Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 13

stati a Magonza, propose di rendere in sua casa ereditario l’Impero, al
quale aggregherebbe Puglia, Calabria, Capua e Sicilia, rinunzierebbe
alla pretensione regia sulle spoglie de’ vescovi e abati defunti,
riconoscerebbe ereditarj i feudi anche nelle donne. A proposte sì
lusinghiere ben cinquantadue principi aderirono: e per vero quel
suo concetto potea tornar buono onde evitare le contestazioni che
rinasceano tra le famiglie aspiranti alla corona della Germania, e
ridur questa sotto leggi uniformi. Ma poteasi mai sperare v’assentisse
il papa, il quale con ciò perdeva un preziosissimo diritto, e snaturava
una dignità, attribuibile non alla nascita ma al merito personale? Poi
a riuscirvi si voleva altro accorgimento politico, e carattere ben
più stimabile che non l’avesse Enrico, il quale, mentre inorgogliva
del tenersi come successore dei romani augusti, operava da inetto
e crudele, scambiava per grandiosi disegni le velleità della sua
ambizione; prometteva alle repubbliche privilegi, al papa di crociarsi,
ai principi di favorirli, e a tutti perfidiava sfacciatamente; poi
trovandosi impotente ai concetti, saltava in furore.
Il divisamento medesimo egli rivoltò in altra guisa, meditando cavare
dalla nullità l’impero bisantino assalendolo come aveano fatto i
predecessori, e sedutosi sul trono di Costantino, congiungere le due
Chiese, e ridurre il papa alla docilità dei patriarchi orientali. A
tal uopo, fingendo secondare la predicazione della crociata, tutto
dispose per questa in Italia e in Germania, e un esercito mandò in
Sicilia; ma in realtà non fece che raddoppiarvi le taglie, e supplizj
di nuova invenzione, fin cinquecento nobili in un sol giorno facendo
bruciare al piè del palazzo[233], quasi tenesse fitto il pensiero di
sterminare tutti i Normanni; sicchè meritò il titolo che i Siciliani
gli applicarono di Ciclopo. Indarno Costanza sua procurava mitigarlo,
compatendo a quelli fra cui era nata e cresciuta, e ch’erano sua
eredità; e di cui ella acquistò l’amore mentre governava, lui assente.
Quand’egli fe mutilare Margaritone grand’ammiraglio, ella s’affiatò
coi nemici dell’imperatore; i Palermitani uccisero molti Tedeschi,
la sommossa scoppiò in diversi punti; e fra questi bollimenti
Enrico fu côlto dalla morte a Messina (1197), di trentatre anni. In
agonia assalito dal rimorso, largheggiò cogli ecclesiastici, offrì
compensi a Ricardo cuor di Leone, alla Chiesa romana fece concessioni
amplissime[234] confessandone la fin allora rinnegata supremazia.
Gl’Italiani spiegarono soprumana allegrezza di questa morte: ne
gemettero i Tedeschi, e sparsero che sua moglie l’avesse attossicato
per vendicare sul marito la patria, resa infelice da quella sciagurata
conquista, che tanti altri mali dovea trarre sull’Italia. Costanza
cercò far cessare in Sicilia il dominio militare e quei che chiamavansi
_costumi tedeschi_, cioè la violenza e il ladroneccio[235]; allontanò
l’odiato Markwaldo, che a stento fuggì la popolare vendetta: ma
anch’essa morì ben presto (1198 — 27 8bre), lasciando solo un bambino,
Federico Ruggero. Di quattro anni, odiato dai popoli, massime dagli
Italiani che d’ogni parte insorgevano, insidiato dagli emuli e dagli
stessi fedeli di suo padre che carpivano i brani del dominio, non trovò
ricovero che sotto al manto del papa, che poi egli dovea faticarsi a
stracciare.


CAPITOLO LXXXVII.
Innocenzo III. Quarta crociata. L’impero latino in Oriente.

