Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 18
a Siena nel 1219 si posero nello spedale della Maddalena, finchè nel
27 i Malavolti li regalarono d’un terreno per fabbricare quel sontuoso
convento; a Milano nello spedale de’ pellegrini a San Barnaba il 1218;
e presto ebber fabbricate le chiese di Santa Maria Novella in Firenze,
di Santa Maria sopra Minerva in Roma, di San Giovanni e Paolo in
Venezia, di San Nicolò in Treviso, di San Domenico a Napoli, a Prato,
a Pistoja, di Santa Caterina a Pisa, delle Grazie a Milano, ed altre,
segnalate per ricca semplicità, e per lo più architettate da frati.
Fin dal principio i due Ordini destarono meraviglia e simpatia nei
migliori[279], e in folla attrassero pii ed illustri proseliti. A
Domenico s’unisce Nicola Pulla di Giovenazzo appena uditolo a Bologna,
e l’accompagna e seconda sempre, finchè, operati gran frutti di
santità, muore a Perugia: a lui Renoldo da Sant’Egidio, professore di
scienza canonica a Parigi; il medico Rolando di Cremona, che da capo
della scuola bolognese passa a professare la teologia nella parigina;
il Moneta, famoso maestro d’arti; frà Ristoro e frà Sisto, architetti
de’ migliori; frà Cavalca, frà Jacopo Passavanti, frà Giordano da
Pisa, dei primi prosatori italiani; i sommi pittori frà Angelico e frà
Bartolomeo; indi Vincenzo da Beauvais l’enciclopedista; i cardinali Ugo
Saint-Cher ed Enrico da Susa, autori d’una _Concordanza della Bibbia_
e di una _Somma aurata_; e Tommaso d’Aquino, il maggior filosofo del
medio evo.
Con Francesco si arruolano Pacifico poeta laureato, Egidio portento
di semplice sapienza, Giovanni da Pinna nel Fermano, Giovanni da
Cortona, Benvenuto d’Ancona poi vescovo d’Osimo, altri ed altri:
più tardi ne cinsero il cordone il gran teologo Scoto, il gran
mistico san Bonaventura, Ruggero Bacone ravvivatore delle scienze
sperimentali. Mogli e figlie di re vestono quell’abito; Margherita,
scandalo di Cortona, diviene specchio di penitenza; Rosa da Viterbo, in
diciassette anni appena di vita, merita le persecuzioni di Federico II
e l’ammirazione del popolo, il quale diceva che la pietra da cui essa
gli predicava si alzasse da terra, e che il cadavere della beata si
conservasse incorrotto fin da un incendio.
Que’ frati andavano a diffondere la pace, e spandere la rugiada
della Grazia sovra le moltitudini, avendo per unica rettorica una
fede inconcussa e universale, e lo accettare tuttociò che servisse
all’edificazione. Le prediche morali e dogmatiche d’alcuni di essi
conservateci, evidentemente non sono che tessere d’aridezza scolastica;
nè può render ragione della portentosa loro efficacia chi non le
immagini rivestite d’una parola animatissima, e dirette a un uditorio
che non vi portava la critica ma la convinzione. Poveri, penitenti,
amici del popolo e contraddittori dei tiranni, specchi di bontà e di
dottrina, ecco perchè gli ordini de’ Minori e de’ Predicatori tanto
poterono, e divennero il più valido sostegno della santa Sede. Dovunque
si trovassero, poteano essi confessare e predicare, anzi ogni curato
dovea ceder loro il pulpito; il popolo volonteroso gli udiva, li
consultava, dividea con essi il pane dalla Provvidenza compartito; e
quegli atti di astinenza e di abnegazione toccavano gli uomini, che
riconoscono l’amore nel sagrifizio, e la virtù nell’amore.
Le anime non volgari trovavansi obbligate a scegliere fra due strade:
o nel mondo procelloso farsi largo colla fierezza e la perfidia; o
voltargli le spalle, rinnegandone la vanità e le opinioni. I primi
diventavano Ezelino, Salinguerra, Buoso da Dovara; gli altri Francesco,
frà Pacifico, Antonio da Padova, gente che assumeva tutti i pesi del
clero senza i vantaggi, e che anzi coll’umiltà e povertà sua faceva
contrasto alle pompe e all’orgoglio di quello, una delle piaghe della
società d’allora, ed uno dei più forti appigli per gli eretici.
Quest’antitesi dei caratteri si manifesta ben anche nelle fabbriche
d’allora: da un lato castelli, fortezze di baroni e principi, sgomento
de’ popoli; dall’altro badie e monasteri, preparati al pellegrino,
al soffrente, alle anime che han bisogno d’amare, di giovare, di
pregare. Collo spirito di devozione e beneficenza viveva ne’ monaci
il sentimento del bello, onde sceglievano situazioni ove l’anima,
estatica nella contemplazione della natura, elevasi a benedire chi
la creò. A venti miglia di Firenze, nella romantica valle dell’Arno
superiore, tra magnifiche abetine sorge Vallombrosa, e nell’altura
l’eremo del Paradisino, dal quale la vista, spaziando per immenso
orizzonte, si perde negli interminabili fiotti del Mediterraneo.
Qual potevano i monaci scegliere più opportuno asilo per riposare
dalle tempeste della società, e prepararsi ai casti godimenti della
vita interiore? Se di colà tu risali verso le sorgenti dell’Arno,
per entro il fertile Casentino eccoti Camaldoli, ricovero di San
Romualdo da Ravenna, e culla d’un altro Ordine. Donde pure elevandoti
alla schiena degli Appennini, giunto sul poggio agli Scali, trovi il
Sacro Eremo, che par veramente inviti l’uomo a lodare il Creatore
delle meraviglie che profuse sopra questa Italia, della quale puoi
di lassù vedere i due pendii scendere, ridenti di diversa bellezza, a
bagnarsi nel Mediterraneo e nell’Adriatico. Nè molto avrai a viaggiare
per giungere all’Alvernia, il devoto ritiro di san Francesco, posto
anch’esso in vetta d’un monte, che incanterebbe se già non si fossero
veduti gli altri due. In questi amenissimi soggiorni si raccoglievano
quegl’ingenui ammiratori di Dio, e mentre il mondo dilagava di fraterno
sangue, essi passavano i giorni nella contemplazione del bello, nella
ricerca del vero, nella pratica del buono.
In un altro uffizio s’adoperarono vivamente i nuovi frati, qual fu di
combattere colla parola gli eretici, farli ricredenti, o castigarli.
Perocchè, sebbene il genio europeo non s’ingolfasse in sottigliezze e
sofisterie come l’orientale, pure anche qui, e precisamente in Italia,
tratto tratto scoprivansi degli eretici; e forse una tradizione di
siffatti non fu mai interrotta fin dai Gnostici e dai Manichei dei
primi tempi. A mezzo il secolo ix, Pietro vescovo di Padova trovò
nella sua diocesi una setta che ghiribizzava sulla Redenzione, e
che solo cinquant’anni dopo fu dissipata dal vescovo Gozelino. Nel
Mille, a Ravenna un Vitgardo fondava non so quali delirj sopra Orazio,
Virgilio, Giovenale. Eriberto, il famoso arcivescovo di Milano, seppe
che alcuni eretici tenevano convegni nel castello di Monforte presso
Asti, e citatone uno di nome Gerardo, l’esaminò sulla sua fede: — Noi
tutti (rispose) osserviamo la castità benchè ammogliati; non mangiamo
carne, digiuniamo strettamente, leggiamo ogni giorno la Bibbia, molto
preghiamo, e i nostri _maggiori_ s’alternano dì e notte orando. I
beni consideriamo come comuni; e il morir nelle pene ci è dolce per
isfuggire i castighi eterni. Crediamo nel Padre, nel Figliuolo e nello
Spirito Santo, che hanno la facoltà di sciogliere e legare: e il Padre
è l’eterno, in cui e per cui tutte le cose sono; il Figliuolo è lo
spirito dell’uomo, cui Iddio amò; lo Spirito Santo è l’intelletto delle
scienze divine, dal quale tutte le cose sono regolate. Non riconosciamo
il vescovo di Roma o verun altro, ma un solo che ogni giorno visita i
nostri fratelli per tutto il mondo e gli illumina; e quand’è mandato
da Dio, presso lui è a trovare il perdono de’ peccati»[280]. Sembrò
pericolosa quest’eresia al vescovo, tanto che menò contro Asti i
suoi vassalli, e presi per forza i miscredenti, nè potendo indurli a
ritrattarsi, li mandò al fuoco, ch’essi subirono come un martirio.
