Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 16

lasciato nelle loro città vicarj imperiali con loro masnade; i quali
continuando la signoria, e morti gli imperatori di cui erano vicarj,
sono rimasti tiranni, levata la libertà a’ popoli, e fattisi potenti
signori e nemici della parte fedele a santa Chiesa e alla loro libertà.
E questa non è piccola cagione a guardarsi dal sottomettersi senza
patti a detti imperatori. Appresso è da considerare che i costumi e i
movimenti della lingua tedesca sono come barbari e strani agl’italiani,
la cui lingua e le cui leggi e costumi, e i gravi e moderati movimenti,
diedono ammaestramento a tutto l’universo, e a loro la monarchia del
mondo. E però venendo gli imperatori d’Alemagna col supremo titolo,
e volendo col senno e con la forza d’Alemagna reggere gl’italiani,
non lo sanno e non lo possono fare: e per questo nelle città d’Italia
generano tumulti e commozioni di popoli, e se ne dilettano per essere
per controversia quello che essere non possono nè sanno per virtù o per
ragione d’intendimento, di costumi e di vita. E per questo la necessità
stringe le città e i popoli, che le loro franchigie e stato vogliono
mantenere e conservare, e non esser ribelli agl’imperatori alamanni, di
provvedersi e patteggiarsi con loro; e innanzi rimanere in contumacie
con gl’imperatori, che senza gran sicurtà li mettano nelle loro
città»[261].
Da qui, e più dalla serie storica appare come i Guelfi non volessero
sottrarsi da ogni soggezione degl’imperatori, bensì non sottoporvisi
che a patti; sicchè oggi si paragonerebbero al partito costituzionale.
Chi guardi i mali che gl’imperatori cagionarono all’Italia, e
l’esecrazione che popolare dura fin oggi contro il Barbarossa; chi
pensi che le più generose città, Milano e Firenze, stettero sempre
antesignane della parte guelfa, e che quest’ultima diede l’estremo
ricovero all’indipendenza italica, mentre chi voleva tiranneggiare
un paese ergeva bandiera ghibellina, propende a desiderare che i
Guelfi fossero prevalsi, e le città ordinatesi a comune sotto il manto
del pontefice, che coi consigli le dirigeva, e coll’armi spirituali
reprimeva gli stranieri.
Gli alti e insegnati uomini che caldeggiarono il sentimento ghibellino,
od erano gente stipendiata dagl’imperatori come Pier dalle Vigne, o
infatuati dell’antichità come i giureconsulti, o trascinati da passione
come Dante, il quale, sbandito da’ Guelfi, si fe ragionato propugnatore
della opinione avversa: eppure nel suo libro _Della monarchia_, ove
(credo senza servilità d’animo, ma per quella stanchezza del parteggiar
cittadino che cerca riposo fin nel despotismo) assoda la incondizionata
tirannide, brama che l’Italia riducasi sotto un imperatore, bensì a
patto che questo sieda in Roma. Chi più ghibellino del Machiavelli?
eppure con magnanimo voto chiude l’abominevole suo libro.
D’altra parte i diritti imperiali intendevansi allora ben altrimenti
da oggi, importando essi nulla meglio che una supremazia, innocua
alle particolari libertà. Pertanto i Guelfi ideando la teocrazia si
mostrarono più immaginosi, probi utopisti; i Ghibellini, più reali e
pratici, ricordavano che le società sono fatte d’uomini e per uomini:
lo spirito democratico dei primi declinava all’insolenza individuale
e alla sregolatezza; l’idea organatrice degli altri li portava alla
forza e alla tirannide: ma in fondo la loro è la causa stessa, la
stessa divisione che appare in tutte le storie, di plebei e patrizj,
di schiavi e franchi, di Rose Rossa e Bianca, di Cavalieri e Teste
Rotonde, di progressisti e retrivi, di liberali e servili.
