Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 20
udendo un cortigiano paragonare la reggia alla maestà del cielo, come
avrebbe potuto fare un poeta napoleonico, esortò a farlo vergheggiare
perchè più non osasse bestemmie tali: se accondiscese a Guglielmo,
seppe evitare il conflitto che prevedeva imminente col potere
ecclesiastico.
I tanti affari non lo distolsero dagli studj, e risuscitando l’arte
critica, confrontò, corresse i testi che Berengario avea falsati per
negare la presenza reale nell’eucaristia: sviluppandosi dalle fasce
scolastiche, spaziò in modo oratorio; e riprovando la sottigliezza dei
tropi e dei sillogismi e l’_inane dialettica_ d’Aristotele, chiama
sapiente chi conosce e glorifica Dio, e pienezza della dottrina
l’intenderne il mistero e la sapienza.
Discepolo suo, e successore nel priorato di Bec, poi
nell’arcivescovado, Anselmo d’Aosta (1033-1109), con fermezza calma
e dolce, non affrontando la persecuzione, ma non isviando punto dal
sentiero per evitarla, intelletto elevato e cuor puro, carattere
amabile che traeva grandezze dalla fede profonda e dall’amor di Dio,
per sagacia e pietà fu qualificato un secondo Agostino, e sulle traccie
di questo diede dimostrazioni ancor venerate sopra l’essenza divina, la
trinità, l’incarnazione, la creazione, l’accordo del libero arbitrio
colla Grazia. I suoi monaci l’aveano pregato a valersi di forme
agevoli, e d’argomenti adatti alla comune capacità, e provare per via
di raziocinj rigorosi e necessarj[308]: e in fatto nel _Monologium_
s’industria a spiegare la scienza delle cose soprannaturali per via
di razionali principj, cercando l’alleanza della fede colla ragione,
proteggendo la religion naturale e la rivelata da tutte le objezioni
mediante un argomentar sottile; estendendosi anche alla metafisica
e alla fisica, che speculano l’una sulla parola rivelata, l’altra
sulla natura manifestata dai sensi; e digredendo su altre materie non
immediatamente connesse col dogma. Al supremo problema dell’intelletto
cercò egli spiegazione nell’idea universale, la quale non potrebbe
sussistere come percezione dello spirito senza la realità dell’oggetto;
eccedette fosse quella della perfezione infinita di Dio, il quale
nell’ordine logico sta a capo di tutte le idee, come di tutti gli
esseri nell’ordine reale.
Lo stolto che dice _Non v’è Dio_, concepisce un essere a tutti
superiore, sebbene affermi che non esiste. Affermazione assurda,
atteso che quest’ente resterebbe inferiore a un altro che a tutte le
perfezioni congiungesse l’esistenza. Sono gli argomenti stessi che
furono svolti poi da Cartesio; ed un monaco dell’XI secolo trovava
e precisamente esponeva la sola prova compiuta e soddisfacente
dell’esistenza di Dio, cioè elevava la coscienza fino alla nozione
dell’essere, ed edificava una teologia dottrinale sovra un concetto
della ragione. Mettendo in scena un ignorante che cerca la verità colla
scorta dell’intelletto puro, vuol mostrare che la ragione non riprova
ma comprova le verità rivelate; e protestando insieme che la fede non
cerca comprendere ma credere, chiaramente determina i confini della
filosofia e della teologia.
Ricondurre le quistioni scolastiche al punto ove i padri le aveano
lasciate fu l’assunto di Pier Lombardo (1100-1164), fanciullo novarese,
mantenuto per carità agli studj, poi vescovo di Parigi. Nei quattro
libri _Sententiarum_ raccolse in un ordine alquanto arbitrario le
proposizioni dei santi Padri intorno ai dogmi, sicchè non rimanesse che
d’applicarle nelle varie quistioni. Ma poichè delle difficoltà esposte
non porgeva la soluzione, apriva campo a troppe dispute dialettiche
ed a sottigliezze, per quanto egli richiamasse continuo verso gli
studj positivi e i monumenti della prisca filosofia cristiana. Inoltre
dava in argomenti speculativi: — Iddio padre, generando suo figlio,
generò se medesimo o un altro Dio? generò di necessità o per elezione?
egli stesso è Dio spontaneamente o necessariamente? Gesù Cristo potea
nascere d’una specie d’uomini differente dalla stirpe d’Adamo? potea
prendere il sesso femminile?» accettava autorità apocrife; e quando la
logica gli paresse condurre a conclusioni diverse dalla fede, diceva:
— Su questo punto amo meglio udire altri, che non parlare io stesso».
Pure il _maestro delle sentenze_, com’egli fu titolato, rimase il testo
delle scuole, ebbe replicate edizioni ne’ primi tempi della stampa;
Racine, nel ristretto di storia ecclesiastica, gli dà ducenventiquattro
commentatori, che, a detta del conte di San Raffaele, si potrebbero
facilmente raddoppiare; e fin a mezzo il secolo passato l’università di
Parigi celebrava l’anniversario di lui con esequie assistite da tutti i
baccellieri licenziati.
D’altra levatura e originalità fu Tommaso dei conti d’Aquino (1227-74),
castello di cui vedonsi gli avanzi presso Montecassino. Pronipote di
Federico Barbarossa, cugino di Enrico VI e di Federico II, discendente
per madre dai principi normanni, abbandonò le delizie e le speranze
della condizione sua per vestirsi domenicano, malgrado de’ parenti.
Gracile di salute, taciturno, assorto nelle meditazioni, i condiscepoli
canzonando quel suo fare semplice, gli occhi incantati, la bocca
chiusa, lo chiamavano il bue muto di Sicilia. Ma ben presto mostrò
intelletto filosofico s’alcun mai, erudizione estesissima, passione de’
grandi risultamenti; e a quarantun anno si propose coi materiali sparsi
della scienza coordinare la prima volta in sistema compiuto la teologia
e la filosofia. I conflitti che da dodici secoli la Chiesa sosteneva
intorno ai fondamentali articoli della fede, e quanto aveano insegnato,
approvato, riprovato i Padri, i dottori, i papi, i concilj, compendiò
in un volume. La scienza e l’erudizione tutta che al suo tempo avessero
Cristiani od Arabi, svolse sotto la forma del sillogismo, in maestosa
sintesi tendendo a riprodurre l’ordine assoluto delle cose, Dio uno, la
Trinità, la creazione, le leggi del mondo, l’uomo, la Grazia; e opporre
la verità agli errori moltiformi che venivanle opposti dal Corano, dal
Talmud, dal manicheismo. Ch’egli si occupasse di scienze al tempo suo
non esistenti, o usasse una lingua che l’età sua non gli dava, nessuno
lo pretenderà; mentre eccitano meraviglia la chiarezza, la brevità
nervosa, la schietta indagine della verità, che con bella e profonda
definizione egli fa consistere in un’equazione tra l’asserto e il suo
oggetto[309].
All’ispirazione ed elevazione dei primi Padri non arriva egli, ma
porge formole dotte e profonde distinzioni, il suo metodo consistendo
nell’appoggiare col sillogismo una maggiore assiomatica, data da
quelli. Pertanto posa un teorema, poi sillogizza tutte le opposizioni
filosofiche (_videtur quod non_), mettendo l’objezione condensata,
multipla, in tutta la sua forza, per modo che poterono da lui
attingere eresie e difficoltà quanti ebbero la mala fede di sopprimere
le risposte. Non si ferma a confutarla, ma in contraddizione (_sed
contra_) adduce alcuni passi di Aristotele, della Bibbia, dei Padri,
principalmente di sant’Agostino, e prova conciso e preciso, facendo
brillar la vera luce accanto alla falsa, sicuro che ne risulterà
la certezza. Allora ripiegandosi sopra l’objezione, la distrugge
invincibilmente (_conclusio_) collocando la sua risposta in termini
concisi, enucleandoli poi dialetticamente, e non di rado con poche
parole d’inarrivabile precisione recidendo avviluppatissimi problemi; e
adoprandovi un mirabile buon senso ognora calmo, imparziale, lontano da
sistematiche esclusioni, disposto ad accettar tutto il vero, approvare
tutto il buono.
