Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 22
in certo modo la più stomachevole delle malattie.
Caterina da Siena curando e sepellendo una lebbrosa, ne contrasse
l’infermità; ma di subito le mani sue divennero bianche e liscie come
d’un bambino. Francesco d’Assisi, trovatone uno in val di Spoleto,
l’abbracciò e baciò nella bocca cancerosa, e così l’ebbe guarito:
vedendone un altro nel piano d’Assisi, s’accostò a fargli limosina; e
ad un tratto più nol vide, sicchè restò persuaso fosse nostro Signore,
che spesso assumeva quella schifosa sembianza per mettere a prova
la carità. E però Francesco raccomandava a’ suoi frati i lebbrosi,
e congedava i novizj che non sapessero sostenerne la cura. Uno che
per l’impazienza e per le bestemmie era insoffribile a’ frati, tolse
Francesco a curarlo egli stesso, e l’imbonì, e lavò, e «dove toccava
il santo colle sue mani, si partiva la lebbra dall’infermo, e rimaneva
la sua carne perfettamente sana; sì che mentre il corpo si mondava
di fuori dalla lebbra, l’anima si mondava dal peccato dentro per la
contrizione». Dopo rigorose penitenze il lebbroso morì, e comparve
a Francesco e gli disse: — Mi riconosci tu? io son quel lebbroso che
fu sanato da Cristo per li tuoi meriti, e oggi me ne vado alla gloria
eterna; di che rendo grazie a Dio e a te, perocchè per te molte anime
si salveranno quaggiù»[331].
Nelle spedizioni in Asia i nostri poterono profittare della sperienza
degli Arabi, e di fatto allora si conobbero la cassia e la senna:
la teriaca, polifarmaco fondamentale del medioevo, fu da Antiochia
portata a Venezia, che lungamente ne custodì il secreto. Ruggero
di Parma raccomandò la spugna marina per le scrofole, ed eccellenti
pratiche chirurgiche. Rolando di Parma stese un trattato di chirurgia,
commentato poi da quattro Salernitani. Guglielmo da Saliceto
piacentino, uno de’ migliori di quell’età e abbastanza indipendente,
stese con qualche esattezza un’anatomia compendiosa, precedette Willis
nel distinguere i nervi addetti alla volontà o no, e descrive fin
d’allora la sifilide.
Lanfranco di Milano, spatriato quando più non potè opporsi a Matteo
Visconti, rizzò cattedra a Parigi (1295), e trasse tanti ascoltatori,
che celeberrima divenne la scuola dei chirurghi secolari. Sebbene
il chirurgo si tenesse molto inferiore ai medici, che perciò non
si sarebbero prestati alle operazioni, preferendo usare farmachi,
Lanfranco operò spesso, ed è lodevole quel suo dare l’anatomia
dell’organo di cui descrive le lesioni.
Teodorico vescovo di Bitonto osservò da sè, e sostituì le fasciature
di tela ai grandi apparecchi di legno nella frattura di ossa. Taddeo
d’Alderotto fiorentino, filosoficamente illustrando Ippocrate e Galeno,
acquistò tanta reputazione nella sua scienza quanto Accursio nella
legale: eppure delira qualvolta pretende rivelare i segreti delle
arti, nascosti sotto il gergo degli autori. Chiamato ad assistere il
nobile Gherardo Rangone (1285), volle che, per istromento rogato, i
tre procuratori di quello il garantissero d’ogni danno in viaggio,
e che lo ricondurrebbero in Bologna indenne della persona e della
borsa, non molestato da ladri o da nemici, non fermato contro voglia
a Modena; in caso contrario, gli si pagherebbero lire mille imperiali
per ciascuno degli articoli violati; essi poi gli restituiranno tremila
lire bolognesi, che confessano aver ricevuto in deposito: finzione che
vela una remunerazione esorbitante[332]. Al papa domandò cento ducati
d’oro il giorno, perchè più ricco degli altri, i quali gliene davano
cinquanta; onde, finita la cura, ne toccò diecimila. Bartolomeo da
Varignana dal marchese d’Este ebbe per una cura ducensessanta fiorini
d’oro.
Simon di Cordo genovese, medico di Nicolò IV, nella _Clavis
sanationis_, dizionario de’ medicamenti semplici, cercò sbrogliare la
varietà di nomenclatura. Viaggiò trent’anni per scientifico intento
la Grecia e l’Oriente, ma invece di determinare i corpi secondo la
natura loro, si stava a qualità medicinali, e non desunte da sperienza
ma da supposte doti elementari. E appunto i progressi delle scienze
naturali erano impacciati dall’empirismo superstizioso, dalla cieca
venerazione per l’autorità, e dal farnetico di sostituire la dialettica
allo sperimento, aggomitolando interminabili argomentazioni sopra
oziosissime ricerche. Per esempio, chiedevasi se la tal bevanda possa
guarire la febbre, e rispondeasi di no, perchè quella è una sostanza e
questa un accidente, nè quindi l’uno può sull’altro. Poco si studiava
l’anatomia: le operazioni non si eseguivano senza consultare le
stelle, supponendo intimo nesso fra il corpo umano e l’universo, e
principalmente i pianeti: e le scienze sperimentali cedevano il primo
posto alle occulte.
Oggetto di queste era conoscere l’avvenire, scoprir tesori, trasmutare
i metalli, fare amuleti e incantagioni, e comporre il rimedio
universale e l’elisir dell’immortalità: a scopi così elevati qual
fatica aveva a parere soverchia? Sull’avvenire cavavansi presagi da
segni fortuiti, dalle linee della mano, dalle stelle, dai sogni, della
cui divinazione come dubitare dopo quel che Ippocrate n’aveva scritto?
e indovinavasi in fatti alcuna volta, perchè è difficile non riuscirvi
quando si dice un po’ di tutto e vagamente.
L’astrologia, pazza figlia di savia madre, si trova all’infanzia
come alla decrepitezza della società, fra i dotti Romani come fra
semplici Oceanici. L’uomo è centro e scopo della creazione, onde a
lui si riferisce ogni cosa; e se (com’è certo) il sole e le altre
stelle influiscono sulle stagioni, sulla vegetazione, sugli animali,
quanto più non devono sull’uomo, prediletta fra le creature? Le storie
(dicono gli astrologi) e il consenso de’ filosofi antichi s’accordano
nel riconoscere un’analogia fra gli anni della vita e i gradi percorsi
da ciascun segno sull’eclittica. Per iscoprirla, vuolsi accertare
l’effetto degli astri sopra le varie cose naturali, e i computi de’
moti, e certe formole arcane, mediante le quali o crescere le forze
della natura, o determinare l’influsso dei pianeti, massime all’istante
natalizio, od evocare gli spiriti e i morti. Il sapiente che conosca
le occulte proprietà delle cose, non solo indovinerà l’avvenire,
ma opererà su di esso, eccitando odio od amore, scoprendo i secreti
divisamenti, i tesori occulti, i rimedj ai mali, e fin il supremo della
scienza, l’arte di far oro.
I fenomeni della natura sono invigoriti dai numeri, attesochè secondo
questi è disposto l’universo, e possedono arcana efficacia. Di qui la
cabala, che da combinazione di numeri credea divinar le cose arcane, ed
acquistare autorità sopra gli spiriti: e ogni astrologo ed alchimista
si millantava di qualche demone famigliare obbediente a’ suoi cenni.
Così intralciavansi fra sè gli errori, dalla pagana superstizione
tramandatici attraverso alle scuole neoplatoniche e al gnosticismo.
Fu l’astrologia onorata di cattedre, e l’università di Bologna
ne decretava un professore _tamquam necessarissimum_, e principi
e repubbliche ne teneano uno da consultare ne’ più gravi casi.