Le opinioni ebbero viva scossa dalla lotta fra gl’imperatori e i
pontefici, e l’opposizione a questi risolvevasi in eresia, e ad ogni
modo scassinava l’autorità. Poi lo spirito di controversia, introdotto
dalla logica scolastica e dalla giurisprudenza, recò spesso ad opporre
alla credenza comune l’individuale sentimento; e si mescolarono di bel
nuovo i dogmi cogli atti, la quistione religiosa colla sociale.
Pietro Valdo, mercante di Lione _aliquantulum literatus_, venduti
gli averi suoi come poi fece san Francesco, si eresse riformatore de’
costumi come questo, ma non sottoponendo la propria alla volontà della
Chiesa, anzi asserendo questa avere traviato dal vangelo e volersi
richiamarla alla semplicità primitiva: a che il lusso del culto, la
ricchezza dei preti, la potenza temporale de’ papi? povera umiltà come
nei primi tempi. Perciò i suoi seguaci si dissero Poveri di Lione,
e Catari cioè puri, e tanto erano persuasi di non uscire dal vero,
che chiesero al pontefice la permissione di predicare[281]: ma ben
tosto negarono l’autorità del papa, e dietro a ciò il purgatorio,
l’invocazione dei santi, altri dogmi cardinali; proclamarono fosse
libera anche ai laici la predicazione.
Come mai, sotto un Dio buono, tanti mali opprimano il mondo, è problema
che tormentò e tormenterà i pensatori di tutte le generazioni.
Col supporre un altro principio autor del male, lo scioglievano i
Manichei, i quali, vinti fin dai tempi di sant’Agostino, sopravivevano
però in Oriente, e coi varj nomi di Patarini, Bulgari, Pauliciani
si propagarono in Europa e primamente a Milano. Quivi ebbero per
vescovo un tal Marco, stato ordinato in Bulgaria, e che presedeva alla
Lombardia, alla Marca e alla Toscana. Essendovi comparso un altro papa
per nome Niceta, riprovò l’ordine della Bulgaria, e Marco ricevette
quel della Drungaria, cioè di Traù (_Tragurium_) in Croazia[282]. A
Milano, distingueano i Catari vecchi, venuti di Dalmazia, Croazia e
Bulgaria, cresciuti singolarmente quando il Barbarossa li favoriva per
far onta a papa Alessandro; e i nuovi, usciti circa il 1176 di Francia,
che sarebbero i Valdesi.
Questi si erano molto diffusi tra le Alpi, ma viepiù nella Linguadoca,
fra il Rodano, la Garonna e il Mediterraneo, paese più dirozzato della
restante Gallia, e dove le città, memori o fors’anche avendo conservato
gli avanzi delle istituzioni municipali romane, eransi costituite a
comune, con una specie d’eguaglianza fra nobili e mercanti, opportuna
all’incremento della civiltà; sicchè vi si erano svolti e grazia
d’immaginazione e gusto delle arti e dei piaceri dilicati: colà prima
s’intesero versi nelle lingue nuove, sulla mandòla dell’elegante
trovadore, che vagava pei castelli cantando l’amore e le prodezze, o
satireggiando i magnati e i preti. E perchè in Alby, città principale,
primamente furono tolti a perseguitare, vennero chiamati Albigesi.
Non è facile sapere appunto i loro dogmi, o se avessero un fondo
comune, sotto l’infinita varietà che è propria dell’errore. Un libro
depositario di loro credenze non ebbero: in coloro che li confutano e
negli storici che raccolsero dal vulgo, li troviamo imputati di colpe
le più contraddittorie; or proclamando creatore Iddio, ora il demonio;
or facendo Iddio materiale, ora riducendo Cristo a ombra e null’altro:
chi li fa ammettere alla fede tutti i mortali, chi escludere le donne
dall’eterna felicità; chi semplificare il culto, chi ordinare cento
genuflessioni il giorno; chi licenziare alle voluttà più grossolane,
chi riprovare persino il matrimonio[283]. Impugnata l’autorità, e
ridotti alla ragione individuale, doveano necessariamente variare
in infinito: e frà Stefano di Bellavilla racconta che sette vescovi
di credenza diversa si adunarono in una cattedrale di Lombardia, per
accordarsi sui punti di loro fede; ma, non che riuscire, si separarono
scomunicandosi reciprocamente.
Tre sêtte primeggiavano quivi, i Catari, i Concorezzj, i Bagnolesi.
I Catari, che si dicevano anche Albanesi (corrotto probabilmente
da Albigesi), venivano suddivisi in due parzialità: alla prima era
vescovo Balansinanza veronese, all’altra Giovanni di Lugio bergamasco.
Oltre le credenze comuni che sopra noverammo, i primi dicevano che un
angelo avesse portato il corpo di Gesù Cristo nell’utero di Maria,
senza ch’ella v’avesse parte; solo in apparenza il Messia esser
nato, vissuto, morto, risorto; i patriarchi essere stati ministri del
demonio; il mondo eterno. Gli altri tenevano che le creature fossero
state formate quali dal buono, quali dal tristo principio, ma ab
eterno; che la creazione, la redenzione, i miracoli erano accaduti in
un altro mondo, affatto diverso dal nostro; Dio non essere onnipotente,
perchè nelle opere sue può venir contrariato dal principio a sè
opposto; Cristo aver potuto peccare. — I Concorezzj (probabilmente così
chiamati da Concorezzo, borgata presso Monza) ammettono un principio
unico; aver Dio creato gli angeli e gli elementi; ma l’angelo ribellato
e divenuto demonio formò l’uomo e quest’universo visibile; Cristo fu di
natura angelica. I Bagnolesi (denominati dal Bagnolo di Piemonte o da
quello di Provenza) volevano le anime fossero state create da Dio prima
del mondo, e allora avessero peccato; la beata Vergine fosse un angelo;
e Cristo avesse bensì assunto corpo umano per patire, ma non l’avesse
già glorificato, anzi deposto all’ascensione.
Frà Ranerio Saccone distingue sedici chiese di Catari in Lombardia:
degli Albanesi, che stanno principalmente a Verona, e sono cinquecento;
de’ Concorezzj, che fra tutta Lombardia sommeranno a un migliajo e
mezzo; de’ Bagnolesi sparsi a Mantova, Milano, nella Romagnola, in non
più di ducento; la chiesa della Marca, che saranno cento; altrettanto
in quelle di Toscana e di Spoleto; un cencinquanta della chiesa di
Francia, dimoranti a Verona e per Lombardia; ducento delle chiese di
Tolosa, di Alby, di Carcassona; cinquanta di quelle di Latini e Greci
in Costantinopoli; e cinquecento delle altre di Schiavonia, Romania,
Filadelfia, Bulgaria. Ma questi quattromila (avverte l’autore) sono
da intendere per uomini perfetti; giacchè di credenti ve n’ha senza
numero.
