Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 14
trovò d’uomini robusti, di belle donne, d’abili operaj. Manuele divisò
allora snidare i Normanni d’Italia (1155), e in fatto i suoi presero
Bari e Brindisi: ma ben presto seguì la pace.
Alessio II suo figliuolo gli succedette (1180), reggente la madre Maria
d’Antiochia; ma questa affidavasi tutta al protosebaste Alessio nipote
di Manuele, scandolezzando e scontentando la Corte, sicchè fu tramato
a favore di Andronico Comneno. Costui, tenuto prigione dodici anni,
fuggì, e dopo romanzesche avventure perdonato, osteggiò di continuo il
protosebaste; e dal patriarca eccitato a liberare la patria, si mosse
raccogliendo gli scontenti. Appena compare a Calcedonia, il popolo lo
acclama reggente (1183); ed egli fa accecare Alessio, trucidare senza
distinzione quanti Latini coglie in Costantinopoli, avvelenare Maria
sorella dell’imperatore e il marito di lei marchese di Monferrato,
strangolare l’imperatrice madre; e così cacciatosi addosso la porpora,
la conservò, e viepeggio quando Guglielmo II di Sicilia, aspirando
alla conquista dell’Impero, prese Durazzo e Tessalonica, e marciò sopra
Costantinopoli.
Vittima designata dal tiranno era Isacco Langelo, cittadino di molto
seguito: ma questi uccide il carnefice, rifugge in Santa Sofia, e dal
popolo tumultuante è, mal suo grado, proclamato imperatore (1185).
Andronico, abbandonato al furore del popolo, fu per più giorni tratto
a strapazzo, in fine appiccato per li piedi in teatro, rinnovando
le scene che erano famigliari alla Roma del Basso Impero. Con questo
vecchio di settantacinque anni terminò la stirpe dei Comneni.
Femminesco di vita e inetto di mente, Isacco abbandonava le cure a
ministri indegni; ebbe contese con Federico Barbarossa, a cui danno
(1195) sollecitò le repubbliche lombarde: poi da Alessio fratel suo
fu deposto, accecato e messo in carcere col figlio. Questi, Alessio
anch’egli di nome, riuscì a fuggire presso Filippo di Svevia suo
cognato, appunto allorchè più in Europa caldeggiavasi la crociata;
e poichè de’ cavalieri armati in questa era divisa il difendere
l’innocenza, raddrizzare i torti, sostenere gli oppressi, andò invocare
il loro braccio, proponendo assalissero Costantinopoli, e rimettessero
in trono lui, che gli avrebbe poi d’ogni sua possa ajutati alla santa
impresa. Invano altri insinuava che non per ciò aveano impugnato
le armi, che i Greci non moveano lamento contro l’usurpatore, che
gl’imperatori s’erano pôrti scarsamente favorevoli ai Crociati: gli
scaltri trovavano miglior conto nel guerreggiare Costantinopoli,
più vicina e più ricca; a molti sapea di meritorio l’assalire gente
scismatica; presa Costantinopoli, diverrebbe la base della spedizione
contro Gerusalemme. Si narrò che Malek Adel facesse vendere i beni del
clero cristiano in Egitto, e col ricavo comprasse fautori in Venezia,
promettendo alla repubblica ogni agevolezza di traffici in Alessandria
se stornasse la spedizione dalla Siria: del resto, occorrevano
altri stimoli ai Veneziani per volere vendicarsi degli imperatori, e
schiantare i banchi fondati in Grecia dai Pisani?
L’imperatore bisantino, non meno fiacco del predecessore, angariava
e anneghittiva; vendeva la giustizia per rifarsi dello speso
nell’usurpazione; e mentre Bulgari e Turchi straziavano i confini,
dentro lasciavasi governare dalla moglie Eufrosina. Quando Enrico VI
professava voler rinnovare l’antico impero romano, e frattanto gli
ridomandava le provincie fra Durazzo e Tessalonica, o per equivalente
cinquanta quintali annui d’oro, Alessio non allestì resistenza, ma
mercanteggiò facendolo accontentare di sedici, per adunare i quali
spogliò le chiese e fin le tombe degl’imperatori: ma la tempestiva
morte di Enrico lo assolse dal _tributo tedesco_. All’addensarsi
della nuova procella, ricorse al papa acciocchè non permettesse di
così snaturare la santa impresa: nulla però prometteva a vantaggio
della crociata, nè di quel che tanto ai papi stava a cuore, la
riconciliazione della Chiesa greca colla latina. Pure Innocenzo III,
che metteva la giustizia innanzi a tutto, interdisse l’impresa ai
crociati; i quali litigando pel sì e pel no, si logoravano a vicenda.
Ma il sì prevalse, ed Alessio figlio d’Isacco Langelo fu salutato
imperatore (1203), e colla sua presenza infervorò la spedizione.
L’armata fece testa a Corfù, donde veleggiò sopra Costantinopoli;
e trenta migliaja d’uomini accinti a conquistare un impero di molti
milioni, la vigilia di san Giovanni gettarono l’àncora sulla costa
asiatica, tre miglia dalla capitale. Quivi all’attonito loro sguardo
spiegossi l’impareggiabile bellezza della Propontide, colla vegetazione
rigogliosa, i frutti succulenti, le dolci uve, ridondante pescagione,
limpidi ruscelli, freschi bagni, canti di rosignuoli, e tutta la
pompa che nella vigorosa sua maestà spiegava l’estate. Sopra le onde
increspate da leni zefiri, l’occhio scorreva verso le rive ammantate di
fiori, e sui giardini e le campagne ridenti di laureti e olezzanti di
perpetui rosaj, e sulle ville e le case cittadine, che all’ombra de’
platani e dei cipressi dalle falde lambite dal mare ascendono fino in
vetta alle colline che contornano l’orizzonte.
Fra tante bellezze, come la luna fra le stelle, pompeggiava
Costantinopoli, serpeggiante per immenso spazio sulle sette colline,
cinta d’elevate mura, con trecentottantasei torri, e chiese e conventi
senza numero, raddoppiati dal riflesso delle onde, che parevano
baciarle il piede come servi, o fremere come difensori minacciosi. Ai
Crociati, non che parole a descrivere, appena bastavano i sensi per
ammirare quel porto immenso di due mari: diamante che scintilla tra
il zaffiro delle onde e lo smeraldo delle campagne; il soggiorno più
bello dell’uomo per comodi e sicurezza, emulo di Roma per dignità, di
Gerusalemme per reliquie e santuarj, di Babilonia per vastità.
L’imperatore aveva lasciato per avarizia ridurre allo stremo l’esercito
e la flotta; e mal si difendea col braccio de’ Varanghi, mercenarj
settentrionali, coll’assistenza de’ Pisani, e col fuoco greco,
liquido combustibile che parve inventato per prolungare l’agonia di
quell’impero, e che con esso perì. I nostri, spezzate le catene del
porto, prendono Galata (17 luglio), e danno l’assalto: Enrico Dandolo,
sulle spalle de’ suoi si fa mettere a terra col vessillo di san Marco,
che ben presto sventola sopra una torre, e Costantinopoli è presa.
Alessio fuggì per nave, abbandonando ogni cosa, bestemmiato da quelli
che jeri l’incensavano: suo fratello Isacco dalla prigione è portato al
trono, compianto dei mali suoi or che sono cessati. A lui si presentano
i messi dei Crociati imponendogli, — Ratificate la promessa fatta da
vostro figlio di darci ducentomila marchi, vitto per un anno, ed ogni
ajuto per la guerra santa»; ed egli deve accettare, solo pregandoli di
tenersi accampati a Gàlata, cioè sul lido opposto.
