Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 21

compì sistematicamente la giurisprudenza canonica. Eugenio III dicono
l’approvasse, e l’autore con Ranieri Bellapecora pei primi professarono
tale materia in Bologna. L’opera sua comprende i canoni degli Apostoli,
quelli di cencinque concilj, le decretali de’ papi, non escludendo
quelle del falso Isidoro, e molti passi tratti da santi padri, da libri
pontificali, dal codice Teodosiano e da altri. Autorevole nel canonico,
come il codice Giustinianeo nel diritto civile, il Decreto di Graziano
trovò moltissimi commentatori: lo sceverarne la mondaglia doveva essere
cura di secoli meglio veggenti[319].
Successive consultazioni diedero luogo a nuove decretali, di cui una
raccolta fece Bernardo Circa, vescovo di Faenza poi di Pavia; una
fu ordinata a Pier di Benevento da Innocenzo III, ed approvata per
pubblica autorità; poi un’anonima dopo il 1215. Nessuna era completa,
e v’avea decreti incerti: pertanto Gregorio IX incaricò Raimondo di
Pegnafort barcellonese di raccorre le decretali posteriori al 1150,
ove finisce la compilazione di Graziano; onde venne il secondo corpo
e principale del diritto canonico, cresciuto anch’esso con successive
aggiunte.
Suprema efficacia ebbe lo studio del diritto, facendo rivivere a pro
de’ moderni l’esperienza degli antichi, disposta in un sistema di
leggi, ove tutto ciò che essenzialmente importa alla civile società
era determinato con sagacia, equità e precisione, ben superiore ai
tentativi de’ codici barbari. Introdotta la prova testimoniale, lo
spirito umano s’addestrò nell’indagare le verità ed applicarle, risalì
agli studj classici per meglio chiarire il senso, e quel ragionare sodo
e sopra i fatti emendava l’inclinazione sofistica delle scuole.
Ai baroni nè dottrina nè pazienza bastando, i leggisti presero il luogo
de’ feudatarj negli uffizj giuridici. Allettati dalla costituzione
romana, stabilirono essi una scuola teorica e pratica di governo, cui
primo canone era l’unità e indivisibilità del potere sovrano, talchè
guardava come usurpazione le signorie feudali, come non avvenuta
l’occupazione dei Barbari, e indegne del nome di leggi quelle emanate
da loro: fatto meraviglioso ed unico, che la legislazione morta d’un
popolo perito divenisse scienza politica e sociale per tutta Europa, e
che fin ad oggi i codici trovino appoggio, commento o supplemento nelle
decisioni di Papiniano e nell’opinione de’ glossatori.
Ben fa dolore che le nazioni nuove non abbiano pensato estrarne quel
solo che ad esse confacevasi, anzichè adottare intero un cumulo di cose
estranee ai costumi e all’ordine sociale nuovo, e principj assoluti, e
formole materiali, e rigide conseguenze, non armonizzanti colla società
nuova nè coi costumi moderni e col cristianesimo. Per vero, l’adottare
è molto più facile che lo scegliere; e la parzialità ghibellina aveva
interesse a considerare i Federichi come successori di Teodosio: onde
n’uscì una legislazione implicata, incoerente, ancora oscura dopo
infiniti commenti, e forse in grazia di questi.
Ma nelle città libere i giuristi costituivano un corpo, con impieghi
d’onore ed alte cariche e singolare considerazione: e persone elevate
portavano nella giurisprudenza gran senso pratico e reale dignità. Il
diritto poi fu un grande miglioramento sì alla legislazione, sì e più
alla condizione dei vulghi. Rispetto all’ordine delle successioni, ai
matrimonj, ad altri punti legali, i preti che ragione aveano di far
leggi inique? Ne’ concilj, composti di prelati d’ogni paese, specie di
areopago superiore alle convenienze feudali, e scevro di parzialità,
di rado i canoni si circoscriveano ad un paese; e togliendo per base
la morale anzichè la politica, servivasi alla rettitudine universale.