Ezelino, Buoso da Dovara, Uberto Pelavicino, tiranni formidabili,
tremavano davanti alle potenze incognite, e i calcoli della prudenza
e dell’ambizione sottoponevano alla decisione degli astri e dei loro
interpreti; e nella Vaticana si conservano le risposte che ai loro
consulti dava Gherardo da Sabbionetta cremonese. Federico II voleasi
attorno il fior degli astrologi, a senno loro mutando divisamenti[333];
e quando nel 1239 udì la ribellione di Treviso, fece dalla torre
di Padova osservare l’ascendente da maestro Teodoro; ma non avvertì
(riflette Rolandino) che allora nella terza casa stava lo scorpione,
il quale avendo il veleno nella coda, indicava che l’esercito sarebbe
offeso verso il fine. Stando in Vicenza, volle che un astrologo
gl’indovinasse per qual porta uscirebbe il domani; e quegli la
scrisse in un polizzino, che suggellato consegnò a Federico perchè non
l’aprisse se non uscito. L’imperatore fece una breccia nella mura, e
per quella se n’andò; allora, aperto il foglietto, trovò scritto: _Per
porta nuova_.
Il suddetto Gherardo andò a Toledo per leggere l’_Almagesto_ di
Tolomeo, e lo voltò in latino, come il trattato de’ crepuscoli
di Al-Gazen e altre opere; inventò lo specillo, e la sua _Theoria
planetarum_ leggevasi nelle università[334]. Andalon Di Negro genovese,
arricchitosi di cognizioni nei viaggi, ci lasciò un trattato latino
della composizione dell’astrolabio.
Guido Bonatto da Forlì diede la quintessenza di quanto gli Arabi
n’aveano scritto[335], e coll’ajuto di Dio e di san Valeriano, patrono
della sua patria, discorre l’utilità dell’astrologia, la natura de’
pianeti e loro congiunzioni ed influenze, i giudizj che se ne deducono,
e varie questioni che si possono risolvere con questa scienza. Mirabile
nella pratica di quest’impostura, a Federico II scoperse una congiura
ordita a Grosseto; fabbricò una statua che rispondeva oracoli; dirigeva
ogni operazione di Guido da Montefeltro; e allorchè questi uscisse
a campo, il Bonatto saliva sul campanile di San Mercuriale, e con un
tocco della squilla accennava il momento di vestir l’armadura, con un
altro quel di montare a cavallo, col terzo la marciata. Pretendeva che
Gesù Cristo medesimo si valesse dell’astrologia, e imbizzarrisse contro
i _tunicati_ che si opponevano alle sue predizioni.
Pietro d’Abano, educato a Costantinopoli (1316), fu sì fortunato da
cogliere la postura degli astri, designata da Abul-Nasar come quella in
cui Dio non può rifiutare domanda che gli sia fatta: e ne profittò per
chiedere la sapienza, e subito restò illuminato a conoscere l’avvenire.
Moltissime fole si accumularono sul conto di lui; delle sette arti
liberali acquistò cognizione per mezzo di sette spiriti; avea facoltà
di far tornare i denari dopo spesi; non avendo pozzo in casa, fe
portarsi quel del vicino che gliene negava l’uso, o, come altri
disse, fe portare in istrada il proprio onde non essere disturbato
dagli accorrenti. In realtà nel suo _Conciliator differentiarum_,
un de’ migliori libri medici d’allora, insegna il salasso non esser
mai sì opportuno come nel primo quarto della luna; che per guarire i
dolori nefritici bisogna, al momento che il sole passa pel meridiano,
disegnare con cuore di leone sopra una lastra d’oro una figura di
quest’animale, e appenderla al collo del malato; che per cauterizzare
valgono meglio stromenti d’oro che di ferro, attesa la grande influenza
di Marte sulla chirurgia.
Fu professore a Padova ed a Parigi, ove lo accusarono di magia per
cure mediche ben riuscitegli; poi d’eresia a Roma, ma per autorità
pontifizia andò assolto. Riferì al corso degli astri i periodi delle
febbri; il pubblico palazzo di Padova fece dipingere a costellazioni;
e dell’astrologia era persuaso a tal punto, che procurò indurre
i Padovani a spianar la loro città per rifabbricarla sotto una
combinazione di pianeti allora comparsa, tanto fortunata che niuna
più. Forse queste son ciancie di Pier da Reggio, che, vinto da lui in
dottrina, tentò perderlo nell’opinione; onde con accuse contraddittorie
Pietro d’Abano fu imputato da una parte di non credere al diavolo,
dall’altra di tenerne sette in un’ampolla ad ogni suo cenno; per le
quali accuse e per altre più serie l’Inquisizione lo processò. Venuto
a morte, disse agli amici: — A tre nobili scienze io ho dato opera,
delle quali una m’ha fatto sottile, una ricco, la terza menzognero;
filosofia, medicina, astrologia». Nel testamento si protesta buon
cattolico, e aveva implorato d’essere sepolto ne’ Domenicani; ma
l’Inquisizione gli continuò il processo, e ne turbò le ossa. L’illustre
medico Gentile da Foligno, entrando nella scuola di lui, s’inginocchiò,
e levate le mani sclamò: — Ave, santo tempio»; poi, visti alcuni suoi
manoscritti, se li pose sul seno e li baciava con riverenza[336].
Sebbene la Chiesa vi si opponesse, vescovi e prelati non rimasero
incontaminati da queste follie, che durarono ben oltre i tempi che
descriviamo. Conseguente a tali falsità fu il ripigliare le classiche
credenze in folletti, spettri, fantasmi, vampiri; credenze fatte
energiche come i tempi, e che acquistarono maggior fede allorchè si
videro perseguitate con regolari processi: l’immaginativa fingeva
avvenimenti ch’essa medesima credea poi veri; e uomini di bollente
fantasia si isolavano, dispettando il mondo reale per uno fantastico, e
mescolando l’impostura, l’allucinamento e il fanatismo. La legislazione
dovette intervenire a reprimere gente che destava le procelle, mutava
le forme de’ corpi e degli uomini, produceva malattie; e gli assurdi
processi traviarono gran tempo la giustizia, siccome avremo a deplorare
nel secolo che chiamano d’oro.
Non alle vite, ma alle sostanze recò danni la ricerca del come
improvvisamente arricchire. A ciò due strade offerivano le scienze
occulte; trovare tesori, e tramutare i metalli. Intorno ai tesori,
stupendi fatti raccontano le cronache, e gli assegnano perfino ad
Alberto Magno e a papa Silvestro II[337]. In Apulia era una statua di
marmo con una corona d’oro iscritta: _A calen di maggio, sole nascente,
ho il capo d’oro_. Nessuno intese il motto, sinchè Roberto Guiscardo
ne strappò il secreto ad un prigioniero saracino; e fissato ove cadeva
l’ombra della testa al primo maggio, trovò tesoro.
La chimica degli antichi teneva che i corpi risultino dalla
combinazione de’ quattro elementi, e che l’armonia di questi produca
la perfezione nei corpi. Chi dunque scopra le migliori combinazioni,
potrà non solo ridonar la sanità e prolungare indefinitamente la vita,
ma anche trasformare corpi e metalli. Sentimento sublime, comunque
erroneo, della potenza dell’uomo e della perfettibilità di tutto il
creato. E poichè l’uomo vede nell’oro il rappresentante universale dei
godimenti, la scienza s’industriò in ispecial modo a tramutare in esso
lo stagno e il mercurio, mediante la _pietra filosofale_ e la _polvere
di projezione_; e non riuscendovi coi mezzi semplici, ricorse allo
spirito universale, all’anima generale del mondo, all’influsso delle
stelle per raggiungere l’_opera grande_. Di qui la scienza arcana e
tenebrosa dell’alchimia, che tanti spiriti occupò.