L’elezione de’ pontefici era stata da Nicola II ristretta nei
cardinali, vescovi e preti; poi Alessandro III, il promotore della Lega
Lombarda, ascrisse al sacro collegio i capi del clero romano (1179)
formandone i cardinali diaconi, escluse gli altri ecclesiastici, ed
ordinò che, per essere papa legittimo, convenisse ottenere i suffragi
di due terzi de’ cardinali.
Colla nuova forma fu eletto Lucio III (1181), che sedette a Vellètri,
poi a Verona[236], sfuggendo dalla plebe romana, irrequieta e riottosa
tanto, che avea preso a sassi fin il cadavere del suo predecessore, e
accecati quanti cherici colse nell’espugnato Tusculo. A Urbano III fu
precipitata la morte (1185) dalla notizia della presa di Gerusalemme;
alla cui ricuperazione (1187) s’applicò Gregorio VIII nel brevissimo
suo regno. A Clemente III succedutogli riuscì alfine di conchiuder pace
coi Romani, abbandonando alla loro vendetta Tivoli e Tusculo. Il nuovo
pontefice Celestino III (1191) non aveva potuto impedire che Enrico
VI disponesse dell’eredità della contessa Matilde, e assegnasse a’
suoi baroni molte terre della Romagna, e fino alle porte della città,
lasciando a San Pietro soltanto la Campania, dove pure l’imperatore più
era temuto che il papa[237].
Da Alessandro III in poi era dunque in calo l’autorità pontifizia,
sicchè i cardinali sentirono la necessità d’affidarla a un robusto,
qual fu Lotario (1198) dei Conti di Segni, col nome di Innocenzo III.
Erudito se alcun n’era dell’età sua, in gioventù avea dettato _Del
disprezzo del mondo, e delle miserie dell’umana condizione_, non come
uno scettico che nauseato predica la vanità delle cose terrene senza
por mente a quelle di sopra, ma elevando il cuore alle non peribili.
Versò a lungo negli affari, alla prudenza del concepire aggiungendo la
fermezza dell’effettuare e l’abilità del trovarne le guise.
Assunto pontefice nella vigorosa età di trentasette anni, del tesoro
che trovò fe mettere in disparte una porzione per le emergenze
imprevedute, il resto distribuì ai conventi di Roma; provvide
agl’istituti di beneficenza; destinò ai poveri i doni offerti a san
Pietro ed a’ suoi piedi, e la decima di tutti i suoi proventi; in una
carestia mantenne ottomila poveri al giorno, oltre le distribuzioni per
le case; molti riceveano quindici libbre di pane per settimana, alcuni
presentavansi allo sparecchio per raccogliere i rilievi della sua
mensa.
Di que’ giorni i pescatori ebbero a raccorre dal Tevere tre bambini
gettati; e Innocenzo ne fu sì tocco, che stabilì provvedere a
quest’infelici; onde rifabbricò ed estese l’ospedale di Santo Spirito
in Sassia, dotandolo lautamente, e stabilendo che in perpetuo, l’ottava
dell’Epifania, il papa in solenne processione vi recasse il santo
sudario, ed esortasse i Cristiani alla carità, dandone egli stesso
esempio col distribuir pane, vino e carne a quanti vi assistevano.
Millecinquecento malati vi dimoravano costantemente; ospitati i poveri
d’ogni condizione e paese; ed anche ora annualmente vi sono raccolti
ottocento esposti, di cui più di duemila vi stanno ordinariamente; e la
spesa se ne calcola a centomila scudi l’anno.
A tanto fiore di carità univa una fervorosa devozione nel celebrare gli
uffizj divini e nel predicare: i trattati e le omelie sue il mostrano
versatissimo nelle sacre carte; compose diversi inni, e ancora si
cantano dalla Chiesa il _Veni, sancte Spiritus_ e lo _Stabat mater_.