Le giurisdizioni signorili riuscirono men vessatorie in mano di abati e
vescovi che di conti e baroni, perchè il prete era obbligato ad alcune
virtù, da cui il laico si tenea dispensato. La carità e il perdono
delle ingiurie, essenza della morale cristiana, v’erano specialmente
comandati in tempi di guerra di tutti contro tutti. Più miti le pene;
abolita la croce e il bollare in faccia, per non deturpare l’immagine
di Dio; niuno sentenziato a morte, e spesso si mandava il reo a far
penitenza e migliorarsi ne’ chiostri. La tortura, approvata dal divino
Augusto[320] e conservata lungo tempo fin dagl’Inglesi tanto adulti
nella libertà, era esclusa dal diritto canonico: e doveano passar de’
secoli prima che la filosofia si facesse bella di tali documenti.
Il clero, alieno dalle armi, repudiava le prove del duello o
dell’ordalia[321], e vi surrogava i testimonj, e come prova sussidiaria
il giuramento; più regolare rendeva l’amministrazione della giustizia,
e le vendite, i prestiti, le ipoteche, giacchè richiamavasi al fôro
ecclesiastico ogni obbligo contratto con giuramento. Innocenzo III e il
IV concilio Lateranese istituirono il processo scritto, prescrivendo
che nel giudizio ordinario e nello straordinario il giudice si
faccia assistere da un pubblico notajo, se è possibile; e due persone
sufficienti scrivano gli atti, cioè le citazioni, proroghe, petizioni,
eccezioni, testimonianze, e così via, il tutto coll’indicazione de’
luoghi, de’ tempi, delle persone; e ne dia copia alle parti, serbando
l’originale per ogni caso di dubbio[322]. Il diritto stesso ebbe
determinato il metodo delle citazioni e la sostanza della processura,
agevolate le riconvenzionali, tentate le vie di conciliazione, negli
appelli distinto l’effetto devolutivo dal sospensivo, ai rimedj
possessorj dato ampiezza e rigore.
Mentre il diritto civile non lasciava star le donne in giudizio senza
consenso del marito, lo che impediva di reclamare contro di questo,
non così era de’ tribunali ecclesiastici, davanti ai quali veniva
contratta l’unione, stipulata la dote, discusso della infedeltà,
delle separazioni, del divorzio. Le leggi che proteggeano i beni
del clero insegnavano esistere un’altra proprietà non derivata dalla
spada, con altre garanzie che la violenza; garanzie che poi doveano
diventare comuni. Altre inviolabilità delle persone si conosceano dove
l’ecclesiastico era valutato a prezzo maggiore, non si potea sfidarne
i parenti, e l’offensore trovavasi a fare con una intera società
poderosa. L’asilo sottraeva il colpevole alla vendetta subitanea,
non già alla giustizia, a cui lo restituiva se riconosciuto reo:
l’escludere il duello obbligava ad accettare la composizione de’
tribunali. Laonde, mentre pareva intendere al solo interesse proprio,
la Chiesa operava per le nazioni, che un giorno si assicurerebbero come
diritti quei ch’essa introduceva come privilegi[323].
Così miglioravasi il potere legislativo, passato dai forti ne’
savj; più ne migliorava l’opinione: sicchè al cristianesimo, dice
Montesquieu, andiam debitori di un certo diritto delle genti nella
guerra, di cui la natura umana non potrà mai essergli abbastanza
riconoscente; il qual diritto fa tra noi che la vittoria lasci ai vinti
la vita, la libertà, le proprietà, le leggi, la religione. Dopo di che,
io mi confesso propenso a compatire ai compilatori delle Decretali se
non ebbero bastante critica per discernere le false, e se credettero
veramente che il papa fosse superiore a tutti i vescovi, e potesse
imporre ai re d’esser giusti e di non opprimere d’imposte i popoli.
Intanto colla giurisprudenza la dottrina usciva dal santuario, e
lo scienziato non era soltanto _cherico_ ma anche dottore. Tutte
quelle discussioni poi, miste di teorica e di pratica, attestano un
inaspettato movimento intellettuale, che innovava la società non meno
che lo facesse lo sviluppo politico. Perocchè, quando una nazione
si sveglia, estende la sua attività sopra tutte le parti, siano le
politiche come le intellettuali e morali.
Università chiamavasi già prima qualunque libera unione; e quel
nome presero anche gli scienziati in associazioni libere che
prevenivano l’azione de’ governi, e che ciascuna amministrava i
proprj affari. Qualche scienziato di grido prendeva a leggere in una
città; accorrevano uditori, altri dotti ne profittavano per venirvi
a spacciare la propria dottrina, e così formavasi una università.