Sembra fosse comune la credenza nei due principj, ed al malvagio essere
dovuto il mondo e il Vecchio Testamento. Appoggiati all’_Obedire
oportet magis Deo quam hominibus_, si emancipavano d’ogni autorità
terrena; non papa, non vescovi, non canoni o decretali, non dominio
temporale dei preti; la Chiesa romana non essere concilio sacro, ma
congrega di malignanti; non darsi risurrezione della carne, ridevole
la distinzione dei peccati in veniali e mortali, prestigi del diavolo
i miracoli; non doversi adorare la croce, simbolo d’obbrobrio; per
niuna cosa giurare; nè esser diritto ai magistrati d’infliggere pena
corporale. Quanto ai riti, repudiavano l’estrema unzione, il purgatorio
e di conseguenza i suffragi pei morti, l’intercessione dei santi e
l’_Ave Maria_; per il matrimonio bastare il consenso de’ contraenti,
senz’uopo di benedizione; non valere il battesimo amministrato
agl’infanti; non discendere Dio nell’ostia consacrata da un indegno; i
sacramenti non furono istituiti da Cristo, ma inventati dall’uomo.
Del sacramento dell’Ordine teneva luogo l’elezione dei loro gerarchi,
ch’erano disposti in quattro gradi: il vescovo, il figliuolo maggiore,
il figliuolo minore e il diacono. Al vescovo spettava di preferenza
l’imporre le mani, frangere il pane, dir l’orazione: mancando lui,
suppliva il figliuolo maggiore, se no il minore o il diacono; e in
difetto, un semplice credente, e fin anche una catara. I due figliuoli
coadjuvavano al vescovo, visitavano i fedeli, e in ogni città v’era
un diacono per ascoltare i peccati leggieri una volta al mese;
il che dai Lombardi (i quali ritennero la distinzione dei peccati
veniali) dicevasi _caregare servitium_. Il vescovo poi, avanti morire,
inaugurava a succedergli il figliuolo maggiore imponendogli le mani.
Quotidianamente, allorchè sedevano a mangiar di brigata, il maggiore
fra i convitati sorgeva, e recatosi in mano il pane ed il vino,
proferiva _Gratia domini nostri Jesu Christi sit semper cum omnibus
vobis_, spezzava quel pane, lo distribuiva, e quest’era la loro
eucaristia. Il giorno della cena del Signore, imbandivano più
solennemente; e il ministro, postosi ad un tavoliere, su cui erano
una coppa di vino ed una focaccia d’azimo, diceva: — Preghiamo Dio
ci perdoni i peccati per sua misericordia, ed esaudisca alle nostre
petizioni; e recitiamo sette volte il _Pater noster_ a onor di Dio e
della santissima Trinità». Tutti s’inginocchiano; orato, sorgono; esso
benedice il pane e il vino, frange quello, dà mangiare e bere; e così è
compiuto il sagrifizio.
Confessione non particolareggiata, ma uno recitava a nome di tutti:
— Confessiamo innanzi a Dio ed a voi, che molto peccammo in opere,
in parole, colla vista, col pensiero, ecc.». In casi più solenni, il
peccatore presentandosi al cospetto di molti col vangelo sul petto
proferiva: — Io sono qui avanti a Dio ed a voi, per confessarmi e
chiamarmi in colpa di tutti i peccati che ho sin ora commessi, e
ricevere da voi la perdonanza». Era assolto col posargli il vangelo
sopra il capo. Se un credente ricadesse, doveva confessarsene, e
ricevere di nuovo l’imposizione delle mani in privato. L’imposizione
delle mani, o _consolamento_, o battesimo spirituale, era necessaria
per rimettere il peccato mortale, o comunicare lo spirito consolatore;
e se uno dei _perfetti_ le imponga a un moribondo, e ripeta l’orazione
domenicale, quello va a sicura salvazione. Fu per opporsi al
consolamento de’ Patarini che il concilio Lateranense IV ingiunse ai
Cattolici di confessarsi almeno una volta l’anno.
Frà Ranerio aggiunge che, data la consolazione al moribondo,
gli chiedevano se volesse in cielo andare tra i martiri o tra i
confessori: eleggeva i primi? lo facevano strangolare da un sicario a
ciò stipendiato; i confessori? più non gli davano bere nè mangiare.
Atrocità gratuite, solite apporsi dall’ignoranza o dalla malignità
a tutte le congreghe secrete. E per vero non c’è misfatto di cui non
siansi tacciati i Patarini; essi ladri, essi usuraj, essi sovrattutto
carnali, con connubj promiscui e contro natura; adulterio e incesto
in qualsiasi grado; non poter l’uomo peccare dall’umbilico in giù,
perchè il peccato origina dal cuore. Ma come credere questa bacchica
santificazione del libertinaggio, quando altrove, e ne’ libri de’
loro stessi nemici, troviamo che giudicavano peccato fino il commercio
maritale, imponeansi penose astinenze onde reprimere la carne ribelle
alla volontà ed opera del principio cattivo, tre quaresime l’anno,
perpetua astinenza da carni e latte, replicati digiuni, iterate
preghiere? e san Bernardo, implacabile indagatore di loro colpe, dice:
— Non v’era cosa in apparenza più cristiana che i loro discorsi, nè più
lontana da ogni taccia che i costumi loro»[284].
Non esitiamo a rifiutare per ispurie alcune professioni di fede
esibiteci da loro antagonisti, secondo le quali gl’iniziati
rinunziavano, non solo a tutte le sane credenze della religione, ma ad
ogni costume, pudore, virtù. Ranerio, uno dei Consolati egli medesimo,
indi acerrimo loro persecutore, narra come per l’iniziazione, adunati
i credenti, il vescovo interrogasse il neofito: — Vuoi tu renderti
alla fede nostra?» Questo afferma, s’inginocchia e pronuncia il
_Benedicite_; al che il ministro ripete tre volte — Dio ti benedica»,
sempre più discostandosi dall’iniziato. Il quale soggiunge: — Pregate
Iddio mi faccia buon cristiano». L’interroga poi: — Ti rendi a Dio ed
al vangelo? _Sì_. — Prometti non mangiar carne, ova, formaggio, nè
altra cosa se non d’acqua e di legno? (cioè pesci e frutte). _Sì_.
— Non mentirai? non giurerai? non ammazzerai, neppure vitelli? non
farai libidini nel tuo corpo? non andrai scompagnato quando puoi
avere compagni; non mangerai da solo potendo aver commensali? non ti
coricherai senza brache e camicia? non lascerai la fede per timore di
fuoco, d’acqua o d’altro supplizio?» Risposto che avesse il neofito
a ciascuna domanda, l’universa assemblea mettevasi ginocchione: il
sacerdote posava sopra il novizio il volume dei vangeli, e leggeva
il principio di quel di san Giovanni, poi lo baciava tre volte: così
facevano tutti gli altri, che egualmente si davano l’uno all’altro
la pace: indi veniva messo al collo dell’iniziato un fil di lana e di
lino, ch’e’ non doveva levarsi giammai.
La colpa, onde più grave e concordemente sono rinfacciati i Patarini,
è l’ostinazione. Fra strazj e tormenti, al cospetto di morte
obbrobriosa, non che convertirsi, più s’induravano, protestavansi
innocenti, spiravano cantando lodi al Signore, colla speranza di presto
congiungersi nel suo abbraccio. In Lombardia serbarono memoria d’una
fanciulla, di cui la bellezza e l’età mettevano in tutti compassione;
talchè, deliberati a salvarla, vollero assistesse mentre padre, madre,
fratelli venivano consunti dalle fiamme, così sperando si sarebbe per
terrore convertita: ma no; poi ch’ebbe durato alquanto lo spettacolo
atroce, si svincola dalle braccia de’ suoi manigoldi, e corre a
precipitarsi nelle fiamme, e confonde l’ultimo suo anelito con quello
dei parenti[285].
La più grave urgenza di queste eresie era la guerra che portavano
alla Chiesa esteriore, scassinando i dogmi inerenti all’unità del
sacerdozio, per costituire società religiose speciali. Pur troppo
i loro attacchi trovavano appiglio nello scarmigliato vivere del
clero, di cui e predicatori e poeti si accordano nell’attestare la
depravazione.