Le sue ricette erano positive: se non che spiegavasi l’arcano
con termini non meno arcani. Volete, intonavano, fare l’elisir
de’ sapienti? prendete il mercurio dei filosofi, trasformatelo
successivamente colla calcinazione in leon verde e leon rosso, fatelo
digerire in bagno di sabbia con spirto acre di vite, e distillate il
prodotto; ma il lambicco sia coperto dalle ombre cimerie, e al fondo si
troverà un drago nero che mangia la propria coda... Inoltre la scienza
ermetica ajutavasi della verga di Mosè, del sasso di Sisifo, del vello
di Giasone, del vaso di Pandora, del femore aureo di Pitagora; se nulla
profittassero, ricorrevasi al diavolo barbuto, specialmente incaricato
di tali ministeri.
A questo delirio di classica origine[338], continuato ancora secoli
e secoli, alcuni si prestavano di buona fede; e la testimonianza
altrui o le apparenze illusorie li persuasero potersi trovare questa
polvere di projezione: onde vi si affaticarono con passione, faceano
lunghi viaggi massime al Sinai, all’Oreb, all’Atos. Più spesso era
un lacciuolo ai creduli, per trarne l’oro necessario a far oro; ma a
Giovanni Augurello, che gli presentò un poema sull’arte di far l’oro
(_Crisopeia_), papa Leone X diè per unico regalo una borsa vuota, nella
quale potesse riporlo.
Facile è il deridere le ignoranze o stranezze de’ nostri maggiori,
massime a chi perda di vista quelle che in noi derideranno i nostri
nipoti. La scienza seria anche in questi traviamenti indaga i
progressi dell’intelletto e della società, e riconosce nell’errore un
aspetto fallace della verità, ma nuovo e progressivo. Il disputare
nelle università al cospetto di tutto il mondo erudito d’allora, e
fra una gioventù che vivamente parteggiava, conduceva a ricorrere a
sottigliezze, quando la pessima sventura per un dottore sarebbe stata
il rimanere accalappiato in un’argomentazione da cui non sapesse
strigarsi: onde i dibattimenti diventavano non uno sforzo verso la
verità, ma un’arena di capiglie; e la filosofia, come già la teologia,
ebbe martiri ostinati d’indicifrabili enigmi. Pure se sbriciolavasi
il pensiero, veniva anche analizzato; acuivasi il raziocinio, che
dell’errore e della verità è veicolo, non mai causa; in quella
ginnastica gl’intelletti si foggiavano allo stretto ragionamento,
all’ordine ed all’economia delle idee, alla costanza del metodo, e si
poterono svolgere i concetti morali e metafisici di cui la Scolastica
avea posto i germi, conservandone il fondo, cangiando la forma. Della
Scolastica è merito l’andamento analitico delle moderne favelle, che
per la stretta relazione delle parole colle cose svelano il logico
procedere della ragione odierna, dovuto a quella comunque malaccorta
educazione. L’astrologia e l’alchimia portarono a meditare sopra il
sistema del mondo e la composizione dei corpi.
Nè le matematiche, la parte più rilevante dello scibile dopo la lingua,
erano perite, e basterebbero ad attestarlo i progressi della meccanica
e dell’architettura. Resta nella cattedrale di Firenze un calendario
scritto nell’813, con bellissime traccie d’osservazioni celesti, per le
quali l’autore si era accorto dello spostamento de’ punti equinoziali
dopo il concilio Niceno I, stando al computo giuliano. D’un geografo
di Ravenna abbiamo una rozza descrizione del mondo, cui può servire di
schiarimento una mappa del 787 che sta nella biblioteca di Torino in un
commento manoscritto dell’Apocalisse. La geografia dovea vantaggiarsi
dai tanti viaggi di devozione, per guida dei quali stendevansi
itinerarj; ma come scienza ben poco progredì.
San Tommaso intendeva addentro nelle matematiche, e scrisse degli
acquedotti e delle macchine idrauliche. Campano novarese commentò
Euclide, studiò alla quadratura del circolo e alla teorica de’ pianeti,
e indicò la genesi de’ poligoni stellati: Urbano IV lo teneva frequente
alla sua tavola con altri, da cui godeva sentire spiegate le quistioni
che proponesse. Paolo Dagomeri da Prato, detto l’Abbaco per la sua
perizia nell’aritmetica e nella geometria, rappresentava in macchine
tutti i moti degli astri: fu il primo a pubblicare un almanacco.
Biagio Pelacani da Parma spiegò le apparenze prodigiose dell’atmosfera
mediante la riflessione delle nubi.
Di que’ tempi, e merito degli Italiani fu una comodissima novità.
Mentre gli antichi, siano i classici, siano gli Ebrei e gli Arabi,
notavano i numeri con lettere, gl’Indiani possedevano una numerazione
più ragionata, ove le cifre, oltre il proprio, hanno un valore di
posizione, sicchè trasportate al penultimo posto esprimono le decine,
al terz’ultimo le centinaja, e così via: da essi l’appresero gli Arabi,
e alcun Europeo se ne valse in opere scientifiche. Leonardo Fibonacci
di Pisa, stando impiegato nelle dogane a Bugia di Barberia, cercò
quanto d’aritmetica sapeasi in Egitto, in Grecia, in Siria, in Sicilia,
e in un trattato d’aritmetica e d’algebra del 1202 si valse di queste
ch’egli chiama cifre indiane. Gloria sua più certa è l’avere primo
fra i Cristiani trattato dell’algebra, e in modo tale che tre secoli
di concordi fatiche non aggiunsero un punto a quel ch’egli insegnò.
L’applica esso a problemi mercantili, senza un cenno delle operazioni
magiche, dietro cui deliravano anche i più valenti. Così un negoziante
fiorentino recò all’Europa e il calcolo de’ valori e quello delle
funzioni.
Altra invenzione importantissima di quel tempo sarebbero le note
musicali, che si attribuiscono a Guido d’Arezzo monaco benedettino (n.
955); ma in che consista il merito di lui, non è ben certo. Imperocchè
i righi e i punti già erano conosciuti; non fu lui che introducesse
la gamma per imparare il solfeggio; non lui che estese la scala
aggiungendo cinque corde alle quindici degli antichi. La tradizione
dice soltanto ch’egli trovò note, onde in brevissim’ora imparavasi
la musica, che dapprima richiedeva molti anni; e che Benedetto VIII,
invitatolo a Roma per farne prova, se ne chiamò soddisfatto. La sua
scala è la stessa de’ Greci, solo estesa alquanto aggiungendovi un
tetracordo nell’accordo e una corda nel grave[339]; e alcun vuole
che allora alle lettere gregoriane si sostituissero punti quadrati o
rotondi sopra righi paralleli e negli intervalli, sicchè le relazioni
armoniche de’ toni divennero quasi sensibili alla vista, e la facilità
del notarle con punti sopra punti (contrappunto) ne rese agevole
l’esecuzione.
Sant’Ambrogio e Gregorio Magno aveano redenta la musica dalle pagane
profanità e dall’elemento mondano, secondo il quale proponeasi
unicamente d’esprimere la durata delle sensazioni, e imitare i
movimenti delle impressioni prodotte dalla passione e dal sentimento;
abolito il ritmo, sicchè il canto non fosse più capace di esprimere
i sentimenti e le passioni, ma restasse affatto spirituale; atteso
che, essendo le note tutte di durata eguale, meglio esprimevano,
nel vestire le parole sante, l’inalterabile calma dell’onnipotenza.