Quel subito mutamento, quel vedersi risparmiate le battaglie temute,
portavano al colmo il tripudio dei nostri, che forniti d’ogni
abbondanza, ammiravano tante magnificenze, e più di tutto le reliquie,
di cui era una devota profusione. Il nuovo imperatore, coronato fra il
corteggio dei baroni, pompa inusata agli augusti orientali, pagò parte
della promessa somma; e se le cose fossero procedute da buon a buono,
forse era il momento di svecchiare l’Impero, rimettendolo nell’alleanza
cattolica, a parte della comune impresa, e d’accordo respingere il
nemico di tutta la cristianità.
Cavallerescamente i baroni mandarono araldi ad annunziare il
loro arrivo al sultano del Cairo e di Damasco, in nome di Cristo,
dell’imperatore di Costantinopoli, de’ principi e signori d’Occidente;
informarono anche il papa e i principi cristiani del prospero successo,
invitandoli a parteciparvi; ma il papa rispose rimproveri, e negò
benedirli; solo accettò le scuse di Alessio Langelo, esortandolo a
mantenere le promesse.
E le promesse erano di dar denari, e ricongiungere la Chiesa greca
colla latina. Per la prima Alessio si gettò in rovina, spogliando
fin le chiese; per l’altra obbligò i suoi ad abjurare lo scisma,
ed i Crociati non risparmiarono la forza contro i renitenti. Così
egli venne a procacciarsi l’odio dei sudditi, portato al colmo da un
incendio che per otto giorni guastò Costantinopoli, e che s’imputò a
questi stranieri. Alessio dunque supplicava i Crociati: — Non partite,
altrimenti io soccomberò alle rivolte, e l’eresia risorgerà; aspettate
la primavera; intanto io vi fornirò d’ogni bisogno».
Ma convivendo coi nostri, scapitava nella loro riverenza; e talvolta
qualche nicoletto veneto, toltogli il gemmato diadema, gli sostituiva
il suo berretto. Ne fremevano i Greci, ne ingelosiva il cieco Isacco: e
Alessio, sentendo non poter fare gran conto sopra i Latini, nè i monaci
e astrologi di cui si cingeva sapendo dargli buoni consigli, alle
ribellioni non conosceva rimedj migliori che trasportare dall’ippodromo
al suo palazzo il cignale caledonio, simbolo del popolo furioso, come
il popolo abbatteva una statua di Minerva, accagionata delle presenti
sventure.
Ecco intanto da Palestina messi in gramaglia (1204), narrando
come i Crociati di Fiandra e di Champagne, che con molti Inglesi e
Bretoni, spiccatisi dall’esercito a Zara, erano sbarcati in Siria ed
unitisi al principe di Armenia, fossero stati dai Musulmani sorpresi
e sbarattati; fame e peste desolassero il paese, e a Tolemaide si
sepellissero duemila cadaveri in un giorno. I Crociati allora, risoluti
d’avacciare l’impresa, sollecitavano i sussidj promessi: ma i due
imperatori, che non osavano mostrarsi all’aperta per non ammutinare
il popolo, mascherano la paura col rispondere insolentemente;
gli animi si esacerbano; i Latini s’accingono a prendere un’altra
volta Costantinopoli. I Greci attentano alla flotta veneziana, e
diciassette battelli incendiarj lanciano nottetempo contro di essa, e
già dalle mura applaudiscono al fuoco che s’avanza contro i Latini:
ma questi riescono a sviarlo, e infelloniti alla vendetta, più non
badano a proteste del loro creato. Murzuflo, scaltro sommovitore,
che fingendosi amico a tutti, tutti ingannava, sparge che i Langeli
vogliano consegnare Costantinopoli ai Latini; onde il popolo, che
suol essere più feroce quando ha maggior paura, a gran voci chiede un
nuovo imperatore; Alessio IV è strangolato, Isacco muor di spavento e
crepacuore, e Murzuflo è portato trionfalmente in Santa Sofia.
Il doge e i baroni latini, che poc’anzi si svelenivano contro i
due imperatori, or giurano vendicare que’ loro creati, e assaltano
Murzuflo. Costui non mancava del valore che dee avere un capopopolo,
e colla spada e la mazza ferrata scorreva, rattizzando col proprio il
coraggio de’ Greci; tentò di nuovo incendiare e sorprendere i Latini;
ma quando cadde in man di questi lo stendardo di Maria Vergine, i
Greci si credettero abbandonati dalla loro tutrice, e si chiusero nella
capitale. Quivi giorno e notte centomila uomini lavoravano ad allestire
difese, e i Crociati sentivano la difficoltà di espugnare una piazza
sì mirabilmente situata. Pure raccolti a parlamento, deliberarono:
— Non cesseremo finchè non sia deposto Murzuflo; gli sostituiremo un
imperatore latino, che possieda un quarto delle conquiste; il resto
sarà diviso fra Veneziani e Franchi, e determinati i diritti feudali
degli imperatori, dei sudditi, de’ grandi e de’ piccoli vassalli».
Mossi poi all’assalto dalla banda di mare, superano le bastite,
Murzuflo fugge, e Costantinopoli è presa un’altra volta. Chi sarìa
bastato a tenere a freno quella moltitudine, lieta d’aver conseguito
una preda sì lungamente appetita? Non onestà, non santità di chiese
o di tombe fu rispettata: una meretrice assidevasi sulla cattedra di
Santa Sofia; muli straccarichi di spoglie, feriti insanguinavano gli
altari; v’era intanto chi vestiva gli strascicanti abiti de’ Greci,
e bardava i cavalli coi berretti di tela e coi cordoni di seta degli
Orientali; e scorrevano le vie, in luogo di spade brandendo calamaj e
carta per beffare la imbelle dottrina de’ Greci, ed esclamavano: — Da
che mondo è mondo, mai non fu visto più pingue bottino».
Le spoglie, che doveano mettersi in comune (e furono appiccati molti
che ne distrassero), sommarono a cinquecentomila marchi d’argento (24
milioni), dopo due incendj, dopo il molto trafugare, dopo messo in
disparte un quarto pel futuro imperatore, e compensati i Veneziani
del noleggio; ond’è poco il valutarle cinquanta milioni: e se si
fosse ceduta la preda ai Veneziani, com’essi proponeano, ne avrebbero
ricavato di più e con minori sevizie. Il bottino fu distribuito in tal
proporzione, che un cavaliere toccasse quanto due uomini a cavallo, uno
a cavallo quanto due fanti. I monumenti, onde Costantino e i successori
avevano arricchita la città, andarono guasti o predati[244]; non men
che l’oro e i tappeti, avidamente erano rubate le reliquie, con frodi
e violenze e fin sangue; e il mondo se n’empì. Dopo di che i Crociati
celebrarono divotamente la Pasqua.
A sei elettori veneziani e altrettanti ecclesiastici francesi fu
affidata la scelta d’un imperatore. Candidati Enrico Dandolo, il
marchese di Monferrato e Baldovino di Fiandra: il Dandolo alla signoria
d’una città vinta preferì rimaner capo della gloriosa conquistatrice,
come nessun antico Romano avrebbe voluto cessare d’esser cittadino per
divenir re di Cartagine. D’altra parte i Veneziani s’adombrerebbero del
vedere il loro doge a capo del grande Impero: chi gli assicurava che la
cosa non passerebbe in esempio? e non potrebbe la loro patria diventare
colonia all’Impero? Perciò il Dandolo ricusò la corona; e la gelosia
de’ Veneziani per l’ingrandimento del signore del Monferrato li fece
favorire Baldovino, che fu acclamato. Feste all’occidentale e cantici
latini nelle chiese celebrarono il nuovo imperatore, cui il legato
pontifizio indossò la porpora, e, secondo il costume, gli fu offerto un
vaso pieno d’ossa e polvere, e dato fuoco ad un fiocco di bambage, per
rammentare come passa la gloria del mondo.