In tanta scarsezza di libri e d’istruzione particolare non poteasi
imparare che dalla viva voce, onde non vi concorrevano ragazzi, ma
uomini fatti e già ragguardevoli; ed assumendo l’aria della società
civile, costituivansi a modo di Comuni, con onori e franchigie per
gli studenti e i professori; e avvivate dall’interesse che ispira la
verbale comunicazione fra questi e quelli, cogli studj indipendenti
crescevano di forza e dignità; e al modo de’ Comuni, cercavano
privilegi ai re e ai papi, il principale dei quali era di poter
conferire il dottorato.
I professori, ai quali grande incitamento dava il trovarsi esposti al
guardo di tutta l’Europa letteraria, erano rimunerati dagli scolari,
nè l’università mantenevasi che per la reputazione di quelli. Le città,
vantaggiate dal concorso degli studiosi, adoperavano a mantenere quelle
unioni; poi fecero gara di offrire grossi stipendj.
E maestri e università erano dunque tutt’altra cosa di queste moderne,
fomite inutile di corruzione in una gioventù che, mentre potrebbe
dappertutto ritrovare e libri e insegnanti, è raccolta a dissipare
fra lo stravizzo e il mal esempio il fiore dell’età, la freschezza
de’ sentimenti, i precetti morali bevuti al focolare paterno, e far
le prime prove del vizio, seguendo un corso uffiziale sotto professori
di cui non ha stima e fiducia, ma che sono decretati da un governo che
forse disama.
L’importanza delle università fece favoleggiarne le origini. Quella
di Bologna si pretendea fondata da Teodosio II nel 443; ma il primo
privilegio, copiato da quel di Giustiniano per Berito, le fu rilasciato
in Roncaglia da Federico Barbarossa, onde proteggere quei che di
fuori venissero a quello studio, esimerli da processo per delitti o
per debiti, e potessero scegliere la particolare giurisdizione dei
professori, per esercitare la quale l’università eleggeva il rettore.
Da principio vi si studiò soltanto diritto, poi si aggiunsero arti
liberali e medicina; al fine Innocenzo VI v’unì scuola teologica sul
modello della parigina, sorta contemporaneamente, e che avea vanto
nella teologia scolastica e nella filosofia, come Bologna nella
giurisprudenza. Furono le due università più nominate nel medioevo:
ma la bolognese era composta degli scolari i quali sceglievano dei
capi, a’ quali dovevano rispondere anche i professori; alla parigina
non appartenevano che i professori, subordinati restando i discepoli:
sistemi derivanti dal diverso Governo delle due città e dalla natura
dell’insegnamento; quella, repubblica e volta alle leggi; questa,
monarchia e teologica.
A Bologna dunque i varj portici formavano distinte università; e
quella del diritto era divisa in due, degli ultramontani con diciotto
nazioni, dei citramontani con diciassette[324]. Gli stranieri studenti
di diritto (_advenæ forenses_) godeano piene prerogative civili;
e convocati dal rettore, cui annualmente giuravano obbedienza,
costituivano università propria, con voce nelle assemblee. Ciascuna
nazione faceasi rappresentare da uno o due consiglieri, i quali,
col rettore, costituivano il senato per la disamina degli affari.
Un sindaco annuo rappresentava in giustizia le due università: un
notaro ne rogava gli atti, annuale anch’esso, come il massajo e i due
bidelli. Ogni anno pure eleggevasi un tassatore dalla città ed uno
dagli studenti, che fissassero il prezzo degli alloggi: lo scolaro avea
facoltà di rimanere tre anni nella casa prescelta; e il padrone che
esigesse di più, o a torto si querelasse del pigionale, o lo trattasse
men convenientemente, non potea più dare albergo ad altri.
I professori, all’atto della promozione, poi una volta all’anno doveano
giurare obbedienza al rettore e agli statuti: potevano essere sospesi
e multati, non portar voto nelle adunanze, nè sostenere le cariche
dell’università: altrettanto era degli scolari natii di Bologna,
che non rimanevano sottratti dall’autorità municipale. Il rettore,
che doveva essere letterato, celibe, d’almeno venticinque anni,
di sufficienti sostanze, avere a proprie spese studiato il diritto
almeno cinque anni, e non appartenere ad ordini religiosi, rinnovavasi
annualmente a voce del predecessore, de’ consiglieri e di alcuni
elettori scelti dalle università; e nelle funzioni aveva il passo
sopra vescovi ed arcivescovi, eccetto quel di Bologna, ed anche sopra i
cardinali secolari. Il titolo di _magnifico_ nacque nel XV secolo.
