Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 15
tra una famiglia sempre ostile e l’altra sempre favorevole alla Chiesa,
sicchè, scontenti del pari, i due emuli avventaronsi all’armi; sinchè,
indotto dai Guelfi, il papa mandò un legato che scomunicasse Filippo e
i suoi, e dicesse Ottone legittimo imperatore.
Questi, davanti a tre legati pontifizj (1201 — 8 giugno), prestò
un giuramento siffatto: — Io Ottone, per grazia di Dio, prometto e
giuro proteggere con ogni mia forza e di buona fede il signore papa
Innocenzo, i suoi successori e la Chiesa romana in tutti i dominj
loro, feudi e diritti, quali sono definiti dagli atti di molti
imperatori, da Lodovico Pio fino a noi; non turbarli in ciò che già
hanno acquistato, ajutarli in ciò che lor resta ad acquistare, se il
papa me lo ordini quando sarò chiamato alla sede apostolica per la
corona. Inoltre presterò il braccio alla Chiesa romana per difendere
il regno di Sicilia, mostrando al signore papa Innocenzo obbedienza e
onore, come costumarono i pii imperatori cattolici fino a quest’oggi.
Quanto all’assicurare i diritti e le consuetudini del popolo e delle
Leghe Lombarda e Toscana, m’atterrò ai consigli e alle intenzioni della
santa Sede, e così in ciò che concerne la pace col re di Francia. Se la
Chiesa romana venisse in guerra per causa mia, le somministrerò denaro
secondo i miei mezzi. Il presente giuramento sarà rinnovato a voce e
per iscritto quando otterrò la corona imperiale».
I Tedeschi, che vorrebbero vedere sempre l’imperatore sovrapposto al
pontefice, e l’Italia sottomessa alla Germania, rinfacciano a Ottone
quest’atto, dove in sostanza ciò che il papa esigeva era l’indipendenza
della Chiesa e dell’Italia. I principi tedeschi se ne indignarono, e
ne scrissero parole risolute ad Innocenzo, il cui favore non toglieva
che svenisse il partito di Ottone, considerato scialacquatore della
nazionale sovranità. Intanto Filippo di Svevia moriva trucidato (1208),
quinto figlio del Barbarossa che finiva in valida età, lasciando sol
quattro figlie; nè di quella casa sopravviveva che Federico Ruggero.
Allora, dopo dieci anni di contesa fra guerresca e politica, mediante
le premure di Roma i suffragi si raccolsero tutti sopra Ottone:
anzi, per togliere in avvenire le scissure e insieme le ambizioni
di qualc’altra famiglia, fu istituito che nessuno pretendesse alla
corona germanica per diritto ereditario; l’elezione fosse devoluta a
tre principi ecclesiastici, cioè gli arcivescovi di Magonza, Colonia,
Treveri, e tre laici, cioè il palatino del Reno, il duca di Sassonia,
il marchese di Brandeburgo; e quando i voti fossero pari, anche il re
di Boemia. Da quel punto al popolo non rimase più parte alcuna nelle
nomine, e gl’italiani ne restarono affatto esclusi. Ottone avendo
sposato Beatrice (1209) figlia dell’ucciso Filippo, rannodò le due
case de’ Guelfi e degli Hohenstaufen, e svelse dalla Germania quella
gramigna funesta de’ Guelfi e Ghibellini mentre appunto essa pigliava
rigoglio in Italia.
Qui, in dodici anni dacchè tedeschi eserciti non apparivano,
le Repubbliche aveano preso incremento. Determinate da bisogni
individuali, esse non avevano preteso estendere le franchigie su
tutto il paese, distruggere ogni orma della sofferta oppressione,
piantare l’uguaglianza di tutti in faccia alla legge. Del Comune da
principio facevano parte soltanto i capitanei e valvassori e arimanni;
poi vi si aggiunsero i borghesi liberi, ceto medio, cresciuto sì per
l’arricchimento del commercio, sì per molte case nobili che giurarono
la città, sì per quelli che vi rifuggivano dai signori feudali o
ecclesiastici. Il resto degli abitanti dipendeva ancora dai nobili o
dai visconti vescovili, in qualità di servi o d’uomini ligi, con patti
che spesso riducevansi in carta, e che tanto vagliono a manifestare la
condizione personale de’ popolani[250].
Gli antichi conti della città eransi ritirati alla campagna, dove
conservavano i possessi e le giurisdizioni; sicchè i contadi rurali
od erano frazioni d’antico contado cui era stata tolta la città, o
porzioni assegnate da un conte ai proprj figliuoli. Quei di Bergamo
nel X secolo aveano avuto per quattro generazioni la suprema dignità
di conti del regio palazzo, e furono imparentati coi marchesi d’Ivrea
e di Toscana: costretti poi ad uscir di città, si indebolirono
suddividendosi nei conti Almenno, Martinengo, Camisano, Offenengo
ed altri[251]. Sotto il 1222 gli storici annoverano una quantità
di castelli donati o ceduti a Bergamo dai possessori, come Morníco,
Cologna, Grumello, Solto, Plenico, Cene, Civedate, Telgate, Villadadda,
Morengo, Calepio, Sárnico, la Bretta e via; e già prima v’erano stati
indotti o costretti i canonici e il vescovo. Milano, che prima limitava
la sua giurisdizione a un raggio di tre miglia, sottopose i contadi del
Seprio, della Bulgaria, della Martesana, di Parabiago, di Lecco[252].
I conti di Verona si ritirarono a San Bonifazio, donde presero il
titolo: quei di Padova, fra i colli Euganei, coi titoli di Baone,
Àbano, Maltraverso e altri. E tutti dominarono sulla campagna, rubando,
ponendo pedaggi, escludendo, serrandosi attorno a un principale, che
intitolavasi vicario imperiale e che aveva una scorta di Tedeschi:
del resto avversando i Comuni, ridendo dei consoli e degli statuti,
pronti ad affollarsi intorno al piccolo esercito che l’imperatore
conducesse in Italia, trasformando in valanga l’impercettibile nucleo
degli oltramontani; e continuar battaglie e invasioni anco dopo partito
quello.
Non poteva darsi che le città libere gran tempo tollerassero attorno
a sè borghi servilmente sottoposti a feudatarj privilegiati d’assoluta
giurisdizione, conservatori degli abusi detestati. Se a Costanza avean
acquistato il diritto di far guerra alle città lontane, tanto più
ai castelli vicini: onde coglievano le occasioni di portarvi la più
legittima delle guerre, quella che propaga e francheggia i diritti
dell’uomo. Talora scendeasi a patti, e la campagna restava emancipata
dalle parziali servitù. Asti mosse contro ai duchi di Monferrato,
Chieri agli arcivescovi di Torino: quei di Borgo Sansepolcro intimarono
ai tanti castellani di val Tiberina di lasciare le rôcche, chi non
volle costrinsero, e diroccato il castello di Mansciano, ne portarono
via le pietre, di cui edificarono i proprj baluardi, e una campana
che posero sulla torre di Berta[253]. Gli abitanti di Vico, Vasco,
Breo, Carassone, guasti dalle male intelligenze coi Lombardi e
coll’imperatore, si proposero una reciproca unione, della quale fu
frutto la terra di Mondovì. I Pavesi respinsero il conte rurale, che
si rifuggì a Lumello; ma quivi pure incalzato, ebbe a smettere la sua
giurisdizione, e rendersi cittadino e suddito della sua città[254].