Quanto al fondo, sostiene che la scienza deriva da Dio e a Dio si
riferisce, atteso che il filosofo, sempre in traccia del primo ente e
della cagion delle cose, e proponendosi il perfezionamento dell’uomo,
è costretto elevarsi alla causa ed alla ragion prima. E siccome nella
società umana dirige colui che maggiore intelletto possiede, così nelle
dottrine quella che si occupa delle cose più intelligenti, cioè la
metafisica, scienza dell’essere in generale e delle sue proprietà, che
considera le cause prime nella loro purezza e comprensibilità maggiore.
Scienza di Dio, dell’uomo, della natura, la teologia risale a Dio per
contemplarlo, e col raggio che ne attinge discende la scala del creato
illuminando le sfere inferiori. Fra i corpi puramente materiali e il
mondo delle pure intelligenze, riflesso della vita e delle perfezioni
di Dio, sta l’umanità, partecipe degli uni e degli altri: tre mondi
connessi da legami infiniti, donde risultano l’ordine naturale e il
soprannaturale, e in seno all’opera di Dio nasce l’opera dell’uomo,
mediante la libertà creata. Di qui la mistura di bene e di male, di
verità e di errore, che costituisce la storia umana. Delle creature
alcune sono assolutamente immateriali, altre materiali, altre miste; e
nel formarle Iddio si propose il bene, cioè di assimilarle a sè. Del
qual bene partecipano anche i corpi, in quanto possiedono l’essere
e sono l’effetto della bontà divina; e concorrono alla perfezione
dell’universo, che deve contenere una gradazione di esseri, gli
uni subordinati agli altri secondo che più o meno perfetti. Chi li
consideri uno ad uno, non ne vede che l’inanità: ben altrimenti chi
li guardi come istromenti degli spiriti; avvegnachè tutto ciò che
si riferisce all’ordine spirituale appar più grande quanto più viene
conosciuto.
Culmine della creazione è l’uomo, il cui spirito vive di triplice vita,
la sensiva, la vegetativa e la razionale, la quale ancora si divide
in intelligente e volitiva. A quest’ultima san Tommaso assegna regole
rettissime, giacchè fondate sugl’insegnamenti della Chiesa: ma poichè
il nostro lavoro verte tanto sulla scienza degli Stati, noi lasceremo
il resto per arrestarci alquanto sul diritto e la politica di lui, che
insomma sono quelli professati dal clero, quand’anche non applicati.
Fonda Tommaso la sua teoria del diritto sopra la legge. Questa è
quadrupla: l’_eterna_, legge del governo divino generale del mondo;
la _naturale_, partecipazione della legge eterna, valevole per tutti
gli enti finiti razionali; l’_umana_, riferibile alle condizioni
particolari degli uomini; la _divina_, che consiste nell’ordine di
salute da Dio stabilito nella sua _speciale_ provvidenza per gli
uomini. Il diritto nello Stato è _naturale_, fondato nella natura
invariabile dell’uomo, o _positivo_, stabilito per convenzione o
promessa: e concerne solo la legalità degli atti esterni, mentre la
giustizia interiore impone di fare il giusto per amor di Dio.
La legge è una misura imposta ai nostri atti, un motivo che ci spinge
o distoglie dal fare, una dipendenza della ragione: ed ha per iscopo
il ben essere comune. Dovendo il fine essere adempito da chi vi ha
interesse immediato, le leggi saranno opera di tutto il popolo, o
di chi del bene di esso è incaricato; e però la legge può definirsi
«un ordine ragionevole a comune vantaggio, promulgato da chi ha cura
del pubblico interesse». Diretta a mantenere la pace e propagare la
virtù fra gli uomini, deve conformarsi alla giustizia pel fine che si
propone, per l’autore da cui deriva, per le forme che osserva, cioè
mirare al bene dei più, non trascendere l’autorità del legislatore,
ed equamente distribuire i pesi che ciascuno dee portare pel comune
vantaggio. È ingiusta ove s’opponga al bene relativo dell’uomo, o al
bene assoluto che è Dio: e in tal caso non è legge ma violenza, nè
obbliga al fôro interno, se non fosse per gli scandali che produrrebbe
la trasgressione. E per natura e per ragione si deve a gradi procedere
dal meno al più perfetto; onde i cangiamenti nella legislazione sono
giustificati dalla mobilità della ragione, dalla mutabilità delle
circostanze. Popolo pacifico, grave, oculato ai proprj vantaggi, ha
diritto di scegliere i suoi magistrati; lo perde se corrotto.
Vuolsi che durino la città e la nazione? tutti abbiano parte al
governo generale, acciocchè tutti sieno interessati a mantenere la
pace pubblica; nella forma politica le autorità si bilancino. La più
destra combinazione sarebbe un principe virtuoso, che sotto di sè
ordinasse un certo numero di grandi cariche per governare secondo
l’equità, cernendoli da ogni classe e sottoponendoli ai suffragi della
moltitudine, col che associerebbe al governo l’intera società. Il
principe deve al suddito la fedeltà stessa che ne esige: se avvilisce
Dio ne’ poveri, imita i soldati che percotevano Cristo colla canna
messagli in mano: se grava le imposte, pecca d’infedeltà agli uomini,
d’ingratitudine a Dio, di sprezzo agli angeli custodi, sopra i quali
ricadono le offese recate ai loro custoditi.
Colpa mortale sarebbe la ribellione contro alla giustizia e all’utilità
comune, non il resistere e combattere pel pubblico bene. Principe che
si propone il personale soddisfacimento anzichè la comune felicità,
cessa d’essere legittimo, e l’abbatterlo non è più sedizione, se
pur non si operi con disordine tale da cagionare mali maggiori
della tirannia stessa. Il tiranno si tiene fra certi limiti? convien
tollerarlo per cansare pericolo di peggio; eccede? può essere giudicato
e anche deposto da un potere regolarmente costituito: attentare contro
la sua persona per fanatismo e vendetta non è mai lecito.
Su questi larghi principj posavasi il liberalismo, che la Scuola talora
spinse fin al di là; donde la taccia che il secolo nostro, ipocrito
in parole come sguajato in fatti, le dà di avere giustificato il
regicidio. Al moderno diritto delle genti pose Tommaso le fondamenta,
che lo distinguono dal micidiale degli antichi: e certi missionari d’un
nuovo cristianesimo, che credono nati jeri i concetti della libertà e
dell’eguaglianza, stupirebbero leggendo quel che Tommaso pensava della
nobiltà[310].
Ma come la pensava egli sul propagare la fede per mezzo della forza?
Degli Infedeli alcuni non abbracciarono mai la fede, come Pagani ed
Ebrei; altri ne disertarono, come gli eretici e gli apostati. Questi
sono mentitori d’una promessa, e ne sono puniti: gli altri non devono
per verun modo essere forzati alla fede, ma solo a non manometterla con
bestemmie, con prediche, con violenze. I fedeli muovono spesso guerra
agl’infedeli, non già per costringerli a credere, ed anche dopo la
vittoria se ne lascia libertà al prigioniero, ma perchè non impediscano
ai credenti il convertirsi o il perseverare[311].