Questo colpo, che già avea dato per lo desiderio ai primi Crociati,
era un trionfo del papato, sebbene fatto contro sua voglia. Baldovino
assunse il titolo di cavaliere della santa Sede; ad Innocenzo III
annunziava essere stata sottomessa una nuova gente al pontefice,
e l’invitava venisse a godere di quella vittoria; il marchese di
Monferrato protestavasi disposto a tornare o morir colà, secondo i
cenni del papa; il doge implorò d’essere assolto di quella conquista,
a scusa adducendo l’essere Costantinopoli scala necessaria per
Gerusalemme. Innocenzo, amante d’una politica netta ed evidente,
volea la guerra contro l’islam, non già che a redimere l’Oriente si
cominciasse coll’impadronirsene; onde, non valutando il vantaggio
della santa Sede, li rimproverava d’aver preferito le utilità terrene
alle celesti; della licenza militare e delle violate cose sacre
chiedessero a Dio perdonanza, e la meritassero collo adempiere al voto
di liberar Terrasanta: nella quale fiducia ribenedisse gl’interdetti,
congratulatosi coi vescovi del castigo toccato all’ostinazione dei
Greci, e invitava altri a partecipare alle glorie ed alle nuove
fatiche.
Secondo il convenuto, Baldovino ebbe un quarto dell’impero greco,
Venezia tre degli otto quartieri della città, e un quarto e
mezzo dell’impero, cioè la più parte del Peloponneso, le isole
dell’Arcipelago, Egina, Corcira, la costa orientale dell’Adriatico,
quella della Propontide e del Ponto Eusino, le rive dell’Ebro e del
Varda, le terre marittime della Tessaglia, e le città di Cipsede,
Didimotica, Adrianopoli, insomma sette in ottomila leghe quadrate di
dominio con sette in otto milioni di sudditi e una catena di banchi
lungo la marina da Ragusi fino al mar Nero. I Franchi sortirono la
Bitinia, la Tracia, la Tessalonica, la Grecia dalle Termopile al
Sunnio, e le maggiori isole dell’Arcipelago: i paesi di là dal Bosforo
e Candia furono attribuiti al marchese di Monferrato, il quale poi
fu coronato re di Tessaglia, e assediata Napoli di Malvasìa e Corinto
tenute ancora dall’usurpatore Alessio, prese questo colla famiglia e
il mandò per Genova nel Monferrato, ma poi combattendo gl’infedeli
perdè la vita. Anche le chiese di Costantinopoli furono ripartite
fra Veneziani e Francesi, ed assunto a patriarca Tommaso Morosini.
Splendidissima vittoria, ma poco sicura.
Concitate le fantasie da questi rapidi acquisti, già i baroni
figuravansi regni e ducati sulle rive dell’Oronte e dell Eufrate,
mentre altri convertivano il bottino in comperare feudi nell’impero
conquistato e non ancora ben soggetto. Tornarono da Palestina quei che
vi si erano affrettati; accorsero nuovi Crociati dall’Occidente[245];
accorsero Templari e Spedalieri, dove erano imprese facili e lucrose:
talchè in ogni parte formavansi Stati nuovi, pel diritto della spada.
Come i Longobardi s’erano dato un codice per soli essi vincitori, così
i Latini promulgarono le Assise di Gerusalemme nel nuovo impero, che
come quelli si erano diviso, e che governarono a foggia dei feudi di
Europa. Venezia, per nulla smaniosa di conquiste cui dovea piuttosto
difendere che usufruttare, le abbandonò la più parte a’ suoi nobili,
concedendo che ciascuno potesse armare e sottomettere le isole
greche e le città delle coste, riconoscendole come semplice feudo
perpetuo della repubblica. E i Sanuto fondarono il ducato di Nasso,
che abbracciava anche le isole di Paro, Melo, Santorino; i Navagero
ebbero il granducato di Lemno; i Michiel il principato di Ceo; quello
d’Andros i Dandolo; i Ghisi quel di Teone, Micone e Soiros; altri le
signorie di Metelino e Lesbo, di Focea, di Enos, le contee di Zante,
di Corfù, Cefalonia, il ducato di Durazzo; poi i Vicari fondarono quel
di Gallipoli nel chersoneso Tracio. Anche a stranieri furono concessi
feudi; come a Michele Comneno il paese fra Durazzo e Lepanto, a Robano
delle Carceri Negroponte, Adrianopoli a Teodoro Brana.
Tutti que’ signori prestavano giuramento, tributo e sussidio in guerra:
ne’ loro paesi era privilegiato ai Veneziani il far traffico; e i
Veneziani che vi dimorassero, restavano indipendenti e con governo
proprio: a Costantinopoli sedeva un balio. Per tal modo Venezia
assicuravasi una dominazione scarca di cure, facile a conservare
mediante le flotte. Fu anche messo al partito se tornasse meglio
trasferire a Costantinopoli la sede della repubblica; e due soli voti
fecero prevalere il no[246].
Il marchese Bonifazio vedendo non poter conservare Candia, la vendette
ai Veneziani coi crediti verso Alessio per mille marchi d’argento,
e per tanto territorio nella Macedonia occidentale che rendesse
mille fiorini di oro[247]. Candia era più importante al traffico che
non Costantinopoli, e dovette esser regolata con maggiori cure. Gli
abitanti erano gente incostante e perfida; il che forse non esprimeva
se non repugnante al dominio forestiero. Essendo troppo vasta per
concedersi a un solo, vi fu introdotta una colonia, come più opportuna
a tenere in soggezione i vinti. Difficilmente però si trovava chi
volesse rinunziare alla patria, per quanto gli si offrissero ricchezze,
dignità, potere; onde da’ sei sestieri della città si scelsero
cinquecentoquaranta famiglie, a cui capo fu posto un duca biennale
che rappresentava il doge, eletto dal maggior consiglio di Venezia,
assistito da due consiglieri superiori, e sotto di lui i magistrati
come a Venezia: e colle opere obbligate dei servi si edificò e munì la
città di Canea.
La giurisdizione d’essa città e del distretto spettava al capitano e
consigliere della repubblica eletto a Venezia: del Comune veneto erano
gli Ebrei, il porto, l’arsenale, le porte. Il paese fu distribuito in
trentadue feudi di cavalieri e centotto di sergenti: ogni cavaliere
era obbligato aver buona armadura, e condurvi da Venezia e tenere
due cavalli, uno del valore almeno di lire ottanta venete, ed uno di
cinquanta, e dell’età di tre anni; poi fra un mese e mezzo comprarne
un altro di lire venticinque; inoltre avere un sergente con bel
cavallo armato a ferro, e tre scudieri pure con corazza e ogni arma
di cavalleria; e due balestre di corno, con due scudieri almeno che
sappiano trarle, latini, fra i venti e i quarant’anni. I sergenti
che hanno mezza cavalleria, conducano da Venezia un cavallo di lire
cinquanta almeno, e due scudieri; poi fra un mese e mezzo procaccino un
altro cavallo di lire venticinque, e siano ben in arme. Le cavallerie
non potranno impegnarsi o staggirsi per debito, e lo stipendio di
settecento lire deve convertirsi anzitutto nell’acquisto d’essa terra.
Del resto ajutino in ogni modo i rettori dell’isola, e in essa il
Comune di Venezia[248]. Ai nobili del paese si ebbero riguardi, e
si diede partecipazione al governo; e il gran consiglio, composto
d’indigeni, eleggeva i magistrati minori. I Musulmani furono sofferti,
ma in istato di servitù.
