Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 17
Più che da stizze, nascevano le nimicizie da intelletto acuto, che
reca a conoscere il meglio, e dolersi di non possederlo; sicchè nello
squilibrio fra i bisogni e il modo di soddisfarli, l’uomo contende e
s’affatica, nè può fare che non dia d’urto ai vicini. In altri tempi
sembra unanimità nazionale la quiete prodotta dalla comune oppressione:
in quelli invece ogni uomo pensava ed operava da sè; ingegnavasi ad un
fine ch’egli nettamente ravvisava, e con mezzi che da sè sceglieva;
e quell’agitazione, l’esistenza occupata ne’ pubblici interessi,
il dramma continuo, le passioni cozzanti, le quistioni di diritto e
d’onore più che d’interessi materiali, il tendere animato verso una
meta sempre varia ma sempre alta, il soffrire per un oggetto nobile, il
trionfare nei trionfi della patria o della propria fazione, erano parte
di felicità.
Mal ci apponiamo ancora quando non vediamo in queste battaglie che
fraterne riotte. Gli stranieri aveano occupato il paese, spodestati
i natii, e ridottili a servi o a plebe senza diritti; mentr’essi, col
nome di feudatarj o di nobili, si presero i privilegi e il dominio e
i possessi tutti, e dichiararono nazione se medesimi. Per noi, cui
il nascer plebe o patrizio non importa che qualche distinzione nel
povero senno dei vulgari, ha del ridicolo e del compassionevole quel
combattersi fra i due ordini: ma allora significava la prevalenza de’
forestieri o de’ nazionali; se i nostri padri dovessero languir sulla
gleba sudata e non posseduta; se il signore di questa, che la tenea per
ragione di conquista, dovesse poter fare di loro ogni sua voglia, sino
ad ucciderli per pochi denari.
Prevalgono i popolani: ma la parte già dominatrice usa forza e astuzia
per reprimerli e corromperli, e all’uopo s’associa colla potenza
forestiera, da cui trae l’origine sua. Col procedere del conflitto, lo
scopo ne diviene men chiaro, ma in fondo sussiste; poi ravvicinandosi e
innestandosi i partiti, nel nome della fazione dimenticano la diversità
dell’origine, e tutti si chiamano Italiani.
Ciò non toglie di deplorare quell’assiduo parteggiamento, le cui
conseguenze nocquero alla più tarda posterità. Le città guardandosi
con odio e sospetto, non si poterono mai accordare in una federazione
di utilità universale e comune difesa; le scissure interne producevano
lotta anche nell’alta politica, ambi i contendenti sapendo di trovare
un appoggio esteriore; alla fine quasi dappertutto la parte popolare
ebbe il sopravvento, e meno esperta delle faccende pubbliche,
ombrosa per natura sua, e troppo occupata per applicarsi al pubblico
reggimento, rimetteva l’uso delle proprie forze e l’esercizio de’
proprj diritti al valore del più prode o al senno del più avveduto; e
così le tirannie vennero eredi delle comunali libertà.
Altre famiglie non aveano mai perduto i possessi aviti, anzi gli
estendevano, e massime quelli compresi nella disputata eredità della
contessa Matilde; poi nelle guerre parteggiando coll’imperatore,
ne ottenevano privilegi e immunità, e diventavano feudatarj.
Gl’imperatori, che da principio avevano favorito i Comuni a popolo
contro i signori feudali, dacchè li videro ingigantire trovarono di
loro conto spalleggiare i nobili liberi, contrappeso alla potenza
cittadina, e scolte disposte sul loro passaggio. Altri s’erano
conservati indipendenti negli aviti castelli, massime se piantati fra
i monti, e cercavano acquistare sulle vicine città il dominio che un
tempo vi avevano tenuto i conti: tali erano i marchesi del Monferrato
e di Este, i più poderosi dell’Italia settentrionale, ingranditi dal
Barbarossa come suoi fedeli.
Nella marca Trevisana, ove le estreme falde dell’Alpi e le colline
Euganee si sporgono in mezzo a liete campagne e città fiorenti, dalle
ben munite alture i signori poterono continuare a tenere una mano
sopra le città, nelle quali fabbricarono anche palazzi, somiglianti a
fortezze. Tra queste famiglie erano prevalsi i Salinguerra di Ferrara,
i Camposampiero di Padova, i Guelfi d’Este, gli Ezelini da Romano. Gli
Ezelini discendeano da un Tedesco passato in Italia con Corrado II, e
infeudato delle terre d’Onàra e Romano nella marca di Treviso: colle
violenze e l’abilità crebbero i suoi discendenti, costituitisi corifei
della parte ghibellina là intorno, imparentatisi di voglia o di forza
con grosse famiglie, ed alleatisi con Verona e Padova. A fronte a loro
stavano gli Estensi, di famose ricchezze, e parenti di quei Guelfi che
vedemmo dominare in Baviera e Sassonia, donde la parte guelfa nell’alta
Lombardia prese il titolo di marchesca. Padova gli aveva obbligati a
giurare la loro città, lasciar deserta la rôcca d’Este, e porsi sotto
la protezione del popolo che i loro padri aveano calpesto; e spesso
chiamati podestà e capitanei, all’ombra repubblicana ricuperavano la
primazia, perduta secondo l’aspetto feudale.
Ferrara, sobbalzata dalle fazioni, diede nel 1208 il primo esempio di
signoria col domandare a principe il marchese d’Este, conferendogli
pieno arbitrio di fare e disfare leggi, paci, alleanze, guerre. Ne fu
tocco al vivo Salinguerra di Torello, primario in Ferrara e caporione
de’ Ghibellini, e ne originarono baruffe e sangue, e avvicendate
espulsioni, e ripetuti e sempre falliti accordi, sinchè rimase
convenuto che tra i due emuli, ossia tra le due fazioni, restassero
partiti gli uffizj della città; il marchese non potea venire a Ferrara
che con un determinato numero di seguaci, e Salinguerra gli usciva
incontro con tutta la nobiltà guelfa e ghibellina, e si celebrava un
cortese banchetto[271].
Anche altrove questi signori si facevano guerra dall’un all’altro,
onde preponderare nelle città del contorno, che pertanto piegavano ad
infelice oligarchia, turbata da incessanti dissidj, spesso prorompenti
in guerre guerreggiate. Tra queste li trovò Ottone IV allorchè scese
dall’Alpi, e sperava che i Guelfi l’appoggierebbero per l’origine sua e
pel favor papale (1209), mentre i Ghibellini non gli avrebbero negato
favore come a re di Germania. Rappaciò egli infatti molti discordi,
e singolarmente Ezelino da Romano con Azzo d’Este; ma poco durò la
costoro benevolenza, e Guelfi e Ghibellini si brigavano delle proprie
pretensioni, non già dell’imperatore, cui non favorivano se non in
quanto sentissero d’averne bisogno.
Pure egli fu accolto a festa dai tanti nemici della Casa sveva;
Innocenzo III gli mosse incontro sin a Viterbo, e lo coronò; ma
breve fu l’armonia. Già l’arroganza tedesca stomacava i Romani, che
ebbero una delle solite abbaruffate in città, dove perirono molti
cavalieri; un grosso di cardinali mantenevasi ostile ad Ottone, il
quale coll’eredità della contessa Matilde pretendeva revocare alla
corona Viterbo, Montefiascone, Orvieto, Perugia, Spoleto, donati
alla santa sede, e che militarmente occupò. Certo l’avranno istigato
i giureconsulti, indefessi apostoli della sovranità imperiale: e
quando il papa gli rammentò le promesse e il giuramento, rispose che
un giuramento anteriore lo obbligava a ricuperare all’Impero quanto
ne fosse stato distratto: favorì la famiglia Pierleoni, ghibellina
arrabbiata; investì la marca d’Ancona ad Azzo d’Este in nome proprio,
non in nome del papa; per fare smacco a Federico di Svevia entrò
nella Puglia pretendendovi la primazia imperiale, ed alleossi co’
generali tedeschi che colà erano rimasi. Papa Innocenzo vide imminente
quell’aggregazione della Sicilia coll’Impero, alla quale sempre erasi
opposto, e viepiù pericolosa perchè fatta dal capo de’ Guelfi, i quali
lo secondavano per odio agli Hohenstaufen; nè trovando altro riparo,
scomunicò l’imperatore (1210): ma questo proseguì la conquista nella
Puglia, ed accingevasi a passare in Sicilia.