Sì grand’uomo, eppure umilissimo, ricusò nell’Ordine ogn’altra dignità
fuor quella di definitore: e nella contemplazione talmente restava
assorto, che navigando non s’accorse d’una fiera burrasca; tenendo una
candela non sentì da quella bruciarsi il pugno; sedendo al banchetto
col re di Francia, repente battè sulla tavola esclamando: — Ecco un
argomento invincibile contro i Manichei». La leggenda dice che, avanti
morire, stava davanti a un Crocifisso, e questo piegossi, e dissegli: —
Tommaso, bene hai scritto di me: qual ricompensa domandi? — Niun’altra
cosa che voi stesso», egli rispose. Quando poco dopo si trattò di
canonizzarlo, gli oppositori notavano ch’e’ non aveva operato miracoli;
ma papa Giovanni XXII esclamò: — Ne fece tanti, quanti articoli
scrisse»; e soggiungeva: — Tommaso rischiarò la Chiesa più che tutti
insieme i dottori, e maggior profitto si trae dallo studiare un anno
agli scritti suoi che dal leggere tutta la vita que’ degli altri».
Diversa eppur non avversa alla scolastica argomentatrice, la
scuola mistica cercava non esercizio allo spirito ma nutrimento
all’affetto; tutto riconduceva al sentimento ed alla contemplazione,
assegnando i gradi onde con questa elevarsi al primo vero; in luogo
dell’arida dialettica adoperava linguaggio immaginoso, simbolicamente
interpretando la natura appoggiandosi sulla misteriosa attrazione verso
il bene assoluto e l’infinito, e sulla dilezione estatica, fondo della
nostra sensibilità.
Giovanni Fidanza da Bagnarea (1221-74) fu salvato da una malattia
infantile per intercessione di san Francesco, il quale disse a sua
madre: — È una buona ventura»; onde vestitosi francescano, fu noto
col nome fratesco di Bonaventura. Dotto di tutta la scienza d’allora,
sommesso insieme e indipendente, cautamente valutando le forze relative
della credenza e dell’intelletto, tentò conciliare Aristotelici,
Platonici, Arabi; cioè il raziocinio e l’intuizione, il misticismo e
la didattica dirigere in armonia, non ad arguzie curiose, ma a supreme
quistioni. Non che negare ogni certezza ai sensi, tende a rintegrare
l’infallibilità della ragione, facendo che Dio abbia poste le premesse
nell’intelletto, e conformatolo in guisa che sia costretto assentire al
vero, non come ad una percezione nuova, ma quasi riconosca cose innate
in sè. Osò anche tentare un albero enciclopedico dell’umano sapere, men
lodato, non men lodevole di altri posteriori[312], e che mostra come
sapessero d’alto luogo riguardare la scienza questi Scolastici cui si
dà taccia di angusti e meschini.
Bonaventura fu noverato fra’ più insigni del tempo: quando san Tommaso
suo amico gli domandava da quai libri traesse tanta scienza, gli mostrò
il crocifisso; e tutte pietà sono la sua _Vita di san Francesco_, lo
_Specchio della Vergine_, l’_Itinerario dell’anima al cielo_. A forza
di preghiere si fece esonerare dall’andare arcivescovo di York; e stava
lavando le scodelle quando gli fu annunziato che era fatto cardinale.
Alle sue esequie assistettero Gregorio X, il re d’Aragona, cinquanta
vescovi, sessanta abati, più di mille preti; ottant’anni dopo morto fu
canonizzato, e iscritto col titolo di _serafico_[313] fra i dottori
della Chiesa, dopo Ambrogio, Agostino, Girolamo, Gregorio Magno e
l’Aquinate.
Anche la scuola contemplativa ebbe i suoi deliramenti, e Giovanni di
Parma pubblicò un _Introduttorio all’evangelo eterno_, ove annunziava
che, siccome il Testamento antico avea dato luogo al nuovo, così
questo non bastava più alla perfezione, e un altro ne verrebbe tutto
d’intelligenza e di spirito. Altri caddero nel panteismo e nella
negazione del proprio essere, ed applicati alle scienze s’abbujarono
nell’astrologia e nell’alchimia.
Del diritto romano mai non erasi perduta affatto la memoria; ma quella
legislazione è troppo complicata e dotta per gente incolta, troppo
difficile ad armonizzare col sistema barbaro. Si dovette dunque
applicarsi ad agevolare l’uso quotidiano del gius longobardo, e
ridurlo a sistema per via d’un testo intelligibile, di dichiarazioni,
di formole di processo. A ciò diede principale opera la scuola di
Pavia, che volta solo alla letteratura nei tempi de’ Carolingi, da
quelli di Ottone I vi unì la giurisprudenza, e compilò il _Liber
legum Longobardorum_. I maestri di quella erano anche giudici, e
accoppiando la teoria alla pratica, e conoscendo il diritto romano,
composero una glossa che fu equiparata al testo legale. Ebbero nome
tra essi Sigefredo, Guglielmo, Bajlardo, Buonfiglio, e quel Lanfranco
da Pavia, di cui dicemmo[314]. Man mano che le città italiane
crescevano di ricchezze, di commercio, di potenza, occorreano nuove
complicazioni, cui non era sufficiente il diritto germanico, mentre si
trovavano risolte nel romano; sicchè a questo applicaronsi gl’ingegni,
costituendo una nuova classe di cittadini, i giureconsulti.
Quando i Pisani espugnarono Amalfi nel 1135, ne tolsero l’unico
esemplare delle _Pandette_, e Lotario II in benemerenza lo cedette
a loro, decretando che nella pratica si sostituisse il gius romano
al germanico, e cattedre per insegnarlo. Così dicono: ma nessun vide
questo diploma, ed è dimostrato che in verun tempo le Pandette erano
cadute in dimenticanza[315]; sicchè questa è una novella che traduce
in racconto di tempo e di luogo determinato un avvenimento d’incerta
origine. Esso codice fu gran tempo custodito a Pisa come una reliquia,
nè mostrato che con solennità, poi trasferito a Firenze, monumento
d’altre vittorie, ove può non difficilmente vedersi in quel tesoro
di manoscritti ch’è la biblioteca Laurenziana. La scrittura il prova
contemporaneo di Giustiniano; e che sia l’unico originale risulterebbe
da questa bizzarria, che avendovi il legatore per isbaglio trasposto un
foglio, tutti gli esemplari conosciuti hanno l’errore medesimo, come
materialmente trascritti. Eppure sembra che i glossatori possedessero
altri testi, collazionando i quali ne formarono uno bolognese, detto
la vulgata: pure la loro rarità è attestata dall’importanza attaccata
al possesso di questo codice, la cui scoperta e il trionfo menatone
fissarono su quello l’attenzione dei molti che la progredita civiltà
avea disposti ad una legislazione più raffinata. Allora dunque lo
studio del romano diritto penetra nelle scuole, in gara colla teologia
e la scolastica, mentre s’applica alla vita.
Irnerio, che prima aveva insegnato grammatica, passò a leggere le
Pandette a Bologna sua patria (1100-20); e i giovani che trassero in
folla a questa scienza nuova, reduci ai loro paesi, ne applicavano i
canoni ai casi particolari, se non altro come supplemento alla legge
locale. Restano in gran parte le glosse di quest’illustre, e memoria
d’altre opere sue ad uso della scuola, dalla quale poi si staccò per
servire all’imperatore. Pensator rigoroso, trasse ogni cosa dal proprio
capo, ignorando i lavori intorno al diritto, fatti o tentati ne’ secoli
precedenti[316].