Agli errori la Chiesa oppose da principio i rimedj che a lei
convengono, riformare i suoi, ammonire o scomunicare i dissenzienti, e
vi drizzò lo zelo principalmente dei nuovi frati: poi si valse anche
di mezzi mondani e del braccio secolare. Che la società pagana non
tollerasse le religioni diverse è attestato, non fosse altro, dalle
migliaja di martiri. I padri della Chiesa proclamarono la libertà
delle credenze, finchè la loro fu perseguitata; ma come, prevalsa
questa, videro gli eretici turbarla, argomentarono che il reprimere
gli errori fosse diritto e difesa legittima contro della persecuzione
e della seduzione. Se la Chiesa è unica depositaria e interprete della
verità, e in essa sola vi è salute, non dovrà con ogni modo opporsi
alla propagazione dell’errore? Gl’imperatori di Roma cristiani, memori
di quanto univano in sè i due poteri quali capi dello Stato e supremi
pontefici, credettero che la legge dovesse, come i beni e la persona,
così tutelare le credenze e il culto; e moltiplicarono decreti in tal
proposito[286]; diverse pene comminando, di rado la morte, perchè vi si
opponevano i vescovi: a questi era affidato il decidere se un’opinione
fosse ereticale; la cognizione del fatto e la sentenza spettavano al
magistrato secolare.
Così procedette la cosa nel declino dell’Impero Occidentale; così
continuò in Oriente: ma fra noi, dopo l’invasione, se accadesse di
punire un trasgressore delle leggi ecclesiastiche, i vescovi usavano
quell’autorità mista di sacro e di secolare, che vedemmo ad essi
attribuita. Talvolta ancora, considerandosi l’eresia come politica
disobbedienza, procedeasi colla forza, siccome dicemmo di Eriberto
arcivescovo di Milano.
Ridesto il diritto romano, come alla tirannia, così vi si trovò
appoggio alle persecuzioni contro i miscredenti, poco ricordando che la
legge d’amore aveva abolita quella fiera legalità. Ottone III poneva
Gazari e Patarini al bando dell’Impero e a gravi castighi. Federico
Barbarossa, tenuto congresso a Verona con papa Lucio III, ordinò ai
vescovi d’informarsi delle persone sospette d’eresia, e distinguere gli
accusati, i convinti, i pentiti, i ricaduti; quelli convinti d’eresia
sieno spogliati dei benefizj se religiosi e abbandonati al braccio
secolare; i sospetti si purghino, ma se ricadono, vengano puniti
senz’altro. Sgomentato dal vedere i Valdesi distendersi fra le Alpi,
Giacomo vescovo di Torino pensò reprimerli anche col braccio secolare;
laonde da Ottone IV ottenne ampia facoltà di espellerli dalla sua
diocesi[287]. Indi Federico II al tempo della sua coronazione fulminò
pene temporali contro gli eretici, e le ripetè da Padova con quattro
editti, ove, «usando la spada che Dio gli ha concesso contro i nemici
della fede», vuole che i molti eretici ond’è singolarmente infetta
la Lombardia, sieno presi dai vescovi e dati alle fiamme ultrici, o
privati della lingua[288].
È questa la prima legge di morte contro i miscredenti: egli stesso
poi nelle _Costituzioni del regno di Sicilia_ ne pose un’altra,
lamentandosi che dalla Lombardia, ove n’era il semenzajo, i Patarini
fossero largamente penetrati in Roma e perfino nella Sicilia[289], e a
perseguitarli spedì l’arcivescovo di Reggio e il maresciallo Ricardo di
Principato.
Sull’esempio e coll’autorità dei decreti imperiali, le varie città
fecero statuti contro gli eretici: il senatore di Roma giurava non
usare indulgenza ai Patarini, o incorrerebbe la pena di ducento
marchi d’argento: in Milano fu posto che_ qualunque persona a sua
libera voluntate potesse prendere ciascuno heretico; item che le case
dove eran ritrovati si dovessero rovinare, e li beni che in esse si
ritrovavano fossero pubblicati_[290]. L’arcivescovo Enrico di Settala,
allora istituito inquisitore, _jugulavit hæreses_, come lo loda il suo
epitafio; ma i cittadini lo discacciarono. Resta ancora in Milano la
statua equestre di Oldrado da Trezzeno podestà, lodato nell’iscrizione
perchè _Catharos ut debuit uxit_[291].
Nè per questo cessavano gli eretici, e da Tolosa, Roma de’ Patarini,
spargeano missionarj. L’armi spirituali essendo uscite indarno, Enrico
cardinale vescovo di Albano implorò il braccio laico, e menato un
esercito ad estirpar l’errore, mandò a ferro e a fuoco la Linguadoca.
Innocenzo III, appena unto papa, divisò i modi di svellere quei bronchi
dalla vigna di Cristo, e spedì monaci a predicare (1205), esortando i
principi a secondarli; e quando Ranerio e Guido inquisitori avessero
scomunicato uno, i signori doveano confiscargli i beni e sbandirlo,
e far peggio a chi resistesse. Di qui cominciò la crociata contro
gli Albigesi, che non è da questo luogo il raccontare, ma dove sotto
l’apparenza religiosa dibatteasi la nazionalità, giacchè la Francia,
per ottenere quell’unità che tanti desidererebbero a qualsiasi costo
anche per l’Italia, volle sottomettere la Provenza e la Linguadoca,
che come romane repugnavano dalle ordinanze germaniche, prevalse nel
paese settentrionale (1208). La spedizione fu accompagnata da tutti
gli orrori delle guerre civili; ma solo gli adulatori del potere
secolare poteano versarne ogni colpa sul papa e sulla religione.
Oggimai la storia accertò che Innocenzo, mal informato delle iniquità
commesse da ambe le parti, non avea mai cessato di predicar pace e
moderazione, e dopo la vittoria spedì legato a-latere il cardinale
Pietro di Benevento, perchè riconciliasse colla Chiesa gli scomunicati,
e riducesse Tolosa a repubblica indipendente, purchè convertita;
assolse i capi della insurrezione, e al figlio di Raimondo da Tolosa,
condottiero della guerra, prodigò consolazioni, assegnò il contado
Venesino, Beaucaire e la Provenza, e ripeteva: — Abbi pazienza fino al
nuovo concilio».
Sotto i suoi successori la guerra fu proseguita colla ferocia delle
guerre nazionali, finchè la Provenza restò sottoposta affatto al re di
Francia. Questo era san Luigi, e al nuovo acquisto volle accomunare
i provvedimenti che contro l’eresia vegliavano in Francia, dov’essa,
secondo il diritto comune, era considerata delitto contro lo Stato, e
punita del fuoco. Romano, cardinale di Sant’Angelo, per ottenerne la
estirpazione raccolse un concilio (1213), dove si stabilì che i vescovi
nominerebbero in ciascuna parrocchia un sacerdote con due o tre laici,
i quali giurassero _inquisire_ gli eretici, e farli noti ai magistrati;
chi ne celasse alcuno, fosse punito; e distrutta la casa dove uno
fosse côlto. Tal è l’origine del tribunale dell’Inquisizione, specie di
corte marziale in paese sovvertito da lunga guerra, e dove rinasceva
la mal repressa sollevazione. Invece delle precedenti stragi, e dei
tribunali senza diritto di grazia, l’inquisizione era esercitata da
ecclesiastici, gente più addottrinata e meno fiera; ammoniva due volte
prima di procedere; solo gli ostinati e recidivi arrestava; riceveva
al pentimento, e spesso contentavasi di castighi morali; col che salvò
moltissimi, che i tribunali secolari avrebbero condannati. Gregorio
IX poi la sistemò (1233) col togliere ai vescovi i processi, onde
riservarli ai frati Predicatori.