È natura delle fazioni di svisare il più onesto scopo; e abusandone
o esagerando o traviando, porre il torto dov’era la ragione. I grandi
feudatarj che i perduti privilegi ambivano ricuperare, non ne vedeano
via che coll’attaccarsi all’imperatore e appoggiarne le pretendenze:
sempre poi amavano meglio dipendere da esso, grandissimo e lontano,
che non dai borghesi, da villani rifatti, da un frate che talora li
dirigeva. Chiarivansi dunque ghibellini, stimolavano l’imperatore a
calare in Italia, e per contrariare al papa furono sin veduti favorire
gli eretici.
Gran potere davano ai papi nella bassa Italia l’alto dominio sopra la
Sicilia; nell’alta, i radicati rancori contro gli Svevi; dappertutto
le insinuazioni del clero e massime dei frati, guide dell’opinione, la
quale può tutto ne’ governi a popolo, dove si delibera secondo fantasia
e sentimento. L’imperatore valeva sulle repubbliche soltanto colla
forza delle armi, giacchè non è facile guadagnare tutta una gente,
sempre gelosa di chi possiede l’autorità. Al pontefice non restava che
l’efficacia della persuasione: ma anch’egli principava, e disponeva
d’eserciti, e spesso, come uomo, serviva a private passioni; e i Guelfi
sposavano talora una causa, non perchè giusta e confacevole alla
libertà, ma perchè dal pontefice preferita. I Ghibellini han vinto;
Italia non ha ancora finito di piangerne.
Nè li crediate meri nomi di taglia: avevano Comune, sindaci, podestà
proprj; nascevasi d’una tale parzialità, e diserzione consideravasi
il passare ad altra; i trattati si facevano a nome della repubblica
e della fazione prevalente. Fin nei minuti costumi doveano fra loro
sceverarsi: questi un berretto, quegli un diverso usavano; due finestre
aprivano i casamenti dei Guelfi, tre i Ghibellini; quegli alzavano
i merli quadrati, questi a scacco; e la nappa, o un fiore[262], o
l’acconciatura de’ capelli, o il saluto, e fin il modo di trinciare il
pane o di piegare il tovagliuolo discernevano il Guelfo dal Ghibellino.
I Ghibellini giurano alzando l’indice, i Guelfi il pollice; i primi
tagliano i pomi di traverso, i secondi perpendicolarmente; quelli
adoprano vasi semplici, cesellati questi; il modo di passeggiare, di
scoccar le dita, di sbadigliare, di arnesar gli animali, la dritta
o la sinistra, il numero due o il tre, tutto insomma divien segnale;
i Bergamaschi conobbero che certi Calabresi eran di fazione opposta
al modo di tagliar l’aglio. A Firenze, coi beni tolti ai Ghibellini
espulsi si formò una _massa guelfa_ onde mantenere e invigorire la
parte trionfante; un magistrato apposta la amministrava con tre capi
bimensili, consiglio secreto di quattordici membri ed uno grande di
sessanta, tre priori, un tesoriere, un accusatore dei Ghibellini;
società regolare e permanente, armata e ricca, che si sostenne quanto
la repubblica.
Al tempo di Carlo d’Angiò e per suo suggerimento i Parmigiani formarono
(1266) una _Società de’ Crociati_ per sostenere la causa guelfa,
sotto la protezione di sant’Ilario vescovo di Poitiers; e a quella si
aggregarono altre corporazioni del paese, talchè divenne potentissima,
comprendendo molte migliaja d’uomini, che erano iscritti in un
registro. Aveano un capitano e alquanti primicerj, che doveano anche
tor di mezzo ogni dissensione, senza usar forza. Molti statuti furono
fatti ad incremento di questa Società, ed uno vietava agli abitanti
della città e del territorio di parte guelfa di entrare in parentela
con chi non fosse della parte stessa. Il capitano de’ crociati, e che
poi fu detto capitano del popolo, e aveva il comando delle milizie,
era forestiero, durava sei mesi, aveva un giudice, un socio, due
notaj, il che attesta che esercitava una parte di giurisdizione, benchè
sussistesse anche il podestà: e questo e quello subivano il sindacato.