Pertanto nella città di Bologna quattro distinte giurisdizioni
vegliavano: i magistrati ordinarj, la curia vescovile, i professori,
il rettore. Le frequenti collisioni tra questi, l’irrequietudine degli
studenti e le riotte agitarono spesso la repubblica; qualche fiata gli
scolari tutti ritiraronsi in un’altra città, finchè non si consentisse
alle esorbitanti loro domande; qualche altra, dai papi scomunicata o
messa al bando dell’Impero, Bologna vedeva migrare la dotta folla, a
cui dovea vita e ricchezze. Con grandi privilegi la città allettava
gli studiosi; esimeva i professori dal servigio militare, poi da ogni
tassa; rifaceva de’ furti sofferti, se il rubatore non potesse.
I dottorati doveano giurare non insegnerebbero altrove che a Bologna;
e morte e confisca era minacciata ai cittadini che sviassero uno
scolaro da quell’università, e così a professori bolognesi maggiori
di cinquant’anni, o agli stranieri stipendiati che passassero ad
altra scuola prima che la condotta scadesse. L’università toglieva
in protezione gli artisti che a servizio di essa lavoravano, come
amanuensi, miniatori, legatori, i fanti degli studenti, e alcuni
banchieri privilegiati per dare a prestanza agli scolari. Una bizzarra
regola imponeva agli Ebrei di pagare centoquattro libbre e mezzo ai
legali, e settanta agli studiosi delle arti per fare un festino in
carnevale. Alla prima neve che fioccasse, gli studenti andavano alla
busca, e di quel raccogliessero faceano statue o ritratti ai più
celebri professori.
Dell’arcidiacono di Bologna era privilegio il laureare, nè altro
benefizio egli godeva che una parte delle propine. Il dottorato
conferivasi come grado dal collegio de’ legali, e dava diritto
d’insegnare e d’essere promosso: sebbene ai posti supremi non
s’elevassero che natii bolognesi. Sei anni di studio si richiedevano
per passar dottore in diritto canonico, otto pel civile; giurato
d’aver compito questo tempo, lo scolaro sosteneva l’esame privato e il
pubblico; e sopra due testi assegnati disputava innanzi all’arcidiacono
e al dottore che lo presentava, libero essendo agli altri dottori
d’objettare; e tosto era ricevuto fra’ licenziati. L’esame pubblico
teneasi nella cattedrale in solenne pompa, ove il licenziato recitava
la disposta diceria, ed esponeva una tesi di diritto, contro cui
gli studenti potevano argomentare; indi l’arcidiacono o un dottore
pronunziava l’encomio acclamandolo dottore, e gli si davano il libro,
l’anello, il berretto. Giuramento d’adempier bene gli obblighi del
dottorato non si prestava, sibbene alcuni giuramenti particolari.
Laureato che uno fosse, avea diritto d’insegnare non solo a Bologna,
ma in qualunque università costituita per bolla papale. Ogni scolaro,
dopo cinque anni di studio, poteva insegnare, ma sopra un titolo solo;
e dopo sei, sopra un trattato intero, annuente il rettore: questi
chiamavansi baccellieri. Il corso durava dal 19 o 28 novembre al 7
settembre; e ogni giovedì era vacanza, qualora nella settimana non
cadesse altra feria. Le lezioni si facevano parte all’avemaria del
mattino, parte dopo le diciannove ore, tutte occupate nell’insegnamento
orale. I corsi distinguevansi in ordinarj e straordinarj, secondo
i libri. Testi ordinarj, pel diritto romano il Digesto vecchio e il
Codice, pel canonico il Decreto e le Decretali: ogni altro libro era
straordinario, e i professori autorizzati a leggere su questi non
poteano insegnare sugli ordinarj.
Nel 1260 vi si contarono fin diecimila scolari, con gran lucro dei
professori. Ai quali poi si assegnarono pubblici stipendj; e nel 1384
ne troviamo a Bologna diciannove pel diritto, aventi dai cinquanta ai
trecento fiorini di trentatre soldi. Quando furono tutti stipendiati,
il professorato si riguardò come pubblica funzione.
