Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 24

e de’ cavalieri Teutonici; e nella chiesa del Santo Sepolcro, tesa
a bruno, abbandonata dai preti, mentre, lui connivente, dai minareti
continuavasi a gridare: — Non v’è altro dio che Dio e Maometto è suo
profeta», Federico colle proprie mani dovette porsi in capo il diadema.
Nè potè ottenere obbedienza neppure sevendo contro i cittadini,
battendo frati, impacciando i pellegrini che venivano per la settimana
santa, e i Templari che voleano rialzar le mura: la sua partenza da
Gerusalemme fu festeggiata quanto l’arrivo; e gli assennati gli faceano
rimprovero di non avere provveduto tampoco nè a conservare gli acquisti
nè ad assicurarvi i fedeli: sì poco gli caleva del regno di Cristo
quando il suo pericolava.
Perocchè in Sicilia il papa gli suscitava nemici mandando nunzj,
compiangendo che quei popoli, sotto un nuovo Nerone, perdessero fino
il desiderio della libertà: — Vi ha forse Dio collocati sotto cielo
sì ridente per trascinare catene vergognose?» Sollecitava anche
soccorsi da’ collegati lombardi, e messo insieme un esercito, lo
affidò a Giovanni di Brienne, che sotto lo stendardo delle chiavi entrò
devastando il reame di suo genero.
Federico, sbuffante vendetta, muove le schiere tedesche ricondotte di
Palestina, e i fedeli suoi Saracini, segnati della croce, combatteano
fieramente contro i papalini, segnati delle chiavi; e messi questi
in isbaratto, recupera le piazze del Regno, invade le terre del papa,
ne stramena i fautori, e gli suscita nemici in Roma stessa. Giovanni
di Brienne era stato chiamato a Costantinopoli a regnare invece del
fanciullo Baldovino II suo genero, e benchè ottagenario si mostrò
eroe nel combattere i Bulgari. I Romani, espulso il pontefice, aveano
gravato di esazioni le chiese, i conventi, i vassalli della santa Sede,
e aizzato Federico alla totale rovina del papa; ma una straordinaria
inondazione del Tevere, considerata come castigo del cielo, indusse e
popolo e senato a richiamarlo in segno di penitenza. I prelati però mal
sopportavano di dover contribuire alle spese a titolo della crociata;
alle città lombarde pesava l’essere trascinate in una guerra offensiva,
esse collegatesi solo per la difesa: laonde fu praticato un accordo
(1230), e dopo lunghi dibattimenti si annunziò qualmente l’imperatore
concedeva perdonanza universale, revocava il bando messo sopra le
città lombarde, e prometteva che i benefiziati sarebbero eletti
secondo le leggi ecclesiastiche, nè gravati d’imposte o collette. A
tali condizioni fu prosciolto dalla scomunica, e le campane sonarono
a letizia, il re baciò il piede del papa, n’ebbe la benedizione, e
sedettero alla stessa mensa. I popoli credettero fosse pace, ma non era
che un respiro ch’egli si procacciava per allestirsi all’ultima prova.
Quando i capi erano disuniti, tutte le membra se ne risentivano, e
l’Italia peggio che mai trambustava, facendo guerra Venezia a Ferrara,
Padova e Brescia a Verona, Mantova e Milano a Cremona, Bologna a Imola
e Modena, Parma a Pavia, Firenze a Siena, Genova a Savona ed Albenga,
Prato a Pistoja; signorotti feudali saliti a gran potenza mescolavano
battaglie fra sè o colle città; e ai rancori ed alle ambizioni private
pretessevasi il nome del papa o dell’imperatore.