Si nominano fra’ suoi discepoli più insegnati i bolognesi Bùlgaro
_os aureum_, Martin Gossia _copia legum_, Jacopo e Ugone da Porta
Ravegnana. La _Somma del Codice_ di Roggerio è il primo tentativo di
sistemar la scienza del diritto. Il Piacentino, che alcuni chiamano
Ottone, per quanto assoluto e di smisurata vanità, non manca di
intelletto scientifico e cognizione delle fonti. Assalito nottetempo da
Enrico di Baila, di cui avea confutato un’opinione, a stento campò, e
ricoverato a Montpellier, v’aperse la prima scuola di diritto (1192).
Giovanni Bassiano da Cremona, preciso nell’esposizione, trovò forme
ingegnose, benchè talvolta buje; professò a Mantova.
Pillio da Medicina professava giovanissimo a Bologna, quando i
magistrati lo costrinsero a giurare che per due anni non insegnerebbe
altrove: i Modenesi, cui forse importava più il toglierlo agli emuli
che il possederlo essi medesimi, gli offersero cento marchi d’argento
purchè venisse nella loro città, anche senza insegnare, siccome fece.
Scrive per lo più in dialoghi fra la giurisprudenza e l’autore, con
molta vanità e affettazione logica[317].
Lodano pure Guglielmo di Cavriano da Brescia, Alberico da Porta
Ravegnana che per l’affluenza di scolari dettava nella sala del
Consiglio, Giovanni Azzon da Bologna che aveva fin mille uditori, ed
altri che lungo sarebbe il recitare. Francesco Accursio da Bagnòlo
presso Firenze, nella _Glossa continua_ (1129) abbracciò le anteriori,
così conservandoci l’opinione di molti, ma senza tropp’arte nello
scegliere. Al suo tempo citavasi nei tribunali come legge, e fu in
gran nominanza finchè parve merito il cumulo di erudizione; ma nel
Cinquecento, quando si studiarono l’antichità e gli storici, prevalse
un miglior gusto, mentre minorava l’elevatezza de’ pensieri.
Que’ glossatori possedevano le Pandette, il Codice, gl’Istituti,
le Autentiche, l’Epitome di Giuliano, nè altro. Scarsi di storia e
filologia, invece di raddrizzare i testi, accertare i tempi, insinuarsi
nella intenzione delle leggi, si fermano a spiegare che _etsi_
equivale a _quamvis_, _admodum_ a _valde_; derivano il nome del Tevere
dall’imperatore Tiberio; fanno vivere Ulpiano e Giustiniano avanti
Cristo, uccidere Papiniano da Marc’Antonio; interpretano _pontifex_ per
_papa_ o _episcopus_; se trovano una parola greca, la saltano, onde il
proverbio _Græcum est, non potest legi_. Pure non mancano di sagacia
e industria, massime Accursio, nel ravvicinare passi, conciliare
apparenti divergenze, ricorrere per l’interpretazione alle fonti quanto
poteasi in quell’ignoranza della storia, che durerebbe anche oggi se la
fortuna non avesse scoperto Ulpiano ed altri giureconsulti vetusti.
Ben presto seguirono pedestri imitatori, destri nella dialettica quanto
sforniti di scientifico intelletto; prolissi, d’inesauste minuzie,
che affogano il testo ne’ commenti, _multorum camelorum onus_, nulla
rimettendo all’intelligenza degli scolari; espongono in uno stile
barbaro, da cui non sa forbirsi neppure Dino da Mugello. Il quale
godette tanta riputazione, che ancor vivo i vescovi stabilirono, ove le
leggi municipali e le romane e le chiose dell’Accursio tacessero o si
contraddicessero, a Dino si riportasse la risoluzione.
Sconciatesi le repubbliche, e andata ogni cosa per fazioni, poi
per arbitrio di tiranni, senza quella libertà che è necessaria alla
ponderazione delle leggi, nel metodo prevalsero sempre più le forme
dialettiche, con distinzioni e restrizioni senza termine; l’argomentare
non si aggirò sul testo ma sulla glossa, la quale divenne un ostacolo
a intenderlo; ogni originalità rimase tolta dal porre ognuno il piede
sull’orme dell’altro.
Cino da Pistoja scolaro di Dino (-1337), cacciato dai Guelfi, torna
coi Ghibellini. Ammira i dialettici, pure sa emanciparsi dalle triche
di scuola, e pensare di sua testa; e si fiancheggia cogli statuti de’
varj popoli e la pratica de’ tribunali. Bartolo da Sassoferrato scolaro
di lui, maestro a Pisa e Perugia, ove morì in fresca età, superiore in
fama a tutti i giureconsulti, spiegato dalle cattedre, tenuto in conto
di legge nella Spagna, per critica e metodo sta a gran distanza dagli
antichi glossatori, impacciato dai troppi commenti.
Avanzandosi i tempi, ebbe grido Baldo da Perugia (-1400), che professò
per cinquantasei anni, e versò nei pubblici negozj. «Nella smania
di distinzione (dice il Gravina) egli non divide, ma sfrantuma il
soggetto tanto, che i frantumi ne van col vento; ma per quanto ciò
nuoccia all’interpretazione della legge romana come codice positivo, fu
utilissimo al giureconsulto pratico per la moltiplicità dei casi che lo
spirito suo fecondo ritrovò; sicchè ben rado si dà di consultarlo senza
trovarvi una soluzione qual ch’ella sia». Luca di Penna negli Abruzzi,
autore del commento sui _Tres Libri_, supera i contemporanei per metodo
e stile, e ricorre direttamente ai testi coll’indipendenza datagli dal
non essersi formato nelle scuole ma negli affari. I successivi, più che
nelle magistrature, presero pratica nei consulti, fonte di rinomanza e
di ricchezze.
Come questi il diritto romano, altri studiarono il feudale, di
applicazioni ancora frequenti; e Oberto dall’Orto e Gerardo del Negro,
consoli milanesi, attorno al 1170 radunarono le costituzioni imperiali
e le consuetudini delle varie città, le sentenze in proposito e le
interpretazioni proprie e d’altri giuristi. Valore di legge non ebbero
mai, ma autorità perfino ne’ tribunali pontifizj. Infiniti commenti
e glosse ebbero da Bulgaro, Pileo, Ugolino, Corradino, Vincenzo,
Goffredo..., e principalmente da Giovanni Colombino; tutti superati dal
napoletano Andrea d’Isernia, e più tardi da Matteo degli Afflitti. Nel
1436 Antonio Mincuccio di Pratovecchio bolognese avea ridotti i libri
feudali in miglior forma, e l’imperatore Federico III li confermò,
onde in Bologna erano letti pubblicamente. L’illustre Cujacio con
maggior critica ed eleganza, e deponendo il disprezzo che i giuristi
soleano avere per ciò che non fosse romano, migliorò ed illustrò
quella raccolta, la quale si compie colle leggi feudali pubblicate
dal Barbarossa, che sono le più numerose e precise, e da cui era stata
proibita l’alienazione dei feudi, ristabilite le regalie imperiali in
Italia[318].
Contemporaneamente si compiva il diritto canonico. Una raccolta
autentica delle leggi ecclesiastiche emanate dai concilij e dagli
imperatori, disposta da Giovanni Scolastico patriarca di Costantinopoli
a mezzo il secolo VI, divenne legge della Chiesa d’Oriente. In
Occidente, dopo le collezioni che accennammo (t. V, p. 472) di Dionigi
il piccolo e d’Isidoro, Reginone abate di Pum, uscente il secolo IX, ne
fece una, poi Burcardo vescovo di Worms il _Magnum decretorum volumen_,
che da uno storpio del nome suo è chiamato _Brocardo_, e passò ad
indicare quistioni scabrose ed incerte. Ivone di Chartres dispose
metodicamente il _Decreto_ in diciassette libri; finchè Graziano di
Chiusi benedettino, nella _Concordantia canonum_ o _Decretum_ (1151),
avrebbe potuto fare un poeta napoleonico, esortò a farlo vergheggiare
perchè più non osasse bestemmie tali: se accondiscese a Guglielmo,
seppe evitare il conflitto che prevedeva imminente col potere
ecclesiastico.