Così trentamila vigorosi, avidi di bottino e di preda, erano prevalsi
facilmente a milioni di Greci, fradici nel lusso, nelle abitudini
depravate, nella vanità delle frivole cose. Ma la conquista, fatta
senza senno, essiccava le fonti della prosperità, sin a difettare del
vivere; il sistema feudale toglieva l’accordo in guerra ed il buon
ordine in pace; alcune città governavansi metà con leggi feudali,
metà colle venete e colle ecclesiastiche; poi la mollezza di quel
clima non tardò a sdulcinare i soldati, e lo spregio reciproco
impedì si fondessero vincitori e vinti. Baldovino dopo due anni
periva prigioniero dei Bulgari: anche Enrico Dandolo era morto a
Costantinopoli dopo vista la rapida decadenza dell’impero latino.
Venezia ne trasse più danno che vantaggio, poichè troppa gente si
sviò dalla navigazione e dal commercio per buttarsi alle imprese
cavalleresche e a conquiste che non doveano durare; e quel che peggio,
coll’abbattere Costantinopoli rompeva la sua barriera più salda contro
i Musulmani, che doveano divenirle formidabili vicini.
CAPITOLO LXXXVIII.
Ottone IV. Sviluppo delle Repubbliche, e secondo loro stadio. Nobili e
plebei in lotta. Guelfi e Ghibellini.
In quell’innesto della teocrazia col feudalismo l’imperatore, detto
perciò romano, non si teneva per tale sinchè non fosse coronato dal
papa, quale rappresentante di Dio _per cui solo regnano i re_; e
l’imperatore gloriavasi del titolo di avvocato e difensore della
Chiesa. Primato sovra gli altri re gli attribuiva l’opinione,
favorita dai leggisti, i quali nella dieta di Roncaglia udimmo
sentenziare, secondo i codici di Teodosio e Giustiniano, lui essere
la legge vigente; e il cancelliere del Barbarossa chiamava _reges
provinciales_ gli altri potentati. Ma nel fatto, oltre che i re
operavano indipendenti, il sistema feudale da un lato, dall’altro
l’incremento delle repubbliche attenuava di giorno in giorno
la potenza degl’imperatori. Perfino nella Germania il regnante
procacciavasi fautori col largheggiare franchigie, cioè lentare più
sempre la dipendenza dei dinasti e delle città, le quali, ora mercè
del commercio, ora mediante le leghe, venivano a quella prosperità
materiale, che più non tollera l’oppressione politica. Pure le città
non poterono colà elevarsi a repubbliche come da noi, perchè vi
dimoravano soltanto minuti trafficanti e artieri, mentre i signori
si tenevano nei castelli, soli agitando le lotte fra lo scettro e il
pastorale, fra Guelfi e Ghibellini: nelle nostre, al contrario, si
comprendevano e dotti e signori, avanzi romani e avanzi longobardi
e franchi, e i parteggiamenti giunsero fino alle plebi, le quali
appresero a discutere i diritti, a combattere per un’opinione, e così a
divenir libere.
Il re di Germania, che dominava pure sui regni di Lorena, d’Arles,
di Pomerania, veniva eletto dai grandi signori, non esclusi i primarj
baroni d’Italia. Però ciascun imperante adoprava l’ingerenza che gli
davano il suo grado e la devozione de’ proprj vassalli, onde farsi
destinare successore uno della famiglia stessa.
Al re fruttavano i molti beni della corona sparsi per tutta Germania,
i pedaggi, i fiumi, le foreste, le miniere, porzione delle multe, e
lo spoglio de’ vescovi ed abati defunti: le città doveangli alcune
contribuzioni, e così gli Ebrei per ottenere protezione siccome servi
della Camera imperiale, e i Lombardi o Caorsini che andavano in giro
vendendo spezie e guadagnando d’usure, o, come diciam ora, facendo
commercio di banca. Essendo elettiva la corona, non si aggregavano
ad essa i possedimenti patrimoniali de’ nuovi re eletti: anzi questi,
potendo disporre dei feudi ad essa ricadenti per mancanza d’eredi o di
fellonia, ne arricchivano le famiglie proprie, col qual modo salirono
tanto alto in prima la Casa sveva, poi le povere dei conti di Luxenburg
e d’Habsburg.
All’imperatore spettava il far guerra: ma dovendo i soldati essergli
somministrati dai feudatarj, occorrevagli il consenso di questi. Ora
le lunghe e malarrivate spedizioni di Federico I in Italia aveano
svogliato i signori dallo sciupare forze e denaro per interessi
cui erano estranj; sicchè da quell’ora fino a Sigismondo più non fu
decretata veruna spedizione generale, per quante minaccie o promesse
replicassero gl’imperatori, per quanto paressero richieste dal bene
della patria o della cristianità. Agli imperatori dunque nelle loro
guerre non rimanevano se non gli uomini dovuti dai loro vassalli
particolari, ovvero da paesi a loro direttamente soggetti, come era la
Sicilia per gli Svevi, o da principi e città con cui avessero alleanza.
La Germania era povera; sebbene Lubecca, Anversa, Colonia, Ratisbona,
Vienna, qualche altra città sul Reno o sul Danubio fiorissero di
traffici e industria, e la Fiandra fabbricasse pannilani, il mancare
di strade e di prodotti da cambiare ne impediva la prosperità; molto
denaro n’era anche portato via dalle crociate. Pure allora il commercio
s’andava estendendo; eransi scoperte le miniere d’argento della
Sassonia; col che e colle libertà comunali la Germania avrebbe potuto
vantaggiarsi del primato fra le nazioni europee, e del predominio
che acquistava sopra le genti slave, a domare e incivilir le quali
fortunata lei e noi se avesse dirizzato il suo ardore. Sciaguratamente
gl’imperatori non si contentarono della cristiana supremazia
sull’Italia, e vollero direttamente mestarne gli affari; dove urtatisi
colle repubbliche e coi papi, ebbero conflitti, a’ quali già vedemmo
soccombere una dinastia, e presto vedremo un’altra.
Morto Enrico VI (1197), i signori di Germania credettero a tempi così
momentosi non convenirsi un imperatore fanciullo, com’era Federico
Ruggero. Vero è che suo padre gli aveva indotti a prestargli omaggio,
ma essi non vi si tenevano obbligati perchè non era ancor battezzato.
Filippo di Svevia, figlio del Barbarossa e duca di Toscana, come
il più prossimo parente dell’imperatore, erasi preso lo scettro, la
spada, la corona, il globo d’oro riempito di polvere, la sacra lancia
e il diamante detto smisurato (_der Weile_): fuggendo di qui fra gli
strapazzi degli Italiani, che uccisero anche molti del suo seguito,
andò in Germania, e brigò tanto, che gli stati di Svevia, Baviera,
Sassonia, Franconia e Boemia lo elessero re (1198 — marzo). Ma i Guelfi
gli opponevano Ottone di Brunswick, figlio di quell’Enrico il Leone
duca di Sassonia e Baviera, che lottato col Barbarossa, n’era stato
spossessato, e nipote di Ricardo Cuor di Leone re d’Inghilterra.
Ottone, ardito come questo, gigante della persona, prodigo, soldatesco,
risoluto a reprimere le prepotenze, onde i grandi l’intitolarono
_Superbo_, e i popoli _Padre della giustizia_, impadronitosi
d’Aquisgrana, vi si fece ungere dall’arcivescovo di Colonia; e genti
e signori svaginarono le spade per sostenere ciascuno il proprio
eletto. Onde risparmiare il sangue civile, fu rimessa la decisione al
papa, e questi, esaminatala sotto il triplice aspetto del diritto,
della convenienza e dell’utilità, escluse Federico perchè non se ne
conosceano l’intelletto e il cuore, e la Scrittura dice: _Guaj alla
terra, cui re è un fanciullo_; riprovò Filippo come usurpatore delle
giustizie della Chiesa in Toscana[249], e perchè teneva ancora prigioni
il vescovo di Salerno e la famiglia reale di Tancredi; lodò Ottone, ma
parvegli eletto da troppo scarsi voti. Professavasi dunque imparziale
allora snidare i Normanni d’Italia (1155), e in fatto i suoi presero
Bari e Brindisi: ma ben presto seguì la pace.