Questi convocò la dieta in Ravenna (1231), ma al tempo stesso da
Germania invitava coll’esercito il figlio Enrico: di che adombrate
le città, e mal fidandosi alle assicurazioni nè del papa, nè
dell’imperatore, abbarrarono i passi, tanto che Enrico rimase di là, e
Federico rinnovò il bando contra la Lega Lombarda, cassando qualunque
diritto mai avessero ottenuto le città di quella. Mancando però
d’esercito, le minaccie non fecero che rinserrare quella Lega. Milano
mette in ordine sette capitani con mille uomini a cavallo ciascuno,
giurati a sostenere la libertà, e morire in campo piuttosto che
fuggire; disponeva delle forze di Parma, Piacenza, Novara, Vercelli,
Alessandria, benchè indipendenti; ed essendosi Tommaso conte di Savoja
tenuto sempre fedele all’imperatore, dal quale anzi fu costituito
vicario, i Milanesi si spinsero fin nelle Alpi, e per sorreggere
alcune terre a lui ribellate fondarono il Pizzo di Cuneo, che poi dovea
divenire una delle primarie fortezze di quella casa e dell’Italia.
A Federico poi si ribellavano i proprj paesi, da lui fraudati delle
consuetudini municipali, e specialmente Messina, avvezza a reggersi
con stratigoti proprj: ond’egli moltissimi appiccò ed arse vivi;
il castello di Centoripa distrusse dalle fondamenta; Gaeta, benchè
amnistiata, fe spoglia dell’antico diritto di eleggere i consoli,
e circondò di trenta fortini: insomma questo eroe, magnificato da
coloro che venerano in lui l’antagonista de’ papi, trovò continuamente
rivoltose la Puglia e la Sicilia, nè seppe frenarle che collo spediente
dei tiranni, le fortezze.
Appoggio gli erano, dopo i Saracini, i signorotti ch’eransi eretti
tiranni di alcune città e provincie, e che dai diplomi di lui (1215)
credeano trarre legittimità e fermezza. Principale tra questi fu
Ezelino da Romano, che succeduto ad Ezelino il Monaco suo padre,
all’avito dominio aveva aggiunto Bassano e Treviso, poi anche Verona
e Padova, secondato dal fratello Alberico e dai Ghibellini della Marca
Trevisana; e con una fermezza che non si arrestava alla necessità del
sangue e del delitto, era divenuto il più spaventoso tiranno che la
patria storia ricordi. Vi faceva contrasto Azzo d’Este, con larghissimi
possessi e col favore di tutti i Guelfi: ma Ezelino prevalse alla
venuta di Federico, del quale sposò Selvaggia figlia naturale. In
queste emulazioni la Marca non meno che la Lombardia andava a strazio
di deplorabili guerre, alle quali metter fine non potea la politica,
ma solo qualche armistizio la religione, adoprantesi incessantemente a
questo scopo.
Già vedemmo come essa dettasse la tregua di Dio; e i due nuovi Ordini
di Domenicani e di Francescani furono tutti in attutire gli sdegni,
frammettersi alle baruffe quotidiane, persuadendo e portando la pace
da signore a signore, da una all’altra città; e cuori feroci, cui vigor
di legge o possanza di magistrati non ratteneva, aprivansi alla pietà,
gli stocchi tornavano alla vagina, e nel nome di Cristo fondendosi in
lagrime, il nemico correva ad abbracciare il nemico.