Il gran consiglio di cinquecento doveva, come i magistrati, essere
eletto tra quei che formavano la Società de’ Crociati, la quale così
divenne arbitra del Comune, e sorgente unica del potere legislativo,
benchè non perdesse il carattere di milizia[263].
Solo tardi i nomi di Guelfi e Ghibellini perdettero la primitiva
significazione, e parve non designassero che partiti, nati dalle
ambizioni di persone e di case; s’abbracciava l’uno senz’altro motivo
se non lo stare coll’altro gli avversarj; uomini e città li cangiavano
dalla state al verno; pretesto a rancori privati, a baruffe, a
sbranarsi tra sè, finchè riuscissero all’ultimo conforto degli stolti,
il servir tutti[264].
In popolo libero non si governa che per via di fazioni, anzi una
fazione è il Governo stesso, il quale tanto è più forte e perseverante,
quanto tra il popolo si trovano partiti più permanenti e compatti.
Ma siffatti non si formano e mantengono se non dove fra gl’interessi
de’ cittadini esistono dissomiglianze e opposizioni così evidenti e
durevoli, che gl’intelletti siano condotti e fissati da sè in opinioni
opposte: all’incontro, è difficile restringer molti in una politica
uniforme là dove i cittadini rimangono ad un bel circa eguali, giacchè
allora bisogni effimeri, frivoli capricci, interessi particolari creano
e scompongono ogni istante fazioni, l’incertezza e avvicendamento delle
quali fa agli uomini nojosa l’indipendenza, e mette a repentaglio la
libertà, non in grazia dei partiti, ma perchè niun partito è in grado
di governare.
Nè essi portano gran pregiudizio quando rampollano dalla costituzione,
giacchè allo scopo loro si connette sempre la speranza di migliore
governo; anzi a quelli vanno debitrici di loro prosperità le nazioni
che liberamente si reggono, e in cui, pendasi ad aristocrazia o a
democrazia, a governo personale o a ministeriale, sempre si tende e
spesso si giunge al meglio del paese. Ma quando si mescoli, come in
Italia, un fomite forestiero, l’interesse della fazione prevale a
quello della patria, e s’immola fin la libertà per conseguirlo. Toscana
e Venezia furono l’una democratica, aristocratica l’altra, eppure
stettero: in Lombardia Guelfi e Ghibellini spingevano l’occhio fuor
della patria, e del pari la sagrificavano.
Robusti, caldi di superbia e d’invidia, nel consiglio impugnano il
parere più sano, perchè proposto dalla parte avversa; poi mene segrete
e intelligenze parziali; poi sconnesse le famiglie dal campeggiare
padri e fratelli sotto bandiera diversa; poi per ogni lieve occasione
rompere ai peggiori termini di nemici. «Quasi ogni dì, o di due dì
l’uno si combattevano insieme cittadini in più parti della città,
di vicinanza in vicinanza, come erano le parti; e aveano armate le
torri, che n’avea la città (di Firenze) in gran quantità e numero, e
alte cento e cenventi braccia l’una. E sopra quelle facevano màngani
e manganelle per gettare dall’una all’altra, ed era asserragliata
la strada in più parti. E tanto venne in uso questo gareggiar fra’
cittadini, che l’un dì si combattevano, e l’altro dì mangiavano e
beveano insieme, novellando delle prodezze l’un dell’altro che si
facevano a quelle battaglie»[265].