Alessio II suo figliuolo gli succedette (1180), reggente la madre Maria
d’Antiochia; ma questa affidavasi tutta al protosebaste Alessio nipote
di Manuele, scandolezzando e scontentando la Corte, sicchè fu tramato
a favore di Andronico Comneno. Costui, tenuto prigione dodici anni,
fuggì, e dopo romanzesche avventure perdonato, osteggiò di continuo il
protosebaste; e dal patriarca eccitato a liberare la patria, si mosse
raccogliendo gli scontenti. Appena compare a Calcedonia, il popolo lo
acclama reggente (1183); ed egli fa accecare Alessio, trucidare senza
distinzione quanti Latini coglie in Costantinopoli, avvelenare Maria
sorella dell’imperatore e il marito di lei marchese di Monferrato,
strangolare l’imperatrice madre; e così cacciatosi addosso la porpora,
la conservò, e viepeggio quando Guglielmo II di Sicilia, aspirando
alla conquista dell’Impero, prese Durazzo e Tessalonica, e marciò sopra
Costantinopoli.
Vittima designata dal tiranno era Isacco Langelo, cittadino di molto
seguito: ma questi uccide il carnefice, rifugge in Santa Sofia, e dal
popolo tumultuante è, mal suo grado, proclamato imperatore (1185).
Andronico, abbandonato al furore del popolo, fu per più giorni tratto
a strapazzo, in fine appiccato per li piedi in teatro, rinnovando
le scene che erano famigliari alla Roma del Basso Impero. Con questo
vecchio di settantacinque anni terminò la stirpe dei Comneni.
Femminesco di vita e inetto di mente, Isacco abbandonava le cure a
ministri indegni; ebbe contese con Federico Barbarossa, a cui danno
(1195) sollecitò le repubbliche lombarde: poi da Alessio fratel suo
fu deposto, accecato e messo in carcere col figlio. Questi, Alessio
anch’egli di nome, riuscì a fuggire presso Filippo di Svevia suo
cognato, appunto allorchè più in Europa caldeggiavasi la crociata;
e poichè de’ cavalieri armati in questa era divisa il difendere
l’innocenza, raddrizzare i torti, sostenere gli oppressi, andò invocare
il loro braccio, proponendo assalissero Costantinopoli, e rimettessero
in trono lui, che gli avrebbe poi d’ogni sua possa ajutati alla santa
impresa. Invano altri insinuava che non per ciò aveano impugnato
le armi, che i Greci non moveano lamento contro l’usurpatore, che
gl’imperatori s’erano pôrti scarsamente favorevoli ai Crociati: gli
scaltri trovavano miglior conto nel guerreggiare Costantinopoli,
più vicina e più ricca; a molti sapea di meritorio l’assalire gente
scismatica; presa Costantinopoli, diverrebbe la base della spedizione
contro Gerusalemme. Si narrò che Malek Adel facesse vendere i beni del
clero cristiano in Egitto, e col ricavo comprasse fautori in Venezia,
promettendo alla repubblica ogni agevolezza di traffici in Alessandria
se stornasse la spedizione dalla Siria: del resto, occorrevano
altri stimoli ai Veneziani per volere vendicarsi degli imperatori, e
schiantare i banchi fondati in Grecia dai Pisani?
L’imperatore bisantino, non meno fiacco del predecessore, angariava
e anneghittiva; vendeva la giustizia per rifarsi dello speso
nell’usurpazione; e mentre Bulgari e Turchi straziavano i confini,
dentro lasciavasi governare dalla moglie Eufrosina. Quando Enrico VI
professava voler rinnovare l’antico impero romano, e frattanto gli
ridomandava le provincie fra Durazzo e Tessalonica, o per equivalente
cinquanta quintali annui d’oro, Alessio non allestì resistenza, ma
mercanteggiò facendolo accontentare di sedici, per adunare i quali
spogliò le chiese e fin le tombe degl’imperatori: ma la tempestiva
morte di Enrico lo assolse dal _tributo tedesco_. All’addensarsi
della nuova procella, ricorse al papa acciocchè non permettesse di
così snaturare la santa impresa: nulla però prometteva a vantaggio
della crociata, nè di quel che tanto ai papi stava a cuore, la
riconciliazione della Chiesa greca colla latina. Pure Innocenzo III,
che metteva la giustizia innanzi a tutto, interdisse l’impresa ai
crociati; i quali litigando pel sì e pel no, si logoravano a vicenda.
Ma il sì prevalse, ed Alessio figlio d’Isacco Langelo fu salutato
imperatore (1203), e colla sua presenza infervorò la spedizione.
L’armata fece testa a Corfù, donde veleggiò sopra Costantinopoli;
e trenta migliaja d’uomini accinti a conquistare un impero di molti
milioni, la vigilia di san Giovanni gettarono l’àncora sulla costa
asiatica, tre miglia dalla capitale. Quivi all’attonito loro sguardo
spiegossi l’impareggiabile bellezza della Propontide, colla vegetazione
rigogliosa, i frutti succulenti, le dolci uve, ridondante pescagione,
limpidi ruscelli, freschi bagni, canti di rosignuoli, e tutta la
pompa che nella vigorosa sua maestà spiegava l’estate. Sopra le onde
increspate da leni zefiri, l’occhio scorreva verso le rive ammantate di
fiori, e sui giardini e le campagne ridenti di laureti e olezzanti di
perpetui rosaj, e sulle ville e le case cittadine, che all’ombra de’
platani e dei cipressi dalle falde lambite dal mare ascendono fino in
vetta alle colline che contornano l’orizzonte.
Fra tante bellezze, come la luna fra le stelle, pompeggiava
Costantinopoli, serpeggiante per immenso spazio sulle sette colline,
cinta d’elevate mura, con trecentottantasei torri, e chiese e conventi
senza numero, raddoppiati dal riflesso delle onde, che parevano
baciarle il piede come servi, o fremere come difensori minacciosi. Ai
Crociati, non che parole a descrivere, appena bastavano i sensi per
ammirare quel porto immenso di due mari: diamante che scintilla tra
il zaffiro delle onde e lo smeraldo delle campagne; il soggiorno più
bello dell’uomo per comodi e sicurezza, emulo di Roma per dignità, di
Gerusalemme per reliquie e santuarj, di Babilonia per vastità.
L’imperatore aveva lasciato per avarizia ridurre allo stremo l’esercito
e la flotta; e mal si difendea col braccio de’ Varanghi, mercenarj
settentrionali, coll’assistenza de’ Pisani, e col fuoco greco,
liquido combustibile che parve inventato per prolungare l’agonia di
quell’impero, e che con esso perì. I nostri, spezzate le catene del
porto, prendono Galata (17 luglio), e danno l’assalto: Enrico Dandolo,
sulle spalle de’ suoi si fa mettere a terra col vessillo di san Marco,
che ben presto sventola sopra una torre, e Costantinopoli è presa.
Alessio fuggì per nave, abbandonando ogni cosa, bestemmiato da quelli
che jeri l’incensavano: suo fratello Isacco dalla prigione è portato al
trono, compianto dei mali suoi or che sono cessati. A lui si presentano
i messi dei Crociati imponendogli, — Ratificate la promessa fatta da
vostro figlio di darci ducentomila marchi, vitto per un anno, ed ogni
ajuto per la guerra santa»; ed egli deve accettare, solo pregandoli di
tenersi accampati a Gàlata, cioè sul lido opposto.