Grandi paci conchiuse il santo d’Assisi; grandi il seguace suo Antonio
da Padova. Nel 1176 i cardinali di Santa Cecilia e di Santa Maria in
via Lata per delegazione pontifizia componeano molte quistioni, agitate
fra le repubbliche di Pisa e Genova rispetto ai loro diritti sopra
la Sardegna[355]. Sui cui esempio frà Guala da Bergamo, che fu poi
vescovo di Brescia, riamicò i Bolognesi coi Modenesi, i Trevisani coi
Bellunesi. In Cremona il popolo della città nuova viveva in cagnesco
con quel della vecchia, e il vescovo Sicardo li riconciliò; e così
coi Vicentini il beato Giordano da Forzatè, coi Milanesi frà Leon
da Perego. Sta manoscritto nella biblioteca Ambrosiana un prolisso
discorso d’un ecclesiastico che esortava alla concordia, e diceva:
— Popolo milanese, tu cerchi soppiantare il cremonese, sovvertire il
pavese, distruggere il novarese; le tue mani contro tutti, e le mani
di tutti contro te... Oh quando fia quel giorno che il Pavese dica al
Milanese, _Il popolo tuo è popol mio_; e il Cremasco al Cremonese, _La
città tua è mia città!_»
I Genovesi aveano contaminato le loro vie di molto sangue civile,
massime per l’odio tra li Avogadri e i marchesi della Volta; quando si
pensò porvi fine. Innanzi giorno ecco toccar la campana a parlamento: e
i cittadini accorrendo attoniti, videro il vecchio arcivescovo Ugo in
pontificale tra il clero con candele accese, e tra cittadini notevoli
con croci alla mano, attorno alle venerate reliquie del Battista;
scongiurava a deporre gli odj e gli sdegni, e giurare sui vangeli
la concordia, che sola poteva salvare la patria. Rolando, capo degli
Avogadri, non poteva indursi a perdonare il sangue di tanti parenti
suoi, de’ quali aveva promesso vendetta; ma tanto insistettero i preti
e i savj, che l’ebbero indotto: poi corsero alla casa dei Volta, che
non erano voluti presentarsi, e li trassero a dare il bacio ai nemici;
e campane a festa e _Tedeum_ celebrarono l’evento[356].
Ambrogio de’ Sansedoni di Siena, che fu poi canonizzato, venne
spedito a predicar la pace in Germania, quindi tornò in patria
per riconciliarla col papa che l’aveva interdetta come fautrice di
Federico, e volle si cominciasse l’emenda dal perdono reciproco.
Un magnate, sazio de’ suoi consigli, lo cacciava come impostore e
vanaglorioso; ed egli: — Dio si chiama re della pace, ma non la dà
se non a chi di buon cuore la conceda altrui. Quel che fo, lo fo per
volontà di Colui che può sopra di me. Se v’irritai, ve ne chiedo scusa,
e se merito supplizio, lo sosterrò di buon cuore per isconto delle
mie colpe». Il forte a tanta umiltà venne a resipiscenza. Ambrogio
predicava continuo che la vendetta è peccato d’idolatria, perchè usurpa
la parte di Dio che a sè la riservò. Non riuscì mai a calmare un di
Siena, sicchè gli disse: — Pregherò per voi», e insegnò una preghiera
siffatta: — Signor Gesù, interponete la podestà vostra a queste
vendette, e riserbatele a voi, acciocchè tutti conoscano che a voi
solo spetta il punire gli offensori»; ed esortava a dirla avanti quelli
che si ostinassero nelle ire. Anche quel pertinace, mentre ordiva co’
suoi consorti di non fare mai pace, la udì, ne fu compunto, e passati
due giorni nella riflessione e nel digiuno, va e prega il santo a
perdonargli e a rimetterlo in pace[357].
Continuò anche in appresso questa pia intromissione, e nel luglio
1273 Gregorio X conciliò una solenne pace in Firenze tra Guelfi
e Ghibellini, e cencinquanta sindaci per parte si baciarono in
bocca in sul greto d’Arno, dove esso papa volle si edificasse una
chiesa che i Mozzi, suoi ospiti e grandi mercanti, dedicarono a san
Gregorio[358]. Ma essendo il giorno stesso tornati a sospetti e a
risse, un’altra concordia fu solennissimamente celebrata il 1280
per mezzo del cardinale Latino nunzio, rogandone atto, e volendo
trecensessantasei mallevadori de’ Ghibellini, trecentottantaquattro
dei Guelfi, e alquanti castelli[359]. L’anno precedente, esso Latino
in Bologna riamicava i Lambertazzi co’ Geremei, in Faenza gli Acarisi
coi Manfredi, in Ravenna i Polenta coi Traversari; e frà Bartolomeo
di Vicenza instituì l’Ordine militare di Santa Maria Gloriosa, per
mantenere in calma le città italiane. Nel 1266 il sartore Giacomo
Barisello a Parma inalbera il segno della redenzione, e forma la
compagnia della Croce di cinquecento seguaci, co’ quali va di casa
in casa riconciliando Guelfi e Ghibellini, e facendoli giurar fede
al pontefice. La compagnia ebbe tale successo, che ottenne uffiziali
proprj, con autorità di giudicare, e d’intervenire negli affari del
Comune, esercitandovi importanza principale per mezzo secolo[360].