I tanti affari non lo distolsero dagli studj, e risuscitando l’arte
critica, confrontò, corresse i testi che Berengario avea falsati per
negare la presenza reale nell’eucaristia: sviluppandosi dalle fasce
scolastiche, spaziò in modo oratorio; e riprovando la sottigliezza dei
tropi e dei sillogismi e l’_inane dialettica_ d’Aristotele, chiama
sapiente chi conosce e glorifica Dio, e pienezza della dottrina
l’intenderne il mistero e la sapienza.
Discepolo suo, e successore nel priorato di Bec, poi
nell’arcivescovado, Anselmo d’Aosta (1033-1109), con fermezza calma
e dolce, non affrontando la persecuzione, ma non isviando punto dal
sentiero per evitarla, intelletto elevato e cuor puro, carattere
amabile che traeva grandezze dalla fede profonda e dall’amor di Dio,
per sagacia e pietà fu qualificato un secondo Agostino, e sulle traccie
di questo diede dimostrazioni ancor venerate sopra l’essenza divina, la
trinità, l’incarnazione, la creazione, l’accordo del libero arbitrio
colla Grazia. I suoi monaci l’aveano pregato a valersi di forme
agevoli, e d’argomenti adatti alla comune capacità, e provare per via
di raziocinj rigorosi e necessarj[308]: e in fatto nel _Monologium_
s’industria a spiegare la scienza delle cose soprannaturali per via
di razionali principj, cercando l’alleanza della fede colla ragione,
proteggendo la religion naturale e la rivelata da tutte le objezioni
mediante un argomentar sottile; estendendosi anche alla metafisica
e alla fisica, che speculano l’una sulla parola rivelata, l’altra
sulla natura manifestata dai sensi; e digredendo su altre materie non
immediatamente connesse col dogma. Al supremo problema dell’intelletto
cercò egli spiegazione nell’idea universale, la quale non potrebbe
sussistere come percezione dello spirito senza la realità dell’oggetto;
eccedette fosse quella della perfezione infinita di Dio, il quale
nell’ordine logico sta a capo di tutte le idee, come di tutti gli
esseri nell’ordine reale.
Lo stolto che dice _Non v’è Dio_, concepisce un essere a tutti
superiore, sebbene affermi che non esiste. Affermazione assurda,
atteso che quest’ente resterebbe inferiore a un altro che a tutte le
perfezioni congiungesse l’esistenza. Sono gli argomenti stessi che
furono svolti poi da Cartesio; ed un monaco dell’XI secolo trovava
e precisamente esponeva la sola prova compiuta e soddisfacente
dell’esistenza di Dio, cioè elevava la coscienza fino alla nozione
dell’essere, ed edificava una teologia dottrinale sovra un concetto
della ragione. Mettendo in scena un ignorante che cerca la verità colla
scorta dell’intelletto puro, vuol mostrare che la ragione non riprova
ma comprova le verità rivelate; e protestando insieme che la fede non
cerca comprendere ma credere, chiaramente determina i confini della
filosofia e della teologia.
Ricondurre le quistioni scolastiche al punto ove i padri le aveano
lasciate fu l’assunto di Pier Lombardo (1100-1164), fanciullo novarese,
mantenuto per carità agli studj, poi vescovo di Parigi. Nei quattro
libri _Sententiarum_ raccolse in un ordine alquanto arbitrario le
proposizioni dei santi Padri intorno ai dogmi, sicchè non rimanesse che
d’applicarle nelle varie quistioni. Ma poichè delle difficoltà esposte
non porgeva la soluzione, apriva campo a troppe dispute dialettiche
ed a sottigliezze, per quanto egli richiamasse continuo verso gli
studj positivi e i monumenti della prisca filosofia cristiana. Inoltre
dava in argomenti speculativi: — Iddio padre, generando suo figlio,
generò se medesimo o un altro Dio? generò di necessità o per elezione?
egli stesso è Dio spontaneamente o necessariamente? Gesù Cristo potea
nascere d’una specie d’uomini differente dalla stirpe d’Adamo? potea
prendere il sesso femminile?» accettava autorità apocrife; e quando la
logica gli paresse condurre a conclusioni diverse dalla fede, diceva:
— Su questo punto amo meglio udire altri, che non parlare io stesso».
Pure il _maestro delle sentenze_, com’egli fu titolato, rimase il testo
delle scuole, ebbe replicate edizioni ne’ primi tempi della stampa;
Racine, nel ristretto di storia ecclesiastica, gli dà ducenventiquattro
commentatori, che, a detta del conte di San Raffaele, si potrebbero
facilmente raddoppiare; e fin a mezzo il secolo passato l’università di
Parigi celebrava l’anniversario di lui con esequie assistite da tutti i
baccellieri licenziati.
D’altra levatura e originalità fu Tommaso dei conti d’Aquino (1227-74),
castello di cui vedonsi gli avanzi presso Montecassino. Pronipote di
Federico Barbarossa, cugino di Enrico VI e di Federico II, discendente
per madre dai principi normanni, abbandonò le delizie e le speranze
della condizione sua per vestirsi domenicano, malgrado de’ parenti.
Gracile di salute, taciturno, assorto nelle meditazioni, i condiscepoli
canzonando quel suo fare semplice, gli occhi incantati, la bocca
chiusa, lo chiamavano il bue muto di Sicilia. Ma ben presto mostrò
intelletto filosofico s’alcun mai, erudizione estesissima, passione de’
grandi risultamenti; e a quarantun anno si propose coi materiali sparsi
della scienza coordinare la prima volta in sistema compiuto la teologia
e la filosofia. I conflitti che da dodici secoli la Chiesa sosteneva
intorno ai fondamentali articoli della fede, e quanto aveano insegnato,
approvato, riprovato i Padri, i dottori, i papi, i concilj, compendiò
in un volume. La scienza e l’erudizione tutta che al suo tempo avessero
Cristiani od Arabi, svolse sotto la forma del sillogismo, in maestosa
sintesi tendendo a riprodurre l’ordine assoluto delle cose, Dio uno, la
Trinità, la creazione, le leggi del mondo, l’uomo, la Grazia; e opporre
la verità agli errori moltiformi che venivanle opposti dal Corano, dal
Talmud, dal manicheismo. Ch’egli si occupasse di scienze al tempo suo
non esistenti, o usasse una lingua che l’età sua non gli dava, nessuno
lo pretenderà; mentre eccitano meraviglia la chiarezza, la brevità
nervosa, la schietta indagine della verità, che con bella e profonda
definizione egli fa consistere in un’equazione tra l’asserto e il suo
oggetto[309].
All’ispirazione ed elevazione dei primi Padri non arriva egli, ma
porge formole dotte e profonde distinzioni, il suo metodo consistendo
nell’appoggiare col sillogismo una maggiore assiomatica, data da
quelli. Pertanto posa un teorema, poi sillogizza tutte le opposizioni
filosofiche (_videtur quod non_), mettendo l’objezione condensata,
multipla, in tutta la sua forza, per modo che poterono da lui
attingere eresie e difficoltà quanti ebbero la mala fede di sopprimere
le risposte. Non si ferma a confutarla, ma in contraddizione (_sed
contra_) adduce alcuni passi di Aristotele, della Bibbia, dei Padri,
principalmente di sant’Agostino, e prova conciso e preciso, facendo
brillar la vera luce accanto alla falsa, sicuro che ne risulterà
la certezza. Allora ripiegandosi sopra l’objezione, la distrugge
invincibilmente (_conclusio_) collocando la sua risposta in termini
concisi, enucleandoli poi dialetticamente, e non di rado con poche
parole d’inarrivabile precisione recidendo avviluppatissimi problemi; e
adoprandovi un mirabile buon senso ognora calmo, imparziale, lontano da
sistematiche esclusioni, disposto ad accettar tutto il vero, approvare
tutto il buono.