Cominciasi da un conflitto in piazza, determinato da qualche
accidente in apparenza frivolo, ma realmente derivato dall’intima
natura della città; e subito i cittadini dividonsi in due partiti, i
quali non cercano che annichilarsi un l’altro, senza riguardi, senza
capitolazione. L’ira è unica ispiratrice; una parte trovasi inferiore,
e non tanto perchè impotente a sostenersi, quanto pel dispetto di non
voler obbedire agli avversarj, esce di città. I suoi fautori rimasti,
deboli e vinti, sono uccisi senza pietà da quella rabbia che si
esacerba nello sfogarsi; dei profughi sono demolite le case, confiscati
e sperperati i terreni, e la metà trionfante stabilisce nella città
quella pace che viene dalla mancanza di nemici. Presto però i vincitori
medesimi si suddividono in moderati ed eccessivi; i fuorusciti,
congiunti dalla sventura, si rannodano alla campagna con altri di lor
colore, e con sussidj di borgate o città consenzienti, riminacciano la
città, l’assalgono, la prendono, e alla lor volta uccidono, incendiano,
proscrivono.
È la parte de’ popolani che leva il rumore? tocca a stormo; le vie
si asserragliano per impacciare i cavalli, nerbo della nobiltà;
questa assalgono ne’ palazzi fortificati, ne espugnano le torri. I
gentiluomini, rincacciati di posto in posto, a grave stento possono
aprirsi un varco, mentre i vincitori malmenano i clienti e le robe dei
vinti, il tempio del Dio della pace profanano cogl’inni della vittoria
fratricida. Ma appena in campagna aperta può la loro cavalleria
spiegarsi, i nobili tornano superiori; ricorrono per ajuto ai signori
castellani o ad altri paesi di egual fazione, trattano con quelli
come potenze riconosciute, li persuadono a guerra; allora bloccano la
patria, l’affamano, e v’entrano a forza, alla lor volta diroccando ed
esigliando; oppure rientrano a patti, e giurano paci centenarie che
fra un mese saranno violate. Queste alterne espulsioni formano la quasi
unica storia del tempo.
Così si amplia la guerra cittadina in cospirazioni, adunanze, consigli,
alleanze; cercasi una città anche nemica, perchè del partito medesimo;
i fuorusciti figurano come una potenza distinta; le fazioni interne si
intralciano colle esterne; e l’economia geografica è sbilanciata dalla
logica de’ partiti, finchè questa viene a identificarsi con quella.
Nè gli uni nè gli altri però vogliono la distruzione della città,
bensì di possederla e dominarla. A questo intento, anche allorchè vi
stanno entrambi i partiti, devono tenersi in guardia e in disciplina,
avendo magistrati proprj, riunioni, erario, forza, e di fuori alleanze
speciali, alle quali rifuggendo allorchè in città non son sicuri di
poter dimorare tutto il domani, cominciano a considerarsi qualcosa
più che semplici cittadini, a concepir l’idea d’un partito, d’una
nazione, nella quale tutta quanta si trovano alle prese i due partiti.
Ma la lotta, fondandosi su passioni non su principj, è necessariamente
interminabile, non avendo un esito, non portando una vittoria
definitiva, ma intanto elevando un sempre maggior numero di persone
alla dignità di cittadini.
I popolani di Piacenza nel 1234, espulsi i loro nobili, si allearono
coi popolani di Cremona, i quali aveano tolto a capitano il marchese
Pelavicino; e questo con cento cavalieri e molti balestrieri delle due
città ruppe i nobili fuorusciti. Essi fanno lega con quei di Borgotaro,
di Castellarquato, di Firenzuola, e presentano a Gravago battaglia,
dove lasciano prigionieri quarantacinque uomini d’arme e da ottanta
fanti. I popolani cremonesi e piacentini prorompono di nuovo in armi,
assediano il castello di Rivalgario, ma non possono espugnarlo. Alfine,
per intromessa di Sozzo Colleoni di Bergamo, si riconciliano coi
nobili, pattuendo che questi avessero metà de’ pubblici onori e due
terzi delle ambasciate.