Lo studio della giurisprudenza tardò ad introdursi nelle università
forestiere, di modo che il trionfo di quella scienza fu sempre in
Italia, e non per decreto o favore de’ sovrani, ma per necessità dei
tempi. Alle città lombarde, libere, trafficanti, ricche, popolose, non
bastavano più le anguste transazioni dei codici germanici e la scarsa
cognizione del romano: dileguandosi il diritto personale introdotto da
Carlo Magno, s’abituavano a considerare gran parte dei popoli d’Europa
come intimamente uniti sotto l’Impero, e fra le varietà nazionali
riconoscere alcun che di comune, l’Impero, la Chiesa, la lingua latina.
Ora, appena formatasi la scuola bolognese, e diffuse le cognizioni coi
consulti, cogli scritti, con nuove scuole, anche il diritto romano si
considerò comune a tutta cristianità, il che lo ingrandiva nel concetto
de’ popoli.
In Bologna primamente fu aggiunta agli altri studj la grammatica, e
Buoncompagno fiorentino, il quale fu coronato d’alloro, vi lesse la
sua _Forma literarum scholasticarum_, metodo per iscrivere a principi
e magistrati. Era costume che, chi bramava professare grammatica,
mandasse innanzi un’epistola, stillante eleganza ed erudizione,
_picturato verborum fastu et auctoritate philosophorum_; onde
Buoncompagno, motteggiatore superbo, ne finse una di siffatte, quasi
venisse da un professor nuovo, che chiamava a sfida lui stesso. Ne
tripudiarono gli emuli, levando a cielo la forbitezza della lettera
finta; poi al dì prefisso si raccolsero affollati nella metropolitana:
ma Buoncompagno sopragiunto manifestò la burla e mandò scornati i
rivali, mentre gli amici portarono lui a casa in trionfo.
Sturbati dai tumulti civili di Bologna, alcuni scolari trapiantarono
a Padova la scuola di diritto (1222), divenuta poi nucleo di
quell’università, con statuti modellati sui bolognesi: se non che
nella comunanza entravano studenti, professori ed impiegati; e i
maestri erano eletti dagli scolari. Nessun suddito veneto saliva ad
alte magistrature, che non avesse studiato in quella università, la
sovraintendenza della quale era affidata a tre senatori. Un’altra
volta quegli scolari aveano trasferita l’università a Vicenza (1264),
ove durò sette anni. Un’altra (1316) si mutarono a Siena, che offrì
seimila fiorini per riscattare i libri da essi lasciati in pegno:
ma quella scuola fu presto chiusa, indi ripristinata da Carlo IV nel
1357; la facoltà teologica vi fu aggiunta nel 1408 da Gregorio XII.
L’università di Perugia nacque il 1276: della parmense (1221) è memoria
in Donnizone[325]. Il Comune di Vercelli nel 1228 ne aperse una per
teologia, diritto civile e canonico, scienze mediche, dialettica,
grammatica, divisa in quattro nazioni, una di Francia, Normandia,
Inghilterra, una d’Italiani, la terza di Teutonici, l’ultima di
Provenzali, Spagnuoli, Catalani; i rettori si obbligavano a condurre
molti scolari, e principalmente trarvene da Padova, non allearsi alle
fazioni del paese; e il Comune prometteva allestire cinquecento camere
agli scolari, buon mercato di vettovaglie, pubblica tranquillità,
non lasciarli inquietare per debiti o per rappresaglia, stipendiare a
detta di due scolari e due cittadini i maestri che sarebbero eletti dal
rettore.
Fin dal XII secolo Pisa avea professori di diritto, ma lo studio
generale soltanto nel 1444 vi fu trasferito da Firenze, quasi a ristoro
della rapitale libertà, assegnandole annui seimila fiorini d’oro sul
tesoro, e cinquemila ottenendone dal papa per dispensa di benefizj,
onde lautamente provvedere ai professori[326]. È anteriore a Federico
II la scuola di Ferrara, da Bonifazio IX nel 1391 privilegiata come
studio generale. La romana, posta da Innocenzo IV, fu colla santa Sede
trasferita in Avignone, e Giovanni XXII la autorizzò a conferire i
gradi. Federico II istituì le scuole di Napoli nel 1224; sebbene non
permettesse di formare l’università di scolari e professori, largheggiò
di privilegi cogli studenti; ma non potè mai levarle a quel fiore che
ottenevano le scuole fondate dal libero concorso e dalla fiducia degli
studiosi.