Se non che l’anatema aveva sommossa la Germania; la morte di Beatrice
sua moglie lentò i legami che a lui univano la fazione ghibellina;
intanto il papa era riuscito a sottrarre dai custodi tedeschi Federico
di Svevia, e a grande onore accolto in Roma, colla sua benedizione
e colle sue galee l’inviò a Genova (1212). Il giovane reale, bello,
colto, attraente per l’ingegno non meno che per le agitazioni
della prima sua età, attraversò la Lombardia procacciandosi amici
coll’affabilità e colla munificenza, pur sempre contrastato dalle città
guelfe, memori del Barbarossa: il marchese d’Este suo cugino sotto
buona scorta pel lago di Como lo convogliò a Coira, il cui vescovo
fu primo a salutarlo re di Germania. Ottone, poco atto a guadagnarsi
i cuori, avea dovuto uscire dalla Puglia senz’altro lasciarvi se non
raccomandazioni di fedeltà calde e poco sentite; a Lodi convocò le
città lombarde, ma non vennero se non le dichiarate amiche di Milano,
la quale tenevasi con lui per astio contro gli Svevi. Laonde nessun
frutto colse, nè le fazioni sospesero il combattersi; peggiorando anzi
per le sêtte religiose allora pullulanti, e che logoravano la potenza
clericale, avvezzavano a non curar di scomuniche, e conculcavano il
dogma dell’autorità. Venezia osteggiò Padova che voleva precluderle
il commercio di terraferma: Milano combattè con Pavia e co’ marchesi
del Monferrato, i Malaspina della Lunigiana con Genova, questa con
Ventimiglia; i Carraresi, i signori di Montemagno, i Porcaresi contro
Pisa, i Sanminiatesi contro Borgo Sanginnesio, i Salinguerra con
Modena: Lucca non cessò mai guerra a Pisa, e fabbricato il castel
di Cotone in val del Serchio, pose patto ai nuovi abitatori che
non contraessero parentela o aderenza coi Pisani: la rivalità de’
Buondelmonti cogli Amidei fe sentire primamente in Firenze i nomi di
Guelfi e Ghibellini.
Ottone avea procurato chetar la tempesta suscitatagli in Germania, fin
col sottomettersi al giudizio degli stati; ma tale umiliazione crebbe
ardire ai malcontenti: quando poi, marciato a’ danni del re di Francia,
fu sconfitto e vôlto in fuga a Bovines (1214), scaduto d’ogni credito
si ritirò ne’ suoi Stati ereditarj, talchè Federico di Svevia fu di
nuovo coronato re di Germania ad Aquisgrana. Secondo il convenuto con
Innocenzo, Federico confermò tutte le prerogative e i possedimenti
della Sede romana, promise recuperarle dai Pisani la Sardegna e la
Corsica, e cedere la Sicilia appena divenisse imperatore: condizione
che il papa esigeva come nuova garanzia all’indipendenza d’Italia,
troppo minacciata se un suo re fosse anche capo dell’Impero. A Federico
aveva egli sposata Costanza d’Aragona, sua pupilla anch’essa; e avendo
collocato sul trono un allievo della santa Sede, poteva a questa sperar
pace e nuova grandezza: eppure allora si rinnovò la guerra fra il
Sacerdozio e l’Impero. Prima di divisare la quale, giovi por mente alle
nuove armi, di cui l’uno e l’altro venivano accinti al secondo duello.
CAPITOLO LXXXIX.
Frati. Eresie. Patarini. Inquisizione.
All’autorità pontifizia davano grande appoggio i frati. Benedettini,
Agostiniani, Basiliani continuavano a pregare, studiare, cantare,
conservar libri e monumenti; gli austeri Certosini, i mistici
Carmelitani, i caritatevoli Trinitarj o del Riscatto (istituiti da
san Giovanni di Matha gentiluomo nizzardo), ed altri monaci fondati in
quei tempi, si estesero in Italia; e massime gli operosi Cistercensi,
qui portati da san Bernardo, oltre l’opere dello spirito, grandemente
giovarono a ridurre a fertilità stagni e valli, principalmente nel
Milanese e nel Lodigiano[272].
Alcuni Milanesi, trasportati prigionieri in Germania nelle guerre
coll’Impero, disingannati del mondo, fecero voto, se ricuperassero la
patria, di dedicarsi a speciale devozione di Maria. Resi alla terra
natale, istituirono l’Ordine degli Umiliati (1200), vivendo ciascuno
nella propria casa, ma solinghi e in opere sante, avvolti in sajone
cinericcio. Crebbero, e, compra una casa, vi si congregavano la festa
a salmeggiare e ad opere di pietà; e sull’esempio de’ mariti, anche le
donne si ritrassero in devozione e lavori. Avuta da san Bernardo una
regola, gli Umiliati si separarono dalle mogli, ed oltre gli uffizj
spirituali, procacciavano nel lanifizio e nella mercatura; indi il
beato Giovanni da Meda, che li piantò a Como, perfezionò l’istituto,
promovendo alcuni alla dignità sacerdotale, e mettendo a ciascuna
_casa_ un preposto. Così si estesero, e col traffico e col lavorio dei
pannilani arricchirono l’Ordine e il paese. Alla quale società, che, a
parte la devozione, potrebbe servir di modello a quelle che propongono
e non sanno effettuare gli odierni Socialisti, aggiungiamo quelle che
un buon romito di Parma raccolse per fabbricare un ponte sul Taro e
custodirlo.
Silvestro da Osimo, al veder morto un uomo bellissimo, si ricoverò
tutto a vita di spirito, e nel monastero di Monte Fano della Marca
fondò nel 1231 i Silvestrini, presto propagatisi. L’anno seguente,
sette signori fiorentini, membri d’una confraternita di Maria
Vergine, ebbero in visione il comando di rinunziare al mondo; sicchè,
distribuito ogni aver loro ai poveri, coperti di sacco e di cenere, e
vivendo d’accatto, presero il nome di Servi di Maria, ed apersero il
primo convento sul monte Senario appo Firenze.
I frati, oltre portare nella comunione dei Fedeli tanta messe di
preghiere, adempivano molti uffizj, oggi attribuiti all’autorità
amministrativa, e principalmente a curar malati, assistere pellegrini,
assicurare strade. A Sant’Egidio di Moncalieri il ponte e l’ospedale
erano affidati a’ Templari; ai Vallombrosani il tragitto sulla Stura
presso Torino; ad altri i passi del grande e del piccolo Sanbernardo;
quelli di Sant’Antonio curavano i malati di fuoco sacro, quelli di San
Lazzaro i lebbrosi, i Trinitarj d’ogni aver loro faceano tre parti, una
pel proprio mantenimento, una pei poveri e infermi, una pel riscatto
de’ Cristiani presi da Saracini. Le repubbliche poi se ne valeano a
servigi gelosi; ambascerie, custodire denari, riscuotere dazj, metter
paci: il Comune di Mantova lasciava alla loro guardia il libro dei
decreti[273].
In tanti rami già erasi variato il vivere monastico, che Innocenzo III
decretò non se ne introducessero altri: eppure sotto di lui nacquero
due Ordini che eclissarono i precedenti, i frati Minori e i frati
Predicatori.