A tali qualità di cristiano e di pontefice accoppiava quelle
di principe; principe in ben miglior senso di cotesti altri
suoi contemporanei. Amò Atene per le antiche glorie, Parigi per
l’università, alla quale diede regole e privilegi; rifabbricò chiese, e
fecele dipingere da Marchione d’Arezzo primo scultore e architetto dei
tempi rinnovati, e da altri; crebbe e ornò San Pietro e il Laterano; e
sulla piazza di Nerva fece alzar la torre dei Conti, meraviglia di quel
tempo[238], e che gli è rinfacciata come una condiscendenza ai parenti,
della cui grandezza in fatto fu tutt’altro che negligente.
Ne’ suoi Stati non affidava la giustizia che a persone di senno e
bontà: profondo nelle leggi, ristabilì la consuetudine di presedere
tre volte la settimana a una congregazione di cardinali, ove a tutti
era dato portar quistioni. Credesi abbia istituito il processo in
iscritto, per escludere il sospetto di frode, e attestare la regolarità
degli atti; e fece abolire i giudizj di Dio[239]. A Roma allora
recavansi in supremo appello tutte le cause di rilievo; e Innocenzo,
assiduo ai concistorj ove le si dibattevano, spesso udiva le parti
egli stesso in privato, esaminava gli atti, addolciva coi modi le
sentenze ch’era obbligato portar contrarie. Ci rimangono di lui
tremila ottocencinquantacinque lettere, la più parte di sua mano, e che
dividendosi sopra quattordici anni (di quattro mancano), danno un medio
di ducensettantacinque l’anno: e tanto credito ottennero, da divenire
testo nelle università.
Tenace di memoria, esuberante d’erudizione, elevato nell’ideare,
perseverante nell’eseguire, sagace nell’antivedere gli effetti,
attingeva forza dagli ostacoli, rispondeva e operava pronto non
precipitato, circospetto non oscillante, e sempre dopo consultati
i cardinali; severo coi pertinaci, benevolo ai docili, propenso
all’indulgenza e a credere il bene; degli ordinamenti che uscirono
sotto il suo regno, nessuno fu derogato.
Colle idee di Gregorio VII egli sottentrava ai carichi che pesavano
sopra un pontefice allora, quando non dovea soltanto curare la salute
delle anime e l’interesse della cattolica verità, ma attendere al
miglior governo della società cristiana e difendendo la libertà della
Chiesa, vigilare agl’interessi dei popoli, e a mantenerli ne’ loro
doveri come ne’ loro diritti. Assicurare la purezza dell’operare e
del credere contro i simoniaci, eretici, re adulteri, impedire si
accumulassero i benefizj, dare e rinnovare privilegi a conventi,
a ordini, a chiese, e cassare i pregiudizievoli, introdur feste,
proteggere i deboli contro prelati o capitoli prepotenti, pronunziare
generali decisioni di fede, e risolvere dubbj e casi particolari,
confermare o rivedere sentenze dei legati, far rispettare gli ordini
de’ predecessori suoi, revocar quelli carpiti con frode, reprimere
gli arbitrj dei re e dei baroni, raccomandar funzionarj o poveri
preti, sancire convenzioni fra ecclesiastici, ribenedire scomunicati,
canonizzare santi, tali e assai più erano gli uffizj che un pontefice
estendeva a tutto il mondo. E Innocenzo con intima persuasione
proclamava quest’autorità, stabilita nel cristianesimo per congiungere
tutti coloro che lo professano, tutelare i diritti, determinare i
doveri di tutti, far rispettata la legittimità dal suddito e dal
principe, egualmente servi a Dio per la verità e la giustizia.
Prima raccomandazione a’ suoi legati era d’aver gli occhi e gli
orecchi ai portamenti del clero, francheggiare la ragione, svellere
gli abusi, comporre le differenze, frenare la cupidigia di guadagno.