I consoli di Biandrate appajono già in una carta del 5 febbrajo
1093, dove quei conti ai militi abitanti le loro terre danno una
specie di costituzione, e «delle discordie e concordie attenderanno
quel che decidano i dodici consoli eletti; i quali giurano giudicare
le liti insorte come meglio sapranno giovare al Comune, salva la
fedeltà ai signori». A Guido di Biandrate, che tanto di lui ben
meritò, Federico Barbarossa concedeva ampio privilegio, togliendolo
in protezione, confermandogli i beni e onori che aveva avuto da’ suoi
antecessori, stabilendo non deva esser chiesto in giudizio se non
davanti all’imperatore; per tutto il vescovado di Novara gli conferma
la capitananza (_conductum_), e che niuna battaglia si faccia se non
lui presente; gli uomini di quel contado abbiano egual diritto di
vendere e comprare in tutto il vescovado di Novara, Vercelli, Ivrea,
quanto i mercanti d’essa città. Poi il conte di Biandrate nel 1170 fece
concordia coi Vercellesi, cedendo il suo castello di Montegrande, i cui
abitanti siano ricevuti pacificamente a Vercelli, senza ch’egli però
perda la fedeltà d’essi castellani; cede pure quanto ha in Candelo,
Arborio, Albano e di qua dalla Sesia; due volte l’anno farà per essi
campo, e sarà in oste con trecento uomini; abiterà in Vercelli, e farà
giurare a quaranta suoi militi di comprarvi case; darà della sua cassa
diecimila lire pavesi; farà dare il fodro da essi militi agli uomini
di Vercelli, come sogliono gli altri concittadini; farà fine e pace
di tutti i danni recati a sè e alla casa sua; non porterà guerra senza
il consiglio de’ consoli maggiori e dei consoli di Santo Stefano e di
tutta la credenza; non alzerà castello dalla valle della Sesia e da
Romagnano in giù, nè vi farà conquista di castello o torre o corte.
Erano quei di Biandrate i più potenti signori del contorno di Milano,
ma ben presto il loro castello fu assediato e distrutto, e dispersine
gli abitanti in quattro villaggi: e Novara facea statuto, che il
console giurasse di tener distrutto Biandrate, ogn’anno visitarlo
due volte, e se nel ricinto della fossa sorgesse alcuna casa, la
demolirebbe fra venti giorni. Altre terre rimaste dovetter quei conti
cedere a Novara nel 1247 per ottomila lire, con cui comprare una casa
e terreni nel distretto. I conti infestavano tuttavia la val di Sesia,
volendo contaminar tutte le fanciulle: sinchè i paesani indignati li
scannano tutti, sol una fanciulla serbando, alla quale infliggono
gli oltraggi che le loro aveano sofferto. Altre terre possedeano
sull’Astigiano, e avendo nel 1250 rubato del panno a mercanti, la
città li punisce privandoli dei villaggi. Su un di questi avventavasi
notturno nel 1290 il conte Manuele; ma gli Astigiani invadono le terre
di esso, ne devastano i vigneti e le biade, uccidono suo figlio: talchè
il conte, per salvare il resto, cede il castello di Porcello alle
città, e vende a chi più ne dà i castelli di Montacuto e Santo Stefano.
Patti consimili ma più largamente esplicati si convennero tra i
Vercellesi e i marchesi di Monferrato, aggiungendo la promessa di
ajutar questi dalla Lega Lombarda, cioè col pregare i collegati e
intercedere per essi.
Il Comune di Brescia (se la cronaca di Ardicio è genuina) fin dal
1104 avea lega e società con altri della Lombardia e del Trevisano,
giurata nel chiostro di Palazzuolo: dai Martinengo comprava il castello
di Orzivecchi, dai conti Lumellini quanto possedeano nella diocesi
a titolo feudale, dai conti Calepio i castelli di Sárnico, Merlo,
Calepio, obbligandoli ad impiegare il prezzo in acquistare allodj nel
Bresciano; riceveva in protezione gli abati di Leno e Sant’Eufemia;
distruggeva il forte di Montechiaro e quel di Gavardo cacciandone
il presidio; così smantellò Asola ch’era dei conti di Casalalto,
e il forte di Monterotondo. Un consiglio del 1203 stabilisce che
gli abitanti di ville e castelli comprati da nobili non addetti al
Comune devano prestar giuramento alla repubblica. Ne’ cui statuti
è prescritto, chi vuol diventare cittadino, fabbrichi una casa
nella città, e rimangavi sempre, eccetto un mese di primavera, uno
d’autunno; privati non possano eriger forti in Pontevico, Palazzuolo,
Mura, Quinzano, Caneto, Gavardo, Iseo; e tutti i curati e dignitarj
ecclesiastici siano bresciani[255].
I conti di Treviso si piantarono ne’ loro possessi sul Piave, ma senza
nimicarsi colla città, nella quale sostennero molti uffizj comunali, e
conservarono anche il titolo, che poi mutarono in quel di Collalto. Di
Treviso stessa presero la cittadinanza nel 1183 Vecello e Gabriele da
Camino, e nel 1190 Matteo vescovo di Céneda, pattuendo che quel Comune
esercitasse la giurisdizione nella sua diocesi. Bertoldo patriarca
d’Aquileja nel 1220 si ridusse cittadino di Padova, e in segno vi
fabbricò palazzo, si sottopose ai dazj e alle taglie, e mandava
ogn’anno dodici cavalieri a giurare obbedienza al nuovo podestà: lo che
imitò pure il vescovo di Feltre e Belluno[256]. Padova stessa obbligò
i marchesi d’Este a venir cittadini, ed immurare le porte della loro
rôcca. Parma sottomette Salsomaggiore, obbligandolo a pagare dieci
soldi ogni san Martino(1138), e Uberto Pelavicino che le fa omaggio di
San Donnino (1140): Piacenza sottomette Caverzago, Collagura, Specchio,
Fabricà; nel 1138 compra metà del castello di Montalbo, metà nel 48;
sottopone la valle e il borgo di Taro; Moruello Malaspina nel 1194
prende la cittadinanza di Piacenza, mentre altri di quella famiglia si
accomandavano a Lucca. I Córvoli del Frignano nel 1156 affidaronsi con
Modena a questi patti: ajutare la città contro chicchefosse, eccetto
il duca Guelfo d’Este e suoi ligi e vassalli; dimorare in città colle
lor donne ogni anno un mese in tempo di pace, due in tempo di guerra;
lasciare ai cittadini traversar liberamente le loro terre, nè tenere
mai chiusi i castelli a’ magistrati della città; obbligare i loro
villani a pagare sei denari lucchesi per ogni par di bovi, eccetto
i castellani, valletti e gastaldi. Modena obbligavasi di rimpatto
a investirli di certi beni e castelli ch’essi doveano conquistare,
ajutarli a rivendicare certe ragioni da altri nobili, e proteggerli
contro i nemici[257]. Faenza demolisce Selvamaggiore (1098), combatte
i conti di Cunio (1115), demolisce la Pergola (1135); distrugge
Solarido (1138) diviso fra le due lottanti famiglie de’ Silingardi e
de’ Guglielmi, sbrattando così la via di San Giuliano; nel 1144 assalta
Castelleone; nel 1149 Cunio, Donigaglia, Bagnacavallo, che pretendeano
un censo da’ Faentani che vi tenesser banchi. Il conte dovette cercar
pace mettendo casa in Faenza, lasciando mettere in Cunio guarnigione
faentina, e ritraendosi dalla politica: ma ben presto, sotto titolo che
abbia mancato ai patti, è assalito e distrutto il castello. Poi vien la
volta di Lacerata, di Modigliana, di Bagnacavallo.
Terracina ai Frangipani, già signori della città, poi ritiratisi a
Circello e Traversa, vieta di accostarsi oltre la chiesa di S. Nicola
fuor le mura, fuorchè per affari e senz’armi nè seguito. Benevento
sfascia Apice, Terroggia, Sableta, ove Roberto Sclavo ora imprigionava
i passeggeri, or li spogliava od uccideva, come faceano pure i signori
di Frassineta, per ciò spodestati.