Alla moglie di Pier Bernardone, agiato negoziante d’Assisi, un angelo
comandò andasse a partorire sulle paglie d’una stalla (1182). Ivi
nacque Giovanni, il quale, condotto in Francia da suo padre, s’addestrò
sì bene nella lingua di là, che ne trasse il soprannome di Francesco.
Balioso, vivace, gajo compagnone, buon poeta fino ai venticinque anni,
allora consente alla chiamata di Dio, e va e vende le sue merci a
Foligno, porta i denari a un prete, e perchè questo ricusa riceverli,
li getta dalla finestra. Il padre, che da buon massajo computava la
bontà coll’abachino, lo crede scemo della mente, e trattolo al vescovo,
lo fa interdire. Giubilante, Francesco si spoglia nudo nato, se non
che il vescovo gli getta addosso il proprio mantello; e rinunziato
alla famiglia, fa adottarsi da un pitocco, veste cenci, e comincia ad
esalare in prediche l’esuberanza interna della carità, per la quale si
lusinga di conquistare il mondo colla predicazione popolare.
A Bernardo cittadino d’Assisi, suo primo discepolo, che gli chiedeva
se abbandonare il mondo, rispose: — Chiedilo a Dio». Aperto il vangelo
a caso, vi legge: _Se vuoi esser perfetto, vendi quanto hai, e dallo
ai poveri_; lo riapre, e trova: _Non portate in viaggio oro nè argento
nè bisaccia nè tunica o sandali o bastone_. — Questo io cerco, questo
desidero di cuore, quest’è la regola mia», esclama Francesco, e gitta
quanto gli restava, eccetto una tunica col cappuccio e una corda
a cintura. Così nel mondo inebbriato di ricchezze e piaceri, esce
predicando la povertà; nel mondo dell’ira, delle superbie, delle
guerre, d’Ezelino e di Federico II, va a bandir l’amore; e attiratisi
undici compagni, si sottomette con loro a rigide penitenze e a povertà
così assoluta, da non considerare suo nè l’abito tampoco o i libri. Dai
Benedettini impetrò una cappelletta nel piano d’Assisi, che fu detta la
_Porziuncula_, e rifabbricatala (1208), vi pose i fondamenti del suo
Ordine, che per umiltà intitolò dei Frati Minori, eleggendo di stare
fra poveri, malati, lebbrosi, lavorar per vivere, e mendicare.
Rinnegata affatto la propria volontà, Francesco diceva: — Beato il
servo il quale non si tien migliore quand’è dagli uomini esaltato che
quand’è preso a vile; perchè l’uomo è quel ch’egli è avanti a Dio, e
nulla più». All’amor suo non bastando abbracciare tutti gli uomini, lo
estende ad ogni creatura; e va per le foreste cantando, e invitando gli
uccelli, che chiama fratelli suoi, perchè celebrino seco il Creatore;
prega le rondini _sue sorelle_ a cessare il pigolìo mentre predica;
e sorelle son le mosche, e sorella la cenere[274]. Una cicala canta?
gli è stimolo a lodare Iddio; alle formiche rimprovera di mostrarsi
troppo sollecite dell’avvenire; storna dal cammino il verme che può
esservi calpestato; porta miele alle api nell’inverno; salva le lepri e
le tortore inseguite; vende il mantello per riscattare una pecora dal
macellajo; il giorno di Natale voleva si porgesse miglior nutrimento
all’asino e al bue; anche biade, vigne, sassi, selve, quanto han di
bello i campi e gli elementi, per lui sono eccitamenti ad amar Dio;
nell’orticello d’ogni convento da’ suoi dovea riservarsi un quadro a’
più bei fiori, per lodarne il Signore[275].
La piena di questo affetto espandea Francesco in poesie, originali
come lui stesso, ove niuna reminiscenza d’antichità, ma viva effusione
di cuore, impeti d’amore infinito[276]: fu dei primi ad usar nelle
laudi la lingua volgare; e frà Pacifico, suo allievo, meritò la laurea
poetica da Federico II.
Vedendo moltiplicati i Minori, Francesco pensò dettarne la regola; e
stando sopra tale pensiero, ecco la notte gli pare aver raccolto tre
bricciole di pane, e doverle distribuire a una turba di frati famelici.
E temeva non gli andassero perdute fra le mani, quando una voce gli
gridò: — «Fanne un’ostia, e danne a chiunque vuole cibo». Fece, e
chi non ricevea devotamente quella particella, coprivasi di lebbra.
Narrò Francesco la visione ai fratelli senza intenderne il senso;
ma il giorno dappoi, mentre pregava, una voce dal cielo gli disse:
«Francesco, le bricciole di pane sono le parole del vangelo, l’ostia è
la regola, lebbra l’iniquità».
Ritiratosi dunque con due compagni s’un monte, digiunando a pane e
acqua, fe scrivere la sua regola secondo il divino spirito gli dettava
entro. Essa comincia: — La regola de’ Frati Minori è d’osservare il
vangelo, vivendo in obbedienza senza nulla di proprio e in castità».
Chi v’entrasse dovea vendere ogni aver suo a profitto de’ poveri,
e subire un anno di prove rigorose prima di proferire i voti. Tutti
essendo _frati minori_, gareggiavano d’umiltà, e lavavansi i piedi
un all’altro: i superiori chiamavansi servi: chi sa un mestiere, può
esercitarlo per guadagnare il vitto; chi no, vada alla busca, ma non
di denaro. Neppur l’Ordine può possedere altro che il puro necessario.
Prendano in ispecial cura gli esuli, i mendicanti, i lebbrosi. Chi
stando ammalato s’impazienta o sollecita medicine, è indegno del
titolo di frate, perchè mostra maggior cura del corpo che dell’anima.
Non vedano femmine, e a queste predichino sempre la penitenza: che
se alcuno pecca in esse, venga tosto cacciato. In viaggio rechino
l’abito e null’altro, nè tampoco il bastone; e se diano nei ladri, si
lascino spogliare. Non predichi chi non vi sia autorizzato; e prometta
insegnar la dottrina della Chiesa senza formole di scienza profana,
senza cercare suffragi. Un generale, eletto da tutti i membri, risiede
a Roma, assistito da un consiglio, e da esso dipendono i provinciali
e i priori. Ai capitoli generali prendono parte i capi di ciascuna
provincia, i priori e i deputati dei monaci di ciascun convento. Ogni
comunità tiene capitolo una volta l’anno: i superiori d’Italia si
congregano ogn’anno, e ogni tre quelli di là dall’alpe e dal mare.
Francesco si presentò al papa chiedendo la conferma del suo Ordine,
cioè il diritto di predicare, mendicare e non posseder nulla. Innocenzo
III fu d’avviso che l’assunto trascendesse le forze d’uomini:
quand’ecco in visione parvegli la chiesa di San Giovanni Laterano
barcollare, minacciando rovina; e sorreggerla due uomini, un italiano
ed uno spagnuolo, Francesco d’Assisi e Domenico Gusman. Pertanto
approvò l’Ordine solennemente nel IV concilio di Laterano (1215).
Chiara, nobil donna d’Assisi, tocca all’esempio ed ai sermoni di
Francesco, abbandona il mondo (1212) e istituisce le povere donne
Clarisse, colla regola stessa. Non sapea Francesco risolvere qual fosse
meglio, la preghiera o la predicazione; e Chiara e frà Silvestro il
persuadono a quest’ultima, ond’egli compare a Roma ballonzando per
gioja, e chiede al papa licenza d’andare apostolando in traccia di
conversioni e del martirio. E va per la Spagna, la Barberia, l’Egitto;
crociata incruenta, ove grido di guerra era _La pace sia con voi_.