Però si conservarono i modi antichi, che erano toni esprimenti la
differenza dal grave all’acuto fra i varj punti di partenza dei sistemi
di successione. Ambrogio aveva unito i due tetracordi per formare
la scala; e scelto fra i modi greci i quattro che più acconci gli
parvero alla maestà del canto e all’estensione della voce, sbandì
gli ornamenti introdotti nella melopea, e gran numero di ritmi:
insigne semplificazione e barriera alle novità corruttrici, perchè
anche la musica colla purezza semplice e maestosa ritraesse la severa
austerità del culto. Gregorio, sull’orme d’Ambrogio, e schivandone
gl’inconvenienti, aggiunse quattro nuovi modi, ond’evitare la
monotonia.
Restava che la musica cristiana conquistasse l’armonia, ignota ai
Greci; e mentre in questi le regole non miravano che a stabilire
successioni, ora doveasi introdurre la simultaneità dei suoni. Malgrado
gli ostacoli dell’abitudine e della venerazione verso gli antichi, si
poterono fare intendere due voci a un tratto: ma quando si cominciasse
non si sa. Guido d’Arezzo non diede nuove regole all’arte, ma mostra
evidente che già allora conoscevasi la difonia, quantunque ignoriamo a
quali regole formata.
CAPITOLO XCI.
Federico II. Seconda guerra dell’investitura.
Nel concilio Lateranense IV, aperto l’11 novembre 1215, l’autorità
pontifizia apparve nella maggior sua magnificenza. I due imperatori
d’Oriente e d’Occidente, i re di Cipro, di Gerusalemme, di Sicilia, di
Francia, d’Inghilterra, d’Aragona, d’Ungheria mandaronvi ambasciadori;
i patriarchi d’Antiochia e di Gerusalemme v’assistettero in persona, e
per rappresentanti quei di Costantinopoli e d’Alessandria; settantuno
arcivescovi, quattrocendodici vescovi, e più di ottocento abati e
priori; e tale affluenza di popolo, che alcuni prelati non poterono
penetrare nella basilica, e il vescovo d’Amalfi restò soffocato.
In mezzo a un circolo di cardinali ornati in maestosa semplicità,
compariva il pontefice, che aveva veduto Costantinopoli rimessa alla
sua obbedienza; era uscito trionfante dalla guerra degli Albigesi e
dalla lotta con Ottone imperatore e col re d’Inghilterra, che gli fe
omaggio della sua corona; all’ombra di lui, quest’isola aveva ottenuto
la _Magna Charta_ salvaguardia di sua libertà, le città toscane formato
una confederazione, e le lombarde rinnovato l’antica; gli Spagnuoli nel
piano di Tolosa riportata insigne vittoria che li francheggiava omai
dall’araba servitù; da lui il re d’Aragona domandò la corona; quel di
Bulgaria gli sottomise la sua; sulla Sicilia avea sodato la supremazia
della santa Sede, dopo averla rinfrancata in Roma; in due Ordini,
baliosi di gioventù, erasi creata una milizia stabile, disposta ad ogni
suo comando. Ed ora al mondo intero, pendente dalle sue infallibili
decisioni, dettava i canoni della credenza e le regole della disciplina
ecclesiastica e civile: vietato l’affidare funzioni pubbliche a
Musulmani o Ebrei, o il vendere armi agli Infedeli; frenata l’usura,
proscritti i Patarini, e per distinguersi da questi dovessero i
Cattolici almeno una volta l’anno comunicarsi alla propria parrocchia;
confermata la dottrina di Pier Lombardo intorno alla Trinità,
riprovando quel che n’avea scritto «il calabrese abate Gioacchino»,
scrittore mistico, rinomato per predizioni; ordinata pace generale per
quattro anni.
Vicario della divinità in terra pel governo temporale e per lo
spirituale, il pontefice avea dunque portate ad effetto le massime che
le Decretali avevano sancite, proclamando la potenza ecclesiastica
essere il sole, da cui, a guisa di luna, la imperiale traeva il suo
splendore[340]. Spiegando le relazioni del potere temporale collo
spirituale, Innocenzo III scriveva[341]: — Il Signore non solo per
costituire l’ordine spirituale, ma anche perchè una certa uniformità
fra la creazione e il corso degli avvenimenti l’annunzii autore di
tutte le cose, stabilì armonia fra cielo e terra, in modo che la
meravigliosa consonanza del piccolo col grande, del basso coll’alto, ce
lo riveli per unico e supremo creatore. Come stampò due grandi luminari
sulla volta celeste, così affisse al firmamento della Chiesa due
supreme dignità, una che splenda il giorno, cioè illumini gl’intelletti
sopra le cose spirituali, e franchi dalle catene le anime tenute
nell’errore; l’altra che schiari le notti, cioè gli eretici indurati
e i nemici della fede, e impugni la spada per castigo de’ reprobi
e gloria dei fedeli. E come, offuscando la luna, buja notte involge
le cose; così, quando mancasi d’imperatore, prorompe la rabbia degli
eretici e dei pagani».
Pretendenze non meno assolute sillogizzavano i giuristi, attribuendo
agli imperatori un potere senza limiti, quale avea formato la possa e
l’obbrobrio di Roma antica; e con argomento di pari calibro nelle nuove
università insegnando il _sacro impero_ elevarsi sopra ogni mondana
cosa, l’imperatore portare in mano il globo a significare la padronanza
sull’universo mondo.
Arroganze sì opposte doveano rinnovare il conflitto tra il pastorale
e lo scettro. Cominciato da Gregorio VII, erasi sopito con un
accordo, ove l’imperatore crebbe di vantaggi, il papa d’opinione. Dopo
ottant’anni si ridestò più palese e meglio determinato, non trattandosi
più d’una formalità feudale, ma se la Chiesa dovesse star sottoposta
all’Impero. Anche i lottanti erano ben differenti: l’inflessibile
Gregorio più non viveva, e al posto d’un Enrico IV, principe
scapestrato e inviso, stavano i principi di Svevia, nobili, generosi,
cortesi, fautori delle lettere, cinti da signori tedeschi, che fedeli
al re e alla donna di lui, lo seguivano del pari al torneo od alle
spedizioni oltre l’alpi e il mare.
Federico II, rampollo ghibellino allevato dal papa e da lui sostenuto
contro il guelfo Ottone, sicchè per ischerno veniva detto il re dei
preti, mostrò deferenza e rispetto a Innocenzo III finchè n’ebbe
bisogno: esortò il senato romano ad obbedirgli; nella dieta di Egra
solennemente professò, pei tanti favori avuti dalla romana Chiesa,
le sarebbe sempre rispettoso e sommesso; le confermava le concessioni
fatte da Ottone; l’aiuterebbe a conservare i dominj, e nominatamente
la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, e a recuperare i disputati,
come l’eredità della contessa Matilde; — Appena consacrati a Roma
(soggiungeva) emanciperemo nostro figlio Enrico, cedendogli il regno
nostro ereditario di Sicilia, sicchè il tenga come il teniam noi dalla
santa Sede; e noi rinunzieremo al titolo regio e al governo di quel
paese, di modo che mai non possa essere unito all’Impero»[342].
Oggi chiameremmo ciò politica; allora parve ipocrisia: giacchè al
tempo stesso ricusava far giustizia alle domande della Chiesa; pretese
che Innocenzo gli avesse peggiorato il patrimonio, e perciò a Ricardo
fratello di lui ritolse il contado di Sora, e spogliò altri che dal
papa erano stati investiti; fece anche morire qualche vescovo per
ribelle, e non rifiniva di lamentarsi che Roma raccogliesse chi a lui
era sfavorevole; e soltanto la morte sottrasse Innocenzo dal vedere il
suo pupillo morsicare il seno che l’aveva nodrito.