I Bolognesi avevano preso i castelli di Corbara, Sassatello,
Monteveglio, Monte Cadumo, Ibora, Dozza, Fagnano, e avuti a soggezione
i signori Cetolani, Savignanesi, di Oliveto, Moreto, Caneto[258]. Egual
movimento ci si mostrerà in Toscana.
Casse in tal guisa le giurisdizioni feudali, le tenute appartenevano
tutte a cittadini, ed erano coltivate da pigionanti e mezzajuoli,
trasformandosi il sistema tedesco dei possessi, e ai servi sottentrando
liberi coltivatori.
Liberi, ma non per questo erano considerati come popolo, cioè donati
della piena cittadinanza; e l’infima gente e gli operaj non restavano
rappresentati nel Governo, non votavano le imposizioni che essi
medesimi pagavano, o la conversione di esse. Ma in ogni rivoluzione, al
primo passo che consiste nel liberarsi, suole tener dietro l’altro, ove
la classe liberatrice vien giudicata tiranna o insufficiente, e una più
bassa pretende prima eguagliarla, poi soverchiarla. Alla rivoluzione
che affrancò i Comuni aveano data principal opera i nobili e i meglio
stanti, che in conseguenza diedero i consoli e i magistrati; gloria
particolare di molte prosapie nostre, di derivare la loro nobiltà dai
liberatori della patria.
Ben presto i plebei pretesero parte al governo, e questa seconda
êra delle repubbliche valse un secolo intero di agitazioni, ora
costituzionali, ora violente. Dentro le città cominciarono dunque a
contendere nobili e borghesi, quelli volendo ricuperare l’autorità che
un tempo aveano posseduta, questi pretendendo in prima parteciparvi
equamente, poi arrogarla a sè soli. La quale contesa non è altro se
non quella che tuttodì si agita nei paesi costituzionali, cioè se a’
soli proprietarj devasi concedere pienezza di diritti: stantechè non al
sangue si faceva mente, ma ai possessi; nobile era chi avesse.
I grossi nobili o casatici, discendenti dagli antichi conti e marchesi
e capitanei, tradizionalmente poderosi, e sostenuti dagl’imperatori,
s’erano abituati al comando sui loro feudi; ed anche giurandosi
cittadini, conservavano i possedimenti e le rôcche, dalle quali sì
spesso erano invitati alle magistrature urbane. Alla plebe, attenta
alle arti e ai traffici, non era possibile esercitarsi nell’armi,
che al contrario formavano l’occupazione e il sollazzo dei nobili;
onde a questi bisognava ricorrere ne’ casi di guerra, massime per la
cavalleria. Anche dopo svestite le armi, al comandare erano predisposti
dal patronato che esercitavano sopra gli antichi loro servi e gli
attuali clienti; dall’inclinazione a riverire nei figliuoli le doti
e i meriti de’ padri; dal trovarsi fra sè legati per parentele o
per ispirito di corpo; dall’avere sì larghi possessi che poteano a
loro voglia affamare la città. Chiamati podestà o capitanei in paesi
forestieri, contraevano l’abitudine dal maggioreggiare, che tanto
facile s’acquista quanto difficilmente si smette; e anche nel proprio
Comune ottenevano onoranze sì per le cariche sostenute, sì pel fregio
della cavalleria. In qualche città soli nobili aveano gli impieghi,
come sembra fosse in Bergamo, ove non appajono contese fra nobili e
plebei, ma de’ nobili fra loro.
Altre volte questi, impediti di prepotere legalmente, volgeansi
all’infima classe, esclusa dal governo e tributaria della città; la
blandivano perchè più docile, e perchè non aveva nè diritti da opporre
ai loro, nè ricchezze per egualiarli; e se le facevano sostegno ne’
tribunali, o nei richiami contro l’oppressione: di che sorgevano due
fazioni, la nobiltà unita ai plebei, e i borghesi indipendenti da
quella. Si contrariavano esse ne’ partiti, nelle elezioni, nei piati,
e spesso il litigio incalorivasi fino a venire alle mani. Vincevano i
nobili? eccoli padroni delle cariche, arbitri delle leggi, e decretare
quanto meglio torna al loro ordine; applauditi dalla ciurma, che al
solito astiava i cittadini grassi. Soccombevano? ritiravansi nelle
avite rôcche, aspettando di ritornar necessarj per essere ridomandati,
o, data occasione, rientrare a forza. Come avviene dei conflitti in
città, la plebe per lo più restava vincitrice; e inetta a governarsi,
e facile ad essere raggirata dagli scaltri, s’appoggiava ad un signore
territoriale, concedendogli poteri illimitati, quali deve averli chi
rappresenta il popolo, e così spianando la via alle tirannidi. Quei
medesimi baroni che aveano giurato il Comune, oltre esercitare nelle
città il potere o l’ingerenza che deriva dall’antica abitudine del
comando, dalla ricchezza e dalla pratica delle armi, negli accordi
eransi riservati certi diritti di guerra e di alleanza, e prerogative.
Per quel carattere personale che aveano tutti gli obblighi nel sistema
feudale, a simili accordi poteasi rinunziare ad arbitrio; e poichè
talvolta il nobile era cittadino di due Comuni, cercava appoggio
dall’altro qualora coll’uno cozzasse: fomento a fraterni dissidj.
Difficilmente poi rinunziavano al diritto preziosamente mantenuto delle
guerre private, e dentro le città stesse moveansi battaglie tra loro;
perciò munivano i palazzi a guisa di fortezze, con ponti levatoj e
torri e catene per le vie. Trentadue torri coronavano o minacciavano
Ferrara, cento Pavia, poco meno Cremona e Bologna: diecimila a Pisa,
dice Beniamino da Tudela, e «creda chi vuole» esclama il Muratori;
a Firenze l’architettura massiccia, coll’enormi bugne, le anguste
finestre, le molte torri, e le porte ferrate, attesta ancora quello
stato di guerra da vicino a vicino. Lo statuto di Genova proibiva di
lanciare projetti dalle torri, neppure in occasione di combattimento:
se ne seguisse omicidio, la torre veniva demolita; se no, multa di
venti lire; e se il padrone non potesse pagarla, distruggevansi due
solaj d’essa torre. Talvolta una città era divisa tra più signori, e
per esempio in Mantova i Bonaccossi e i Grossolani erano capi-parte
nel quartiere di Santo Stefano, gli Arlotti e i Poltroni in quello di
Cittavecchia, i Riva e i Casaloldi in quel di San Jacopo, i Zanecalli e
i Gaffari in quel di San Leonardo. Bisognava dunque munire un quartiere
contro l’altro, serragliare i ponti, sorvegliare le strade.
Nelle città più floride per commercio, i mercanti vollero partecipare
alla sovranità d’una patria, al cui prosperamento sentivano aver tanto
contribuito. E fin qui chiedeano il giusto; ma l’irritamento prodotto
dal contrasto e la baldanza del successo li spinsero a volere esclusi
quelli, cui da principio non avevano che domandato di compartecipare.
Firenze rimosse dalla Signoria chi non fosse matricolato in un’arte; i
nove signori di Siena e gli anziani di Pistoja dovean essere mercanti o
della classe mezzana; altrettanto in Arezzo; di maniera che per infamia
notavansi tra’ nobili chi mal meritasse del Comune. Modena pure ebbe un
registro sì fatto, e l’imitarono alcun tempo Bologna, Padova, Brescia,
Genova ed altre città libere sullo scorcio del xiii secolo. Anzi a Pisa
i nobili erano esclusi dal far testimonianza contro un plebeo; pena la
testa se uscissero di casa con arme o senza quando si faceva rumore; e
bastava la voce popolare per condannarli[259]. Il cencinquantesimo del
libro I degli statuti di Roma prescrive che un barone o una baronessa,
i quali abbiano una lite civile o criminale con un popolano, non
possano entrare in palazzo, ma solo i loro avvocati e procuratori; e se
il popolano comprometter voglia la lite in due popolani, essi baroni
sieno costretti starvi: nè tampoco il giudice della causa possa mai
parlare con essi barone e baronessa.