In Africa arrivò mentre i Crociati osteggiavano Damiata (1219); e
presentatosi a Melik el-Kamel (Meledino), gli espose il vangelo, sfidò
i dottori di quella legge, s’offerse di saltare in un rogo divampante
per dimostrare la verità della sua dottrina. Melik l’ascoltò, e
rimandollo senza nè la conversione nè il martirio.
A’ suoi che inviava a predicare, Francesco diceva: — In nome del
Signore camminate due a due con umiltà e modestia; in particolare
con esattissimo silenzio dal mattino fino a terza, pregando Dio nel
vostro cuore. Fra voi non parole oziose e inutili: ed anche per via
comportatevi umili e modesti, come foste in un romitaggio o nella
vostra cella; imperciocchè, in qualunque parte siamo, è sempre con
noi la nostra cella, che è il corpo nostro fratello, essendo l’anima
nostra il romito che dimora in questa cella, per pregare e pensare a
Dio. Perciò, se l’anima non istà in riposo in questa cella, la cella
esteriore nulla serve ai religiosi. Sia tale la vostra condotta in
mezzo alla gente, che qualunque vi vedrà o ascolterà, lodi il celeste
Padre. Annunziate la pace a tutti; ma abbiatela nel cuore come nella
bocca, anzi più. Non porgete occasione di collera o di scandalo, ma
colla vostra mansuetudine fate che ognuno inclini alla bontà, alla
pace, alla concordia. Noi siamo chiamati per guarire i feriti e
richiamare gli erranti; molti vi sembreranno figli del diavolo, che
saranno un giorno discepoli di Gesù».
Questi frati erano membri d’una repubblica che avea per sede il mondo,
per cittadino chiunque ne adottava le rigide virtù: e scalzi, col
vestire dei poveri d’allora, coll’idioma dei vulghi, diffondeansi per
tutto, al popolo parlando come esso vuol gli si parli, con forza, con
drammatica, e fino con vulgarità, destando al pianto e al riso col
ridere e piangere essi stessi, affrontando e provocando i tormenti
come le beffe. Egli medesimo, il santo fondatore, se mai talvolta
rompesse il digiuno, volea lo strascinassero per le vie, battendolo
e gridandogli dietro: — Ve’ ve’ il ghiottone che s’impingua di
carne di polli senza che voi lo sappiate». A Natale predicava in una
vera stalla, ove il presepio e il fieno e l’asino e il bue; e nel
pronunziare _Betlemme_, belava come un pecorino; e nel nominare Gesù,
leccavasi le labbra, quasi ne sentisse dolcezza. Poi alla sera di sua
vita portava le stigmate delle piaghe di Cristo impresse sul proprio
corpo.
L’uomo stesso gittava il balsamo della sua parola sopra gli spiriti
inveleniti. Udito stare in cagnesco i magistrati e il vescovo d’Assisi,
mandò i suoi fratelli a cantare al vescovado il suo cantico del Sole,
al quale aggiunse allora le parole: Lodato sia il Signore in quelli
che perdonano per amor suo, e sopportano patimenti e tribolazioni.
Beati quelli che perseverano nella pace, perchè saranno coronati
dall’Altissimo». Tanto bastò per mitigare gli sdegni. — Il dì
dell’Assunta del 1220 (scrive Tommaso arcidiacono di Spalatro), stando
io agli studj a Bologna, vidi Francesco predicare sulla piazza davanti
al pubblico palazzo, dove tutta quasi la città era raccolta. E fu
esordio al suo predicare _Angeli, uomini e demonj_; e di questi spiriti
tanto bene propose, che a molti letterati ivi presenti recò non poca
meraviglia un parlare sì giusto di persona idiota. E tutto il contesto
del suo ragionare tendeva ad estinguere le nimicizie, e far accordi
di pace. Sordido d’abiti, spregevole d’aspetto, di faccia abjetta,
pure Iddio aggiunse tanta efficacia alle parole di lui, che molte
tribù di nobili, fra cui inumana rabbia d’inveterate nimicizie aveva
infuriato con molta effusione di sangue, vennero ridotte a consiglio di
pace»[277].
Così il _padre serafico_ seguì fino ai quarantaquattro anni, allorchè
morì. Per la sua Porziuncola invocò dal cielo e dal pontefice
un’indulgenza, a lucrar la quale non fosse mestieri di veruna
offerta. E quando ogni 2 d’agosto essa è proclamata nell’ora solenne
dell’apparizione di Maria, una folla sterminata accorre da quei
fortunati contorni ad implorare l’effusione della grazia gratuita. E
noi, che non sappiamo pellegrinare soltanto alla zazzera di Voltaire
e all’isoletta di Rousseau, cercammo commossi le colline e i laghi
attorno a quella deliziosa vallata, piena di tante benevole memorie;
e nel maestoso tempio di Maria degli Angeli, eretto sopra quell’umile
cella, monumento alla povertà fra i tanti consacrati alla forza e al
fasto, meditammo compunti quanta santità ne uscisse, quanta potenza.
Alla povertà stettero fedeli i suoi: al papa, che la esortava ad
assicurare la sussistenza del suo Ordine coll’acquistare beni sodi, e
offriva assolverla dal voto, santa Chiara rispose: — Non domando altra
assoluzione che de’ miei peccati»: sant’Antonio i doni offertigli
da Ezelino rifiutò costantemente, dicendo non volere dei frutti del
peccato: frà Egidio, per vivere in Roma, andava a far legna e venderla:
gli altri campavano accattando, e dappertutto erano accolti a suon di
campane e rami d’ulivi. E perchè mai gli Ordini mendicanti esercitarono
maggior potenza degli altri sul popolo? perchè con esso divideano il
pane quotidiano; perchè il popolo rispetta un’indipendenza acquistata
con sacrifizj volontari.
Affine di più addentro insinuarsi nella società, oltre i professi e i
frati laici, v’ebbe un _terz’ordine_, cui poteva aggregarsi qualunque
secolare per via di certe devote pratiche volesse partecipare ai tesori
delle preghiere senza abbandonare il mondo, senza cessare d’essere
moglie, padre, vescovo, cavaliere, pontefice. Quattro le condizioni:
restituire ogni mal tolto, riconciliarsi col prossimo, osservare i
comandamenti di Dio e della Chiesa, le donne abbiano il consenso del
marito; e perchè non vi fosse altro legame che il libero volere, si
ammonivano gli adepti che l’osservanza della regola non obbligava sotto
pena di peccato mortale. Sbandito il lusso e la cupidigia del guadagno,
non teatri, non festini; a prevenire i litigi, ciascuno abbia preparato
il suo testamento; le differenze fra loro si compongano, se no volgansi
ai giudici naturali, non a fòri privilegiati; non diano mai giuramenti,
che rendano ligi ad un uomo o ad una fazione; non portino armi che per
difendere la Chiesa, la fede, la patria[278]. Oh, Francesco mostrava
ben conoscere come le riforme devono cominciare dalla vita domestica,
dalla famiglia.
Contemporaneamente Domenico Gusman, illustre castigliano, assetato di
dolori e d’amore, introdusse il nuovo ordine de’ Predicatori (1216),
destinato alla scienza divina e all’apostolato. Qui pure tutte le
cariche erano elettive, obbligo la povertà: e al santo istitutore in
Bologna, ove morì (1221), fu posta un’urna fregiata nel più bel modo
che sapessero frà Guglielmo, Nicola di Pisa, Nicola di Bari, Alfonso
Lombardi; indi un tempio magnificentissimo.