Quel subito mutamento, quel vedersi risparmiate le battaglie temute,
portavano al colmo il tripudio dei nostri, che forniti d’ogni
abbondanza, ammiravano tante magnificenze, e più di tutto le reliquie,
di cui era una devota profusione. Il nuovo imperatore, coronato fra il
corteggio dei baroni, pompa inusata agli augusti orientali, pagò parte
della promessa somma; e se le cose fossero procedute da buon a buono,
forse era il momento di svecchiare l’Impero, rimettendolo nell’alleanza
cattolica, a parte della comune impresa, e d’accordo respingere il
nemico di tutta la cristianità.
Cavallerescamente i baroni mandarono araldi ad annunziare il
loro arrivo al sultano del Cairo e di Damasco, in nome di Cristo,
dell’imperatore di Costantinopoli, de’ principi e signori d’Occidente;
informarono anche il papa e i principi cristiani del prospero successo,
invitandoli a parteciparvi; ma il papa rispose rimproveri, e negò
benedirli; solo accettò le scuse di Alessio Langelo, esortandolo a
mantenere le promesse.
E le promesse erano di dar denari, e ricongiungere la Chiesa greca
colla latina. Per la prima Alessio si gettò in rovina, spogliando
fin le chiese; per l’altra obbligò i suoi ad abjurare lo scisma,
ed i Crociati non risparmiarono la forza contro i renitenti. Così
egli venne a procacciarsi l’odio dei sudditi, portato al colmo da un
incendio che per otto giorni guastò Costantinopoli, e che s’imputò a
questi stranieri. Alessio dunque supplicava i Crociati: — Non partite,
altrimenti io soccomberò alle rivolte, e l’eresia risorgerà; aspettate
la primavera; intanto io vi fornirò d’ogni bisogno».
Ma convivendo coi nostri, scapitava nella loro riverenza; e talvolta
qualche nicoletto veneto, toltogli il gemmato diadema, gli sostituiva
il suo berretto. Ne fremevano i Greci, ne ingelosiva il cieco Isacco: e
Alessio, sentendo non poter fare gran conto sopra i Latini, nè i monaci
e astrologi di cui si cingeva sapendo dargli buoni consigli, alle
ribellioni non conosceva rimedj migliori che trasportare dall’ippodromo
al suo palazzo il cignale caledonio, simbolo del popolo furioso, come
il popolo abbatteva una statua di Minerva, accagionata delle presenti
sventure.
Ecco intanto da Palestina messi in gramaglia (1204), narrando
come i Crociati di Fiandra e di Champagne, che con molti Inglesi e
Bretoni, spiccatisi dall’esercito a Zara, erano sbarcati in Siria ed
unitisi al principe di Armenia, fossero stati dai Musulmani sorpresi
e sbarattati; fame e peste desolassero il paese, e a Tolemaide si
sepellissero duemila cadaveri in un giorno. I Crociati allora, risoluti
d’avacciare l’impresa, sollecitavano i sussidj promessi: ma i due
imperatori, che non osavano mostrarsi all’aperta per non ammutinare
il popolo, mascherano la paura col rispondere insolentemente;
gli animi si esacerbano; i Latini s’accingono a prendere un’altra
volta Costantinopoli. I Greci attentano alla flotta veneziana, e
diciassette battelli incendiarj lanciano nottetempo contro di essa, e
già dalle mura applaudiscono al fuoco che s’avanza contro i Latini:
ma questi riescono a sviarlo, e infelloniti alla vendetta, più non
badano a proteste del loro creato. Murzuflo, scaltro sommovitore,
che fingendosi amico a tutti, tutti ingannava, sparge che i Langeli
vogliano consegnare Costantinopoli ai Latini; onde il popolo, che
suol essere più feroce quando ha maggior paura, a gran voci chiede un
nuovo imperatore; Alessio IV è strangolato, Isacco muor di spavento e
crepacuore, e Murzuflo è portato trionfalmente in Santa Sofia.
Il doge e i baroni latini, che poc’anzi si svelenivano contro i
due imperatori, or giurano vendicare que’ loro creati, e assaltano
Murzuflo. Costui non mancava del valore che dee avere un capopopolo,
e colla spada e la mazza ferrata scorreva, rattizzando col proprio il
coraggio de’ Greci; tentò di nuovo incendiare e sorprendere i Latini;
ma quando cadde in man di questi lo stendardo di Maria Vergine, i
Greci si credettero abbandonati dalla loro tutrice, e si chiusero nella
capitale. Quivi giorno e notte centomila uomini lavoravano ad allestire
difese, e i Crociati sentivano la difficoltà di espugnare una piazza
sì mirabilmente situata. Pure raccolti a parlamento, deliberarono:
— Non cesseremo finchè non sia deposto Murzuflo; gli sostituiremo un
imperatore latino, che possieda un quarto delle conquiste; il resto
sarà diviso fra Veneziani e Franchi, e determinati i diritti feudali
degli imperatori, dei sudditi, de’ grandi e de’ piccoli vassalli».
Mossi poi all’assalto dalla banda di mare, superano le bastite,
Murzuflo fugge, e Costantinopoli è presa un’altra volta. Chi sarìa
bastato a tenere a freno quella moltitudine, lieta d’aver conseguito
una preda sì lungamente appetita? Non onestà, non santità di chiese
o di tombe fu rispettata: una meretrice assidevasi sulla cattedra di
Santa Sofia; muli straccarichi di spoglie, feriti insanguinavano gli
altari; v’era intanto chi vestiva gli strascicanti abiti de’ Greci,
e bardava i cavalli coi berretti di tela e coi cordoni di seta degli
Orientali; e scorrevano le vie, in luogo di spade brandendo calamaj e
carta per beffare la imbelle dottrina de’ Greci, ed esclamavano: — Da
che mondo è mondo, mai non fu visto più pingue bottino».
Le spoglie, che doveano mettersi in comune (e furono appiccati molti
che ne distrassero), sommarono a cinquecentomila marchi d’argento (24
milioni), dopo due incendj, dopo il molto trafugare, dopo messo in
disparte un quarto pel futuro imperatore, e compensati i Veneziani
del noleggio; ond’è poco il valutarle cinquanta milioni: e se si
fosse ceduta la preda ai Veneziani, com’essi proponeano, ne avrebbero
ricavato di più e con minori sevizie. Il bottino fu distribuito in tal
proporzione, che un cavaliere toccasse quanto due uomini a cavallo, uno
a cavallo quanto due fanti. I monumenti, onde Costantino e i successori
avevano arricchita la città, andarono guasti o predati[244]; non men
che l’oro e i tappeti, avidamente erano rubate le reliquie, con frodi
e violenze e fin sangue; e il mondo se n’empì. Dopo di che i Crociati
celebrarono divotamente la Pasqua.
A sei elettori veneziani e altrettanti ecclesiastici francesi fu
affidata la scelta d’un imperatore. Candidati Enrico Dandolo, il
marchese di Monferrato e Baldovino di Fiandra: il Dandolo alla signoria
d’una città vinta preferì rimaner capo della gloriosa conquistatrice,
come nessun antico Romano avrebbe voluto cessare d’esser cittadino per
divenir re di Cartagine. D’altra parte i Veneziani s’adombrerebbero del
vedere il loro doge a capo del grande Impero: chi gli assicurava che la
cosa non passerebbe in esempio? e non potrebbe la loro patria diventare
colonia all’Impero? Perciò il Dandolo ricusò la corona; e la gelosia
de’ Veneziani per l’ingrandimento del signore del Monferrato li fece
favorire Baldovino, che fu acclamato. Feste all’occidentale e cantici
latini nelle chiese celebrarono il nuovo imperatore, cui il legato
pontifizio indossò la porpora, e, secondo il costume, gli fu offerto un
vaso pieno d’ossa e polvere, e dato fuoco ad un fiocco di bambage, per
rammentare come passa la gloria del mondo.