Caterina da Siena curando e sepellendo una lebbrosa, ne contrasse
l’infermità; ma di subito le mani sue divennero bianche e liscie come
d’un bambino. Francesco d’Assisi, trovatone uno in val di Spoleto,
l’abbracciò e baciò nella bocca cancerosa, e così l’ebbe guarito:
vedendone un altro nel piano d’Assisi, s’accostò a fargli limosina; e
ad un tratto più nol vide, sicchè restò persuaso fosse nostro Signore,
che spesso assumeva quella schifosa sembianza per mettere a prova
la carità. E però Francesco raccomandava a’ suoi frati i lebbrosi,
e congedava i novizj che non sapessero sostenerne la cura. Uno che
per l’impazienza e per le bestemmie era insoffribile a’ frati, tolse
Francesco a curarlo egli stesso, e l’imbonì, e lavò, e «dove toccava
il santo colle sue mani, si partiva la lebbra dall’infermo, e rimaneva
la sua carne perfettamente sana; sì che mentre il corpo si mondava
di fuori dalla lebbra, l’anima si mondava dal peccato dentro per la
contrizione». Dopo rigorose penitenze il lebbroso morì, e comparve
a Francesco e gli disse: — Mi riconosci tu? io son quel lebbroso che
fu sanato da Cristo per li tuoi meriti, e oggi me ne vado alla gloria
eterna; di che rendo grazie a Dio e a te, perocchè per te molte anime
si salveranno quaggiù»[331].
Nelle spedizioni in Asia i nostri poterono profittare della sperienza
degli Arabi, e di fatto allora si conobbero la cassia e la senna:
la teriaca, polifarmaco fondamentale del medioevo, fu da Antiochia
portata a Venezia, che lungamente ne custodì il secreto. Ruggero
di Parma raccomandò la spugna marina per le scrofole, ed eccellenti
pratiche chirurgiche. Rolando di Parma stese un trattato di chirurgia,
commentato poi da quattro Salernitani. Guglielmo da Saliceto
piacentino, uno de’ migliori di quell’età e abbastanza indipendente,
stese con qualche esattezza un’anatomia compendiosa, precedette Willis
nel distinguere i nervi addetti alla volontà o no, e descrive fin
d’allora la sifilide.
Lanfranco di Milano, spatriato quando più non potè opporsi a Matteo
Visconti, rizzò cattedra a Parigi (1295), e trasse tanti ascoltatori,
che celeberrima divenne la scuola dei chirurghi secolari. Sebbene
il chirurgo si tenesse molto inferiore ai medici, che perciò non
si sarebbero prestati alle operazioni, preferendo usare farmachi,
Lanfranco operò spesso, ed è lodevole quel suo dare l’anatomia
dell’organo di cui descrive le lesioni.
Teodorico vescovo di Bitonto osservò da sè, e sostituì le fasciature
di tela ai grandi apparecchi di legno nella frattura di ossa. Taddeo
d’Alderotto fiorentino, filosoficamente illustrando Ippocrate e Galeno,
acquistò tanta reputazione nella sua scienza quanto Accursio nella
legale: eppure delira qualvolta pretende rivelare i segreti delle
arti, nascosti sotto il gergo degli autori. Chiamato ad assistere il
nobile Gherardo Rangone (1285), volle che, per istromento rogato, i
tre procuratori di quello il garantissero d’ogni danno in viaggio,
e che lo ricondurrebbero in Bologna indenne della persona e della
borsa, non molestato da ladri o da nemici, non fermato contro voglia
a Modena; in caso contrario, gli si pagherebbero lire mille imperiali
per ciascuno degli articoli violati; essi poi gli restituiranno tremila
lire bolognesi, che confessano aver ricevuto in deposito: finzione che
vela una remunerazione esorbitante[332]. Al papa domandò cento ducati
d’oro il giorno, perchè più ricco degli altri, i quali gliene davano
cinquanta; onde, finita la cura, ne toccò diecimila. Bartolomeo da
Varignana dal marchese d’Este ebbe per una cura ducensessanta fiorini
d’oro.
Simon di Cordo genovese, medico di Nicolò IV, nella _Clavis
sanationis_, dizionario de’ medicamenti semplici, cercò sbrogliare la
varietà di nomenclatura. Viaggiò trent’anni per scientifico intento
la Grecia e l’Oriente, ma invece di determinare i corpi secondo la
natura loro, si stava a qualità medicinali, e non desunte da sperienza
ma da supposte doti elementari. E appunto i progressi delle scienze
naturali erano impacciati dall’empirismo superstizioso, dalla cieca
venerazione per l’autorità, e dal farnetico di sostituire la dialettica
allo sperimento, aggomitolando interminabili argomentazioni sopra
oziosissime ricerche. Per esempio, chiedevasi se la tal bevanda possa
guarire la febbre, e rispondeasi di no, perchè quella è una sostanza e
questa un accidente, nè quindi l’uno può sull’altro. Poco si studiava
l’anatomia: le operazioni non si eseguivano senza consultare le
stelle, supponendo intimo nesso fra il corpo umano e l’universo, e
principalmente i pianeti: e le scienze sperimentali cedevano il primo
posto alle occulte.
Oggetto di queste era conoscere l’avvenire, scoprir tesori, trasmutare
i metalli, fare amuleti e incantagioni, e comporre il rimedio
universale e l’elisir dell’immortalità: a scopi così elevati qual
fatica aveva a parere soverchia? Sull’avvenire cavavansi presagi da
segni fortuiti, dalle linee della mano, dalle stelle, dai sogni, della
cui divinazione come dubitare dopo quel che Ippocrate n’aveva scritto?
e indovinavasi in fatti alcuna volta, perchè è difficile non riuscirvi
quando si dice un po’ di tutto e vagamente.
L’astrologia, pazza figlia di savia madre, si trova all’infanzia
come alla decrepitezza della società, fra i dotti Romani come fra
semplici Oceanici. L’uomo è centro e scopo della creazione, onde a
lui si riferisce ogni cosa; e se (com’è certo) il sole e le altre
stelle influiscono sulle stagioni, sulla vegetazione, sugli animali,
quanto più non devono sull’uomo, prediletta fra le creature? Le storie
(dicono gli astrologi) e il consenso de’ filosofi antichi s’accordano
nel riconoscere un’analogia fra gli anni della vita e i gradi percorsi
da ciascun segno sull’eclittica. Per iscoprirla, vuolsi accertare
l’effetto degli astri sopra le varie cose naturali, e i computi de’
moti, e certe formole arcane, mediante le quali o crescere le forze
della natura, o determinare l’influsso dei pianeti, massime all’istante
natalizio, od evocare gli spiriti e i morti. Il sapiente che conosca
le occulte proprietà delle cose, non solo indovinerà l’avvenire,
ma opererà su di esso, eccitando odio od amore, scoprendo i secreti
divisamenti, i tesori occulti, i rimedj ai mali, e fin il supremo della
scienza, l’arte di far oro.
I fenomeni della natura sono invigoriti dai numeri, attesochè secondo
questi è disposto l’universo, e possedono arcana efficacia. Di qui la
cabala, che da combinazione di numeri credea divinar le cose arcane, ed
acquistare autorità sopra gli spiriti: e ogni astrologo ed alchimista
si millantava di qualche demone famigliare obbediente a’ suoi cenni.
Così intralciavansi fra sè gli errori, dalla pagana superstizione
tramandatici attraverso alle scuole neoplatoniche e al gnosticismo.
Fu l’astrologia onorata di cattedre, e l’università di Bologna
ne decretava un professore _tamquam necessarissimum_, e principi
e repubbliche ne teneano uno da consultare ne’ più gravi casi.