Appena quattro anni dopo l’approvazione, Francesco radunò il
primo capitolo detto _delle stuoje_ perchè fu in campo aperto
sotto trabacche, ov’erano cinquemila frati della sola Italia, e da
cinquecento novizj si presentarono: poi crebbero tanto, che, malgrado
mezza Europa perduta per la Riforma, dicono alla rivoluzione francese
sommassero a cenquindici mila, in settemila conventi, suddivisi fra
molte regole e riforme. Anche i Domenicani si diffusero rapidamente;
reca a conoscere il meglio, e dolersi di non possederlo; sicchè nello
squilibrio fra i bisogni e il modo di soddisfarli, l’uomo contende e
s’affatica, nè può fare che non dia d’urto ai vicini. In altri tempi
sembra unanimità nazionale la quiete prodotta dalla comune oppressione:
in quelli invece ogni uomo pensava ed operava da sè; ingegnavasi ad un
fine ch’egli nettamente ravvisava, e con mezzi che da sè sceglieva;
e quell’agitazione, l’esistenza occupata ne’ pubblici interessi,
il dramma continuo, le passioni cozzanti, le quistioni di diritto e
d’onore più che d’interessi materiali, il tendere animato verso una
meta sempre varia ma sempre alta, il soffrire per un oggetto nobile, il
trionfare nei trionfi della patria o della propria fazione, erano parte
di felicità.
Mal ci apponiamo ancora quando non vediamo in queste battaglie che
fraterne riotte. Gli stranieri aveano occupato il paese, spodestati
i natii, e ridottili a servi o a plebe senza diritti; mentr’essi, col
nome di feudatarj o di nobili, si presero i privilegi e il dominio e
i possessi tutti, e dichiararono nazione se medesimi. Per noi, cui
il nascer plebe o patrizio non importa che qualche distinzione nel
povero senno dei vulgari, ha del ridicolo e del compassionevole quel
combattersi fra i due ordini: ma allora significava la prevalenza de’
forestieri o de’ nazionali; se i nostri padri dovessero languir sulla
gleba sudata e non posseduta; se il signore di questa, che la tenea per
ragione di conquista, dovesse poter fare di loro ogni sua voglia, sino
ad ucciderli per pochi denari.
Prevalgono i popolani: ma la parte già dominatrice usa forza e astuzia
per reprimerli e corromperli, e all’uopo s’associa colla potenza
forestiera, da cui trae l’origine sua. Col procedere del conflitto, lo
scopo ne diviene men chiaro, ma in fondo sussiste; poi ravvicinandosi e
innestandosi i partiti, nel nome della fazione dimenticano la diversità
dell’origine, e tutti si chiamano Italiani.
Ciò non toglie di deplorare quell’assiduo parteggiamento, le cui
conseguenze nocquero alla più tarda posterità. Le città guardandosi
con odio e sospetto, non si poterono mai accordare in una federazione
di utilità universale e comune difesa; le scissure interne producevano
lotta anche nell’alta politica, ambi i contendenti sapendo di trovare
un appoggio esteriore; alla fine quasi dappertutto la parte popolare
ebbe il sopravvento, e meno esperta delle faccende pubbliche,
ombrosa per natura sua, e troppo occupata per applicarsi al pubblico
reggimento, rimetteva l’uso delle proprie forze e l’esercizio de’
proprj diritti al valore del più prode o al senno del più avveduto; e
così le tirannie vennero eredi delle comunali libertà.
Altre famiglie non aveano mai perduto i possessi aviti, anzi gli
estendevano, e massime quelli compresi nella disputata eredità della
contessa Matilde; poi nelle guerre parteggiando coll’imperatore,
ne ottenevano privilegi e immunità, e diventavano feudatarj.
Gl’imperatori, che da principio avevano favorito i Comuni a popolo
contro i signori feudali, dacchè li videro ingigantire trovarono di
loro conto spalleggiare i nobili liberi, contrappeso alla potenza
cittadina, e scolte disposte sul loro passaggio. Altri s’erano
conservati indipendenti negli aviti castelli, massime se piantati fra
i monti, e cercavano acquistare sulle vicine città il dominio che un
tempo vi avevano tenuto i conti: tali erano i marchesi del Monferrato
e di Este, i più poderosi dell’Italia settentrionale, ingranditi dal
Barbarossa come suoi fedeli.
Nella marca Trevisana, ove le estreme falde dell’Alpi e le colline
Euganee si sporgono in mezzo a liete campagne e città fiorenti, dalle
ben munite alture i signori poterono continuare a tenere una mano
sopra le città, nelle quali fabbricarono anche palazzi, somiglianti a
fortezze. Tra queste famiglie erano prevalsi i Salinguerra di Ferrara,
i Camposampiero di Padova, i Guelfi d’Este, gli Ezelini da Romano. Gli
Ezelini discendeano da un Tedesco passato in Italia con Corrado II, e
infeudato delle terre d’Onàra e Romano nella marca di Treviso: colle
violenze e l’abilità crebbero i suoi discendenti, costituitisi corifei
della parte ghibellina là intorno, imparentatisi di voglia o di forza
con grosse famiglie, ed alleatisi con Verona e Padova. A fronte a loro
stavano gli Estensi, di famose ricchezze, e parenti di quei Guelfi che
vedemmo dominare in Baviera e Sassonia, donde la parte guelfa nell’alta
Lombardia prese il titolo di marchesca. Padova gli aveva obbligati a
giurare la loro città, lasciar deserta la rôcca d’Este, e porsi sotto
la protezione del popolo che i loro padri aveano calpesto; e spesso
chiamati podestà e capitanei, all’ombra repubblicana ricuperavano la
primazia, perduta secondo l’aspetto feudale.
Ferrara, sobbalzata dalle fazioni, diede nel 1208 il primo esempio di
signoria col domandare a principe il marchese d’Este, conferendogli
pieno arbitrio di fare e disfare leggi, paci, alleanze, guerre. Ne fu
tocco al vivo Salinguerra di Torello, primario in Ferrara e caporione
de’ Ghibellini, e ne originarono baruffe e sangue, e avvicendate
espulsioni, e ripetuti e sempre falliti accordi, sinchè rimase
convenuto che tra i due emuli, ossia tra le due fazioni, restassero
partiti gli uffizj della città; il marchese non potea venire a Ferrara
che con un determinato numero di seguaci, e Salinguerra gli usciva
incontro con tutta la nobiltà guelfa e ghibellina, e si celebrava un
cortese banchetto[271].
Anche altrove questi signori si facevano guerra dall’un all’altro,
onde preponderare nelle città del contorno, che pertanto piegavano ad
infelice oligarchia, turbata da incessanti dissidj, spesso prorompenti
in guerre guerreggiate. Tra queste li trovò Ottone IV allorchè scese
dall’Alpi, e sperava che i Guelfi l’appoggierebbero per l’origine sua e
pel favor papale (1209), mentre i Ghibellini non gli avrebbero negato
favore come a re di Germania. Rappaciò egli infatti molti discordi,
e singolarmente Ezelino da Romano con Azzo d’Este; ma poco durò la
costoro benevolenza, e Guelfi e Ghibellini si brigavano delle proprie
pretensioni, non già dell’imperatore, cui non favorivano se non in
quanto sentissero d’averne bisogno.
Pure egli fu accolto a festa dai tanti nemici della Casa sveva;
Innocenzo III gli mosse incontro sin a Viterbo, e lo coronò; ma
breve fu l’armonia. Già l’arroganza tedesca stomacava i Romani, che
ebbero una delle solite abbaruffate in città, dove perirono molti
cavalieri; un grosso di cardinali mantenevasi ostile ad Ottone, il
quale coll’eredità della contessa Matilde pretendeva revocare alla
corona Viterbo, Montefiascone, Orvieto, Perugia, Spoleto, donati
alla santa sede, e che militarmente occupò. Certo l’avranno istigato
i giureconsulti, indefessi apostoli della sovranità imperiale: e
quando il papa gli rammentò le promesse e il giuramento, rispose che
un giuramento anteriore lo obbligava a ricuperare all’Impero quanto
ne fosse stato distratto: favorì la famiglia Pierleoni, ghibellina
arrabbiata; investì la marca d’Ancona ad Azzo d’Este in nome proprio,
non in nome del papa; per fare smacco a Federico di Svevia entrò
nella Puglia pretendendovi la primazia imperiale, ed alleossi co’
generali tedeschi che colà erano rimasi. Papa Innocenzo vide imminente
quell’aggregazione della Sicilia coll’Impero, alla quale sempre erasi
opposto, e viepiù pericolosa perchè fatta dal capo de’ Guelfi, i quali
lo secondavano per odio agli Hohenstaufen; nè trovando altro riparo,
scomunicò l’imperatore (1210): ma questo proseguì la conquista nella
Puglia, ed accingevasi a passare in Sicilia.