A Lucca soli i cittadini abitanti in città costituivano propriamente
la repubblica; gli altri chiamavansi _foretanei_ se oriundi lucchesi,
e _foresi_ se avveniticci, e non partecipavano ai privilegi urbani.
I cittadini poi divideansi in potenti o casatici, e popolari. I
casatici non solo erano esclusi dal governo e dalle società delle
armi del popolo, come i cavalieri e cattanei, ma non si ammettevano
a testimoniare contro popolani; mentre questi non erano puniti
di calunnia se non potessero provare la incolpazione data ad
un patrizio[260]. Era insomma un ricolpo de’ mercadanti contro
l’aristocrazia, della ricchezza industre contro la territoriale. I
commercianti e i possessori apparecchiavano governi a tutto vantaggio
della propria classe e a danno dell’altra, senza riguardo al grosso
della popolazione, che però acquistando di forza, sorgeva colle sue
pretensioni, ed aumentava quel bollimento universale.
Noi non teniamo vera repubblica se non il governo di tutti per
vantaggio di tutti: l’antagonismo conduce necessariamente a rotture,
e queste riescono a rivoluzioni o di governo o di piazza; ma
come evitarle sinchè stanno a fronte due razze non ancora fuse, i
conquistatori e i conquistati? I nobili si agitavano e combattevano
perchè n’aveano i mezzi; atteso il gran numero di parenti, avvolgeano
ne’ loro litigi lo Stato intero; e perciò diceasi che i nobili
erano la ruina del paese. Pure in essi si suppongono educazione più
accurata, sentimenti meno interessati, spirito di famiglia conservato:
vi occorrono maggiori esempj di fermezza, come a Sparta, a Roma, a
Venezia, attesochè, non conoscendo superiore che Dio, elevano gli
spiriti sovra il resto della nazione, e di grandi cose li fa capaci
l’emulazione de’ loro pari. Ma facilmente trascendono in oligarchia,
non soltanto insuperbendo della propria indipendenza, ma minacciando
l’altrui; e per restare tirannetti ne’ castelli, piaggiano i regnanti,
despoti e schiavi al tempo stesso.
D’altro lato è agevole e comune il lanciare un motto di sprezzo sui
governi di mercanti: ma oseremo noi farlo quando vediamo Firenze durare
sì lunghi e magnanimi sforzi, elevarsi a splendidissima civiltà,
ed ultima conservare sua franchezza in Italia? Certo, la esclusione
dei nobili sottraeva forze utilissime alle repubbliche italiane; il
Governo decretava parzialissimo; i popolani grassi e la gente nuova
trascorsero a fasto e prepotenza quanto i nobili, senz’essere sostenuti
come questi dal lustro de’ padri, che pur lusinga le plebi. Le quali se
veneravano nel signor d’oggi la memoria del magistrato e del capitano
antico, mal si rassegnavano all’aristocrazia mercantile, sia perchè
più speculatrice e men generosa, sia perchè duole il veder coloro
che soleansi riverire conculcati da altri, cui unico merito erano i
sùbiti guadagni. Adunque sprezzati dalle famiglie, sgraditi alla plebe,
minacciati da superiori e da inferiori, dovettero i mercanti reggersi
anch’essi con modi arbitrarj ed assoluti.
Non che dunque la gara fra nobili e plebei fosse misero parto della
libertà, nasceva dal non essersi, al tempo della rivoluzione, ottenuta
intiera la franchezza e lasciate accanto ai liberi Comuni la campagna
servile, le giurisdizioni feudali, e dappertutto la sciagurata
ingerenza degl’imperatori. In grazia della quale le contese cittadine
furono inacerbite dalla divisione di Guelfi e Ghibellini.
Questi nomi, nati in Germania (pag. 89), furono troppo presto adottati
dall’Italia per designare due partiti, in lei da secoli contrariantisi;
li conservò quando più non s’udivano negli altri paesi, e per essi
straziò le proprie viscere anche quando già era fatta cadavere. «Quelli
che si chiamavano Guelfi, amavano lo stato della Chiesa e del papa;
quelli che si chiamavano Ghibellini, amavano lo stato dell’Imperio e
favorivano l’imperatore e suoi seguaci» (VILLANI). Ne’ primi prevaleva
il desiderio di vendicarsi della dinastia sveva, e sviluppare da
ogni legame forestiero la libertà dei Comuni: i Ghibellini credeano
che il conservarsi ciascun paese in libertà, senza dipendere da un
poter superiore, recherebbe inevitabilmente a discordie, per le quali
gli Italiani si logorerebbero colle proprie forze. Gli uni dunque
aspiravano come a supremo bene alla indipendenza dell’Italia, e che
potesse ordinare i proprj Governi senza influsso forestiero: gli altri
vagheggiavano l’unità del potere, come unico modo di fare l’Italia
concorde entro e rispettata fuori, dovesse pure sminuirsene la libertà
fortuneggiante.
Erano dunque due partiti generosi e con aspetto entrambi di equità;
e solo que’ liberalastri che nel passato rivangano ragioni di
oltraggiare i presenti, possono sentenziare infamia o apoteosi all’uno
o all’altro. I due partiti riconoscono un principio superiore a tutte
le rivoluzioni, la distinzione del potere temporale dall’ecclesiastico,
dello spirito dal comando, della fede dal diritto, della coscienza
dell’individuo dal vigore della società, dell’unità umana dall’unità
civile. Il prevalere d’ognuna di queste tesi porta necessariamente
l’antitesi dell’altra; se la Chiesa si fa democratica col popolo,
l’impero si fa democratico colla plebe; se i Guelfi stabiliscono
l’eguaglianza, i Ghibellini vogliono tutelarla colla legge; se prevale
l’idea della libertà individuale, rendesi necessario frenarla colla
potenza sociale. Il sapere con qual dei due stesse la miglior ragione è
viepiù difficile a chi non sappia trasferirsi in quell’età e valutarne
le condizioni e gli avvicendati mutamenti; giacchè può ben disputarsi
se le fasce convengano o no al bambino, ma traviserebbe la quistione
chi rispondesse che all’uomo adulto non stanno bene. Quelli che non
apprezzano la libertà se non politica, e questa negativa, oppositrice,
non sanno credere che il papato rapresentasse per tutto il medio evo la
parte più franca ed avanzata, unico oppositore alle prepotenze, unica
voce del popolo contro i guerrieri, del pensiero contro le lancie.
Matteo Villani chiamava la parte guelfa «fondamento e rôcca ferma e
stabile della libertà d’Italia, e contraria a tutte le tirannie, per
modo che, se alcuno diviene tiranno, conviene per forza ch’e’ diventi
ghibellino, e di ciò spesso s’è veduto l’esperienza». E soggiunge:
— L’Italia tutta è divisa mistamente in due parti; l’una che séguita
nei fatti del mondo la santa Chiesa, secondo il principato che ha da
Dio e dal santo Imperio in quello; e questi sono denominati Guelfi,
cioè _guardatori di fe_; e l’altra parte seguitano l’Imperio, o fedele
o infedele che sia nelle cose del mondo a santa Chiesa, e chiamansi
Ghibellini, quasi _guida belli_, cioè guidatori di battaglie, e
séguitane il fatto che per lo titolo imperiale sopra gli altri sono
superbi e motori di lite e di guerra. Gl’imperatori alamanni hanno
più usato favoreggiare i Ghibellini che i Guelfi, e per questo hanno
sicchè, scontenti del pari, i due emuli avventaronsi all’armi; sinchè,
indotto dai Guelfi, il papa mandò un legato che scomunicasse Filippo e
i suoi, e dicesse Ottone legittimo imperatore.