Quanto al fondo, sostiene che la scienza deriva da Dio e a Dio si
riferisce, atteso che il filosofo, sempre in traccia del primo ente e
della cagion delle cose, e proponendosi il perfezionamento dell’uomo,
è costretto elevarsi alla causa ed alla ragion prima. E siccome nella
società umana dirige colui che maggiore intelletto possiede, così nelle
dottrine quella che si occupa delle cose più intelligenti, cioè la
metafisica, scienza dell’essere in generale e delle sue proprietà, che
considera le cause prime nella loro purezza e comprensibilità maggiore.
Scienza di Dio, dell’uomo, della natura, la teologia risale a Dio per
contemplarlo, e col raggio che ne attinge discende la scala del creato
illuminando le sfere inferiori. Fra i corpi puramente materiali e il
mondo delle pure intelligenze, riflesso della vita e delle perfezioni
di Dio, sta l’umanità, partecipe degli uni e degli altri: tre mondi
connessi da legami infiniti, donde risultano l’ordine naturale e il
soprannaturale, e in seno all’opera di Dio nasce l’opera dell’uomo,
mediante la libertà creata. Di qui la mistura di bene e di male, di
verità e di errore, che costituisce la storia umana. Delle creature
alcune sono assolutamente immateriali, altre materiali, altre miste; e
nel formarle Iddio si propose il bene, cioè di assimilarle a sè. Del
qual bene partecipano anche i corpi, in quanto possiedono l’essere
e sono l’effetto della bontà divina; e concorrono alla perfezione
dell’universo, che deve contenere una gradazione di esseri, gli
uni subordinati agli altri secondo che più o meno perfetti. Chi li
consideri uno ad uno, non ne vede che l’inanità: ben altrimenti chi
li guardi come istromenti degli spiriti; avvegnachè tutto ciò che
si riferisce all’ordine spirituale appar più grande quanto più viene
conosciuto.
Culmine della creazione è l’uomo, il cui spirito vive di triplice vita,
la sensiva, la vegetativa e la razionale, la quale ancora si divide
in intelligente e volitiva. A quest’ultima san Tommaso assegna regole
rettissime, giacchè fondate sugl’insegnamenti della Chiesa: ma poichè
il nostro lavoro verte tanto sulla scienza degli Stati, noi lasceremo
il resto per arrestarci alquanto sul diritto e la politica di lui, che
insomma sono quelli professati dal clero, quand’anche non applicati.
Fonda Tommaso la sua teoria del diritto sopra la legge. Questa è
quadrupla: l’_eterna_, legge del governo divino generale del mondo;
la _naturale_, partecipazione della legge eterna, valevole per tutti
gli enti finiti razionali; l’_umana_, riferibile alle condizioni
particolari degli uomini; la _divina_, che consiste nell’ordine di
salute da Dio stabilito nella sua _speciale_ provvidenza per gli
uomini. Il diritto nello Stato è _naturale_, fondato nella natura
invariabile dell’uomo, o _positivo_, stabilito per convenzione o
promessa: e concerne solo la legalità degli atti esterni, mentre la
giustizia interiore impone di fare il giusto per amor di Dio.
La legge è una misura imposta ai nostri atti, un motivo che ci spinge
o distoglie dal fare, una dipendenza della ragione: ed ha per iscopo
il ben essere comune. Dovendo il fine essere adempito da chi vi ha
interesse immediato, le leggi saranno opera di tutto il popolo, o
di chi del bene di esso è incaricato; e però la legge può definirsi
«un ordine ragionevole a comune vantaggio, promulgato da chi ha cura
del pubblico interesse». Diretta a mantenere la pace e propagare la
virtù fra gli uomini, deve conformarsi alla giustizia pel fine che si
propone, per l’autore da cui deriva, per le forme che osserva, cioè
mirare al bene dei più, non trascendere l’autorità del legislatore,
ed equamente distribuire i pesi che ciascuno dee portare pel comune
vantaggio. È ingiusta ove s’opponga al bene relativo dell’uomo, o al
bene assoluto che è Dio: e in tal caso non è legge ma violenza, nè
obbliga al fôro interno, se non fosse per gli scandali che produrrebbe
la trasgressione. E per natura e per ragione si deve a gradi procedere
dal meno al più perfetto; onde i cangiamenti nella legislazione sono
giustificati dalla mobilità della ragione, dalla mutabilità delle
circostanze. Popolo pacifico, grave, oculato ai proprj vantaggi, ha
diritto di scegliere i suoi magistrati; lo perde se corrotto.
Vuolsi che durino la città e la nazione? tutti abbiano parte al
governo generale, acciocchè tutti sieno interessati a mantenere la
pace pubblica; nella forma politica le autorità si bilancino. La più
destra combinazione sarebbe un principe virtuoso, che sotto di sè
ordinasse un certo numero di grandi cariche per governare secondo
l’equità, cernendoli da ogni classe e sottoponendoli ai suffragi della
moltitudine, col che associerebbe al governo l’intera società. Il
principe deve al suddito la fedeltà stessa che ne esige: se avvilisce
Dio ne’ poveri, imita i soldati che percotevano Cristo colla canna
messagli in mano: se grava le imposte, pecca d’infedeltà agli uomini,
d’ingratitudine a Dio, di sprezzo agli angeli custodi, sopra i quali
ricadono le offese recate ai loro custoditi.
Colpa mortale sarebbe la ribellione contro alla giustizia e all’utilità
comune, non il resistere e combattere pel pubblico bene. Principe che
si propone il personale soddisfacimento anzichè la comune felicità,
cessa d’essere legittimo, e l’abbatterlo non è più sedizione, se
pur non si operi con disordine tale da cagionare mali maggiori
della tirannia stessa. Il tiranno si tiene fra certi limiti? convien
tollerarlo per cansare pericolo di peggio; eccede? può essere giudicato
e anche deposto da un potere regolarmente costituito: attentare contro
la sua persona per fanatismo e vendetta non è mai lecito.
Su questi larghi principj posavasi il liberalismo, che la Scuola talora
spinse fin al di là; donde la taccia che il secolo nostro, ipocrito
in parole come sguajato in fatti, le dà di avere giustificato il
regicidio. Al moderno diritto delle genti pose Tommaso le fondamenta,
che lo distinguono dal micidiale degli antichi: e certi missionari d’un
nuovo cristianesimo, che credono nati jeri i concetti della libertà e
dell’eguaglianza, stupirebbero leggendo quel che Tommaso pensava della
nobiltà[310].
Ma come la pensava egli sul propagare la fede per mezzo della forza?
Degli Infedeli alcuni non abbracciarono mai la fede, come Pagani ed
Ebrei; altri ne disertarono, come gli eretici e gli apostati. Questi
sono mentitori d’una promessa, e ne sono puniti: gli altri non devono
per verun modo essere forzati alla fede, ma solo a non manometterla con
bestemmie, con prediche, con violenze. I fedeli muovono spesso guerra
agl’infedeli, non già per costringerli a credere, ed anche dopo la
vittoria se ne lascia libertà al prigioniero, ma perchè non impediscano
ai credenti il convertirsi o il perseverare[311].