I vincitori non sempre erano moderati, nè solo momentanei i danni; e
nell’ebbrezza del trionfo si spingeva la città a guerra coi vicini,
o nello statuto si introducevano mutazioni non per utilità comune,
bensì per corroborare la parte trionfante; ma sicurtà vera non si trovò
mai, restando sempre una fazione malcontenta e una turba fuoruscita,
gagliardissimo strumento ad ogni tentatore di novità. In una sola volta
escono dal Cremonese centomila esigliati nel 1226; nel 1274 trecento
famiglie da Bologna, composte di dodicimila persone: quando Castruccio
nel 1323 osteggiava Firenze, per ottenere perdonanza venivano ad
offrirsi di servire contro di lui ben quattromila Fiorentini, piccolo
resto di quelli cacciati vent’anni prima[266]. Non durerà mai quieto il
paese che ha molti fuorusciti, i quali, per desiderio della patria, per
la baldanza che dà il non aver nulla a perdere, per le facili speranze
che sono il retaggio degli esigliati, movono, praticano, irritano
dentro e fuori.
Quindi per tutta Italia un combattersi da terra a terra, e talvolta
per ragioni sì frivole, quanto oggi ne’ duelli. Nomi d’obbrobrio
ciascuna città aveva affisso all’avversaria, e da questi cominciavansi
diverbj che terminavano col sangue[267]. Un cardinale romano convita
l’ambasciatore di Firenze, e udendogli lodare un suo bel catellino,
glielo promette; sopraggiunge l’ambasciatore di Pisa, che del cagnuolo
s’invoglia anch’esso, e n’ha promessa eguale: da ciò discordia e
guerra viva. Una secchia, dai Bolognesi rapita a quei di Modena, diede
soggetto a guerra e al poema del Tassoni. Un catorcio involato suscitò
guerra fra Anghiari e Borgo Sansepolcro, di che il Tevere andò tinto
in rosso. Quei di Chiusi combatterono i Perugini per l’anello pronubo
di Maria Vergine, che essi conservano preziosamente, che un frate aveva
sottratto.
Quali cronache non sono piene di queste rivalità energiche e clamorose,
e de’ vergognosi trionfi sopra i vicini? I Modenesi assediano Ponte
Dosolo, e smantellatolo ne involano la campana che pongono nella
torre maggiore: un’altra volta da Bologna portano via le petriere e le
collocano nella cattedrale, e voltano lo Scultenna su quel territorio
per guastarlo. Genova impone a Pisa di abbassar tutte le case fin al
primo solajo: e ancora vi stanno sospese le catene strappate a Porto
Pisano; e sull’edifizio del Banco un grifo che adunghia l’aquila e
la volpe, simboli di Federico I e di Pisa, col motto _Griphus ut has
angit, sic hostes Genua frangit._ Lucca mette degli specchi sulla torre
d’Asciano perchè le donne di Pisa vi si possano mirare; e Pisa va ad
assediar Lucca, e mette grandi specchi affinchè i loro nemici vedano
come impallidiscono; un’altra fiata fabbricano il forte d’Illice, e
vi scrivono: «Scopabocca al genovese, crepacuore al portovenerese,
strappaborsello al lucchese». Perugia erge innanzi a Chiusi la torre
_Becca questa_, e i Chiusini vi oppongono la _Becca quella_. All’arco
di Galieno in Roma era attaccata la chiave della porta Salciccia di
Viterbo, ribellatasi contro il senato: i Perugini dalla vinta Foligno
asportarono le porte sovra il carroccio de’ vinti, e da Siena le
catene della giustizia, che collocarono sovra la porta del podestà: i
Lodigiani eternarono (si dice) nelle medaglie uno scorno usato ai vinti
Milanesi: questi faceano giurare al podestà di non lasciar più mai
rifabbricare il distrutto Castel Seprio; Siena imponeva altrettanto per
quel di Menzano, i Novaresi per quel di Biandrate.