Questi, davanti a tre legati pontifizj (1201 — 8 giugno), prestò
un giuramento siffatto: — Io Ottone, per grazia di Dio, prometto e
giuro proteggere con ogni mia forza e di buona fede il signore papa
Innocenzo, i suoi successori e la Chiesa romana in tutti i dominj
loro, feudi e diritti, quali sono definiti dagli atti di molti
imperatori, da Lodovico Pio fino a noi; non turbarli in ciò che già
hanno acquistato, ajutarli in ciò che lor resta ad acquistare, se il
papa me lo ordini quando sarò chiamato alla sede apostolica per la
corona. Inoltre presterò il braccio alla Chiesa romana per difendere
il regno di Sicilia, mostrando al signore papa Innocenzo obbedienza e
onore, come costumarono i pii imperatori cattolici fino a quest’oggi.
Quanto all’assicurare i diritti e le consuetudini del popolo e delle
Leghe Lombarda e Toscana, m’atterrò ai consigli e alle intenzioni della
santa Sede, e così in ciò che concerne la pace col re di Francia. Se la
Chiesa romana venisse in guerra per causa mia, le somministrerò denaro
secondo i miei mezzi. Il presente giuramento sarà rinnovato a voce e
per iscritto quando otterrò la corona imperiale».
I Tedeschi, che vorrebbero vedere sempre l’imperatore sovrapposto al
pontefice, e l’Italia sottomessa alla Germania, rinfacciano a Ottone
quest’atto, dove in sostanza ciò che il papa esigeva era l’indipendenza
della Chiesa e dell’Italia. I principi tedeschi se ne indignarono, e
ne scrissero parole risolute ad Innocenzo, il cui favore non toglieva
che svenisse il partito di Ottone, considerato scialacquatore della
nazionale sovranità. Intanto Filippo di Svevia moriva trucidato (1208),
quinto figlio del Barbarossa che finiva in valida età, lasciando sol
quattro figlie; nè di quella casa sopravviveva che Federico Ruggero.
Allora, dopo dieci anni di contesa fra guerresca e politica, mediante
le premure di Roma i suffragi si raccolsero tutti sopra Ottone:
anzi, per togliere in avvenire le scissure e insieme le ambizioni
di qualc’altra famiglia, fu istituito che nessuno pretendesse alla
corona germanica per diritto ereditario; l’elezione fosse devoluta a
tre principi ecclesiastici, cioè gli arcivescovi di Magonza, Colonia,
Treveri, e tre laici, cioè il palatino del Reno, il duca di Sassonia,
il marchese di Brandeburgo; e quando i voti fossero pari, anche il re
di Boemia. Da quel punto al popolo non rimase più parte alcuna nelle
nomine, e gl’italiani ne restarono affatto esclusi. Ottone avendo
sposato Beatrice (1209) figlia dell’ucciso Filippo, rannodò le due
case de’ Guelfi e degli Hohenstaufen, e svelse dalla Germania quella
gramigna funesta de’ Guelfi e Ghibellini mentre appunto essa pigliava
rigoglio in Italia.
Qui, in dodici anni dacchè tedeschi eserciti non apparivano,
le Repubbliche aveano preso incremento. Determinate da bisogni
individuali, esse non avevano preteso estendere le franchigie su
tutto il paese, distruggere ogni orma della sofferta oppressione,
piantare l’uguaglianza di tutti in faccia alla legge. Del Comune da
principio facevano parte soltanto i capitanei e valvassori e arimanni;
poi vi si aggiunsero i borghesi liberi, ceto medio, cresciuto sì per
l’arricchimento del commercio, sì per molte case nobili che giurarono
la città, sì per quelli che vi rifuggivano dai signori feudali o
ecclesiastici. Il resto degli abitanti dipendeva ancora dai nobili o
dai visconti vescovili, in qualità di servi o d’uomini ligi, con patti
che spesso riducevansi in carta, e che tanto vagliono a manifestare la
condizione personale de’ popolani[250].
Gli antichi conti della città eransi ritirati alla campagna, dove
conservavano i possessi e le giurisdizioni; sicchè i contadi rurali
od erano frazioni d’antico contado cui era stata tolta la città, o
porzioni assegnate da un conte ai proprj figliuoli. Quei di Bergamo
nel X secolo aveano avuto per quattro generazioni la suprema dignità
di conti del regio palazzo, e furono imparentati coi marchesi d’Ivrea
e di Toscana: costretti poi ad uscir di città, si indebolirono
suddividendosi nei conti Almenno, Martinengo, Camisano, Offenengo
ed altri[251]. Sotto il 1222 gli storici annoverano una quantità
di castelli donati o ceduti a Bergamo dai possessori, come Morníco,
Cologna, Grumello, Solto, Plenico, Cene, Civedate, Telgate, Villadadda,
Morengo, Calepio, Sárnico, la Bretta e via; e già prima v’erano stati
indotti o costretti i canonici e il vescovo. Milano, che prima limitava
la sua giurisdizione a un raggio di tre miglia, sottopose i contadi del
Seprio, della Bulgaria, della Martesana, di Parabiago, di Lecco[252].
I conti di Verona si ritirarono a San Bonifazio, donde presero il
titolo: quei di Padova, fra i colli Euganei, coi titoli di Baone,
Àbano, Maltraverso e altri. E tutti dominarono sulla campagna, rubando,
ponendo pedaggi, escludendo, serrandosi attorno a un principale, che
intitolavasi vicario imperiale e che aveva una scorta di Tedeschi:
del resto avversando i Comuni, ridendo dei consoli e degli statuti,
pronti ad affollarsi intorno al piccolo esercito che l’imperatore
conducesse in Italia, trasformando in valanga l’impercettibile nucleo
degli oltramontani; e continuar battaglie e invasioni anco dopo partito
quello.
Non poteva darsi che le città libere gran tempo tollerassero attorno
a sè borghi servilmente sottoposti a feudatarj privilegiati d’assoluta
giurisdizione, conservatori degli abusi detestati. Se a Costanza avean
acquistato il diritto di far guerra alle città lontane, tanto più
ai castelli vicini: onde coglievano le occasioni di portarvi la più
legittima delle guerre, quella che propaga e francheggia i diritti
dell’uomo. Talora scendeasi a patti, e la campagna restava emancipata
dalle parziali servitù. Asti mosse contro ai duchi di Monferrato,
Chieri agli arcivescovi di Torino: quei di Borgo Sansepolcro intimarono
ai tanti castellani di val Tiberina di lasciare le rôcche, chi non
volle costrinsero, e diroccato il castello di Mansciano, ne portarono
via le pietre, di cui edificarono i proprj baluardi, e una campana
che posero sulla torre di Berta[253]. Gli abitanti di Vico, Vasco,
Breo, Carassone, guasti dalle male intelligenze coi Lombardi e
coll’imperatore, si proposero una reciproca unione, della quale fu
frutto la terra di Mondovì. I Pavesi respinsero il conte rurale, che
si rifuggì a Lumello; ma quivi pure incalzato, ebbe a smettere la sua
giurisdizione, e rendersi cittadino e suddito della sua città[254].