Ezelino, Buoso da Dovara, Uberto Pelavicino, tiranni formidabili,
tremavano davanti alle potenze incognite, e i calcoli della prudenza
e dell’ambizione sottoponevano alla decisione degli astri e dei loro
interpreti; e nella Vaticana si conservano le risposte che ai loro
consulti dava Gherardo da Sabbionetta cremonese. Federico II voleasi
attorno il fior degli astrologi, a senno loro mutando divisamenti[333];
e quando nel 1239 udì la ribellione di Treviso, fece dalla torre
di Padova osservare l’ascendente da maestro Teodoro; ma non avvertì
(riflette Rolandino) che allora nella terza casa stava lo scorpione,
il quale avendo il veleno nella coda, indicava che l’esercito sarebbe
offeso verso il fine. Stando in Vicenza, volle che un astrologo
gl’indovinasse per qual porta uscirebbe il domani; e quegli la
scrisse in un polizzino, che suggellato consegnò a Federico perchè non
l’aprisse se non uscito. L’imperatore fece una breccia nella mura, e
per quella se n’andò; allora, aperto il foglietto, trovò scritto: _Per
porta nuova_.
Il suddetto Gherardo andò a Toledo per leggere l’_Almagesto_ di
Tolomeo, e lo voltò in latino, come il trattato de’ crepuscoli
di Al-Gazen e altre opere; inventò lo specillo, e la sua _Theoria
planetarum_ leggevasi nelle università[334]. Andalon Di Negro genovese,
arricchitosi di cognizioni nei viaggi, ci lasciò un trattato latino
della composizione dell’astrolabio.
Guido Bonatto da Forlì diede la quintessenza di quanto gli Arabi
n’aveano scritto[335], e coll’ajuto di Dio e di san Valeriano, patrono
della sua patria, discorre l’utilità dell’astrologia, la natura de’
pianeti e loro congiunzioni ed influenze, i giudizj che se ne deducono,
e varie questioni che si possono risolvere con questa scienza. Mirabile
nella pratica di quest’impostura, a Federico II scoperse una congiura
ordita a Grosseto; fabbricò una statua che rispondeva oracoli; dirigeva
ogni operazione di Guido da Montefeltro; e allorchè questi uscisse
a campo, il Bonatto saliva sul campanile di San Mercuriale, e con un
tocco della squilla accennava il momento di vestir l’armadura, con un
altro quel di montare a cavallo, col terzo la marciata. Pretendeva che
Gesù Cristo medesimo si valesse dell’astrologia, e imbizzarrisse contro
i _tunicati_ che si opponevano alle sue predizioni.
Pietro d’Abano, educato a Costantinopoli (1316), fu sì fortunato da
cogliere la postura degli astri, designata da Abul-Nasar come quella in
cui Dio non può rifiutare domanda che gli sia fatta: e ne profittò per
chiedere la sapienza, e subito restò illuminato a conoscere l’avvenire.
Moltissime fole si accumularono sul conto di lui; delle sette arti
liberali acquistò cognizione per mezzo di sette spiriti; avea facoltà
di far tornare i denari dopo spesi; non avendo pozzo in casa, fe
portarsi quel del vicino che gliene negava l’uso, o, come altri
disse, fe portare in istrada il proprio onde non essere disturbato
dagli accorrenti. In realtà nel suo _Conciliator differentiarum_,
un de’ migliori libri medici d’allora, insegna il salasso non esser
mai sì opportuno come nel primo quarto della luna; che per guarire i
dolori nefritici bisogna, al momento che il sole passa pel meridiano,
disegnare con cuore di leone sopra una lastra d’oro una figura di
quest’animale, e appenderla al collo del malato; che per cauterizzare
valgono meglio stromenti d’oro che di ferro, attesa la grande influenza
di Marte sulla chirurgia.
Fu professore a Padova ed a Parigi, ove lo accusarono di magia per
cure mediche ben riuscitegli; poi d’eresia a Roma, ma per autorità
pontifizia andò assolto. Riferì al corso degli astri i periodi delle
febbri; il pubblico palazzo di Padova fece dipingere a costellazioni;
e dell’astrologia era persuaso a tal punto, che procurò indurre
i Padovani a spianar la loro città per rifabbricarla sotto una
combinazione di pianeti allora comparsa, tanto fortunata che niuna
più. Forse queste son ciancie di Pier da Reggio, che, vinto da lui in
dottrina, tentò perderlo nell’opinione; onde con accuse contraddittorie
Pietro d’Abano fu imputato da una parte di non credere al diavolo,
dall’altra di tenerne sette in un’ampolla ad ogni suo cenno; per le
quali accuse e per altre più serie l’Inquisizione lo processò. Venuto
a morte, disse agli amici: — A tre nobili scienze io ho dato opera,
delle quali una m’ha fatto sottile, una ricco, la terza menzognero;
filosofia, medicina, astrologia». Nel testamento si protesta buon
cattolico, e aveva implorato d’essere sepolto ne’ Domenicani; ma
l’Inquisizione gli continuò il processo, e ne turbò le ossa. L’illustre
medico Gentile da Foligno, entrando nella scuola di lui, s’inginocchiò,
e levate le mani sclamò: — Ave, santo tempio»; poi, visti alcuni suoi
manoscritti, se li pose sul seno e li baciava con riverenza[336].
Sebbene la Chiesa vi si opponesse, vescovi e prelati non rimasero
incontaminati da queste follie, che durarono ben oltre i tempi che
descriviamo. Conseguente a tali falsità fu il ripigliare le classiche
credenze in folletti, spettri, fantasmi, vampiri; credenze fatte
energiche come i tempi, e che acquistarono maggior fede allorchè si
videro perseguitate con regolari processi: l’immaginativa fingeva
avvenimenti ch’essa medesima credea poi veri; e uomini di bollente
fantasia si isolavano, dispettando il mondo reale per uno fantastico, e
mescolando l’impostura, l’allucinamento e il fanatismo. La legislazione
dovette intervenire a reprimere gente che destava le procelle, mutava
le forme de’ corpi e degli uomini, produceva malattie; e gli assurdi
processi traviarono gran tempo la giustizia, siccome avremo a deplorare
nel secolo che chiamano d’oro.
Non alle vite, ma alle sostanze recò danni la ricerca del come
improvvisamente arricchire. A ciò due strade offerivano le scienze
occulte; trovare tesori, e tramutare i metalli. Intorno ai tesori,
stupendi fatti raccontano le cronache, e gli assegnano perfino ad
Alberto Magno e a papa Silvestro II[337]. In Apulia era una statua di
marmo con una corona d’oro iscritta: _A calen di maggio, sole nascente,
ho il capo d’oro_. Nessuno intese il motto, sinchè Roberto Guiscardo
ne strappò il secreto ad un prigioniero saracino; e fissato ove cadeva
l’ombra della testa al primo maggio, trovò tesoro.
La chimica degli antichi teneva che i corpi risultino dalla
combinazione de’ quattro elementi, e che l’armonia di questi produca
la perfezione nei corpi. Chi dunque scopra le migliori combinazioni,
potrà non solo ridonar la sanità e prolungare indefinitamente la vita,
ma anche trasformare corpi e metalli. Sentimento sublime, comunque
erroneo, della potenza dell’uomo e della perfettibilità di tutto il
creato. E poichè l’uomo vede nell’oro il rappresentante universale dei
godimenti, la scienza s’industriò in ispecial modo a tramutare in esso
lo stagno e il mercurio, mediante la _pietra filosofale_ e la _polvere
di projezione_; e non riuscendovi coi mezzi semplici, ricorse allo
spirito universale, all’anima generale del mondo, all’influsso delle
stelle per raggiungere l’_opera grande_. Di qui la scienza arcana e
tenebrosa dell’alchimia, che tanti spiriti occupò.