Altre n’ebbe Italia in que’ secoli e ne’ seguenti, massime di
diritto, a Piacenza (1243), a Modena (1189), a Reggio (1188). Da
Carlo IV nel 1360 fu privilegiata quella di Pavia, e Galeazzo Visconti
proibì a’ suoi sudditi di studiare altrove, e largamente rimunerò i
professori[327]. Quella di Torino fu riconosciuta dal papa solo nel
1405, e sei anni dappoi dall’imperatore: cancelliere n’era il vescovo.
All’università di Parigi, famosa per teologia, Alessandro III spedì
molti giovani ecclesiastici; molti Venezia di quelli che doveano poi
salire ai primi onori.
Resta che diciamo dell’altro studio universitario, la medicina.
V’aveano rinomanza gli Arabi, che tradussero e commentarono gli autori
greci, e tramandarono a noi varj medicamenti ed elixir. Anche gli Ebrei
erano medici e chirurghi reputati, e ne’ libri talmudici si trovano
idee molto avanzate intorno all’anatomia. Fra’ Cristiani, questo,
come ogni altro sapere, venne a ridursi in mano di ecclesiastici e
principalmente di monaci, sebbene a questi dai canoni fossero vietate
le operazioni con fuoco e ferri taglienti; e san Benedetto a’ suoi
di Montecassino e Salerno impose la cura de’ malati. Costantino
Africano filosofo, visitate per quarant’anni le scuole arabe a Bagdad,
in Egitto, nell’India, di ritorno corse rischio d’essere ucciso
per mago (1070 ?); onde rifuggì a Salerno, e divenne secretario di
Roberto Guiscardo; poi nauseato dal fragor cortigiano, si ritirò
a Montecassino, traducendo i medici orientali. Ne crebbe rinomanza
alla scuola salernitana, e v’affluivano malati, alla cui guarigione
contribuivano la salubre posizione e le reliquie di san Matteo, santa
Tecla e santa Susanna. Venuto Enrico II a farsi estrarre la pietra,
san Benedetto durante il sonno compieva l’operazione, ponevagli la
pietra in mano, e cicatrizzava la ferita[328]. Nel secolo seguente,
sotto la direzione di Giovan da Milano vi si scrissero certi canoni
d’igiene in versi leonini, divulgati proverbialmente[329] e tradotti
in tutte le lingue. Poco dopo il Mille, Garisponto medico di Salerno
pubblicò il _Passionarius Galeni_, rimedj contro ogni sorta malattie,
tratti principalmente da Teodoro Prisciano: nè meglio vale Cofone, che
pubblicò una terapeutica generale (_Ars medendi_) secondo Ippocrate,
Galeno e gli Arabi, dove è a scorgere la prima indicazione del sistema
linfatico. Romualdo vescovo di Salerno fu consultato dai due Guglielmi
di Sicilia e dal papa. L’_Erbario_ della scuola salernitana, compilato
certamente prima del secolo XII, si diffuse per tutta Europa.
Questa scuola fu la prima in Occidente ad introdurre i diversi
gradi accademici, imitandoli dagli Arabi. Dappoi Federico II ordinò,
nessuno esercitasse medicina se non licenziato da essa, e provato
di nascere legittimo, aver compito ventun anno, studiato logica tre
anni, poi cinque l’arte, e la chirurgia _che ne forma piccola parte_,
e spiegato l’_Arte_ di Galeno, il primo libro d’Avicenna, o un passo
degli _Aforismi_ d’Ippocrate, ed aver fatto pratica sotto un esperto.
Il candidato giurava attenersi alle cure consuete, denunziare il
farmacista che adulterasse i medicamenti, e trattare i poveri senza
mercede. Dai chirurghi chiedeasi un anno di studio a Salerno e Napoli,
poi un esame. Da poi si prescrissero cento minuzie; il medico visiti
due volte al giorno i malati che dimorano entro la città, e che possono
anche chiamarlo una volta la notte: il compenso era di mezzo tarì per
giorno, e fino a tre se il malato abitasse fuori. Così per le farmacie
era assegnata la tariffa, e dove piantarle, e gelose precauzioni.
Allettavansi i medici con privilegi, esentarli da taglie, provvederli
d’uno o due cavalli; e Ugo di Lucca s’obbligò servire gratuitamente
a quei del contado bolognese nelle malattie ordinarie; ma per ferita
grave, osso rotto o slogato, possa da gente mezzana esigere un carro di
legna, dai ricchi soldi venti e un carro di fieno, nulla dai poveri;
accompagni l’esercito in campo, ed in compenso tocchi lire seicento
bolognesi. Fu dei primi a curar le ferite con solo vino[330], e seguì i
suoi concittadini in Terrasanta nel 1218.