È fatica persino in una storia municipale il seguitar quelle guerre
senza gloria, interrotte da paci senza riposo, varie negli accidenti,
ma uniformi negli impulsi; nè noi vogliam dare che i lineamenti e
il carattere generale di quella età. Brescia stava sempre in armi
da un lato contro Cremona, massime in causa delle acque dell’Oglio,
dall’altro contro Bergamo pei disputati confini del lago d’Iseo e
della val Camonica; e avendo essa, come dicemmo, nel 1191 aggiunto al
suo territorio i Castelli di Sarnico, Calepio e Merlo, i Bergamaschi,
per vendicarsene, s’unirono ai Cremonesi, già da essi ajutati contro i
Bresciani. Subito una parte e l’altra si prepara di alleanze, e Pavia,
Lodi, Como, Parma, Ferrara, Reggio, Mantova, Verona, Piacenza, Modena,
Bologna vengono contro i Bresciani, e assediano i castelli di Telgate
e Parlasco; ma i Bresciani, capitanati da Biatta di Palazzo, gli
affrontano a Rudiano, e li mettono in tal rotta, che rimase al luogo il
nome di Malamorte.
I nobili, che aveano in mano il governo di Brescia, istigati
dai Milanesi, vollero poco dopo spingere a nuova guerra contro i
Bergamaschi; ma il popolo, svogliato di tanti sacrifizj, ritorse le
armi contro i nobili, e sanguinosamente li cacciò di città. Essi
ricoverarono sul Cremonese, e formarono la società di San Fausto,
alla quale i plebei opposero un’altra, detta Bruzella: e quelli
si allearono con Cremona, Bergamo, Mantova, questi coi Veronesi, e
lungamente agitarono le nimistà. Altre ne mossero il 1199 Parma e
Piacenza, disputandosi Borgo Sandonnino: e colla prima campeggiarono
Cremona, Reggio, Modena, Bergamo, Pavia; coll’altra i Milanesi,
Bresciani, Comaschi, Vercellesi, Novaresi, Astigiani, Alessandrini,
finchè l’abate di Lucedio non riuscì a metter pace. Nel 1225 Genova
trovavasi impegnata in guerra contro gli Alessandrini, collegati questi
con Vercelli, Alba, Tortona; con lei Asti, il conte Tommaso di Savoja,
le due Riviere, i conti di Ventimiglia, i marchesi del Carretto, di
Ceva, di Cravezana, del Bosco, tutti i castellani del Garessio e val di
Tanaro, ed altri baroni e capitani.
Nel 1208 il marchese Azzo d’Este coi Ferraresi del suo partito e col
Comune di Ferrara[268] combinava lega coi Cremonesi, obbligandosi a
guardare, salvare, difendere, in tutta la terra e l’acqua del vescovado
e del distretto loro nell’andare, stare e tornare, tutti gli uomini
di Cremona nella persona e negli averi; soccorrerli a mantenere
o recuperare la loro terra contro qualsifosse gente o persona, e
nominatamente Crema e l’isola Fulcheria e le terre di qua dall’Adda;
ogni anno andranno al servizio di Cremona col carroccio[269] e coi loro
cavalieri e fanti; e due volte l’anno con tutti i soldati e arcieri
della città e del vescovado staranno in servizio loro a spese e danni
proprj per quindici giorni; nè partiranno senza licenza de’ rettori di
Cremona, data in parlamento o nel consiglio di credenza. Passati quei
giorni, se i Cremonesi vogliono rifare i danni e le spese, dovranno
quelli rimanere quindici altri dì, ove ne siano richiesti. Altrettanti
opreranno qualvolta siano richiesti dai rettori o dai consoli o per
lettere sigillate del comune di Cremona; e quindici dì dopo l’avviso
movendo col carroccio e altre forze, al più presto si metteranno
nell’esercito di Cremona, e a tutti i nemici di questa vieteranno
il passo, i soccorsi e ogni negozio sulle lor terre. Se mentre essi
campeggiano in servizio di Cremona prendono alcuni dei nemici di
questa, li daranno a quel Comune fra otto giorni, salvo il cambio se
sia stato preso alcuno dei loro. Ogni anno il podestà o console delle
città prelodate giurerà questi accordi, e si farà ogni quinquennio
giurare da tutti i cittadini di sopra dei quindici anni e di sotto dei
settanta.