Sì grand’uomo, eppure umilissimo, ricusò nell’Ordine ogn’altra dignità
fuor quella di definitore: e nella contemplazione talmente restava
assorto, che navigando non s’accorse d’una fiera burrasca; tenendo una
candela non sentì da quella bruciarsi il pugno; sedendo al banchetto
col re di Francia, repente battè sulla tavola esclamando: — Ecco un
argomento invincibile contro i Manichei». La leggenda dice che, avanti
morire, stava davanti a un Crocifisso, e questo piegossi, e dissegli: —
Tommaso, bene hai scritto di me: qual ricompensa domandi? — Niun’altra
cosa che voi stesso», egli rispose. Quando poco dopo si trattò di
canonizzarlo, gli oppositori notavano ch’e’ non aveva operato miracoli;
ma papa Giovanni XXII esclamò: — Ne fece tanti, quanti articoli
scrisse»; e soggiungeva: — Tommaso rischiarò la Chiesa più che tutti
insieme i dottori, e maggior profitto si trae dallo studiare un anno
agli scritti suoi che dal leggere tutta la vita que’ degli altri».
Diversa eppur non avversa alla scolastica argomentatrice, la
scuola mistica cercava non esercizio allo spirito ma nutrimento
all’affetto; tutto riconduceva al sentimento ed alla contemplazione,
assegnando i gradi onde con questa elevarsi al primo vero; in luogo
dell’arida dialettica adoperava linguaggio immaginoso, simbolicamente
interpretando la natura appoggiandosi sulla misteriosa attrazione verso
il bene assoluto e l’infinito, e sulla dilezione estatica, fondo della
nostra sensibilità.
Giovanni Fidanza da Bagnarea (1221-74) fu salvato da una malattia
infantile per intercessione di san Francesco, il quale disse a sua
madre: — È una buona ventura»; onde vestitosi francescano, fu noto
col nome fratesco di Bonaventura. Dotto di tutta la scienza d’allora,
sommesso insieme e indipendente, cautamente valutando le forze relative
della credenza e dell’intelletto, tentò conciliare Aristotelici,
Platonici, Arabi; cioè il raziocinio e l’intuizione, il misticismo e
la didattica dirigere in armonia, non ad arguzie curiose, ma a supreme
quistioni. Non che negare ogni certezza ai sensi, tende a rintegrare
l’infallibilità della ragione, facendo che Dio abbia poste le premesse
nell’intelletto, e conformatolo in guisa che sia costretto assentire al
vero, non come ad una percezione nuova, ma quasi riconosca cose innate
in sè. Osò anche tentare un albero enciclopedico dell’umano sapere, men
lodato, non men lodevole di altri posteriori[312], e che mostra come
sapessero d’alto luogo riguardare la scienza questi Scolastici cui si
dà taccia di angusti e meschini.
Bonaventura fu noverato fra’ più insigni del tempo: quando san Tommaso
suo amico gli domandava da quai libri traesse tanta scienza, gli mostrò
il crocifisso; e tutte pietà sono la sua _Vita di san Francesco_, lo
_Specchio della Vergine_, l’_Itinerario dell’anima al cielo_. A forza
di preghiere si fece esonerare dall’andare arcivescovo di York; e stava
lavando le scodelle quando gli fu annunziato che era fatto cardinale.
Alle sue esequie assistettero Gregorio X, il re d’Aragona, cinquanta
vescovi, sessanta abati, più di mille preti; ottant’anni dopo morto fu
canonizzato, e iscritto col titolo di _serafico_[313] fra i dottori
della Chiesa, dopo Ambrogio, Agostino, Girolamo, Gregorio Magno e
l’Aquinate.
Anche la scuola contemplativa ebbe i suoi deliramenti, e Giovanni di
Parma pubblicò un _Introduttorio all’evangelo eterno_, ove annunziava
che, siccome il Testamento antico avea dato luogo al nuovo, così
questo non bastava più alla perfezione, e un altro ne verrebbe tutto
d’intelligenza e di spirito. Altri caddero nel panteismo e nella
negazione del proprio essere, ed applicati alle scienze s’abbujarono
nell’astrologia e nell’alchimia.
Del diritto romano mai non erasi perduta affatto la memoria; ma quella
legislazione è troppo complicata e dotta per gente incolta, troppo
difficile ad armonizzare col sistema barbaro. Si dovette dunque
applicarsi ad agevolare l’uso quotidiano del gius longobardo, e
ridurlo a sistema per via d’un testo intelligibile, di dichiarazioni,
di formole di processo. A ciò diede principale opera la scuola di
Pavia, che volta solo alla letteratura nei tempi de’ Carolingi, da
quelli di Ottone I vi unì la giurisprudenza, e compilò il _Liber
legum Longobardorum_. I maestri di quella erano anche giudici, e
accoppiando la teoria alla pratica, e conoscendo il diritto romano,
composero una glossa che fu equiparata al testo legale. Ebbero nome
tra essi Sigefredo, Guglielmo, Bajlardo, Buonfiglio, e quel Lanfranco
da Pavia, di cui dicemmo[314]. Man mano che le città italiane
crescevano di ricchezze, di commercio, di potenza, occorreano nuove
complicazioni, cui non era sufficiente il diritto germanico, mentre si
trovavano risolte nel romano; sicchè a questo applicaronsi gl’ingegni,
costituendo una nuova classe di cittadini, i giureconsulti.
Quando i Pisani espugnarono Amalfi nel 1135, ne tolsero l’unico
esemplare delle _Pandette_, e Lotario II in benemerenza lo cedette
a loro, decretando che nella pratica si sostituisse il gius romano
al germanico, e cattedre per insegnarlo. Così dicono: ma nessun vide
questo diploma, ed è dimostrato che in verun tempo le Pandette erano
cadute in dimenticanza[315]; sicchè questa è una novella che traduce
in racconto di tempo e di luogo determinato un avvenimento d’incerta
origine. Esso codice fu gran tempo custodito a Pisa come una reliquia,
nè mostrato che con solennità, poi trasferito a Firenze, monumento
d’altre vittorie, ove può non difficilmente vedersi in quel tesoro
di manoscritti ch’è la biblioteca Laurenziana. La scrittura il prova
contemporaneo di Giustiniano; e che sia l’unico originale risulterebbe
da questa bizzarria, che avendovi il legatore per isbaglio trasposto un
foglio, tutti gli esemplari conosciuti hanno l’errore medesimo, come
materialmente trascritti. Eppure sembra che i glossatori possedessero
altri testi, collazionando i quali ne formarono uno bolognese, detto
la vulgata: pure la loro rarità è attestata dall’importanza attaccata
al possesso di questo codice, la cui scoperta e il trionfo menatone
fissarono su quello l’attenzione dei molti che la progredita civiltà
avea disposti ad una legislazione più raffinata. Allora dunque lo
studio del romano diritto penetra nelle scuole, in gara colla teologia
e la scolastica, mentre s’applica alla vita.
Irnerio, che prima aveva insegnato grammatica, passò a leggere le
Pandette a Bologna sua patria (1100-20); e i giovani che trassero in
folla a questa scienza nuova, reduci ai loro paesi, ne applicavano i
canoni ai casi particolari, se non altro come supplemento alla legge
locale. Restano in gran parte le glosse di quest’illustre, e memoria
d’altre opere sue ad uso della scuola, dalla quale poi si staccò per
servire all’imperatore. Pensator rigoroso, trasse ogni cosa dal proprio
capo, ignorando i lavori intorno al diritto, fatti o tentati ne’ secoli
precedenti[316].
