
Zenone a Verona _liberos homines, quos vulgo arimannos vocant... cum
omni debito, districtu, actione atque placito_.
Al 2 luglio 1070 Enrico IV re dona alla chiesa di Vercelli il Casale
coll’arimannia, e con tutto il servizio del contado Odalingo con tutti
gli arimanni, e del contado Albalingo con tutti gli arimanni, Ocesingo
con tutti gli arimanni, e così Momelerio, Selvolina, Redingo _cum
omnibus arimannis_. _Monum. hist. patr._, Chartarum I. p. 622.
[15] _Nullam deinceps vel eorum filii aut descendentes publicam
functionem vel angariam, seu ullum servitium aut ullam districtionem
cuique hominum faciant, vel usque in perpetuum persolvant; sed sub
potestate pretaxati monasterii perenniter permaneant, præter nostrum
regale fodrum quando in regnum istum devenerimus, et sculdassiam quam
comitibus suis singulis annis debent._ Ap. LUPO, lib. II.
[16] D’ARCO, _Nuovi studj intorno all’economia politica del municipio
di Mantova_, 1846.
[17] Paragonisi la nota 12.
[18] Di fatto Lotario II nel 1133 attribuiva a questa città _arimanniam
cum rebus communibus ad mantuanam civitatem pertinentibus_. Del
1056 si ha l’investitura _Elisei episcopi Mantuæ facta communi et
universitati et hominibus Mutuæ de tota aqua Padi_: al qual uopo due
_sindaci et procuratores communis_ pagarono ad esso vescovo quaranta
lire imperiali per essere investiti di quel diritto. Altrove i nobili
erano detti Lombardi; per es. negli statuti di Pisa, lib. I. rubr. 109:
_Non patiemur aliquem vel filium militis vel nobilem vel lambardum
etc._; nel registro dei censi della chiesa romana: _Quidam milites,
qui dicuntur Lambardi_; e ap. TARGIONI TOZZETTI, _Viaggi_, I. 89, ove
_Cattani et Lambardi de la Quercinola, Lambardi de Aquaviva etc._
[19] _Legge_ XXXI delle aggiunte alla Longobarda, e la IV delle _Leggi
longobarde_.
[20] CAMPI, _Hist. eccl._, I. 480.
[21] _Antiq. M. Æ._, I. 1020 e 493.
[22] _Monum. Hist. patriæ_, Chart. II. 191.
[23] _Ut omnes homines possint cum fiducia cambiare et vendere et
emere, juraverunt omnes cambiarii et speciarii, qui ad cambium vel
species stare voluerint, quod ab illa hora in antea non furtum faciant
nec treccamentum aut falsitatem, infra curtem Sancti Martini, nec
in domibus illis in quibus homines hospitantur... Sunt etiam insuper
qui curtem istam custodiunt, et quicquid male factum fuerit, emendare
faciunt._
[24] LUPO, _Cod. dipl. Berg._, tom. II. 621 e 773.
[25] TARGIONI TOZZETTI, _Viaggi_, I. 143.
[26] _Breve recordacionis de concordia hominum Clavennatum et
Pluriensium. Jurare debent quatuor homines de Clavenna et de Pìuri
de guidare comune de Clavenna et de Pluri et eorum bona et personas
bona fide, sine fraude in pace et in guerra; et de illis rebus quæ
venient eis inter manus _per istam consulariam_ non facient furtum, nec
consentient facienti; et illud quod remanebit in fine suæ consulariæ de
quæstu quod ipsi fecerint, partientur inter Clavennates et Plurienses,
ita scilicet ut Clavennates habeant tres partes, et Plurienses quartam
sine fraude: et si dispendium fuerit factum pro comuni de Clavenna,
sine fraude illi de Pluri solvere debeant quartam partem et Clavennates
tres partes etc._
È citato nella decisione che Anselmo Dell’Orto, console di Milano nel
1155, diede sopra una quistione fra i consoli di quei due luoghi;
riportata dal padre Allegranza, _Dell’antico fonte battesimale di
Chiavenna_. Venezia 1765.