Di nuovo il cardinale Nicolò da Prato rappacificò Firenze; e «a
dì 26 aprile 1304, raunato il popolo sulla piazza di Santa Maria
Novella, nella presenzia dei signori, fatte molte paci, si baciarono
in bocca per pace fatta, e contratti se ne fece, e puosono pene a chi
contrafacesse, e con rami d’ulivo in mano pacificarono i Gherardini con
gli Almieri; e tanto parea che la pace piacesse a ognuno, che vegnendo
quel dì una gran piova, niuno si partì, e non parea la sentissono.
I fuochi furono grandi, le chiese sonavano, rallegrandosi ciascuno»
(COMPAGNI).
In Milano, contrastandosi nobili e popolani, si fece compromesso in
quattro frati, e si stette al loro lodo; poi nimicatisi di nuovo, si
accolsero in Parabiago, ove due frati dettarono condizioni d’accordo.
Nel secolo seguente andò a predicarvi pace il beato Amedeo cavaliere
portoghese, che di limosine fabbricò Santa Maria della Pace. Molte
resie private e pubbliche in Valtellina e pel Comasco racconciò frà
Venturino da Bergamo, che indusse diecimila Lombardi a pellegrinare
penitenti a Roma, gridando pace e misericordia, e mantenendosi di
carità. Molto profittarono pure in Lombardia san Bernardino e fra
Silvestro da Siena.
Certamente anche allora potea dirsi, — Perchè frati e preti s’hanno a
mescolare d’interessi mondani?
Ai tempi del nostro racconto, Gregorio IX, struggendosi di acconciare
in buona pace gl’Italiani, sì per dovere di papa, sì per agevolare la
crociata, mandava Nicolò vescovo di Reggio a ricomporre i Modenesi co’
Bolognesi; il cardinale Giovanni della Colonna a calmare i Perugini
inveleniti fra loro, e ripatriarvi gli sbanditi; il cardinale Tommaso
a Viterbo; il cardinale Giacomo da Preneste a Verona a concordare i
Capuleti e i Montecchi, fazioni note per le compiante avventure di
Giulietta e Romeo; frà Gherardo di Modena nella sua patria e a Parma,
dove fu anche costituito podestà per riformare gli statuti; a Piacenza
frà Orlando da Cremona.
Principale in queste missioni fu Giovanni da Schio domenicano, ch’e’
destinò in varj luoghi e nominatamente a Bologna, avvezza gli anni
passati ad ascoltare Francesco, Domenico, Antonio già santi, poi venuta
in urto col papa per le giurisdizioni vescovili, e perciò fin privata
dell’università. Alla voce del frate da Schio si compromisero i litigi,
si scarcerarono i debitori, si rintegrarono gli esuli; ed esso riformò
a suo senno gli statuti, frenò le usure, indusse le donne a vestire
più composto, e tutti a salutarsi col _Sia lodato Gesù Cristo_; e più
nol voleano lasciar partire, tanto che il papa dovette fin minacciarli
d’interdetto. Allora lo inviò a Siena; ma poichè a questa non potè
rappacificare i Fiorentini, il papa li proferì interdetti; ed essi per
capriccio d’incomposta libertà sprezzarono quel castigo.