I consoli di Biandrate appajono già in una carta del 5 febbrajo
1093, dove quei conti ai militi abitanti le loro terre danno una
specie di costituzione, e «delle discordie e concordie attenderanno
quel che decidano i dodici consoli eletti; i quali giurano giudicare
le liti insorte come meglio sapranno giovare al Comune, salva la
fedeltà ai signori». A Guido di Biandrate, che tanto di lui ben
meritò, Federico Barbarossa concedeva ampio privilegio, togliendolo
in protezione, confermandogli i beni e onori che aveva avuto da’ suoi
antecessori, stabilendo non deva esser chiesto in giudizio se non
davanti all’imperatore; per tutto il vescovado di Novara gli conferma
la capitananza (_conductum_), e che niuna battaglia si faccia se non
lui presente; gli uomini di quel contado abbiano egual diritto di
vendere e comprare in tutto il vescovado di Novara, Vercelli, Ivrea,
quanto i mercanti d’essa città. Poi il conte di Biandrate nel 1170 fece
concordia coi Vercellesi, cedendo il suo castello di Montegrande, i cui
abitanti siano ricevuti pacificamente a Vercelli, senza ch’egli però
perda la fedeltà d’essi castellani; cede pure quanto ha in Candelo,
Arborio, Albano e di qua dalla Sesia; due volte l’anno farà per essi
campo, e sarà in oste con trecento uomini; abiterà in Vercelli, e farà
giurare a quaranta suoi militi di comprarvi case; darà della sua cassa
diecimila lire pavesi; farà dare il fodro da essi militi agli uomini
di Vercelli, come sogliono gli altri concittadini; farà fine e pace
di tutti i danni recati a sè e alla casa sua; non porterà guerra senza
il consiglio de’ consoli maggiori e dei consoli di Santo Stefano e di
tutta la credenza; non alzerà castello dalla valle della Sesia e da
Romagnano in giù, nè vi farà conquista di castello o torre o corte.
Erano quei di Biandrate i più potenti signori del contorno di Milano,
ma ben presto il loro castello fu assediato e distrutto, e dispersine
gli abitanti in quattro villaggi: e Novara facea statuto, che il
console giurasse di tener distrutto Biandrate, ogn’anno visitarlo
due volte, e se nel ricinto della fossa sorgesse alcuna casa, la
demolirebbe fra venti giorni. Altre terre rimaste dovetter quei conti
cedere a Novara nel 1247 per ottomila lire, con cui comprare una casa
e terreni nel distretto. I conti infestavano tuttavia la val di Sesia,
volendo contaminar tutte le fanciulle: sinchè i paesani indignati li
scannano tutti, sol una fanciulla serbando, alla quale infliggono
gli oltraggi che le loro aveano sofferto. Altre terre possedeano
sull’Astigiano, e avendo nel 1250 rubato del panno a mercanti, la
città li punisce privandoli dei villaggi. Su un di questi avventavasi
notturno nel 1290 il conte Manuele; ma gli Astigiani invadono le terre
di esso, ne devastano i vigneti e le biade, uccidono suo figlio: talchè
il conte, per salvare il resto, cede il castello di Porcello alle
città, e vende a chi più ne dà i castelli di Montacuto e Santo Stefano.
Patti consimili ma più largamente esplicati si convennero tra i
Vercellesi e i marchesi di Monferrato, aggiungendo la promessa di
ajutar questi dalla Lega Lombarda, cioè col pregare i collegati e
intercedere per essi.
Il Comune di Brescia (se la cronaca di Ardicio è genuina) fin dal
1104 avea lega e società con altri della Lombardia e del Trevisano,
giurata nel chiostro di Palazzuolo: dai Martinengo comprava il castello
di Orzivecchi, dai conti Lumellini quanto possedeano nella diocesi
a titolo feudale, dai conti Calepio i castelli di Sárnico, Merlo,
Calepio, obbligandoli ad impiegare il prezzo in acquistare allodj nel
Bresciano; riceveva in protezione gli abati di Leno e Sant’Eufemia;
distruggeva il forte di Montechiaro e quel di Gavardo cacciandone
il presidio; così smantellò Asola ch’era dei conti di Casalalto,
e il forte di Monterotondo. Un consiglio del 1203 stabilisce che
gli abitanti di ville e castelli comprati da nobili non addetti al
Comune devano prestar giuramento alla repubblica. Ne’ cui statuti
è prescritto, chi vuol diventare cittadino, fabbrichi una casa
nella città, e rimangavi sempre, eccetto un mese di primavera, uno
d’autunno; privati non possano eriger forti in Pontevico, Palazzuolo,
Mura, Quinzano, Caneto, Gavardo, Iseo; e tutti i curati e dignitarj
ecclesiastici siano bresciani[255].
I conti di Treviso si piantarono ne’ loro possessi sul Piave, ma senza
nimicarsi colla città, nella quale sostennero molti uffizj comunali, e
conservarono anche il titolo, che poi mutarono in quel di Collalto. Di
Treviso stessa presero la cittadinanza nel 1183 Vecello e Gabriele da
Camino, e nel 1190 Matteo vescovo di Céneda, pattuendo che quel Comune
esercitasse la giurisdizione nella sua diocesi. Bertoldo patriarca
d’Aquileja nel 1220 si ridusse cittadino di Padova, e in segno vi
fabbricò palazzo, si sottopose ai dazj e alle taglie, e mandava
ogn’anno dodici cavalieri a giurare obbedienza al nuovo podestà: lo che
imitò pure il vescovo di Feltre e Belluno[256]. Padova stessa obbligò
i marchesi d’Este a venir cittadini, ed immurare le porte della loro
rôcca. Parma sottomette Salsomaggiore, obbligandolo a pagare dieci
soldi ogni san Martino(1138), e Uberto Pelavicino che le fa omaggio di
San Donnino (1140): Piacenza sottomette Caverzago, Collagura, Specchio,
Fabricà; nel 1138 compra metà del castello di Montalbo, metà nel 48;
sottopone la valle e il borgo di Taro; Moruello Malaspina nel 1194
prende la cittadinanza di Piacenza, mentre altri di quella famiglia si
accomandavano a Lucca. I Córvoli del Frignano nel 1156 affidaronsi con
Modena a questi patti: ajutare la città contro chicchefosse, eccetto
il duca Guelfo d’Este e suoi ligi e vassalli; dimorare in città colle
lor donne ogni anno un mese in tempo di pace, due in tempo di guerra;
lasciare ai cittadini traversar liberamente le loro terre, nè tenere
mai chiusi i castelli a’ magistrati della città; obbligare i loro
villani a pagare sei denari lucchesi per ogni par di bovi, eccetto
i castellani, valletti e gastaldi. Modena obbligavasi di rimpatto
a investirli di certi beni e castelli ch’essi doveano conquistare,
ajutarli a rivendicare certe ragioni da altri nobili, e proteggerli
contro i nemici[257]. Faenza demolisce Selvamaggiore (1098), combatte
i conti di Cunio (1115), demolisce la Pergola (1135); distrugge
Solarido (1138) diviso fra le due lottanti famiglie de’ Silingardi e
de’ Guglielmi, sbrattando così la via di San Giuliano; nel 1144 assalta
Castelleone; nel 1149 Cunio, Donigaglia, Bagnacavallo, che pretendeano
un censo da’ Faentani che vi tenesser banchi. Il conte dovette cercar
pace mettendo casa in Faenza, lasciando mettere in Cunio guarnigione
faentina, e ritraendosi dalla politica: ma ben presto, sotto titolo che
abbia mancato ai patti, è assalito e distrutto il castello. Poi vien la
volta di Lacerata, di Modigliana, di Bagnacavallo.
Terracina ai Frangipani, già signori della città, poi ritiratisi a
Circello e Traversa, vieta di accostarsi oltre la chiesa di S. Nicola
fuor le mura, fuorchè per affari e senz’armi nè seguito. Benevento
sfascia Apice, Terroggia, Sableta, ove Roberto Sclavo ora imprigionava
i passeggeri, or li spogliava od uccideva, come faceano pure i signori
di Frassineta, per ciò spodestati.