[27] Il più antico statuto che si conosca fatto da una corporazione
in Lombardia sarebbe dell’835, con cui alla corte imperiale di
Castelvetere, donata a Santa Maria di Cremona, i canonici di questa
dettano statuti; che nessun uomo di quella venda o tenga albergo o
taverna senza licenza loro, pena trenta soldi: non tener giuoco o
bisca o meretrice; non rubare; non accoglier pubblico bandito o ladro;
e si stabilisce la pena per chi ferisca in rissa, tiri pei capelli,
faccia adulterio, guasti una fanciulla. I quali statuti furon letti in
presenza di molti uomini di Castelvetere, e ricevuti e giurati da essi.
— È pubblicato dall’Odorici nell’_Archivio storico_, nuova serie, tom.
II., pag. 39, ma potrebbe esser falso come altri di quella provenienza.
Un de’ primi atti di Comune sarebbe quello che cita esso Odorici al
969, in cui re Ottone al Comune ed università di Maderno, nel Bresciano
presso al Benáco, che aveangli mandato deputati per chieder la conferma
della loro immunità, rimette tutti gli ossequj, usi, dazj che ai
predecessori suoi soleano retribuire, assolvendo i Madernesi da ogni
nodo di servitù, dando facoltà di pesca e caccia per tutto il lago e
di farvi quel che credono, e considerandoli liberi con tutte le loro
adjacenze, vigne, oliveti, campi colti e incolti, mobili ed immobili,
telonei, ripatici, ostiatici; volendo che tutte queste cose vengano in
diritto e proprietà d’esso Comune e università di Maderno in perpetuo.
Peccato che l’Odorici non garantisca abbastanza i documenti che
produce: affinchè, s’egli non è uomo da ingannare, assicurasse pure che
non venne ingannato.
[28] Sotto l’896, Landolfo seniore indica che ad ognuna delle sei
porte di Milano i Romani avessero formato di quelle opere di difesa,
che essi chiamavano _procestre_ o _clavicule_, e noi _rivellini_; e
li dice altissimi e di pianta triangolare. Senza credere appartengano
ai Romani, se ne induce, primo, l’antichità di tali fortificazioni,
che alcuni vorrebbero inventate solo nel XV secolo; secondo, che la
città non doveva essere stata rasa affatto da Uraja, come ci vogliono
dare a credere, se trecent’anni dipoi v’aveva mura sì antiche da non
ricordarsene la costruzione.
[29] DANDOLI, _Chron._, lib. VIII. c. 16.
[30] _Antiq. M. Æ._, diss. II.
[31] _Monum. Hist. patriæ_, Chart. II.
[32] _Monum. Hist, patriæ_, 998.
[33] _Arch. diplom. sienese, Pergamene_, n. 14 e 21.
[34] _Constitutiones quas habent de mari sic iis observabimus, sicut
illorum est consuetudo. Nec marchionem aliquem in Tuscia mittemus sine
laudatione hominum duodecim, electorum in colloquio facto sonantibus
campants._ Antiq. M. Æ., diss. XLV.
_Incipit prologus constitutionum Pisanæ civitatis. Nobis Pisanorum
consulibus, constituta facientibus æquitashortando suasit, omnibus ea
scire atque intelligere volentibus, originem ipsorum et causam atque
nomen exponere, ne, ut ita dixerimus, quasi illotis manibus, nulla
præfatione facta, ex improvisu ad ipsa perveniant._
_Pisana itaque civitas, a multis retro temporibus vivendo lege
romana, _retentis quibusdam de lege longobarda_, sub judicio legis,
propter conversationem diversarum gentium per diversas mundi partes
suas consuetudines non scriptas habere meruit, super quas annuatim
judices possint quos provisores appellavit; ut ex equitate, pro salute
justitiæ et honore et salvamento civitatis, tam civibus quam advenis
et peregrinis et omnibus universaliter in consuetudinibus providerent.