L’Inquisizione avea potestà su tutti i laici, non esclusi i dominanti;
27 i Malavolti li regalarono d’un terreno per fabbricare quel sontuoso
convento; a Milano nello spedale de’ pellegrini a San Barnaba il 1218;
e presto ebber fabbricate le chiese di Santa Maria Novella in Firenze,
di Santa Maria sopra Minerva in Roma, di San Giovanni e Paolo in
Venezia, di San Nicolò in Treviso, di San Domenico a Napoli, a Prato,
a Pistoja, di Santa Caterina a Pisa, delle Grazie a Milano, ed altre,
segnalate per ricca semplicità, e per lo più architettate da frati.
Fin dal principio i due Ordini destarono meraviglia e simpatia nei
migliori[279], e in folla attrassero pii ed illustri proseliti. A
Domenico s’unisce Nicola Pulla di Giovenazzo appena uditolo a Bologna,
e l’accompagna e seconda sempre, finchè, operati gran frutti di
santità, muore a Perugia: a lui Renoldo da Sant’Egidio, professore di
scienza canonica a Parigi; il medico Rolando di Cremona, che da capo
della scuola bolognese passa a professare la teologia nella parigina;
il Moneta, famoso maestro d’arti; frà Ristoro e frà Sisto, architetti
de’ migliori; frà Cavalca, frà Jacopo Passavanti, frà Giordano da
Pisa, dei primi prosatori italiani; i sommi pittori frà Angelico e frà
Bartolomeo; indi Vincenzo da Beauvais l’enciclopedista; i cardinali Ugo
Saint-Cher ed Enrico da Susa, autori d’una _Concordanza della Bibbia_
e di una _Somma aurata_; e Tommaso d’Aquino, il maggior filosofo del
medio evo.
Con Francesco si arruolano Pacifico poeta laureato, Egidio portento
di semplice sapienza, Giovanni da Pinna nel Fermano, Giovanni da
Cortona, Benvenuto d’Ancona poi vescovo d’Osimo, altri ed altri:
più tardi ne cinsero il cordone il gran teologo Scoto, il gran
mistico san Bonaventura, Ruggero Bacone ravvivatore delle scienze
sperimentali. Mogli e figlie di re vestono quell’abito; Margherita,
scandalo di Cortona, diviene specchio di penitenza; Rosa da Viterbo, in
diciassette anni appena di vita, merita le persecuzioni di Federico II
e l’ammirazione del popolo, il quale diceva che la pietra da cui essa
gli predicava si alzasse da terra, e che il cadavere della beata si
conservasse incorrotto fin da un incendio.
Que’ frati andavano a diffondere la pace, e spandere la rugiada
della Grazia sovra le moltitudini, avendo per unica rettorica una
fede inconcussa e universale, e lo accettare tuttociò che servisse
all’edificazione. Le prediche morali e dogmatiche d’alcuni di essi
conservateci, evidentemente non sono che tessere d’aridezza scolastica;
nè può render ragione della portentosa loro efficacia chi non le
immagini rivestite d’una parola animatissima, e dirette a un uditorio
che non vi portava la critica ma la convinzione. Poveri, penitenti,
amici del popolo e contraddittori dei tiranni, specchi di bontà e di
dottrina, ecco perchè gli ordini de’ Minori e de’ Predicatori tanto
poterono, e divennero il più valido sostegno della santa Sede. Dovunque
si trovassero, poteano essi confessare e predicare, anzi ogni curato
dovea ceder loro il pulpito; il popolo volonteroso gli udiva, li
consultava, dividea con essi il pane dalla Provvidenza compartito; e
quegli atti di astinenza e di abnegazione toccavano gli uomini, che
riconoscono l’amore nel sagrifizio, e la virtù nell’amore.
Le anime non volgari trovavansi obbligate a scegliere fra due strade:
o nel mondo procelloso farsi largo colla fierezza e la perfidia; o
voltargli le spalle, rinnegandone la vanità e le opinioni. I primi
diventavano Ezelino, Salinguerra, Buoso da Dovara; gli altri Francesco,
frà Pacifico, Antonio da Padova, gente che assumeva tutti i pesi del
clero senza i vantaggi, e che anzi coll’umiltà e povertà sua faceva
contrasto alle pompe e all’orgoglio di quello, una delle piaghe della
società d’allora, ed uno dei più forti appigli per gli eretici.
Quest’antitesi dei caratteri si manifesta ben anche nelle fabbriche
d’allora: da un lato castelli, fortezze di baroni e principi, sgomento
de’ popoli; dall’altro badie e monasteri, preparati al pellegrino,
al soffrente, alle anime che han bisogno d’amare, di giovare, di
pregare. Collo spirito di devozione e beneficenza viveva ne’ monaci
il sentimento del bello, onde sceglievano situazioni ove l’anima,
estatica nella contemplazione della natura, elevasi a benedire chi
la creò. A venti miglia di Firenze, nella romantica valle dell’Arno
superiore, tra magnifiche abetine sorge Vallombrosa, e nell’altura
l’eremo del Paradisino, dal quale la vista, spaziando per immenso
orizzonte, si perde negli interminabili fiotti del Mediterraneo.
Qual potevano i monaci scegliere più opportuno asilo per riposare
dalle tempeste della società, e prepararsi ai casti godimenti della
vita interiore? Se di colà tu risali verso le sorgenti dell’Arno,
per entro il fertile Casentino eccoti Camaldoli, ricovero di San
Romualdo da Ravenna, e culla d’un altro Ordine. Donde pure elevandoti
alla schiena degli Appennini, giunto sul poggio agli Scali, trovi il
Sacro Eremo, che par veramente inviti l’uomo a lodare il Creatore
delle meraviglie che profuse sopra questa Italia, della quale puoi
di lassù vedere i due pendii scendere, ridenti di diversa bellezza, a
bagnarsi nel Mediterraneo e nell’Adriatico. Nè molto avrai a viaggiare
per giungere all’Alvernia, il devoto ritiro di san Francesco, posto
anch’esso in vetta d’un monte, che incanterebbe se già non si fossero
veduti gli altri due. In questi amenissimi soggiorni si raccoglievano
quegl’ingenui ammiratori di Dio, e mentre il mondo dilagava di fraterno
sangue, essi passavano i giorni nella contemplazione del bello, nella
ricerca del vero, nella pratica del buono.
In un altro uffizio s’adoperarono vivamente i nuovi frati, qual fu di
combattere colla parola gli eretici, farli ricredenti, o castigarli.
Perocchè, sebbene il genio europeo non s’ingolfasse in sottigliezze e
sofisterie come l’orientale, pure anche qui, e precisamente in Italia,
tratto tratto scoprivansi degli eretici; e forse una tradizione di
siffatti non fu mai interrotta fin dai Gnostici e dai Manichei dei
primi tempi. A mezzo il secolo ix, Pietro vescovo di Padova trovò
nella sua diocesi una setta che ghiribizzava sulla Redenzione, e
che solo cinquant’anni dopo fu dissipata dal vescovo Gozelino. Nel
Mille, a Ravenna un Vitgardo fondava non so quali delirj sopra Orazio,
Virgilio, Giovenale. Eriberto, il famoso arcivescovo di Milano, seppe
che alcuni eretici tenevano convegni nel castello di Monforte presso
Asti, e citatone uno di nome Gerardo, l’esaminò sulla sua fede: — Noi
tutti (rispose) osserviamo la castità benchè ammogliati; non mangiamo
carne, digiuniamo strettamente, leggiamo ogni giorno la Bibbia, molto
preghiamo, e i nostri _maggiori_ s’alternano dì e notte orando. I
beni consideriamo come comuni; e il morir nelle pene ci è dolce per
isfuggire i castighi eterni. Crediamo nel Padre, nel Figliuolo e nello
Spirito Santo, che hanno la facoltà di sciogliere e legare: e il Padre
è l’eterno, in cui e per cui tutte le cose sono; il Figliuolo è lo
spirito dell’uomo, cui Iddio amò; lo Spirito Santo è l’intelletto delle
scienze divine, dal quale tutte le cose sono regolate. Non riconosciamo
il vescovo di Roma o verun altro, ma un solo che ogni giorno visita i
nostri fratelli per tutto il mondo e gli illumina; e quand’è mandato
da Dio, presso lui è a trovare il perdono de’ peccati»[280]. Sembrò
pericolosa quest’eresia al vescovo, tanto che menò contro Asti i
suoi vassalli, e presi per forza i miscredenti, nè potendo indurli a
ritrattarsi, li mandò al fuoco, ch’essi subirono come un martirio.