Se non che l’anatema aveva sommossa la Germania; la morte di Beatrice
sua moglie lentò i legami che a lui univano la fazione ghibellina;
intanto il papa era riuscito a sottrarre dai custodi tedeschi Federico
di Svevia, e a grande onore accolto in Roma, colla sua benedizione
e colle sue galee l’inviò a Genova (1212). Il giovane reale, bello,
colto, attraente per l’ingegno non meno che per le agitazioni
della prima sua età, attraversò la Lombardia procacciandosi amici
coll’affabilità e colla munificenza, pur sempre contrastato dalle città
guelfe, memori del Barbarossa: il marchese d’Este suo cugino sotto
buona scorta pel lago di Como lo convogliò a Coira, il cui vescovo
fu primo a salutarlo re di Germania. Ottone, poco atto a guadagnarsi
i cuori, avea dovuto uscire dalla Puglia senz’altro lasciarvi se non
raccomandazioni di fedeltà calde e poco sentite; a Lodi convocò le
città lombarde, ma non vennero se non le dichiarate amiche di Milano,
la quale tenevasi con lui per astio contro gli Svevi. Laonde nessun
frutto colse, nè le fazioni sospesero il combattersi; peggiorando anzi
per le sêtte religiose allora pullulanti, e che logoravano la potenza
clericale, avvezzavano a non curar di scomuniche, e conculcavano il
dogma dell’autorità. Venezia osteggiò Padova che voleva precluderle
il commercio di terraferma: Milano combattè con Pavia e co’ marchesi
del Monferrato, i Malaspina della Lunigiana con Genova, questa con
Ventimiglia; i Carraresi, i signori di Montemagno, i Porcaresi contro
Pisa, i Sanminiatesi contro Borgo Sanginnesio, i Salinguerra con
Modena: Lucca non cessò mai guerra a Pisa, e fabbricato il castel
di Cotone in val del Serchio, pose patto ai nuovi abitatori che
non contraessero parentela o aderenza coi Pisani: la rivalità de’
Buondelmonti cogli Amidei fe sentire primamente in Firenze i nomi di
Guelfi e Ghibellini.
Ottone avea procurato chetar la tempesta suscitatagli in Germania, fin
col sottomettersi al giudizio degli stati; ma tale umiliazione crebbe
ardire ai malcontenti: quando poi, marciato a’ danni del re di Francia,
fu sconfitto e vôlto in fuga a Bovines (1214), scaduto d’ogni credito
si ritirò ne’ suoi Stati ereditarj, talchè Federico di Svevia fu di
nuovo coronato re di Germania ad Aquisgrana. Secondo il convenuto con
Innocenzo, Federico confermò tutte le prerogative e i possedimenti
della Sede romana, promise recuperarle dai Pisani la Sardegna e la
Corsica, e cedere la Sicilia appena divenisse imperatore: condizione
che il papa esigeva come nuova garanzia all’indipendenza d’Italia,
troppo minacciata se un suo re fosse anche capo dell’Impero. A Federico
aveva egli sposata Costanza d’Aragona, sua pupilla anch’essa; e avendo
collocato sul trono un allievo della santa Sede, poteva a questa sperar
pace e nuova grandezza: eppure allora si rinnovò la guerra fra il
Sacerdozio e l’Impero. Prima di divisare la quale, giovi por mente alle
nuove armi, di cui l’uno e l’altro venivano accinti al secondo duello.
CAPITOLO LXXXIX.
Frati. Eresie. Patarini. Inquisizione.
All’autorità pontifizia davano grande appoggio i frati. Benedettini,
Agostiniani, Basiliani continuavano a pregare, studiare, cantare,
conservar libri e monumenti; gli austeri Certosini, i mistici
Carmelitani, i caritatevoli Trinitarj o del Riscatto (istituiti da
san Giovanni di Matha gentiluomo nizzardo), ed altri monaci fondati in
quei tempi, si estesero in Italia; e massime gli operosi Cistercensi,
qui portati da san Bernardo, oltre l’opere dello spirito, grandemente
giovarono a ridurre a fertilità stagni e valli, principalmente nel
Milanese e nel Lodigiano[272].
Alcuni Milanesi, trasportati prigionieri in Germania nelle guerre
coll’Impero, disingannati del mondo, fecero voto, se ricuperassero la
patria, di dedicarsi a speciale devozione di Maria. Resi alla terra
natale, istituirono l’Ordine degli Umiliati (1200), vivendo ciascuno
nella propria casa, ma solinghi e in opere sante, avvolti in sajone
cinericcio. Crebbero, e, compra una casa, vi si congregavano la festa
a salmeggiare e ad opere di pietà; e sull’esempio de’ mariti, anche le
donne si ritrassero in devozione e lavori. Avuta da san Bernardo una
regola, gli Umiliati si separarono dalle mogli, ed oltre gli uffizj
spirituali, procacciavano nel lanifizio e nella mercatura; indi il
beato Giovanni da Meda, che li piantò a Como, perfezionò l’istituto,
promovendo alcuni alla dignità sacerdotale, e mettendo a ciascuna
_casa_ un preposto. Così si estesero, e col traffico e col lavorio dei
pannilani arricchirono l’Ordine e il paese. Alla quale società, che, a
parte la devozione, potrebbe servir di modello a quelle che propongono
e non sanno effettuare gli odierni Socialisti, aggiungiamo quelle che
un buon romito di Parma raccolse per fabbricare un ponte sul Taro e
custodirlo.
Silvestro da Osimo, al veder morto un uomo bellissimo, si ricoverò
tutto a vita di spirito, e nel monastero di Monte Fano della Marca
fondò nel 1231 i Silvestrini, presto propagatisi. L’anno seguente,
sette signori fiorentini, membri d’una confraternita di Maria
Vergine, ebbero in visione il comando di rinunziare al mondo; sicchè,
distribuito ogni aver loro ai poveri, coperti di sacco e di cenere, e
vivendo d’accatto, presero il nome di Servi di Maria, ed apersero il
primo convento sul monte Senario appo Firenze.
I frati, oltre portare nella comunione dei Fedeli tanta messe di
preghiere, adempivano molti uffizj, oggi attribuiti all’autorità
amministrativa, e principalmente a curar malati, assistere pellegrini,
assicurare strade. A Sant’Egidio di Moncalieri il ponte e l’ospedale
erano affidati a’ Templari; ai Vallombrosani il tragitto sulla Stura
presso Torino; ad altri i passi del grande e del piccolo Sanbernardo;
quelli di Sant’Antonio curavano i malati di fuoco sacro, quelli di San
Lazzaro i lebbrosi, i Trinitarj d’ogni aver loro faceano tre parti, una
pel proprio mantenimento, una pei poveri e infermi, una pel riscatto
de’ Cristiani presi da Saracini. Le repubbliche poi se ne valeano a
servigi gelosi; ambascerie, custodire denari, riscuotere dazj, metter
paci: il Comune di Mantova lasciava alla loro guardia il libro dei
decreti[273].
In tanti rami già erasi variato il vivere monastico, che Innocenzo III
decretò non se ne introducessero altri: eppure sotto di lui nacquero
due Ordini che eclissarono i precedenti, i frati Minori e i frati
Predicatori.