Frà Giovanni fu destinato principalmente a disacerbare i furori della
Marca Trevisana; e a Feltre, a Belluno, a Treviso, a Conegliano,
a Vicenza, a Padova, per tutto operò prodigi di riconciliazioni;
incontrato come santo fra le bandiere sciorinate, richiamava gli
sbanditi, liberava i prigioni; e quando in Prato della valle a Padova
predicava di stando sul carroccio e contornato dai carrocci delle
altre città accorse, prorompeva dai cuori l’evangelico _Son pur belli
i piedi di chi evangelizza la pace_. Tutto predisposto, frà Giovanni
ordinò un generale ritrovo a Paquara, vasta pianura sull’Adige, tre
miglia sotto Verona. Al cenno d’un frate, tutte le città e le ville
accorsero coi carrocci cantando laudi al Signore; e quindici vescovi,
tutti i baroni delle vicinanze, i conti di Sanbonifazio, i signori
Camino, i Camposampiero, il tremendo Salinguerra di Ferrara, e più
tremendi ancora Ezelino ed Alberico da Romano, vennero per udire
predicarsi carità. Giovanni, salito in pergolo, e preso per testo
_La pace mia vi do, la pace mia vi lascio_, parlò con una eloquenza,
la cui efficacia veniva tutta dallo spettacolo e dalla persuasione
della santità. A parole che ben pochi poteano intendere, ma che tutti
sentivano, e a cui ciascuno sottoponeva quel che il cuore e la fantasia
gli dettavano, avresti veduto quegli iracondi per penitenza picchiarsi
i petti, poi gettarsi un al collo dell’altro, e chiedersi perdono, e
promettersi amicizia. Il frate si valse dell’autorità concedutagli dal
papa per assolvere da interdetti e scomuniche; e alzato il crocifisso,
esclamava: — Benedetto chi conserverà questa pace», e centomila voci
echeggiavano _Benedetto_; — Maledetto chi tornerà sulle risse», e
centomila voci, _Maledetto_.
Se non che queste paci, indotte per impeto di sentimento, combinate
in nome della universale carità, non isvelleano veruna delle cause
delle nimicizie, talchè fra breve si era di ricapo alle armi. Pochi
giorni dopo la spettacolosa concordia di Paquara, gli sdegni erano
riarsi, le spade tinte di nuovo sangue, tutto tornato a peggio che mai
per l’addietro si fosse; e i popolani che aveano inneggiato il frate
santo, lo bestemmiavano uom di parte, venduto ai Guelfi, zimbello del
papa. Egli stesso provocò quegli sdegni colla severità adoprata verso
gli eretici, di cui ben sessanta bruciò nella piazza di Verona; poi a
Vicenza, appoggiato dal popolo minuto, si dichiarò signore e conte,
distribuì a suo senno le magistrature, riformò gli statuti; e colla
solita volubilità popolesca fu cacciato prigione e respinto da un paese
che lasciava in peggiori discordie di prima[361].
Il pontefice, offertosi arbitro tra Federico e la Lega Lombarda,
proferì che l’imperatore dimenticasse ogni offesa, revocasse la
proscrizione, compensasse chi n’avea sofferto pregiudizio; per ricambio
i Lombardi rifacessero i danni all’imperatore ed a’ suoi, e per due
anni mantenessero cinquecento cavalli in Terrasanta. Federico trovò
parziale quel lodo, e lesivo della maestà regia: ma pel papa quelle
repubbliche erano corpi politici legittimi e riconosciuti, nè aveano
peggiorato verun diritto imperiale col rannodare la Lega, a cui erano
stati autorizzati dal patto di Costanza.
Esso papa era tergiversato dai Romani, che gli negavano il diritto di
sbandire un cittadino, esigevano una retribuzione che da immemorabile
la Chiesa dava alla città, infine gli contestavano la sovranità
temporale. Quello a cui s’incurvava tutto il mondo, si trovò
costretto rifuggire in Perugia (1234); Roma tornò repubblica e Luca
Savelli senatore ideò di fondare la Toscana e la media Italia in una
confederazione, che togliesse di mezzo il dominio pontifizio, come
dell’imperiale avevano fatto i Lombardi. Le fazioni scrupoleggiano mai
sui mezzi? Questi repubblicani solleticarono le antipatie di Federico,
chiedendo li sostenesse; ma egli, temendo ancor più la libertà che
il pontefice, esibì soccorsi a questo per tornare al dovere Roma.