Le opinioni ebbero viva scossa dalla lotta fra gl’imperatori e i
pontefici, e l’opposizione a questi risolvevasi in eresia, e ad ogni
modo scassinava l’autorità. Poi lo spirito di controversia, introdotto
dalla logica scolastica e dalla giurisprudenza, recò spesso ad opporre
alla credenza comune l’individuale sentimento; e si mescolarono di bel
nuovo i dogmi cogli atti, la quistione religiosa colla sociale.
Pietro Valdo, mercante di Lione _aliquantulum literatus_, venduti
gli averi suoi come poi fece san Francesco, si eresse riformatore de’
costumi come questo, ma non sottoponendo la propria alla volontà della
Chiesa, anzi asserendo questa avere traviato dal vangelo e volersi
richiamarla alla semplicità primitiva: a che il lusso del culto, la
ricchezza dei preti, la potenza temporale de’ papi? povera umiltà come
nei primi tempi. Perciò i suoi seguaci si dissero Poveri di Lione,
e Catari cioè puri, e tanto erano persuasi di non uscire dal vero,
che chiesero al pontefice la permissione di predicare[281]: ma ben
tosto negarono l’autorità del papa, e dietro a ciò il purgatorio,
l’invocazione dei santi, altri dogmi cardinali; proclamarono fosse
libera anche ai laici la predicazione.
Come mai, sotto un Dio buono, tanti mali opprimano il mondo, è problema
che tormentò e tormenterà i pensatori di tutte le generazioni.
Col supporre un altro principio autor del male, lo scioglievano i
Manichei, i quali, vinti fin dai tempi di sant’Agostino, sopravivevano
però in Oriente, e coi varj nomi di Patarini, Bulgari, Pauliciani
si propagarono in Europa e primamente a Milano. Quivi ebbero per
vescovo un tal Marco, stato ordinato in Bulgaria, e che presedeva alla
Lombardia, alla Marca e alla Toscana. Essendovi comparso un altro papa
per nome Niceta, riprovò l’ordine della Bulgaria, e Marco ricevette
quel della Drungaria, cioè di Traù (_Tragurium_) in Croazia[282]. A
Milano, distingueano i Catari vecchi, venuti di Dalmazia, Croazia e
Bulgaria, cresciuti singolarmente quando il Barbarossa li favoriva per
far onta a papa Alessandro; e i nuovi, usciti circa il 1176 di Francia,
che sarebbero i Valdesi.
Questi si erano molto diffusi tra le Alpi, ma viepiù nella Linguadoca,
fra il Rodano, la Garonna e il Mediterraneo, paese più dirozzato della
restante Gallia, e dove le città, memori o fors’anche avendo conservato
gli avanzi delle istituzioni municipali romane, eransi costituite a
comune, con una specie d’eguaglianza fra nobili e mercanti, opportuna
all’incremento della civiltà; sicchè vi si erano svolti e grazia
d’immaginazione e gusto delle arti e dei piaceri dilicati: colà prima
s’intesero versi nelle lingue nuove, sulla mandòla dell’elegante
trovadore, che vagava pei castelli cantando l’amore e le prodezze, o
satireggiando i magnati e i preti. E perchè in Alby, città principale,
primamente furono tolti a perseguitare, vennero chiamati Albigesi.
Non è facile sapere appunto i loro dogmi, o se avessero un fondo
comune, sotto l’infinita varietà che è propria dell’errore. Un libro
depositario di loro credenze non ebbero: in coloro che li confutano e
negli storici che raccolsero dal vulgo, li troviamo imputati di colpe
le più contraddittorie; or proclamando creatore Iddio, ora il demonio;
or facendo Iddio materiale, ora riducendo Cristo a ombra e null’altro:
chi li fa ammettere alla fede tutti i mortali, chi escludere le donne
dall’eterna felicità; chi semplificare il culto, chi ordinare cento
genuflessioni il giorno; chi licenziare alle voluttà più grossolane,
chi riprovare persino il matrimonio[283]. Impugnata l’autorità, e
ridotti alla ragione individuale, doveano necessariamente variare
in infinito: e frà Stefano di Bellavilla racconta che sette vescovi
di credenza diversa si adunarono in una cattedrale di Lombardia, per
accordarsi sui punti di loro fede; ma, non che riuscire, si separarono
scomunicandosi reciprocamente.
Tre sêtte primeggiavano quivi, i Catari, i Concorezzj, i Bagnolesi.
I Catari, che si dicevano anche Albanesi (corrotto probabilmente
da Albigesi), venivano suddivisi in due parzialità: alla prima era
vescovo Balansinanza veronese, all’altra Giovanni di Lugio bergamasco.
Oltre le credenze comuni che sopra noverammo, i primi dicevano che un
angelo avesse portato il corpo di Gesù Cristo nell’utero di Maria,
senza ch’ella v’avesse parte; solo in apparenza il Messia esser
nato, vissuto, morto, risorto; i patriarchi essere stati ministri del
demonio; il mondo eterno. Gli altri tenevano che le creature fossero
state formate quali dal buono, quali dal tristo principio, ma ab
eterno; che la creazione, la redenzione, i miracoli erano accaduti in
un altro mondo, affatto diverso dal nostro; Dio non essere onnipotente,
perchè nelle opere sue può venir contrariato dal principio a sè
opposto; Cristo aver potuto peccare. — I Concorezzj (probabilmente così
chiamati da Concorezzo, borgata presso Monza) ammettono un principio
unico; aver Dio creato gli angeli e gli elementi; ma l’angelo ribellato
e divenuto demonio formò l’uomo e quest’universo visibile; Cristo fu di
natura angelica. I Bagnolesi (denominati dal Bagnolo di Piemonte o da
quello di Provenza) volevano le anime fossero state create da Dio prima
del mondo, e allora avessero peccato; la beata Vergine fosse un angelo;
e Cristo avesse bensì assunto corpo umano per patire, ma non l’avesse
già glorificato, anzi deposto all’ascensione.
Frà Ranerio Saccone distingue sedici chiese di Catari in Lombardia:
degli Albanesi, che stanno principalmente a Verona, e sono cinquecento;
de’ Concorezzj, che fra tutta Lombardia sommeranno a un migliajo e
mezzo; de’ Bagnolesi sparsi a Mantova, Milano, nella Romagnola, in non
più di ducento; la chiesa della Marca, che saranno cento; altrettanto
in quelle di Toscana e di Spoleto; un cencinquanta della chiesa di
Francia, dimoranti a Verona e per Lombardia; ducento delle chiese di
Tolosa, di Alby, di Carcassona; cinquanta di quelle di Latini e Greci
in Costantinopoli; e cinquecento delle altre di Schiavonia, Romania,
Filadelfia, Bulgaria. Ma questi quattromila (avverte l’autore) sono
da intendere per uomini perfetti; giacchè di credenti ve n’ha senza
numero.
Sembra fosse comune la credenza nei due principj, ed al malvagio essere
dovuto il mondo e il Vecchio Testamento. Appoggiati all’_Obedire
oportet magis Deo quam hominibus_, si emancipavano d’ogni autorità
terrena; non papa, non vescovi, non canoni o decretali, non dominio
temporale dei preti; la Chiesa romana non essere concilio sacro, ma
congrega di malignanti; non darsi risurrezione della carne, ridevole
la distinzione dei peccati in veniali e mortali, prestigi del diavolo
i miracoli; non doversi adorare la croce, simbolo d’obbrobrio; per
niuna cosa giurare; nè esser diritto ai magistrati d’infliggere pena
corporale. Quanto ai riti, repudiavano l’estrema unzione, il purgatorio
e di conseguenza i suffragi pei morti, l’intercessione dei santi e
l’_Ave Maria_; per il matrimonio bastare il consenso de’ contraenti,
senz’uopo di benedizione; non valere il battesimo amministrato
agl’infanti; non discendere Dio nell’ostia consacrata da un indegno; i
sacramenti non furono istituiti da Cristo, ma inventati dall’uomo.