Questo colpo, che già avea dato per lo desiderio ai primi Crociati,
era un trionfo del papato, sebbene fatto contro sua voglia. Baldovino
assunse il titolo di cavaliere della santa Sede; ad Innocenzo III
annunziava essere stata sottomessa una nuova gente al pontefice,
e l’invitava venisse a godere di quella vittoria; il marchese di
Monferrato protestavasi disposto a tornare o morir colà, secondo i
cenni del papa; il doge implorò d’essere assolto di quella conquista,
a scusa adducendo l’essere Costantinopoli scala necessaria per
Gerusalemme. Innocenzo, amante d’una politica netta ed evidente,
volea la guerra contro l’islam, non già che a redimere l’Oriente si
cominciasse coll’impadronirsene; onde, non valutando il vantaggio
della santa Sede, li rimproverava d’aver preferito le utilità terrene
alle celesti; della licenza militare e delle violate cose sacre
chiedessero a Dio perdonanza, e la meritassero collo adempiere al voto
di liberar Terrasanta: nella quale fiducia ribenedisse gl’interdetti,
congratulatosi coi vescovi del castigo toccato all’ostinazione dei
Greci, e invitava altri a partecipare alle glorie ed alle nuove
fatiche.
Secondo il convenuto, Baldovino ebbe un quarto dell’impero greco,
Venezia tre degli otto quartieri della città, e un quarto e
mezzo dell’impero, cioè la più parte del Peloponneso, le isole
dell’Arcipelago, Egina, Corcira, la costa orientale dell’Adriatico,
quella della Propontide e del Ponto Eusino, le rive dell’Ebro e del
Varda, le terre marittime della Tessaglia, e le città di Cipsede,
Didimotica, Adrianopoli, insomma sette in ottomila leghe quadrate di
dominio con sette in otto milioni di sudditi e una catena di banchi
lungo la marina da Ragusi fino al mar Nero. I Franchi sortirono la
Bitinia, la Tracia, la Tessalonica, la Grecia dalle Termopile al
Sunnio, e le maggiori isole dell’Arcipelago: i paesi di là dal Bosforo
e Candia furono attribuiti al marchese di Monferrato, il quale poi
fu coronato re di Tessaglia, e assediata Napoli di Malvasìa e Corinto
tenute ancora dall’usurpatore Alessio, prese questo colla famiglia e
il mandò per Genova nel Monferrato, ma poi combattendo gl’infedeli
perdè la vita. Anche le chiese di Costantinopoli furono ripartite
fra Veneziani e Francesi, ed assunto a patriarca Tommaso Morosini.
Splendidissima vittoria, ma poco sicura.
Concitate le fantasie da questi rapidi acquisti, già i baroni
figuravansi regni e ducati sulle rive dell’Oronte e dell Eufrate,
mentre altri convertivano il bottino in comperare feudi nell’impero
conquistato e non ancora ben soggetto. Tornarono da Palestina quei che
vi si erano affrettati; accorsero nuovi Crociati dall’Occidente[245];
accorsero Templari e Spedalieri, dove erano imprese facili e lucrose:
talchè in ogni parte formavansi Stati nuovi, pel diritto della spada.
Come i Longobardi s’erano dato un codice per soli essi vincitori, così
i Latini promulgarono le Assise di Gerusalemme nel nuovo impero, che
come quelli si erano diviso, e che governarono a foggia dei feudi di
Europa. Venezia, per nulla smaniosa di conquiste cui dovea piuttosto
difendere che usufruttare, le abbandonò la più parte a’ suoi nobili,
concedendo che ciascuno potesse armare e sottomettere le isole
greche e le città delle coste, riconoscendole come semplice feudo
perpetuo della repubblica. E i Sanuto fondarono il ducato di Nasso,
che abbracciava anche le isole di Paro, Melo, Santorino; i Navagero
ebbero il granducato di Lemno; i Michiel il principato di Ceo; quello
d’Andros i Dandolo; i Ghisi quel di Teone, Micone e Soiros; altri le
signorie di Metelino e Lesbo, di Focea, di Enos, le contee di Zante,
di Corfù, Cefalonia, il ducato di Durazzo; poi i Vicari fondarono quel
di Gallipoli nel chersoneso Tracio. Anche a stranieri furono concessi
feudi; come a Michele Comneno il paese fra Durazzo e Lepanto, a Robano
delle Carceri Negroponte, Adrianopoli a Teodoro Brana.
Tutti que’ signori prestavano giuramento, tributo e sussidio in guerra:
ne’ loro paesi era privilegiato ai Veneziani il far traffico; e i
Veneziani che vi dimorassero, restavano indipendenti e con governo
proprio: a Costantinopoli sedeva un balio. Per tal modo Venezia
assicuravasi una dominazione scarca di cure, facile a conservare
mediante le flotte. Fu anche messo al partito se tornasse meglio
trasferire a Costantinopoli la sede della repubblica; e due soli voti
fecero prevalere il no[246].
Il marchese Bonifazio vedendo non poter conservare Candia, la vendette
ai Veneziani coi crediti verso Alessio per mille marchi d’argento,
e per tanto territorio nella Macedonia occidentale che rendesse
mille fiorini di oro[247]. Candia era più importante al traffico che
non Costantinopoli, e dovette esser regolata con maggiori cure. Gli
abitanti erano gente incostante e perfida; il che forse non esprimeva
se non repugnante al dominio forestiero. Essendo troppo vasta per
concedersi a un solo, vi fu introdotta una colonia, come più opportuna
a tenere in soggezione i vinti. Difficilmente però si trovava chi
volesse rinunziare alla patria, per quanto gli si offrissero ricchezze,
dignità, potere; onde da’ sei sestieri della città si scelsero
cinquecentoquaranta famiglie, a cui capo fu posto un duca biennale
che rappresentava il doge, eletto dal maggior consiglio di Venezia,
assistito da due consiglieri superiori, e sotto di lui i magistrati
come a Venezia: e colle opere obbligate dei servi si edificò e munì la
città di Canea.
La giurisdizione d’essa città e del distretto spettava al capitano e
consigliere della repubblica eletto a Venezia: del Comune veneto erano
gli Ebrei, il porto, l’arsenale, le porte. Il paese fu distribuito in
trentadue feudi di cavalieri e centotto di sergenti: ogni cavaliere
era obbligato aver buona armadura, e condurvi da Venezia e tenere
due cavalli, uno del valore almeno di lire ottanta venete, ed uno di
cinquanta, e dell’età di tre anni; poi fra un mese e mezzo comprarne
un altro di lire venticinque; inoltre avere un sergente con bel
cavallo armato a ferro, e tre scudieri pure con corazza e ogni arma
di cavalleria; e due balestre di corno, con due scudieri almeno che
sappiano trarle, latini, fra i venti e i quarant’anni. I sergenti
che hanno mezza cavalleria, conducano da Venezia un cavallo di lire
cinquanta almeno, e due scudieri; poi fra un mese e mezzo procaccino un
altro cavallo di lire venticinque, e siano ben in arme. Le cavallerie
non potranno impegnarsi o staggirsi per debito, e lo stipendio di
settecento lire deve convertirsi anzitutto nell’acquisto d’essa terra.
Del resto ajutino in ogni modo i rettori dell’isola, e in essa il
Comune di Venezia[248]. Ai nobili del paese si ebbero riguardi, e
si diede partecipazione al governo; e il gran consiglio, composto
d’indigeni, eleggeva i magistrati minori. I Musulmani furono sofferti,
ma in istato di servitù.