Le sue ricette erano positive: se non che spiegavasi l’arcano
con termini non meno arcani. Volete, intonavano, fare l’elisir
de’ sapienti? prendete il mercurio dei filosofi, trasformatelo
successivamente colla calcinazione in leon verde e leon rosso, fatelo
digerire in bagno di sabbia con spirto acre di vite, e distillate il
prodotto; ma il lambicco sia coperto dalle ombre cimerie, e al fondo si
troverà un drago nero che mangia la propria coda... Inoltre la scienza
ermetica ajutavasi della verga di Mosè, del sasso di Sisifo, del vello
di Giasone, del vaso di Pandora, del femore aureo di Pitagora; se nulla
profittassero, ricorrevasi al diavolo barbuto, specialmente incaricato
di tali ministeri.
A questo delirio di classica origine[338], continuato ancora secoli
e secoli, alcuni si prestavano di buona fede; e la testimonianza
altrui o le apparenze illusorie li persuasero potersi trovare questa
polvere di projezione: onde vi si affaticarono con passione, faceano
lunghi viaggi massime al Sinai, all’Oreb, all’Atos. Più spesso era
un lacciuolo ai creduli, per trarne l’oro necessario a far oro; ma a
Giovanni Augurello, che gli presentò un poema sull’arte di far l’oro
(_Crisopeia_), papa Leone X diè per unico regalo una borsa vuota, nella
quale potesse riporlo.
Facile è il deridere le ignoranze o stranezze de’ nostri maggiori,
massime a chi perda di vista quelle che in noi derideranno i nostri
nipoti. La scienza seria anche in questi traviamenti indaga i
progressi dell’intelletto e della società, e riconosce nell’errore un
aspetto fallace della verità, ma nuovo e progressivo. Il disputare
nelle università al cospetto di tutto il mondo erudito d’allora, e
fra una gioventù che vivamente parteggiava, conduceva a ricorrere a
sottigliezze, quando la pessima sventura per un dottore sarebbe stata
il rimanere accalappiato in un’argomentazione da cui non sapesse
strigarsi: onde i dibattimenti diventavano non uno sforzo verso la
verità, ma un’arena di capiglie; e la filosofia, come già la teologia,
ebbe martiri ostinati d’indicifrabili enigmi. Pure se sbriciolavasi
il pensiero, veniva anche analizzato; acuivasi il raziocinio, che
dell’errore e della verità è veicolo, non mai causa; in quella
ginnastica gl’intelletti si foggiavano allo stretto ragionamento,
all’ordine ed all’economia delle idee, alla costanza del metodo, e si
poterono svolgere i concetti morali e metafisici di cui la Scolastica
avea posto i germi, conservandone il fondo, cangiando la forma. Della
Scolastica è merito l’andamento analitico delle moderne favelle, che
per la stretta relazione delle parole colle cose svelano il logico
procedere della ragione odierna, dovuto a quella comunque malaccorta
educazione. L’astrologia e l’alchimia portarono a meditare sopra il
sistema del mondo e la composizione dei corpi.
Nè le matematiche, la parte più rilevante dello scibile dopo la lingua,
erano perite, e basterebbero ad attestarlo i progressi della meccanica
e dell’architettura. Resta nella cattedrale di Firenze un calendario
scritto nell’813, con bellissime traccie d’osservazioni celesti, per le
quali l’autore si era accorto dello spostamento de’ punti equinoziali
dopo il concilio Niceno I, stando al computo giuliano. D’un geografo
di Ravenna abbiamo una rozza descrizione del mondo, cui può servire di
schiarimento una mappa del 787 che sta nella biblioteca di Torino in un
commento manoscritto dell’Apocalisse. La geografia dovea vantaggiarsi
dai tanti viaggi di devozione, per guida dei quali stendevansi
itinerarj; ma come scienza ben poco progredì.
San Tommaso intendeva addentro nelle matematiche, e scrisse degli
acquedotti e delle macchine idrauliche. Campano novarese commentò
Euclide, studiò alla quadratura del circolo e alla teorica de’ pianeti,
e indicò la genesi de’ poligoni stellati: Urbano IV lo teneva frequente
alla sua tavola con altri, da cui godeva sentire spiegate le quistioni
che proponesse. Paolo Dagomeri da Prato, detto l’Abbaco per la sua
perizia nell’aritmetica e nella geometria, rappresentava in macchine
tutti i moti degli astri: fu il primo a pubblicare un almanacco.
Biagio Pelacani da Parma spiegò le apparenze prodigiose dell’atmosfera
mediante la riflessione delle nubi.
Di que’ tempi, e merito degli Italiani fu una comodissima novità.
Mentre gli antichi, siano i classici, siano gli Ebrei e gli Arabi,
notavano i numeri con lettere, gl’Indiani possedevano una numerazione
più ragionata, ove le cifre, oltre il proprio, hanno un valore di
posizione, sicchè trasportate al penultimo posto esprimono le decine,
al terz’ultimo le centinaja, e così via: da essi l’appresero gli Arabi,
e alcun Europeo se ne valse in opere scientifiche. Leonardo Fibonacci
di Pisa, stando impiegato nelle dogane a Bugia di Barberia, cercò
quanto d’aritmetica sapeasi in Egitto, in Grecia, in Siria, in Sicilia,
e in un trattato d’aritmetica e d’algebra del 1202 si valse di queste
ch’egli chiama cifre indiane. Gloria sua più certa è l’avere primo
fra i Cristiani trattato dell’algebra, e in modo tale che tre secoli
di concordi fatiche non aggiunsero un punto a quel ch’egli insegnò.
L’applica esso a problemi mercantili, senza un cenno delle operazioni
magiche, dietro cui deliravano anche i più valenti. Così un negoziante
fiorentino recò all’Europa e il calcolo de’ valori e quello delle
funzioni.
Altra invenzione importantissima di quel tempo sarebbero le note
musicali, che si attribuiscono a Guido d’Arezzo monaco benedettino (n.
955); ma in che consista il merito di lui, non è ben certo. Imperocchè
i righi e i punti già erano conosciuti; non fu lui che introducesse
la gamma per imparare il solfeggio; non lui che estese la scala
aggiungendo cinque corde alle quindici degli antichi. La tradizione
dice soltanto ch’egli trovò note, onde in brevissim’ora imparavasi
la musica, che dapprima richiedeva molti anni; e che Benedetto VIII,
invitatolo a Roma per farne prova, se ne chiamò soddisfatto. La sua
scala è la stessa de’ Greci, solo estesa alquanto aggiungendovi un
tetracordo nell’accordo e una corda nel grave[339]; e alcun vuole
che allora alle lettere gregoriane si sostituissero punti quadrati o
rotondi sopra righi paralleli e negli intervalli, sicchè le relazioni
armoniche de’ toni divennero quasi sensibili alla vista, e la facilità
del notarle con punti sopra punti (contrappunto) ne rese agevole
l’esecuzione.
Sant’Ambrogio e Gregorio Magno aveano redenta la musica dalle pagane
profanità e dall’elemento mondano, secondo il quale proponeasi
unicamente d’esprimere la durata delle sensazioni, e imitare i
movimenti delle impressioni prodotte dalla passione e dal sentimento;
abolito il ritmo, sicchè il canto non fosse più capace di esprimere
i sentimenti e le passioni, ma restasse affatto spirituale; atteso
che, essendo le note tutte di durata eguale, meglio esprimevano,
nel vestire le parole sante, l’inalterabile calma dell’onnipotenza.