In riconoscenza, e perchè la guerra che prevedeva inevitabile non
avesse a frastornare i soccorsi a Terrasanta, Gregorio IX dichiarava
gl’interessi di Federico essere interessi suoi, atteso i grandi servigi
che rese alla Chiesa[362]: s’industriava di tirare i Longobardi a più
larghe condizioni; ma essi indugiarono oltre il termine prefisso, e la
mediazione fu mandata a vuoto dagli avvenimenti di Germania.
Colà sentivasi il ricolpo de’ fatti italiani: ed Enrico lasciato a
governarla, non che difettare della necessaria robustezza, si abbandonò
alle proterve inclinazioni, oltraggiando la moglie, invidiando il
fratello, tradendo il padre, fino a rompere ad aperta ribellione; e
mal sostenuto dai Tedeschi, si drizzò alle città lombarde. Milano,
Brescia, Bologna, Novara, Lodi, il marchese di Monferrato gli esibirono
quella corona (1235) che sempre avevano negata a Federico[363]; e
n’ottennero conferma a tutti i loro privilegi, e che accettasse per
amici e nemici quei della Lega. Pertanto guerra civile e domestica.
Federico soleva menare nel suo esercito come trofeo camelli ed elefanti
che avea condotti dalla sua spedizione in Asia; e i Milanesi saputo che
ne inviava alcuno a’ Cremonesi in segno di benevolenza, assalgono quel
popolo, e a Zenevolta lo sconfiggono: ma Parmigiani, Reggiani, Pavesi,
Modenesi vengono a sostegno di quello, talchè il combattimento si fa
generale, e città e principati si sbranano in fazioni. Dalla Sicilia,
dove sanguinosamente avea chetato i tentativi dei Comuni di recuperare
le fraudate franchigie, Federico traversa inerme la Lombardia, che non
volle profittare della sua umiliazione; e fatto da settanta prelati e
principi dichiarar fellone Enrico, che altamente era disapprovato anche
dal papa[364], lo fa arrestare e tradurre nel forte di San Felice in
Puglia, e ve lo lascia stentare fin alla morte.
Nella dieta da Federico radunata a Magonza, numerosa di ottanta
principi e prelati e di milleducento signori, furono pubblicati molti
savj provvedimenti e una pace pubblica; terminata la lunga lite tra la
famiglia guelfa e la ghibellina, col dare a Ottone il Fanciullo, unico
guelfo superstite, le terre di cui si formò il ducato di Brunswick, e
sulle quali Federico rinunziava ad ogni pretensione. Costui vi sfoggiò
una grandezza, alla quale non mancava se non il sapere moderarla; e
con istraordinaria maestà solennizzò un nuovo matrimonio con Isabella,
figlia del re inglese Giovanni Senzaterra. Una nobiltà di cavalieri e
baroni incontrò la sposa alle frontiere; dappertutto il clero usciva
a suon di campane; a Colonia diecimila borghesi a cavallo, splendidi
d’armi e di vesti, la corteggiarono; minnesingeri in tedesco, trovadori
in provenzale, forse anche siculi in italiano osannavano; mentre da
carri, festonati di tappeti e porpora, mirabile armonia diffondeano gli
organi nascosi; e la notte cori di fanciulle non interruppero mai le
serenate sotto ai balconi della sposa. Quattro re, undici duchi, trenta
conti e marchesi assistevano, e pari alla dignità furono i regali
di Federico; una corona d’oro, collane, giojelli, scrigni, un intero
servizio d’oro e d’argento a ceselli, fin gli utensili da cucina e le
pentole erano d’argento; fra i quali Federico presentò al regio suocero
tre leopardi menati d’Oriente, allusivi allo stemma d’Inghilterra.
Isabella fu sposata per procura da Pier delle Vigne, poi dal re quando
gli astrologi trovarono opportuno l’istante; portava in dote trentamila
sterline, che oggi rappresenterebbero 1,140,000 lire; ebbe in dominio
tutto il val di Màzara, e nel palazzo era servita da eunuchi mori e
siciliani[365].