Alla moglie di Pier Bernardone, agiato negoziante d’Assisi, un angelo
comandò andasse a partorire sulle paglie d’una stalla (1182). Ivi
nacque Giovanni, il quale, condotto in Francia da suo padre, s’addestrò
sì bene nella lingua di là, che ne trasse il soprannome di Francesco.
Balioso, vivace, gajo compagnone, buon poeta fino ai venticinque anni,
allora consente alla chiamata di Dio, e va e vende le sue merci a
Foligno, porta i denari a un prete, e perchè questo ricusa riceverli,
li getta dalla finestra. Il padre, che da buon massajo computava la
bontà coll’abachino, lo crede scemo della mente, e trattolo al vescovo,
lo fa interdire. Giubilante, Francesco si spoglia nudo nato, se non
che il vescovo gli getta addosso il proprio mantello; e rinunziato
alla famiglia, fa adottarsi da un pitocco, veste cenci, e comincia ad
esalare in prediche l’esuberanza interna della carità, per la quale si
lusinga di conquistare il mondo colla predicazione popolare.
A Bernardo cittadino d’Assisi, suo primo discepolo, che gli chiedeva
se abbandonare il mondo, rispose: — Chiedilo a Dio». Aperto il vangelo
a caso, vi legge: _Se vuoi esser perfetto, vendi quanto hai, e dallo
ai poveri_; lo riapre, e trova: _Non portate in viaggio oro nè argento
nè bisaccia nè tunica o sandali o bastone_. — Questo io cerco, questo
desidero di cuore, quest’è la regola mia», esclama Francesco, e gitta
quanto gli restava, eccetto una tunica col cappuccio e una corda
a cintura. Così nel mondo inebbriato di ricchezze e piaceri, esce
predicando la povertà; nel mondo dell’ira, delle superbie, delle
guerre, d’Ezelino e di Federico II, va a bandir l’amore; e attiratisi
undici compagni, si sottomette con loro a rigide penitenze e a povertà
così assoluta, da non considerare suo nè l’abito tampoco o i libri. Dai
Benedettini impetrò una cappelletta nel piano d’Assisi, che fu detta la
_Porziuncula_, e rifabbricatala (1208), vi pose i fondamenti del suo
Ordine, che per umiltà intitolò dei Frati Minori, eleggendo di stare
fra poveri, malati, lebbrosi, lavorar per vivere, e mendicare.
Rinnegata affatto la propria volontà, Francesco diceva: — Beato il
servo il quale non si tien migliore quand’è dagli uomini esaltato che
quand’è preso a vile; perchè l’uomo è quel ch’egli è avanti a Dio, e
nulla più». All’amor suo non bastando abbracciare tutti gli uomini, lo
estende ad ogni creatura; e va per le foreste cantando, e invitando gli
uccelli, che chiama fratelli suoi, perchè celebrino seco il Creatore;
prega le rondini _sue sorelle_ a cessare il pigolìo mentre predica;
e sorelle son le mosche, e sorella la cenere[274]. Una cicala canta?
gli è stimolo a lodare Iddio; alle formiche rimprovera di mostrarsi
troppo sollecite dell’avvenire; storna dal cammino il verme che può
esservi calpestato; porta miele alle api nell’inverno; salva le lepri e
le tortore inseguite; vende il mantello per riscattare una pecora dal
macellajo; il giorno di Natale voleva si porgesse miglior nutrimento
all’asino e al bue; anche biade, vigne, sassi, selve, quanto han di
bello i campi e gli elementi, per lui sono eccitamenti ad amar Dio;
nell’orticello d’ogni convento da’ suoi dovea riservarsi un quadro a’
più bei fiori, per lodarne il Signore[275].
La piena di questo affetto espandea Francesco in poesie, originali
come lui stesso, ove niuna reminiscenza d’antichità, ma viva effusione
di cuore, impeti d’amore infinito[276]: fu dei primi ad usar nelle
laudi la lingua volgare; e frà Pacifico, suo allievo, meritò la laurea
poetica da Federico II.
Vedendo moltiplicati i Minori, Francesco pensò dettarne la regola; e
stando sopra tale pensiero, ecco la notte gli pare aver raccolto tre
bricciole di pane, e doverle distribuire a una turba di frati famelici.
E temeva non gli andassero perdute fra le mani, quando una voce gli
gridò: — «Fanne un’ostia, e danne a chiunque vuole cibo». Fece, e
chi non ricevea devotamente quella particella, coprivasi di lebbra.
Narrò Francesco la visione ai fratelli senza intenderne il senso;
ma il giorno dappoi, mentre pregava, una voce dal cielo gli disse:
«Francesco, le bricciole di pane sono le parole del vangelo, l’ostia è
la regola, lebbra l’iniquità».
Ritiratosi dunque con due compagni s’un monte, digiunando a pane e
acqua, fe scrivere la sua regola secondo il divino spirito gli dettava
entro. Essa comincia: — La regola de’ Frati Minori è d’osservare il
vangelo, vivendo in obbedienza senza nulla di proprio e in castità».
Chi v’entrasse dovea vendere ogni aver suo a profitto de’ poveri,
e subire un anno di prove rigorose prima di proferire i voti. Tutti
essendo _frati minori_, gareggiavano d’umiltà, e lavavansi i piedi
un all’altro: i superiori chiamavansi servi: chi sa un mestiere, può
esercitarlo per guadagnare il vitto; chi no, vada alla busca, ma non
di denaro. Neppur l’Ordine può possedere altro che il puro necessario.
Prendano in ispecial cura gli esuli, i mendicanti, i lebbrosi. Chi
stando ammalato s’impazienta o sollecita medicine, è indegno del
titolo di frate, perchè mostra maggior cura del corpo che dell’anima.
Non vedano femmine, e a queste predichino sempre la penitenza: che
se alcuno pecca in esse, venga tosto cacciato. In viaggio rechino
l’abito e null’altro, nè tampoco il bastone; e se diano nei ladri, si
lascino spogliare. Non predichi chi non vi sia autorizzato; e prometta
insegnar la dottrina della Chiesa senza formole di scienza profana,
senza cercare suffragi. Un generale, eletto da tutti i membri, risiede
a Roma, assistito da un consiglio, e da esso dipendono i provinciali
e i priori. Ai capitoli generali prendono parte i capi di ciascuna
provincia, i priori e i deputati dei monaci di ciascun convento. Ogni
comunità tiene capitolo una volta l’anno: i superiori d’Italia si
congregano ogn’anno, e ogni tre quelli di là dall’alpe e dal mare.
Francesco si presentò al papa chiedendo la conferma del suo Ordine,
cioè il diritto di predicare, mendicare e non posseder nulla. Innocenzo
III fu d’avviso che l’assunto trascendesse le forze d’uomini:
quand’ecco in visione parvegli la chiesa di San Giovanni Laterano
barcollare, minacciando rovina; e sorreggerla due uomini, un italiano
ed uno spagnuolo, Francesco d’Assisi e Domenico Gusman. Pertanto
approvò l’Ordine solennemente nel IV concilio di Laterano (1215).
Chiara, nobil donna d’Assisi, tocca all’esempio ed ai sermoni di
Francesco, abbandona il mondo (1212) e istituisce le povere donne
Clarisse, colla regola stessa. Non sapea Francesco risolvere qual fosse
meglio, la preghiera o la predicazione; e Chiara e frà Silvestro il
persuadono a quest’ultima, ond’egli compare a Roma ballonzando per
gioja, e chiede al papa licenza d’andare apostolando in traccia di
conversioni e del martirio. E va per la Spagna, la Barberia, l’Egitto;
crociata incruenta, ove grido di guerra era _La pace sia con voi_.
In Africa arrivò mentre i Crociati osteggiavano Damiata (1219); e
presentatosi a Melik el-Kamel (Meledino), gli espose il vangelo, sfidò
i dottori di quella legge, s’offerse di saltare in un rogo divampante
per dimostrare la verità della sua dottrina. Melik l’ascoltò, e
rimandollo senza nè la conversione nè il martirio.