Così trentamila vigorosi, avidi di bottino e di preda, erano prevalsi
facilmente a milioni di Greci, fradici nel lusso, nelle abitudini
depravate, nella vanità delle frivole cose. Ma la conquista, fatta
senza senno, essiccava le fonti della prosperità, sin a difettare del
vivere; il sistema feudale toglieva l’accordo in guerra ed il buon
ordine in pace; alcune città governavansi metà con leggi feudali,
metà colle venete e colle ecclesiastiche; poi la mollezza di quel
clima non tardò a sdulcinare i soldati, e lo spregio reciproco
impedì si fondessero vincitori e vinti. Baldovino dopo due anni
periva prigioniero dei Bulgari: anche Enrico Dandolo era morto a
Costantinopoli dopo vista la rapida decadenza dell’impero latino.
Venezia ne trasse più danno che vantaggio, poichè troppa gente si
sviò dalla navigazione e dal commercio per buttarsi alle imprese
cavalleresche e a conquiste che non doveano durare; e quel che peggio,
coll’abbattere Costantinopoli rompeva la sua barriera più salda contro
i Musulmani, che doveano divenirle formidabili vicini.
CAPITOLO LXXXVIII.
Ottone IV. Sviluppo delle Repubbliche, e secondo loro stadio. Nobili e
plebei in lotta. Guelfi e Ghibellini.
In quell’innesto della teocrazia col feudalismo l’imperatore, detto
perciò romano, non si teneva per tale sinchè non fosse coronato dal
papa, quale rappresentante di Dio _per cui solo regnano i re_; e
l’imperatore gloriavasi del titolo di avvocato e difensore della
Chiesa. Primato sovra gli altri re gli attribuiva l’opinione,
favorita dai leggisti, i quali nella dieta di Roncaglia udimmo
sentenziare, secondo i codici di Teodosio e Giustiniano, lui essere
la legge vigente; e il cancelliere del Barbarossa chiamava _reges
provinciales_ gli altri potentati. Ma nel fatto, oltre che i re
operavano indipendenti, il sistema feudale da un lato, dall’altro
l’incremento delle repubbliche attenuava di giorno in giorno
la potenza degl’imperatori. Perfino nella Germania il regnante
procacciavasi fautori col largheggiare franchigie, cioè lentare più
sempre la dipendenza dei dinasti e delle città, le quali, ora mercè
del commercio, ora mediante le leghe, venivano a quella prosperità
materiale, che più non tollera l’oppressione politica. Pure le città
non poterono colà elevarsi a repubbliche come da noi, perchè vi
dimoravano soltanto minuti trafficanti e artieri, mentre i signori
si tenevano nei castelli, soli agitando le lotte fra lo scettro e il
pastorale, fra Guelfi e Ghibellini: nelle nostre, al contrario, si
comprendevano e dotti e signori, avanzi romani e avanzi longobardi
e franchi, e i parteggiamenti giunsero fino alle plebi, le quali
appresero a discutere i diritti, a combattere per un’opinione, e così a
divenir libere.
Il re di Germania, che dominava pure sui regni di Lorena, d’Arles,
di Pomerania, veniva eletto dai grandi signori, non esclusi i primarj
baroni d’Italia. Però ciascun imperante adoprava l’ingerenza che gli
davano il suo grado e la devozione de’ proprj vassalli, onde farsi
destinare successore uno della famiglia stessa.
Al re fruttavano i molti beni della corona sparsi per tutta Germania,
i pedaggi, i fiumi, le foreste, le miniere, porzione delle multe, e
lo spoglio de’ vescovi ed abati defunti: le città doveangli alcune
contribuzioni, e così gli Ebrei per ottenere protezione siccome servi
della Camera imperiale, e i Lombardi o Caorsini che andavano in giro
vendendo spezie e guadagnando d’usure, o, come diciam ora, facendo
commercio di banca. Essendo elettiva la corona, non si aggregavano
ad essa i possedimenti patrimoniali de’ nuovi re eletti: anzi questi,
potendo disporre dei feudi ad essa ricadenti per mancanza d’eredi o di
fellonia, ne arricchivano le famiglie proprie, col qual modo salirono
tanto alto in prima la Casa sveva, poi le povere dei conti di Luxenburg
e d’Habsburg.
All’imperatore spettava il far guerra: ma dovendo i soldati essergli
somministrati dai feudatarj, occorrevagli il consenso di questi. Ora
le lunghe e malarrivate spedizioni di Federico I in Italia aveano
svogliato i signori dallo sciupare forze e denaro per interessi
cui erano estranj; sicchè da quell’ora fino a Sigismondo più non fu
decretata veruna spedizione generale, per quante minaccie o promesse
replicassero gl’imperatori, per quanto paressero richieste dal bene
della patria o della cristianità. Agli imperatori dunque nelle loro
guerre non rimanevano se non gli uomini dovuti dai loro vassalli
particolari, ovvero da paesi a loro direttamente soggetti, come era la
Sicilia per gli Svevi, o da principi e città con cui avessero alleanza.
La Germania era povera; sebbene Lubecca, Anversa, Colonia, Ratisbona,
Vienna, qualche altra città sul Reno o sul Danubio fiorissero di
traffici e industria, e la Fiandra fabbricasse pannilani, il mancare
di strade e di prodotti da cambiare ne impediva la prosperità; molto
denaro n’era anche portato via dalle crociate. Pure allora il commercio
s’andava estendendo; eransi scoperte le miniere d’argento della
Sassonia; col che e colle libertà comunali la Germania avrebbe potuto
vantaggiarsi del primato fra le nazioni europee, e del predominio
che acquistava sopra le genti slave, a domare e incivilir le quali
fortunata lei e noi se avesse dirizzato il suo ardore. Sciaguratamente
gl’imperatori non si contentarono della cristiana supremazia
sull’Italia, e vollero direttamente mestarne gli affari; dove urtatisi
colle repubbliche e coi papi, ebbero conflitti, a’ quali già vedemmo
soccombere una dinastia, e presto vedremo un’altra.
Morto Enrico VI (1197), i signori di Germania credettero a tempi così
momentosi non convenirsi un imperatore fanciullo, com’era Federico
Ruggero. Vero è che suo padre gli aveva indotti a prestargli omaggio,
ma essi non vi si tenevano obbligati perchè non era ancor battezzato.
Filippo di Svevia, figlio del Barbarossa e duca di Toscana, come
il più prossimo parente dell’imperatore, erasi preso lo scettro, la
spada, la corona, il globo d’oro riempito di polvere, la sacra lancia
e il diamante detto smisurato (_der Weile_): fuggendo di qui fra gli
strapazzi degli Italiani, che uccisero anche molti del suo seguito,
andò in Germania, e brigò tanto, che gli stati di Svevia, Baviera,
Sassonia, Franconia e Boemia lo elessero re (1198 — marzo). Ma i Guelfi
gli opponevano Ottone di Brunswick, figlio di quell’Enrico il Leone
duca di Sassonia e Baviera, che lottato col Barbarossa, n’era stato
spossessato, e nipote di Ricardo Cuor di Leone re d’Inghilterra.
Ottone, ardito come questo, gigante della persona, prodigo, soldatesco,
risoluto a reprimere le prepotenze, onde i grandi l’intitolarono
_Superbo_, e i popoli _Padre della giustizia_, impadronitosi
d’Aquisgrana, vi si fece ungere dall’arcivescovo di Colonia; e genti
e signori svaginarono le spade per sostenere ciascuno il proprio
eletto. Onde risparmiare il sangue civile, fu rimessa la decisione al
papa, e questi, esaminatala sotto il triplice aspetto del diritto,
della convenienza e dell’utilità, escluse Federico perchè non se ne
conosceano l’intelletto e il cuore, e la Scrittura dice: _Guaj alla
terra, cui re è un fanciullo_; riprovò Filippo come usurpatore delle
giustizie della Chiesa in Toscana[249], e perchè teneva ancora prigioni
il vescovo di Salerno e la famiglia reale di Tancredi; lodò Ottone, ma
parvegli eletto da troppo scarsi voti. Professavasi dunque imparziale
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