L’imperatore fece eleggere re de’ Romani suo figlio Corrado; ma più che
il trionfare in Germania lo lusingava il lottare in Italia. La Germania
vedea come gloria nazionale le spedizioni contro la penisola; ma gli
Svevi le ripeterono e prolungarono in modo, che sì gravi sagrifizj
e infruttuosi rincrebbero, non si volle più decretare i sussidj, e
Federico si trovò ridotto ai mezzi che gli offrivano il proprio regno e
i Ghibellini, ed ai mercenarj. Ai pesanti e ferrati cavalieri tedeschi
associò gli scorridori saracini, le rapide evoluzioni moderandone
colle lente mosse di un elefante, che portava una torre sulla quale
spiegavasi lo stendardo, tenendo vece del carroccio e della croce. Ad
esercito così bene assortito e diretto i Lombardi non aveano ad opporre
che milizie d’artieri e contadini raccolti al momento del bisogno,
nè addestrati alla fredda costanza di regolari battaglie. Schivavano
dunque gli scontri in campagna rasa, preferendo aspettarlo in chiuse
mura; e poichè dall’Alpi al Po seguitava una tela di fortezze, lungo
e penoso riusciva il prenderle una dopo una, quanto pericoloso il
lasciarle alle spalle: onde Federico doveva logorare dei mesi sotto a
povere bicocche, come Carcano, Roncarello o Crevalcuore.
Rinserrata l’alleanza (1237), e costituita una cassa comune,
noi attendemmo il Tedesco, il quale confidava principalmente nei
castellani. Schiusagli Verona da Ezelino, uniti a diecimila Arabi
i Ghibellini di Cremona, Parma, Reggio, Modena, sconfisse gli
Estensi, prese Vicenza, costrinse a patti Mantova, orribilmente
stramenò il Bresciano. I Milanesi, accorsi coi Guelfi di Brescia,
Bologna, Vercelli, Novara, Alessandria, Vicenza, lo pettoreggiarono
valorosamente, ma poi lasciatisi sorprendere a Cortenova nel Cremasco
(27 9bre), n’andavano colla peggio. La compagnia de’ Gagliardi avea
però tenuto saldo attorno al carroccio: ma vedendo che al domani
non potrebbero reggere a nuovo assalto, provvidero a ritirarsi, ed
essendo difficile trarre quel pesante carro in terreno molliccio per
natura e per le pioggie, ivi lo abbandonarono sguarnito. Allora sì
che Federico menò vampo! scrisse a tutti i potentati avere ucciso
diecimila Lombardi; fe trascinare quel trofeo dietro al suo elefante
per le città, poi riporre sovra cinque colonne in Campidoglio a Roma,
ove si legge ancora la pomposa iscrizione con cui volle eternare questa
sua vittoria, mentre eternava la sua paura e la nostra prodezza[366].
Avendo côlto fra’ prigionieri Pietro Tiepolo podestà di Milano e figlio
del doge di Venezia, lo fece strozzare.
Se molti Lombardi tentennarono dalla paura, non Milano; non Brescia,
che sembra predestinata a feroci oppugnazioni e a magnanime resistenze,
e che per sessanta giorni resse l’assedio postole dall’imperatore,
ajutata dalle macchine dell’ingegnere Clamendrino, sicchè Federico
bruciò le proprie, e voltò a Cremona. Allora i Guelfi ripigliano cuore,
Genova li sostiene; Venezia, indignata dal supplizio del Tiepolo, si
scopre nemica all’imperatore; Gregorio IX, scontento della fierezza
ond’egli trattava le città lombarde, della predilezione mostrata ai
Saracini, degli arbitrj usati in Sicilia, dell’avversione perpetua alla
Chiesa, e dell’essere mancato al compromesso, s’allea co’ Veneziani,
cedendo loro quanta parte di Sicilia occuperebbero.