I Bolognesi avevano preso i castelli di Corbara, Sassatello,
Monteveglio, Monte Cadumo, Ibora, Dozza, Fagnano, e avuti a soggezione
i signori Cetolani, Savignanesi, di Oliveto, Moreto, Caneto[258]. Egual
movimento ci si mostrerà in Toscana.
Casse in tal guisa le giurisdizioni feudali, le tenute appartenevano
tutte a cittadini, ed erano coltivate da pigionanti e mezzajuoli,
trasformandosi il sistema tedesco dei possessi, e ai servi sottentrando
liberi coltivatori.
Liberi, ma non per questo erano considerati come popolo, cioè donati
della piena cittadinanza; e l’infima gente e gli operaj non restavano
rappresentati nel Governo, non votavano le imposizioni che essi
medesimi pagavano, o la conversione di esse. Ma in ogni rivoluzione, al
primo passo che consiste nel liberarsi, suole tener dietro l’altro, ove
la classe liberatrice vien giudicata tiranna o insufficiente, e una più
bassa pretende prima eguagliarla, poi soverchiarla. Alla rivoluzione
che affrancò i Comuni aveano data principal opera i nobili e i meglio
stanti, che in conseguenza diedero i consoli e i magistrati; gloria
particolare di molte prosapie nostre, di derivare la loro nobiltà dai
liberatori della patria.
Ben presto i plebei pretesero parte al governo, e questa seconda
êra delle repubbliche valse un secolo intero di agitazioni, ora
costituzionali, ora violente. Dentro le città cominciarono dunque a
contendere nobili e borghesi, quelli volendo ricuperare l’autorità che
un tempo aveano posseduta, questi pretendendo in prima parteciparvi
equamente, poi arrogarla a sè soli. La quale contesa non è altro se
non quella che tuttodì si agita nei paesi costituzionali, cioè se a’
soli proprietarj devasi concedere pienezza di diritti: stantechè non al
sangue si faceva mente, ma ai possessi; nobile era chi avesse.
I grossi nobili o casatici, discendenti dagli antichi conti e marchesi
e capitanei, tradizionalmente poderosi, e sostenuti dagl’imperatori,
s’erano abituati al comando sui loro feudi; ed anche giurandosi
cittadini, conservavano i possedimenti e le rôcche, dalle quali sì
spesso erano invitati alle magistrature urbane. Alla plebe, attenta
alle arti e ai traffici, non era possibile esercitarsi nell’armi,
che al contrario formavano l’occupazione e il sollazzo dei nobili;
onde a questi bisognava ricorrere ne’ casi di guerra, massime per la
cavalleria. Anche dopo svestite le armi, al comandare erano predisposti
dal patronato che esercitavano sopra gli antichi loro servi e gli
attuali clienti; dall’inclinazione a riverire nei figliuoli le doti
e i meriti de’ padri; dal trovarsi fra sè legati per parentele o
per ispirito di corpo; dall’avere sì larghi possessi che poteano a
loro voglia affamare la città. Chiamati podestà o capitanei in paesi
forestieri, contraevano l’abitudine dal maggioreggiare, che tanto
facile s’acquista quanto difficilmente si smette; e anche nel proprio
Comune ottenevano onoranze sì per le cariche sostenute, sì pel fregio
della cavalleria. In qualche città soli nobili aveano gli impieghi,
come sembra fosse in Bergamo, ove non appajono contese fra nobili e
plebei, ma de’ nobili fra loro.
Altre volte questi, impediti di prepotere legalmente, volgeansi
all’infima classe, esclusa dal governo e tributaria della città; la
blandivano perchè più docile, e perchè non aveva nè diritti da opporre
ai loro, nè ricchezze per egualiarli; e se le facevano sostegno ne’
tribunali, o nei richiami contro l’oppressione: di che sorgevano due
fazioni, la nobiltà unita ai plebei, e i borghesi indipendenti da
quella. Si contrariavano esse ne’ partiti, nelle elezioni, nei piati,
e spesso il litigio incalorivasi fino a venire alle mani. Vincevano i
nobili? eccoli padroni delle cariche, arbitri delle leggi, e decretare
quanto meglio torna al loro ordine; applauditi dalla ciurma, che al
solito astiava i cittadini grassi. Soccombevano? ritiravansi nelle
avite rôcche, aspettando di ritornar necessarj per essere ridomandati,
o, data occasione, rientrare a forza. Come avviene dei conflitti in
città, la plebe per lo più restava vincitrice; e inetta a governarsi,
e facile ad essere raggirata dagli scaltri, s’appoggiava ad un signore
territoriale, concedendogli poteri illimitati, quali deve averli chi
rappresenta il popolo, e così spianando la via alle tirannidi. Quei
medesimi baroni che aveano giurato il Comune, oltre esercitare nelle
città il potere o l’ingerenza che deriva dall’antica abitudine del
comando, dalla ricchezza e dalla pratica delle armi, negli accordi
eransi riservati certi diritti di guerra e di alleanza, e prerogative.
Per quel carattere personale che aveano tutti gli obblighi nel sistema
feudale, a simili accordi poteasi rinunziare ad arbitrio; e poichè
talvolta il nobile era cittadino di due Comuni, cercava appoggio
dall’altro qualora coll’uno cozzasse: fomento a fraterni dissidj.
Difficilmente poi rinunziavano al diritto preziosamente mantenuto delle
guerre private, e dentro le città stesse moveansi battaglie tra loro;
perciò munivano i palazzi a guisa di fortezze, con ponti levatoj e
torri e catene per le vie. Trentadue torri coronavano o minacciavano
Ferrara, cento Pavia, poco meno Cremona e Bologna: diecimila a Pisa,
dice Beniamino da Tudela, e «creda chi vuole» esclama il Muratori;
a Firenze l’architettura massiccia, coll’enormi bugne, le anguste
finestre, le molte torri, e le porte ferrate, attesta ancora quello
stato di guerra da vicino a vicino. Lo statuto di Genova proibiva di
lanciare projetti dalle torri, neppure in occasione di combattimento:
se ne seguisse omicidio, la torre veniva demolita; se no, multa di
venti lire; e se il padrone non potesse pagarla, distruggevansi due
solaj d’essa torre. Talvolta una città era divisa tra più signori, e
per esempio in Mantova i Bonaccossi e i Grossolani erano capi-parte
nel quartiere di Santo Stefano, gli Arlotti e i Poltroni in quello di
Cittavecchia, i Riva e i Casaloldi in quel di San Jacopo, i Zanecalli e
i Gaffari in quel di San Leonardo. Bisognava dunque munire un quartiere
contro l’altro, serragliare i ponti, sorvegliare le strade.
Nelle città più floride per commercio, i mercanti vollero partecipare
alla sovranità d’una patria, al cui prosperamento sentivano aver tanto
contribuito. E fin qui chiedeano il giusto; ma l’irritamento prodotto
dal contrasto e la baldanza del successo li spinsero a volere esclusi
quelli, cui da principio non avevano che domandato di compartecipare.
Firenze rimosse dalla Signoria chi non fosse matricolato in un’arte; i
nove signori di Siena e gli anziani di Pistoja dovean essere mercanti o
della classe mezzana; altrettanto in Arezzo; di maniera che per infamia
notavansi tra’ nobili chi mal meritasse del Comune. Modena pure ebbe un
registro sì fatto, e l’imitarono alcun tempo Bologna, Padova, Brescia,
Genova ed altre città libere sullo scorcio del xiii secolo. Anzi a Pisa
i nobili erano esclusi dal far testimonianza contro un plebeo; pena la
testa se uscissero di casa con arme o senza quando si faceva rumore; e
bastava la voce popolare per condannarli[259]. Il cencinquantesimo del
libro I degli statuti di Roma prescrive che un barone o una baronessa,
i quali abbiano una lite civile o criminale con un popolano, non
possano entrare in palazzo, ma solo i loro avvocati e procuratori; e se
il popolano comprometter voglia la lite in due popolani, essi baroni
sieno costretti starvi: nè tampoco il giudice della causa possa mai
parlare con essi barone e baronessa.