Quell’abitare a troppi insieme, il vestire di lana, i pellegrinaggi,
le nessune cautele sanitarie, agevolavano la propagazione de’ mali, e
la peste può dirsi non cessasse mai; ne’ tempi più infetti vedeansi a
folla trarre i pellegrini a perdonanze e giubilei; e tardi si pensò
a contumacie ed altri provvedimenti contro il contagio; nel che il
Comune di Milano diede forse il primo esempio. Dal Levante vennero
pure malattie nuove, di cui la più durevole e funesta fu il vajuolo,
che sembra arrivasse cogli Arabi al primo loro sbucare dalla penisola
natìa. Coi Crociati credesi qui venuto il fuoco sacro, a curare il
quale si dedicarono i frati di Sant’Antonio. Anche il ballo di san Vito
comparve dopo il Mille, come nella Puglia la tarantella. Più spesso
la lebbra serpeggiò sotto forme orride e schifose: prurito alle mani,
atroci spasimi interni; poi la pelle facevasi squamosa, e chiazzata di
macchie livide, rosse e fin nere, infine scabra quasi scorza d’alberi;
allora si copriva d’ulceri rossastre e tumori cancerosi; dita, mani,
piedi tumefacevansi sformatamente; le carni cadeano a brani, restandone
miserabilmente segnata la via dove molti fossero passati: il viso
prendeva un ringhio ributtante, i peli cadeano, rauca la voce; il male
invadeva il tessuto mucoso, membrane, glandule, muscoli, cartilagini,
ossa: fiera melanconia occupava l’infermo, che vedeva a passi
lentissimi avvicinarsi l’inevitabile risolvimento del morbo.
Sotto i Longobardi i lebbrosi cacciavansi di città, e non poteano
vendere od alienare i proprj averi, affiggendovi l’idea d’un
particolare castigo di Dio, secondo qualche passo della Bibbia,
della quale vi si applicarono le precauzioni. Gli statuti d’ogni
Comune provvedono sullo scoprirli ed isolarli: la Chiesa stessa, che
parea maledirli, veniva a disacerbare le miserie, e a volgerle in
espiazione colle cerimonie miste di tristezza e di speranza, onde li
staccava dalla società. Celebrato in presenza dell’infermo l’uffizio
da morto, esortava ad essere buon cristiano e confidare nella carità
dei fratelli, da cui corporalmente era sequestrato; gli si vietava
d’accostarsi all’abitazione dei viventi, di lavarsi in rivo o in
fontana, d’andare per istrade anguste, di toccar bambini o la fune dei
pozzi, nè bevere che dalla sua scodella; poi benedetti gli utensili
che doveano servirgli nella solitudine, fattagli limosina da ciascun
assistente, il clero accompagnato dai fedeli lo conduceva alla
capanna destinatagli, davanti a cui piantata una croce di legno, vi
sospendeva un bossolo per ricevere la limosina de’ passeggeri. Un abito
particolare distingueva quell’infelice, e guanti e certi battagliuoli
ch’e’ dovea sonare invece di parlare. A Pasqua poteva uscire
dall’anticipato sepolcro, e per alcuni giorni entrar nella città o
nei villaggi, partecipe all’universale esultanza della cristianità. Le
mogli poteano seguirli, e procacciare le consolazioni della famiglia.
Quelle poi della carità erano pari al male: il concilio Lateranese III,
disapprovando il rigore con cui alcuno li trattava, dichiarò la Chiesa
esser madre comune dei Fedeli; i lebbrosi poter essere più meritevoli
che i sani; perciò si facesser loro e chiesa e cimitero distinti, e un
prete a cura delle loro anime, e dispensati dal dare la decima degli
orti e del bestiame. A loro pro moltiplicavansi i lazzaretti, così
denominati (ed essi lazzari) dal povero del vangelo. L’arcivescovo di
Milano alla domenica delle palme, andando in processione a San Lorenzo,
al Carrobbio lavava e vestiva di nuovo un lebbroso; per ispeciale loro
sollievo fu istituito l’ordine di san Lazzaro, il cui granmaestro
doveva essere lebbroso, acciocchè meglio sapesse consolare mali che
avea provati: stupendo sforzo della cavalleria cristiana il nobilitare