Del sacramento dell’Ordine teneva luogo l’elezione dei loro gerarchi,
ch’erano disposti in quattro gradi: il vescovo, il figliuolo maggiore,
il figliuolo minore e il diacono. Al vescovo spettava di preferenza
l’imporre le mani, frangere il pane, dir l’orazione: mancando lui,
suppliva il figliuolo maggiore, se no il minore o il diacono; e in
difetto, un semplice credente, e fin anche una catara. I due figliuoli
coadjuvavano al vescovo, visitavano i fedeli, e in ogni città v’era
un diacono per ascoltare i peccati leggieri una volta al mese;
il che dai Lombardi (i quali ritennero la distinzione dei peccati
veniali) dicevasi _caregare servitium_. Il vescovo poi, avanti morire,
inaugurava a succedergli il figliuolo maggiore imponendogli le mani.
Quotidianamente, allorchè sedevano a mangiar di brigata, il maggiore
fra i convitati sorgeva, e recatosi in mano il pane ed il vino,
proferiva _Gratia domini nostri Jesu Christi sit semper cum omnibus
vobis_, spezzava quel pane, lo distribuiva, e quest’era la loro
eucaristia. Il giorno della cena del Signore, imbandivano più
solennemente; e il ministro, postosi ad un tavoliere, su cui erano
una coppa di vino ed una focaccia d’azimo, diceva: — Preghiamo Dio
ci perdoni i peccati per sua misericordia, ed esaudisca alle nostre
petizioni; e recitiamo sette volte il _Pater noster_ a onor di Dio e
della santissima Trinità». Tutti s’inginocchiano; orato, sorgono; esso
benedice il pane e il vino, frange quello, dà mangiare e bere; e così è
compiuto il sagrifizio.
Confessione non particolareggiata, ma uno recitava a nome di tutti:
— Confessiamo innanzi a Dio ed a voi, che molto peccammo in opere,
in parole, colla vista, col pensiero, ecc.». In casi più solenni, il
peccatore presentandosi al cospetto di molti col vangelo sul petto
proferiva: — Io sono qui avanti a Dio ed a voi, per confessarmi e
chiamarmi in colpa di tutti i peccati che ho sin ora commessi, e
ricevere da voi la perdonanza». Era assolto col posargli il vangelo
sopra il capo. Se un credente ricadesse, doveva confessarsene, e
ricevere di nuovo l’imposizione delle mani in privato. L’imposizione
delle mani, o _consolamento_, o battesimo spirituale, era necessaria
per rimettere il peccato mortale, o comunicare lo spirito consolatore;
e se uno dei _perfetti_ le imponga a un moribondo, e ripeta l’orazione
domenicale, quello va a sicura salvazione. Fu per opporsi al
consolamento de’ Patarini che il concilio Lateranense IV ingiunse ai
Cattolici di confessarsi almeno una volta l’anno.
Frà Ranerio aggiunge che, data la consolazione al moribondo,
gli chiedevano se volesse in cielo andare tra i martiri o tra i
confessori: eleggeva i primi? lo facevano strangolare da un sicario a
ciò stipendiato; i confessori? più non gli davano bere nè mangiare.
Atrocità gratuite, solite apporsi dall’ignoranza o dalla malignità
a tutte le congreghe secrete. E per vero non c’è misfatto di cui non
siansi tacciati i Patarini; essi ladri, essi usuraj, essi sovrattutto
carnali, con connubj promiscui e contro natura; adulterio e incesto
in qualsiasi grado; non poter l’uomo peccare dall’umbilico in giù,
perchè il peccato origina dal cuore. Ma come credere questa bacchica
santificazione del libertinaggio, quando altrove, e ne’ libri de’
loro stessi nemici, troviamo che giudicavano peccato fino il commercio
maritale, imponeansi penose astinenze onde reprimere la carne ribelle
alla volontà ed opera del principio cattivo, tre quaresime l’anno,
perpetua astinenza da carni e latte, replicati digiuni, iterate
preghiere? e san Bernardo, implacabile indagatore di loro colpe, dice:
— Non v’era cosa in apparenza più cristiana che i loro discorsi, nè più
lontana da ogni taccia che i costumi loro»[284].
Non esitiamo a rifiutare per ispurie alcune professioni di fede
esibiteci da loro antagonisti, secondo le quali gl’iniziati
rinunziavano, non solo a tutte le sane credenze della religione, ma ad
ogni costume, pudore, virtù. Ranerio, uno dei Consolati egli medesimo,
indi acerrimo loro persecutore, narra come per l’iniziazione, adunati
i credenti, il vescovo interrogasse il neofito: — Vuoi tu renderti
alla fede nostra?» Questo afferma, s’inginocchia e pronuncia il
_Benedicite_; al che il ministro ripete tre volte — Dio ti benedica»,
sempre più discostandosi dall’iniziato. Il quale soggiunge: — Pregate
Iddio mi faccia buon cristiano». L’interroga poi: — Ti rendi a Dio ed
al vangelo? _Sì_. — Prometti non mangiar carne, ova, formaggio, nè
altra cosa se non d’acqua e di legno? (cioè pesci e frutte). _Sì_.
— Non mentirai? non giurerai? non ammazzerai, neppure vitelli? non
farai libidini nel tuo corpo? non andrai scompagnato quando puoi
avere compagni; non mangerai da solo potendo aver commensali? non ti
coricherai senza brache e camicia? non lascerai la fede per timore di
fuoco, d’acqua o d’altro supplizio?» Risposto che avesse il neofito
a ciascuna domanda, l’universa assemblea mettevasi ginocchione: il
sacerdote posava sopra il novizio il volume dei vangeli, e leggeva
il principio di quel di san Giovanni, poi lo baciava tre volte: così
facevano tutti gli altri, che egualmente si davano l’uno all’altro
la pace: indi veniva messo al collo dell’iniziato un fil di lana e di
lino, ch’e’ non doveva levarsi giammai.
La colpa, onde più grave e concordemente sono rinfacciati i Patarini,
è l’ostinazione. Fra strazj e tormenti, al cospetto di morte
obbrobriosa, non che convertirsi, più s’induravano, protestavansi
innocenti, spiravano cantando lodi al Signore, colla speranza di presto
congiungersi nel suo abbraccio. In Lombardia serbarono memoria d’una
fanciulla, di cui la bellezza e l’età mettevano in tutti compassione;
talchè, deliberati a salvarla, vollero assistesse mentre padre, madre,
fratelli venivano consunti dalle fiamme, così sperando si sarebbe per
terrore convertita: ma no; poi ch’ebbe durato alquanto lo spettacolo
atroce, si svincola dalle braccia de’ suoi manigoldi, e corre a
precipitarsi nelle fiamme, e confonde l’ultimo suo anelito con quello
dei parenti[285].
La più grave urgenza di queste eresie era la guerra che portavano
alla Chiesa esteriore, scassinando i dogmi inerenti all’unità del
sacerdozio, per costituire società religiose speciali. Pur troppo
i loro attacchi trovavano appiglio nello scarmigliato vivere del
clero, di cui e predicatori e poeti si accordano nell’attestare la
depravazione.