A Lucca soli i cittadini abitanti in città costituivano propriamente
la repubblica; gli altri chiamavansi _foretanei_ se oriundi lucchesi,
e _foresi_ se avveniticci, e non partecipavano ai privilegi urbani.
I cittadini poi divideansi in potenti o casatici, e popolari. I
casatici non solo erano esclusi dal governo e dalle società delle
armi del popolo, come i cavalieri e cattanei, ma non si ammettevano
a testimoniare contro popolani; mentre questi non erano puniti
di calunnia se non potessero provare la incolpazione data ad
un patrizio[260]. Era insomma un ricolpo de’ mercadanti contro
l’aristocrazia, della ricchezza industre contro la territoriale. I
commercianti e i possessori apparecchiavano governi a tutto vantaggio
della propria classe e a danno dell’altra, senza riguardo al grosso
della popolazione, che però acquistando di forza, sorgeva colle sue
pretensioni, ed aumentava quel bollimento universale.
Noi non teniamo vera repubblica se non il governo di tutti per
vantaggio di tutti: l’antagonismo conduce necessariamente a rotture,
e queste riescono a rivoluzioni o di governo o di piazza; ma
come evitarle sinchè stanno a fronte due razze non ancora fuse, i
conquistatori e i conquistati? I nobili si agitavano e combattevano
perchè n’aveano i mezzi; atteso il gran numero di parenti, avvolgeano
ne’ loro litigi lo Stato intero; e perciò diceasi che i nobili
erano la ruina del paese. Pure in essi si suppongono educazione più
accurata, sentimenti meno interessati, spirito di famiglia conservato:
vi occorrono maggiori esempj di fermezza, come a Sparta, a Roma, a
Venezia, attesochè, non conoscendo superiore che Dio, elevano gli
spiriti sovra il resto della nazione, e di grandi cose li fa capaci
l’emulazione de’ loro pari. Ma facilmente trascendono in oligarchia,
non soltanto insuperbendo della propria indipendenza, ma minacciando
l’altrui; e per restare tirannetti ne’ castelli, piaggiano i regnanti,
despoti e schiavi al tempo stesso.
D’altro lato è agevole e comune il lanciare un motto di sprezzo sui
governi di mercanti: ma oseremo noi farlo quando vediamo Firenze durare
sì lunghi e magnanimi sforzi, elevarsi a splendidissima civiltà,
ed ultima conservare sua franchezza in Italia? Certo, la esclusione
dei nobili sottraeva forze utilissime alle repubbliche italiane; il
Governo decretava parzialissimo; i popolani grassi e la gente nuova
trascorsero a fasto e prepotenza quanto i nobili, senz’essere sostenuti
come questi dal lustro de’ padri, che pur lusinga le plebi. Le quali se
veneravano nel signor d’oggi la memoria del magistrato e del capitano
antico, mal si rassegnavano all’aristocrazia mercantile, sia perchè
più speculatrice e men generosa, sia perchè duole il veder coloro
che soleansi riverire conculcati da altri, cui unico merito erano i
sùbiti guadagni. Adunque sprezzati dalle famiglie, sgraditi alla plebe,
minacciati da superiori e da inferiori, dovettero i mercanti reggersi
anch’essi con modi arbitrarj ed assoluti.
Non che dunque la gara fra nobili e plebei fosse misero parto della
libertà, nasceva dal non essersi, al tempo della rivoluzione, ottenuta
intiera la franchezza e lasciate accanto ai liberi Comuni la campagna
servile, le giurisdizioni feudali, e dappertutto la sciagurata
ingerenza degl’imperatori. In grazia della quale le contese cittadine
furono inacerbite dalla divisione di Guelfi e Ghibellini.
Questi nomi, nati in Germania (pag. 89), furono troppo presto adottati
dall’Italia per designare due partiti, in lei da secoli contrariantisi;
li conservò quando più non s’udivano negli altri paesi, e per essi
straziò le proprie viscere anche quando già era fatta cadavere. «Quelli
che si chiamavano Guelfi, amavano lo stato della Chiesa e del papa;
quelli che si chiamavano Ghibellini, amavano lo stato dell’Imperio e
favorivano l’imperatore e suoi seguaci» (VILLANI). Ne’ primi prevaleva
il desiderio di vendicarsi della dinastia sveva, e sviluppare da
ogni legame forestiero la libertà dei Comuni: i Ghibellini credeano
che il conservarsi ciascun paese in libertà, senza dipendere da un
poter superiore, recherebbe inevitabilmente a discordie, per le quali
gli Italiani si logorerebbero colle proprie forze. Gli uni dunque
aspiravano come a supremo bene alla indipendenza dell’Italia, e che
potesse ordinare i proprj Governi senza influsso forestiero: gli altri
vagheggiavano l’unità del potere, come unico modo di fare l’Italia
concorde entro e rispettata fuori, dovesse pure sminuirsene la libertà
fortuneggiante.
Erano dunque due partiti generosi e con aspetto entrambi di equità;
e solo que’ liberalastri che nel passato rivangano ragioni di
oltraggiare i presenti, possono sentenziare infamia o apoteosi all’uno
o all’altro. I due partiti riconoscono un principio superiore a tutte
le rivoluzioni, la distinzione del potere temporale dall’ecclesiastico,
dello spirito dal comando, della fede dal diritto, della coscienza
dell’individuo dal vigore della società, dell’unità umana dall’unità
civile. Il prevalere d’ognuna di queste tesi porta necessariamente
l’antitesi dell’altra; se la Chiesa si fa democratica col popolo,
l’impero si fa democratico colla plebe; se i Guelfi stabiliscono
l’eguaglianza, i Ghibellini vogliono tutelarla colla legge; se prevale
l’idea della libertà individuale, rendesi necessario frenarla colla
potenza sociale. Il sapere con qual dei due stesse la miglior ragione è
viepiù difficile a chi non sappia trasferirsi in quell’età e valutarne
le condizioni e gli avvicendati mutamenti; giacchè può ben disputarsi
se le fasce convengano o no al bambino, ma traviserebbe la quistione
chi rispondesse che all’uomo adulto non stanno bene. Quelli che non
apprezzano la libertà se non politica, e questa negativa, oppositrice,
non sanno credere che il papato rapresentasse per tutto il medio evo la
parte più franca ed avanzata, unico oppositore alle prepotenze, unica
voce del popolo contro i guerrieri, del pensiero contro le lancie.
Matteo Villani chiamava la parte guelfa «fondamento e rôcca ferma e
stabile della libertà d’Italia, e contraria a tutte le tirannie, per
modo che, se alcuno diviene tiranno, conviene per forza ch’e’ diventi
ghibellino, e di ciò spesso s’è veduto l’esperienza». E soggiunge:
— L’Italia tutta è divisa mistamente in due parti; l’una che séguita
nei fatti del mondo la santa Chiesa, secondo il principato che ha da
Dio e dal santo Imperio in quello; e questi sono denominati Guelfi,
cioè _guardatori di fe_; e l’altra parte seguitano l’Imperio, o fedele
o infedele che sia nelle cose del mondo a santa Chiesa, e chiamansi
Ghibellini, quasi _guida belli_, cioè guidatori di battaglie, e
séguitane il fatto che per lo titolo imperiale sopra gli altri sono
superbi e motori di lite e di guerra. Gl’imperatori alamanni hanno
più usato favoreggiare i Ghibellini che i Guelfi, e per questo hanno
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