A’ suoi che inviava a predicare, Francesco diceva: — In nome del
Signore camminate due a due con umiltà e modestia; in particolare
con esattissimo silenzio dal mattino fino a terza, pregando Dio nel
vostro cuore. Fra voi non parole oziose e inutili: ed anche per via
comportatevi umili e modesti, come foste in un romitaggio o nella
vostra cella; imperciocchè, in qualunque parte siamo, è sempre con
noi la nostra cella, che è il corpo nostro fratello, essendo l’anima
nostra il romito che dimora in questa cella, per pregare e pensare a
Dio. Perciò, se l’anima non istà in riposo in questa cella, la cella
esteriore nulla serve ai religiosi. Sia tale la vostra condotta in
mezzo alla gente, che qualunque vi vedrà o ascolterà, lodi il celeste
Padre. Annunziate la pace a tutti; ma abbiatela nel cuore come nella
bocca, anzi più. Non porgete occasione di collera o di scandalo, ma
colla vostra mansuetudine fate che ognuno inclini alla bontà, alla
pace, alla concordia. Noi siamo chiamati per guarire i feriti e
richiamare gli erranti; molti vi sembreranno figli del diavolo, che
saranno un giorno discepoli di Gesù».
Questi frati erano membri d’una repubblica che avea per sede il mondo,
per cittadino chiunque ne adottava le rigide virtù: e scalzi, col
vestire dei poveri d’allora, coll’idioma dei vulghi, diffondeansi per
tutto, al popolo parlando come esso vuol gli si parli, con forza, con
drammatica, e fino con vulgarità, destando al pianto e al riso col
ridere e piangere essi stessi, affrontando e provocando i tormenti
come le beffe. Egli medesimo, il santo fondatore, se mai talvolta
rompesse il digiuno, volea lo strascinassero per le vie, battendolo
e gridandogli dietro: — Ve’ ve’ il ghiottone che s’impingua di
carne di polli senza che voi lo sappiate». A Natale predicava in una
vera stalla, ove il presepio e il fieno e l’asino e il bue; e nel
pronunziare _Betlemme_, belava come un pecorino; e nel nominare Gesù,
leccavasi le labbra, quasi ne sentisse dolcezza. Poi alla sera di sua
vita portava le stigmate delle piaghe di Cristo impresse sul proprio
corpo.
L’uomo stesso gittava il balsamo della sua parola sopra gli spiriti
inveleniti. Udito stare in cagnesco i magistrati e il vescovo d’Assisi,
mandò i suoi fratelli a cantare al vescovado il suo cantico del Sole,
al quale aggiunse allora le parole: Lodato sia il Signore in quelli
che perdonano per amor suo, e sopportano patimenti e tribolazioni.
Beati quelli che perseverano nella pace, perchè saranno coronati
dall’Altissimo». Tanto bastò per mitigare gli sdegni. — Il dì
dell’Assunta del 1220 (scrive Tommaso arcidiacono di Spalatro), stando
io agli studj a Bologna, vidi Francesco predicare sulla piazza davanti
al pubblico palazzo, dove tutta quasi la città era raccolta. E fu
esordio al suo predicare _Angeli, uomini e demonj_; e di questi spiriti
tanto bene propose, che a molti letterati ivi presenti recò non poca
meraviglia un parlare sì giusto di persona idiota. E tutto il contesto
del suo ragionare tendeva ad estinguere le nimicizie, e far accordi
di pace. Sordido d’abiti, spregevole d’aspetto, di faccia abjetta,
pure Iddio aggiunse tanta efficacia alle parole di lui, che molte
tribù di nobili, fra cui inumana rabbia d’inveterate nimicizie aveva
infuriato con molta effusione di sangue, vennero ridotte a consiglio di
pace»[277].
Così il _padre serafico_ seguì fino ai quarantaquattro anni, allorchè
morì. Per la sua Porziuncola invocò dal cielo e dal pontefice
un’indulgenza, a lucrar la quale non fosse mestieri di veruna
offerta. E quando ogni 2 d’agosto essa è proclamata nell’ora solenne
dell’apparizione di Maria, una folla sterminata accorre da quei
fortunati contorni ad implorare l’effusione della grazia gratuita. E
noi, che non sappiamo pellegrinare soltanto alla zazzera di Voltaire
e all’isoletta di Rousseau, cercammo commossi le colline e i laghi
attorno a quella deliziosa vallata, piena di tante benevole memorie;
e nel maestoso tempio di Maria degli Angeli, eretto sopra quell’umile
cella, monumento alla povertà fra i tanti consacrati alla forza e al
fasto, meditammo compunti quanta santità ne uscisse, quanta potenza.
Alla povertà stettero fedeli i suoi: al papa, che la esortava ad
assicurare la sussistenza del suo Ordine coll’acquistare beni sodi, e
offriva assolverla dal voto, santa Chiara rispose: — Non domando altra
assoluzione che de’ miei peccati»: sant’Antonio i doni offertigli
da Ezelino rifiutò costantemente, dicendo non volere dei frutti del
peccato: frà Egidio, per vivere in Roma, andava a far legna e venderla:
gli altri campavano accattando, e dappertutto erano accolti a suon di
campane e rami d’ulivi. E perchè mai gli Ordini mendicanti esercitarono
maggior potenza degli altri sul popolo? perchè con esso divideano il
pane quotidiano; perchè il popolo rispetta un’indipendenza acquistata
con sacrifizj volontari.
Affine di più addentro insinuarsi nella società, oltre i professi e i
frati laici, v’ebbe un _terz’ordine_, cui poteva aggregarsi qualunque
secolare per via di certe devote pratiche volesse partecipare ai tesori
delle preghiere senza abbandonare il mondo, senza cessare d’essere
moglie, padre, vescovo, cavaliere, pontefice. Quattro le condizioni:
restituire ogni mal tolto, riconciliarsi col prossimo, osservare i
comandamenti di Dio e della Chiesa, le donne abbiano il consenso del
marito; e perchè non vi fosse altro legame che il libero volere, si
ammonivano gli adepti che l’osservanza della regola non obbligava sotto
pena di peccato mortale. Sbandito il lusso e la cupidigia del guadagno,
non teatri, non festini; a prevenire i litigi, ciascuno abbia preparato
il suo testamento; le differenze fra loro si compongano, se no volgansi
ai giudici naturali, non a fòri privilegiati; non diano mai giuramenti,
che rendano ligi ad un uomo o ad una fazione; non portino armi che per
difendere la Chiesa, la fede, la patria[278]. Oh, Francesco mostrava
ben conoscere come le riforme devono cominciare dalla vita domestica,
dalla famiglia.
Contemporaneamente Domenico Gusman, illustre castigliano, assetato di
dolori e d’amore, introdusse il nuovo ordine de’ Predicatori (1216),
destinato alla scienza divina e all’apostolato. Qui pure tutte le
cariche erano elettive, obbligo la povertà: e al santo istitutore in
Bologna, ove morì (1221), fu posta un’urna fregiata nel più bel modo
che sapessero frà Guglielmo, Nicola di Pisa, Nicola di Bari, Alfonso
Lombardi; indi un tempio magnificentissimo.
Appena quattro anni dopo l’approvazione, Francesco radunò il
primo capitolo detto _delle stuoje_ perchè fu in campo aperto
sotto trabacche, ov’erano cinquemila frati della sola Italia, e da
cinquecento novizj si presentarono: poi crebbero tanto, che, malgrado
mezza Europa perduta per la Riforma, dicono alla rivoluzione francese
sommassero a cenquindici mila, in settemila conventi, suddivisi fra
molte regole e riforme. Anche i Domenicani si diffusero rapidamente;
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