Le gare talvolta componeansi a giudizio d’amici o di arbitri; come le
differenze tra città e vassalli o Comuni si compromettevano ne’ consoli
di giustizia o nei savj. Quando poi l’ire infierivano peggio, nè altro
riparo trovavasi, soccorreva quello che in essi tempi era universale,
la religione, che tra le baruffe private, tra le file dei combattenti
inviava l’inerme sua milizia, a sospendere le izze fraterne in nome del
Signore. Ma poichè ognuno era persuaso che chi non otteneva supremazia
rimarrebbe all’ultima oppressione, le discordie ben presto divampavano:
talvolta, nel mentre stesso che giuravasi la pace, un’occhiata
dispettosa, un motto frizzante, un gesto mal interpretato, facea di
nuovo sguainar le spade.
Le gelosie e le gare rinascenti indebolivano la coscienza dei doveri da
Stato a Stato, da uomo a uomo; impedivano si consolidasse uno spirito
pubblico, fondamento di nobile avvenire; alla patria restava tolto
di valersi dei migliori, esclusi perchè guelfi o perchè ghibellini;
consigliandosi coll’ira o col favore anzichè colla giustizia, non si
cercava il più giusto e libero governo, ma il trionfo d’una parte,
adoprandovi mezzi che sovvertivano la libertà. Quello stuolo di
fuorusciti, intenti sempre a governare il paese da di fuori e con
passioni malevole, stoglieva dall’opposizione legale e dallo sviluppo
progressivo; abituava a non regolarsi su principj ben posati, a non
calcolare l’andamento dei fatti e la situazione, ma sempre attendere
dall’esterno avvenimenti impreveduti, e fidare ne’ cataclismi: funesta
abitudine, che gl’italiani più non doveano disimparare.
Nessun momento più pericoloso alle franchigie che quello d’una
vittoria. Inebbriati da questa, i popoli più non ravvisano pericoli,
e non che por limiti a chi li guidò al trionfo, credono acquisto il
fortificarlo in modo, che possa impedire un nuovo rialzarsi della
fazione avversa. Ma i mezzi offertigli a quest’uopo facilmente può
egli convertire a disastro della patria. A Como rimasti vincitori i
Rusca nel 1283, i tre podestà del Comune, del popolo e della parte
dominante ebbero facoltà di stabilire, col consiglio di savj eletti,
qualunque statuto giudicassero opportuno ad essi Rusca e al comune di
Como. Rivalsi i Vitani nel 96, il podestà di questi decretò che ogni
mese si creassero due podestà di essa fazione, i quali attendessero
all’innalzamento di questa e alla depressione dei Rusca; di cui si
abbattessero le insegne, si cassassero le vendite e le donazioni, i
loro vassalli e clienti si spogliassero d’ogni diritto acquistato da
diciotto anni in poi, s’annullassero i giuramenti fatti a loro, e se ne
squarciassero le torri e le abitazioni.
Guardiamoci però dal giudicare quei subugli colle idee d’un secolo
che reputa primo elemento di felicità il riposo; e di far bordone
alle sentimentalità di chi non sa vedervi che ricchezze sperperate
e fratelli uccisi da fratelli. Capricci di re, puntigli di
ministri, guerre dinastiche, ambizioni napoleoniche in qualche anno
scialacquarono il decuplo di sangue e denaro, che non in secoli tutte
le battaglie de’ Comuni italiani. Le quali nelle storie leggiamo
accumulate così, che facilmente crediamo continui i macelli; e a tacere
le lunghe paci, non vogliamo ricordarci che quelle guerre finivano in
un giorno o in pochi; che le battaglie riuscivano sì poco sanguinose,
da attirare le beffe degli inumani politici del secolo xvi, i quali
vedeano le ben diverse qui recate dagli stranieri[270].