Si nominano fra’ suoi discepoli più insegnati i bolognesi Bùlgaro
_os aureum_, Martin Gossia _copia legum_, Jacopo e Ugone da Porta
Ravegnana. La _Somma del Codice_ di Roggerio è il primo tentativo di
sistemar la scienza del diritto. Il Piacentino, che alcuni chiamano
Ottone, per quanto assoluto e di smisurata vanità, non manca di
intelletto scientifico e cognizione delle fonti. Assalito nottetempo da
Enrico di Baila, di cui avea confutato un’opinione, a stento campò, e
ricoverato a Montpellier, v’aperse la prima scuola di diritto (1192).
Giovanni Bassiano da Cremona, preciso nell’esposizione, trovò forme
ingegnose, benchè talvolta buje; professò a Mantova.
Pillio da Medicina professava giovanissimo a Bologna, quando i
magistrati lo costrinsero a giurare che per due anni non insegnerebbe
altrove: i Modenesi, cui forse importava più il toglierlo agli emuli
che il possederlo essi medesimi, gli offersero cento marchi d’argento
purchè venisse nella loro città, anche senza insegnare, siccome fece.
Scrive per lo più in dialoghi fra la giurisprudenza e l’autore, con
molta vanità e affettazione logica[317].
Lodano pure Guglielmo di Cavriano da Brescia, Alberico da Porta
Ravegnana che per l’affluenza di scolari dettava nella sala del
Consiglio, Giovanni Azzon da Bologna che aveva fin mille uditori, ed
altri che lungo sarebbe il recitare. Francesco Accursio da Bagnòlo
presso Firenze, nella _Glossa continua_ (1129) abbracciò le anteriori,
così conservandoci l’opinione di molti, ma senza tropp’arte nello
scegliere. Al suo tempo citavasi nei tribunali come legge, e fu in
gran nominanza finchè parve merito il cumulo di erudizione; ma nel
Cinquecento, quando si studiarono l’antichità e gli storici, prevalse
un miglior gusto, mentre minorava l’elevatezza de’ pensieri.
Que’ glossatori possedevano le Pandette, il Codice, gl’Istituti,
le Autentiche, l’Epitome di Giuliano, nè altro. Scarsi di storia e
filologia, invece di raddrizzare i testi, accertare i tempi, insinuarsi
nella intenzione delle leggi, si fermano a spiegare che _etsi_
equivale a _quamvis_, _admodum_ a _valde_; derivano il nome del Tevere
dall’imperatore Tiberio; fanno vivere Ulpiano e Giustiniano avanti
Cristo, uccidere Papiniano da Marc’Antonio; interpretano _pontifex_ per
_papa_ o _episcopus_; se trovano una parola greca, la saltano, onde il
proverbio _Græcum est, non potest legi_. Pure non mancano di sagacia
e industria, massime Accursio, nel ravvicinare passi, conciliare
apparenti divergenze, ricorrere per l’interpretazione alle fonti quanto
poteasi in quell’ignoranza della storia, che durerebbe anche oggi se la
fortuna non avesse scoperto Ulpiano ed altri giureconsulti vetusti.
Ben presto seguirono pedestri imitatori, destri nella dialettica quanto
sforniti di scientifico intelletto; prolissi, d’inesauste minuzie,
che affogano il testo ne’ commenti, _multorum camelorum onus_, nulla
rimettendo all’intelligenza degli scolari; espongono in uno stile
barbaro, da cui non sa forbirsi neppure Dino da Mugello. Il quale
godette tanta riputazione, che ancor vivo i vescovi stabilirono, ove le
leggi municipali e le romane e le chiose dell’Accursio tacessero o si
contraddicessero, a Dino si riportasse la risoluzione.
Sconciatesi le repubbliche, e andata ogni cosa per fazioni, poi
per arbitrio di tiranni, senza quella libertà che è necessaria alla
ponderazione delle leggi, nel metodo prevalsero sempre più le forme
dialettiche, con distinzioni e restrizioni senza termine; l’argomentare
non si aggirò sul testo ma sulla glossa, la quale divenne un ostacolo
a intenderlo; ogni originalità rimase tolta dal porre ognuno il piede
sull’orme dell’altro.
Cino da Pistoja scolaro di Dino (-1337), cacciato dai Guelfi, torna
coi Ghibellini. Ammira i dialettici, pure sa emanciparsi dalle triche
di scuola, e pensare di sua testa; e si fiancheggia cogli statuti de’
varj popoli e la pratica de’ tribunali. Bartolo da Sassoferrato scolaro
di lui, maestro a Pisa e Perugia, ove morì in fresca età, superiore in
fama a tutti i giureconsulti, spiegato dalle cattedre, tenuto in conto
di legge nella Spagna, per critica e metodo sta a gran distanza dagli
antichi glossatori, impacciato dai troppi commenti.
Avanzandosi i tempi, ebbe grido Baldo da Perugia (-1400), che professò
per cinquantasei anni, e versò nei pubblici negozj. «Nella smania
di distinzione (dice il Gravina) egli non divide, ma sfrantuma il
soggetto tanto, che i frantumi ne van col vento; ma per quanto ciò
nuoccia all’interpretazione della legge romana come codice positivo, fu
utilissimo al giureconsulto pratico per la moltiplicità dei casi che lo
spirito suo fecondo ritrovò; sicchè ben rado si dà di consultarlo senza
trovarvi una soluzione qual ch’ella sia». Luca di Penna negli Abruzzi,
autore del commento sui _Tres Libri_, supera i contemporanei per metodo
e stile, e ricorre direttamente ai testi coll’indipendenza datagli dal
non essersi formato nelle scuole ma negli affari. I successivi, più che
nelle magistrature, presero pratica nei consulti, fonte di rinomanza e
di ricchezze.
Come questi il diritto romano, altri studiarono il feudale, di
applicazioni ancora frequenti; e Oberto dall’Orto e Gerardo del Negro,
consoli milanesi, attorno al 1170 radunarono le costituzioni imperiali
e le consuetudini delle varie città, le sentenze in proposito e le
interpretazioni proprie e d’altri giuristi. Valore di legge non ebbero
mai, ma autorità perfino ne’ tribunali pontifizj. Infiniti commenti
e glosse ebbero da Bulgaro, Pileo, Ugolino, Corradino, Vincenzo,
Goffredo..., e principalmente da Giovanni Colombino; tutti superati dal
napoletano Andrea d’Isernia, e più tardi da Matteo degli Afflitti. Nel
1436 Antonio Mincuccio di Pratovecchio bolognese avea ridotti i libri
feudali in miglior forma, e l’imperatore Federico III li confermò,
onde in Bologna erano letti pubblicamente. L’illustre Cujacio con
maggior critica ed eleganza, e deponendo il disprezzo che i giuristi
soleano avere per ciò che non fosse romano, migliorò ed illustrò
quella raccolta, la quale si compie colle leggi feudali pubblicate
dal Barbarossa, che sono le più numerose e precise, e da cui era stata
proibita l’alienazione dei feudi, ristabilite le regalie imperiali in
Italia[318].
Contemporaneamente si compiva il diritto canonico. Una raccolta
autentica delle leggi ecclesiastiche emanate dai concilij e dagli
imperatori, disposta da Giovanni Scolastico patriarca di Costantinopoli
a mezzo il secolo VI, divenne legge della Chiesa d’Oriente. In
Occidente, dopo le collezioni che accennammo (t. V, p. 472) di Dionigi
il piccolo e d’Isidoro, Reginone abate di Pum, uscente il secolo IX, ne
fece una, poi Burcardo vescovo di Worms il _Magnum decretorum volumen_,
che da uno storpio del nome suo è chiamato _Brocardo_, e passò ad
indicare quistioni scabrose ed incerte. Ivone di Chartres dispose
metodicamente il _Decreto_ in diciassette libri; finchè Graziano di
Chiusi benedettino, nella _Concordantia canonum_ o _Decretum_ (1151),
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