Però si conservarono i modi antichi, che erano toni esprimenti la
differenza dal grave all’acuto fra i varj punti di partenza dei sistemi
di successione. Ambrogio aveva unito i due tetracordi per formare
la scala; e scelto fra i modi greci i quattro che più acconci gli
parvero alla maestà del canto e all’estensione della voce, sbandì
gli ornamenti introdotti nella melopea, e gran numero di ritmi:
insigne semplificazione e barriera alle novità corruttrici, perchè
anche la musica colla purezza semplice e maestosa ritraesse la severa
austerità del culto. Gregorio, sull’orme d’Ambrogio, e schivandone
gl’inconvenienti, aggiunse quattro nuovi modi, ond’evitare la
monotonia.
Restava che la musica cristiana conquistasse l’armonia, ignota ai
Greci; e mentre in questi le regole non miravano che a stabilire
successioni, ora doveasi introdurre la simultaneità dei suoni. Malgrado
gli ostacoli dell’abitudine e della venerazione verso gli antichi, si
poterono fare intendere due voci a un tratto: ma quando si cominciasse
non si sa. Guido d’Arezzo non diede nuove regole all’arte, ma mostra
evidente che già allora conoscevasi la difonia, quantunque ignoriamo a
quali regole formata.
CAPITOLO XCI.
Federico II. Seconda guerra dell’investitura.
Nel concilio Lateranense IV, aperto l’11 novembre 1215, l’autorità
pontifizia apparve nella maggior sua magnificenza. I due imperatori
d’Oriente e d’Occidente, i re di Cipro, di Gerusalemme, di Sicilia, di
Francia, d’Inghilterra, d’Aragona, d’Ungheria mandaronvi ambasciadori;
i patriarchi d’Antiochia e di Gerusalemme v’assistettero in persona, e
per rappresentanti quei di Costantinopoli e d’Alessandria; settantuno
arcivescovi, quattrocendodici vescovi, e più di ottocento abati e
priori; e tale affluenza di popolo, che alcuni prelati non poterono
penetrare nella basilica, e il vescovo d’Amalfi restò soffocato.
In mezzo a un circolo di cardinali ornati in maestosa semplicità,
compariva il pontefice, che aveva veduto Costantinopoli rimessa alla
sua obbedienza; era uscito trionfante dalla guerra degli Albigesi e
dalla lotta con Ottone imperatore e col re d’Inghilterra, che gli fe
omaggio della sua corona; all’ombra di lui, quest’isola aveva ottenuto
la _Magna Charta_ salvaguardia di sua libertà, le città toscane formato
una confederazione, e le lombarde rinnovato l’antica; gli Spagnuoli nel
piano di Tolosa riportata insigne vittoria che li francheggiava omai
dall’araba servitù; da lui il re d’Aragona domandò la corona; quel di
Bulgaria gli sottomise la sua; sulla Sicilia avea sodato la supremazia
della santa Sede, dopo averla rinfrancata in Roma; in due Ordini,
baliosi di gioventù, erasi creata una milizia stabile, disposta ad ogni
suo comando. Ed ora al mondo intero, pendente dalle sue infallibili
decisioni, dettava i canoni della credenza e le regole della disciplina
ecclesiastica e civile: vietato l’affidare funzioni pubbliche a
Musulmani o Ebrei, o il vendere armi agli Infedeli; frenata l’usura,
proscritti i Patarini, e per distinguersi da questi dovessero i
Cattolici almeno una volta l’anno comunicarsi alla propria parrocchia;
confermata la dottrina di Pier Lombardo intorno alla Trinità,
riprovando quel che n’avea scritto «il calabrese abate Gioacchino»,
scrittore mistico, rinomato per predizioni; ordinata pace generale per
quattro anni.
Vicario della divinità in terra pel governo temporale e per lo
spirituale, il pontefice avea dunque portate ad effetto le massime che
le Decretali avevano sancite, proclamando la potenza ecclesiastica
essere il sole, da cui, a guisa di luna, la imperiale traeva il suo
splendore[340]. Spiegando le relazioni del potere temporale collo
spirituale, Innocenzo III scriveva[341]: — Il Signore non solo per
costituire l’ordine spirituale, ma anche perchè una certa uniformità
fra la creazione e il corso degli avvenimenti l’annunzii autore di
tutte le cose, stabilì armonia fra cielo e terra, in modo che la
meravigliosa consonanza del piccolo col grande, del basso coll’alto, ce
lo riveli per unico e supremo creatore. Come stampò due grandi luminari
sulla volta celeste, così affisse al firmamento della Chiesa due
supreme dignità, una che splenda il giorno, cioè illumini gl’intelletti
sopra le cose spirituali, e franchi dalle catene le anime tenute
nell’errore; l’altra che schiari le notti, cioè gli eretici indurati
e i nemici della fede, e impugni la spada per castigo de’ reprobi
e gloria dei fedeli. E come, offuscando la luna, buja notte involge
le cose; così, quando mancasi d’imperatore, prorompe la rabbia degli
eretici e dei pagani».
Pretendenze non meno assolute sillogizzavano i giuristi, attribuendo
agli imperatori un potere senza limiti, quale avea formato la possa e
l’obbrobrio di Roma antica; e con argomento di pari calibro nelle nuove
università insegnando il _sacro impero_ elevarsi sopra ogni mondana
cosa, l’imperatore portare in mano il globo a significare la padronanza
sull’universo mondo.
Arroganze sì opposte doveano rinnovare il conflitto tra il pastorale
e lo scettro. Cominciato da Gregorio VII, erasi sopito con un
accordo, ove l’imperatore crebbe di vantaggi, il papa d’opinione. Dopo
ottant’anni si ridestò più palese e meglio determinato, non trattandosi
più d’una formalità feudale, ma se la Chiesa dovesse star sottoposta
all’Impero. Anche i lottanti erano ben differenti: l’inflessibile
Gregorio più non viveva, e al posto d’un Enrico IV, principe
scapestrato e inviso, stavano i principi di Svevia, nobili, generosi,
cortesi, fautori delle lettere, cinti da signori tedeschi, che fedeli
al re e alla donna di lui, lo seguivano del pari al torneo od alle
spedizioni oltre l’alpi e il mare.
Federico II, rampollo ghibellino allevato dal papa e da lui sostenuto
contro il guelfo Ottone, sicchè per ischerno veniva detto il re dei
preti, mostrò deferenza e rispetto a Innocenzo III finchè n’ebbe
bisogno: esortò il senato romano ad obbedirgli; nella dieta di Egra
solennemente professò, pei tanti favori avuti dalla romana Chiesa,
le sarebbe sempre rispettoso e sommesso; le confermava le concessioni
fatte da Ottone; l’aiuterebbe a conservare i dominj, e nominatamente
la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, e a recuperare i disputati,
come l’eredità della contessa Matilde; — Appena consacrati a Roma
(soggiungeva) emanciperemo nostro figlio Enrico, cedendogli il regno
nostro ereditario di Sicilia, sicchè il tenga come il teniam noi dalla
santa Sede; e noi rinunzieremo al titolo regio e al governo di quel
paese, di modo che mai non possa essere unito all’Impero»[342].
Oggi chiameremmo ciò politica; allora parve ipocrisia: giacchè al
tempo stesso ricusava far giustizia alle domande della Chiesa; pretese
che Innocenzo gli avesse peggiorato il patrimonio, e perciò a Ricardo
fratello di lui ritolse il contado di Sora, e spogliò altri che dal
papa erano stati investiti; fece anche morire qualche vescovo per
ribelle, e non rifiniva di lamentarsi che Roma raccogliesse chi a lui
era sfavorevole; e soltanto la morte sottrasse Innocenzo dal vedere il
suo pupillo morsicare il seno che l’aveva nodrito.
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