L’odierna civiltà strappa alle famiglie un figliuolo sul quale vivono
padre e madre, e lo obbliga a servire la società per un prezzo che a
pena basta al sostentamento, e ciò negli anni suoi migliori, per poi
dopo molti rimandarlo senza un mestiere e disusato dalla fatica. I
nostri coscritti videro tremando scuotersi il loro nome nell’urna che
dovea decidere qual d’essi lascerebbe le occupazioni e le consuetudini
della sua gioventù, per militare in causa che ignora, sotto capitani
che non conosce, obbedendo come una macchina, e trattato come inferiore
agli altri cittadini. Lontano dalla patria, dai cari, alcuni si
logorano per le fatiche inconsuete, molti pel tedio e per ribrama dei
paterni tetti. Perisce? è un soldato di meno, un nome di più sulla
lista dei morti. Vince? non altro godimento gliene viene che di veder
trionfare i suoi capi, o forse di poter incrudelire contro i vinti.
È ferito? lo gettano negli spedali a cura di medici principianti o
subalterni. Finisce la sua capitolazione? torna alla famiglia avvezzo
al bagordo, al prepotere, al non far nulla.
Allora, al contrario, la guerra era un momentaneo dovere, un episodio
della vita. Dalla fanciullezza s’addestravano agli esercizj; divenivano
soldati quando il bisogno lo richiedesse; cessavano appena il bisogno
finisse; combattevano sotto le mura della patria per salvezza de’
suoi, o per quella causa ch’essi aveano giudicata migliore. I monotoni
patimenti de’ quartieri e delle guarnigioni non erano conosciuti: al
tocco della campana, l’uomo piglia le armi, ancora ammaccate dalle
ascie tedesche o dal brando feudale; corre sotto la bandiera della sua
parrocchia; va all’assalto; vince? la sera stessa o il domani torna
alla patria, ostentando i trofei rapiti al vinto; è ferito? trova
ristoro nella propria casa; muore? la patria il compiange, e quella
venerazione alimenta il valore degli altri, e lenisce il lutto di quei
che sopravivono.
Queste guerre faceano soffrire; chi lo nega? Il Machiavello ne’ Guelfi
e Ghibellini non vede che umori di parte, follie di malcontenti e di
ambiziosi, pestilenza derivata alla sua città da una prima discordia di
famiglie. Anche il Muratori esce dalla dabbene sua calma per irritarsi
contro queste frenesie di sêtte diaboliche e maledette, ove per vane
parole si sagrificavano ricchezze, sangue, vita, senza riflettere
se la causa fosse utile o giusta. Ma quelle risse erano inevitabili
fra piccoli Stati, e fra tanti elementi eterogenei che conveniva
o assimilare o svellere: non erano frutto della libertà, ma sforzi
per conquistarla, effetti del non possederla intera. L’unirsi Guelfi
e Ghibellini, Repubblicanti e Imperiali a tempesta e bonaccia pel
pubblico interesse, concentrarsi in un pensiero generale, subordinare
le personali inclinazioni a un vantaggio comune ben avvisato,
garantirsi a vicenda in imprese che riuscendo devono profittare
anche a quelli che le impacciano, insomma il patriotismo qual noi
l’intendiamo eppure nol pratichiamo, poteva sperarsi da gente ancor
nuova, da passioni non ammansate? poteva sperarsi che quegli inesperti
conciliassero la libertà coi governi forti, se nol sappiamo far noi
dopo tante misere prove?