Realmente Federico non lasciava sfuggirsi occasione di oltraggiare la
Chiesa. Un nipote del re di Tunisi, convertito dai Domenicani, va a
Roma per farsi battezzare; e Federico lo arresta, dicendo non potersi
trarlo al cristianesimo senza permissione dello zio. Vescovi, côlti,
è vero, colle armi, lasciò straziare e impiccare da’ suoi Saracini;
e smurar chiese per costruirne moschee: a Nocera de’ Pagani erge
un palazzo s’una chiesa distrutta, e dov’era l’altare vi mette la
fogna[367]: dalle sedi dell’Italia meridionale sbandisce i migliori
prelati e gli uccide, e non lascia destinarvi i successori.
Federico corteggiava sempre il Vecchio della montagna, il dey di
Tripoli, che gli pagava tributo, il sultano d’Egitto, che gli mandò
fra altri doni una magnifica tenda con un orologio, stimato ventimila
marchi d’argento, che segnava le ore e il corso degli astri; i loro
ambasciadori teneva a tavola coi vescovi, di che pensate come si
scandolezzassero i Cristiani. La sua Corte somigliava a un harem;
eunuchi negri e nostrali custodivano sua moglie; «teneva mamelucchi e
donne molte, a sfogo di lussuria ed onta della religione; menava vita
epicurea, non facendo conto che mai altra vita fosse»[368]; nè tampoco
s’asteneva dall’oltraggiare la natura. Nè solo papi e frati e guelfi,
ma l’arabo Abulfeda dice che propendeva all’islam _perchè educato in
Sicilia_; ed alcuni suoi frizzi mostrano come sentisse di scemo nella
fede. — Se Dio avesse visto la mia bella Sicilia, non avrebbe scelto
per suo regno la squallida Palestina», esclamò mentre era crociato;
e portandosi il viatico: — Quando si finiranno coteste ciurmerie?» e
trattava da pazzo chi credesse al parto della Vergine, o ad altre cose
repugnanti, secondo lui, alla ragione e alla natura[369]. Si bucinò
anche d’un libro _De tribus impostoribus_, attribuito a lui o a Pier
delle Vigne, ma nessuno lo vide; nè par credibile n’avessero taciuto
i papi ed i fautori loro, che dissotterrarono ogni minimo reato della
famiglia di Svevia: ma che Federico avesse detto, il mondo essere stato
giuntato da Mosè, Cristo e Maometto, era voce tanto diffusa, che Pier
delle Vigne credette doverla smentire in una lettera ove l’imperatore
fa professione di fede: e convenendo che tale diceria correva, ma
deboli essere gli argomenti tratti dal pubblico cicaleccio[370].
L’eresia sua capitale però consisteva nell’impugnare incessantemente
la maestà pontifizia, e svigorire le censure ecclesiastiche[371];
esclamava: — Pur beati i principi asiatici, che non hanno a temere
sollevazione di sudditi, nè opposizioni di papi!» ed avrebbe voluto
ridur Roma a sua capitale, il papa a suo cappellano. Col quale, nuovo
motivo sopravenne di disgusto.
I signori Pisani che avevano occupato la Sardegna, presero il titolo
dalle giudicature di quella, restando vassalli della patria. I papi
pretendeano la sovranità della Sardegna come di tutte le isole, e
Innocenzo III indusse i Pisani a rinunziargliela: ma Ubaldo e Lamberto
dei Visconti di Pisa fecero guerra per proprio conto ai signorotti che
tenevansi a bandiera della Chiesa; onde furono scomunicati (1237), poi
ribenedetti quando riconobbero la supremazia papale, abjurando quella
di Pisa. I Pisani se ne indignano, i conti della Gherardesca si armano,
e Conti e Visconti divengono le denominazioni de’ Ghibellini e de’
Guelfi che straziano Pisa. Federico s’industria a calmarli, e fa ad
Adelaide, vedova di Ubaldo Visconti, signora di Gallura e della Torre,
sposare Enzo suo figlio naturale (1238), conferendogli il titolo di re
di Sardegna, e pretendendo che questa fosse stata distratta dall’Impero
in tempi fortunosi, e dover egli perciò sottrarla alla supremazia
pontifizia.