Agli errori la Chiesa oppose da principio i rimedj che a lei
convengono, riformare i suoi, ammonire o scomunicare i dissenzienti, e
vi drizzò lo zelo principalmente dei nuovi frati: poi si valse anche
di mezzi mondani e del braccio secolare. Che la società pagana non
tollerasse le religioni diverse è attestato, non fosse altro, dalle
migliaja di martiri. I padri della Chiesa proclamarono la libertà
delle credenze, finchè la loro fu perseguitata; ma come, prevalsa
questa, videro gli eretici turbarla, argomentarono che il reprimere
gli errori fosse diritto e difesa legittima contro della persecuzione
e della seduzione. Se la Chiesa è unica depositaria e interprete della
verità, e in essa sola vi è salute, non dovrà con ogni modo opporsi
alla propagazione dell’errore? Gl’imperatori di Roma cristiani, memori
di quanto univano in sè i due poteri quali capi dello Stato e supremi
pontefici, credettero che la legge dovesse, come i beni e la persona,
così tutelare le credenze e il culto; e moltiplicarono decreti in tal
proposito[286]; diverse pene comminando, di rado la morte, perchè vi si
opponevano i vescovi: a questi era affidato il decidere se un’opinione
fosse ereticale; la cognizione del fatto e la sentenza spettavano al
magistrato secolare.
Così procedette la cosa nel declino dell’Impero Occidentale; così
continuò in Oriente: ma fra noi, dopo l’invasione, se accadesse di
punire un trasgressore delle leggi ecclesiastiche, i vescovi usavano
quell’autorità mista di sacro e di secolare, che vedemmo ad essi
attribuita. Talvolta ancora, considerandosi l’eresia come politica
disobbedienza, procedeasi colla forza, siccome dicemmo di Eriberto
arcivescovo di Milano.
Ridesto il diritto romano, come alla tirannia, così vi si trovò
appoggio alle persecuzioni contro i miscredenti, poco ricordando che la
legge d’amore aveva abolita quella fiera legalità. Ottone III poneva
Gazari e Patarini al bando dell’Impero e a gravi castighi. Federico
Barbarossa, tenuto congresso a Verona con papa Lucio III, ordinò ai
vescovi d’informarsi delle persone sospette d’eresia, e distinguere gli
accusati, i convinti, i pentiti, i ricaduti; quelli convinti d’eresia
sieno spogliati dei benefizj se religiosi e abbandonati al braccio
secolare; i sospetti si purghino, ma se ricadono, vengano puniti
senz’altro. Sgomentato dal vedere i Valdesi distendersi fra le Alpi,
Giacomo vescovo di Torino pensò reprimerli anche col braccio secolare;
laonde da Ottone IV ottenne ampia facoltà di espellerli dalla sua
diocesi[287]. Indi Federico II al tempo della sua coronazione fulminò
pene temporali contro gli eretici, e le ripetè da Padova con quattro
editti, ove, «usando la spada che Dio gli ha concesso contro i nemici
della fede», vuole che i molti eretici ond’è singolarmente infetta
la Lombardia, sieno presi dai vescovi e dati alle fiamme ultrici, o
privati della lingua[288].
È questa la prima legge di morte contro i miscredenti: egli stesso
poi nelle _Costituzioni del regno di Sicilia_ ne pose un’altra,
lamentandosi che dalla Lombardia, ove n’era il semenzajo, i Patarini
fossero largamente penetrati in Roma e perfino nella Sicilia[289], e a
perseguitarli spedì l’arcivescovo di Reggio e il maresciallo Ricardo di
Principato.
Sull’esempio e coll’autorità dei decreti imperiali, le varie città
fecero statuti contro gli eretici: il senatore di Roma giurava non
usare indulgenza ai Patarini, o incorrerebbe la pena di ducento
marchi d’argento: in Milano fu posto che_ qualunque persona a sua
libera voluntate potesse prendere ciascuno heretico; item che le case
dove eran ritrovati si dovessero rovinare, e li beni che in esse si
ritrovavano fossero pubblicati_[290]. L’arcivescovo Enrico di Settala,
allora istituito inquisitore, _jugulavit hæreses_, come lo loda il suo
epitafio; ma i cittadini lo discacciarono. Resta ancora in Milano la
statua equestre di Oldrado da Trezzeno podestà, lodato nell’iscrizione
perchè _Catharos ut debuit uxit_[291].
Nè per questo cessavano gli eretici, e da Tolosa, Roma de’ Patarini,
spargeano missionarj. L’armi spirituali essendo uscite indarno, Enrico
cardinale vescovo di Albano implorò il braccio laico, e menato un
esercito ad estirpar l’errore, mandò a ferro e a fuoco la Linguadoca.
Innocenzo III, appena unto papa, divisò i modi di svellere quei bronchi
dalla vigna di Cristo, e spedì monaci a predicare (1205), esortando i
principi a secondarli; e quando Ranerio e Guido inquisitori avessero
scomunicato uno, i signori doveano confiscargli i beni e sbandirlo,
e far peggio a chi resistesse. Di qui cominciò la crociata contro
gli Albigesi, che non è da questo luogo il raccontare, ma dove sotto
l’apparenza religiosa dibatteasi la nazionalità, giacchè la Francia,
per ottenere quell’unità che tanti desidererebbero a qualsiasi costo
anche per l’Italia, volle sottomettere la Provenza e la Linguadoca,
che come romane repugnavano dalle ordinanze germaniche, prevalse nel
paese settentrionale (1208). La spedizione fu accompagnata da tutti
gli orrori delle guerre civili; ma solo gli adulatori del potere
secolare poteano versarne ogni colpa sul papa e sulla religione.
Oggimai la storia accertò che Innocenzo, mal informato delle iniquità
commesse da ambe le parti, non avea mai cessato di predicar pace e
moderazione, e dopo la vittoria spedì legato a-latere il cardinale
Pietro di Benevento, perchè riconciliasse colla Chiesa gli scomunicati,
e riducesse Tolosa a repubblica indipendente, purchè convertita;
assolse i capi della insurrezione, e al figlio di Raimondo da Tolosa,
condottiero della guerra, prodigò consolazioni, assegnò il contado
Venesino, Beaucaire e la Provenza, e ripeteva: — Abbi pazienza fino al
nuovo concilio».
Sotto i suoi successori la guerra fu proseguita colla ferocia delle
guerre nazionali, finchè la Provenza restò sottoposta affatto al re di
Francia. Questo era san Luigi, e al nuovo acquisto volle accomunare
i provvedimenti che contro l’eresia vegliavano in Francia, dov’essa,
secondo il diritto comune, era considerata delitto contro lo Stato, e
punita del fuoco. Romano, cardinale di Sant’Angelo, per ottenerne la
estirpazione raccolse un concilio (1213), dove si stabilì che i vescovi
nominerebbero in ciascuna parrocchia un sacerdote con due o tre laici,
i quali giurassero _inquisire_ gli eretici, e farli noti ai magistrati;
chi ne celasse alcuno, fosse punito; e distrutta la casa dove uno
fosse côlto. Tal è l’origine del tribunale dell’Inquisizione, specie di
corte marziale in paese sovvertito da lunga guerra, e dove rinasceva
la mal repressa sollevazione. Invece delle precedenti stragi, e dei
tribunali senza diritto di grazia, l’inquisizione era esercitata da
ecclesiastici, gente più addottrinata e meno fiera; ammoniva due volte
prima di procedere; solo gli ostinati e recidivi arrestava; riceveva
al pentimento, e spesso contentavasi di castighi morali; col che salvò
moltissimi, che i tribunali secolari avrebbero condannati. Gregorio
IX poi la sistemò (1233) col togliere ai vescovi i processi, onde
riservarli ai frati Predicatori.
L’Inquisizione avea potestà su tutti i laici, non esclusi i dominanti;
- Parts
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 01
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 02
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 03
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 04
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 05
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 06
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 07
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 08
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 09
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 10
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 11
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 12
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 13
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 14
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 15
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 16
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 17
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 18
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 19
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 20
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 21
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 22
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 23
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 24
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 25
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 26
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 27
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 28
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 29
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 30
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 31
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 32
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 33
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 34
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 35
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 36
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 37
- Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 38