Anche di mezzo ai laici procurava estirpare gli scandali, introdurre
usi che mettessero gravità ne’ modi; ordine nella vita, e tutelava il
matrimonio contro i voluttuosi capricci de’ principi. Qui prescrive
limiti all’usura, là disegna il vestire de’ laureati di Parigi o de’
cavalieri Teutonici; oggi ammonisce il clero milanese del come trattare
i nunzj in viaggio, domani il doge di Venezia di ritirare un ordine
troppo severo contro un privato; scrive ad alcuni principi perchè
vigilino alla sicurezza delle strade, ad altri perchè non alterino
le monete, o non aggravino i tributi, o non impongano nuovi pedaggi.
Non una legge della Chiesa è violata, ch’e’ non la ripristini; non
fatta un’ingiuria al debole, ch’e’ non ne chieda riparazione. Prende
in tutela Federico II, Ladislao d’Ungheria, Enrico di Castiglia,
l’infante d’Aragona, orfani reali: Gualtieri di Montpellier sbandito a
lui ricorre; a lui le nazioni trafficanti per risolvere i loro piati.
Pietro II d’Aragona, il re de’ Bulgari, lo stesso re d’Inghilterra non
credettero meglio assicurare la propria corona che facendola vassalla
della santa sede: i regni di Navarra, di Portogallo, di Scozia,
d’Ungheria, di Danimarca si gloriavano di mettersi sotto l’alto dominio
del papato.
Le basi del quale già eransi assodate; ogni nuovo pontefice v’avea
recato una pietra, Innocenzo s’accingeva a porvi il colmo. Alla morale
e alla dignità de’ prelati credeva, come Gregorio VII, fosse spediente
render la Chiesa al possibile indipendente dalla podestà temporale.
Cominciò dall’assicurare il dominio pontifizio in Roma, i cui eterni
contrasti obbligavano a tener ristretto fra i sette colli lo sguardo
che dovea girarsi su tutto il mondo. La nobiltà vi era cresciuta di
baldanza fra le contrarie pretensioni dell’imperatore e del pontefice,
parteggiando coll’uno o coll’altro secondo l’interesse.
La parte cesarea era rappresentata dal prefetto di Roma, investito
dall’imperatore colla spada: poi dai tempi d’Arnaldo sussisteva un
senato, la cui autorità era dal popolo stata ridotta in un solo,
straniero, capo supremo della giustizia, del governo civile e della
forza armata, centro insomma del governo, siccome altrove il podestà.
Quando Clemente III ritornò in Roma, patteggiò col popolo confermando
la dignità del senato, la città, la zecca; di questa però riservavasi
un terzo, mediante il quale la chiesa di san Pietro e le chiese e
vescovadi tassatisi per la guerra venissero anno per anno esonerati fin
all’estinzione dell’obbligo assunto. Restituiva le regalie in città e
fuori; egli difenderebbe i capitani e gli altri magistrati della città:
i senatori giurerebbero annualmente fedeltà al papa; resterebbero alla
romana Chiesa i possessi di Tusculo, in qualunque modo esso possa
soggiogarsi, dando ogn’anno cento libbre dal ricavo di essi, onde
restaurare le mura di Roma. Di rimpatto i senatori assicuravano pace
e sicurezza al papa, ai vescovi, ai cardinali, a tutta la curia, e chi
v’andava e dimorava. Il papa eleggerà dieci o più persone per ciascuna
delle regioni della città, dalle quali i senatori faran giurare questa
pace. Se occorra difendere il patrimonio di san Pietro, i Romani vi
andranno colle spese consuete[240].
Tale era trovato il governo di Roma da Innocenzo. Il quale, conoscendo
come alle repubbliche pregiudicassero queste ingerenze imperiali,
risolse torle di mezzo; fe snidare i Tedeschi dai contorni di Roma,
recuperando i castelli da loro presidiati; obbligò il prefetto a non
prestar più all’imperatore l’omaggio ligio, ma ricevere da esso papa il
manto, con giuramento di rinunziarvi ogniqualvolta ne fosse richiesto;
il senatore ridusse ad esercitare la podestà, non più in nome del
popolo, ma del papa.
Spenta così l’autorità regia in Roma, invitò gli abitanti della marca
d’Ancona a cacciare il tedesco Markwaldo, «giacchè nessuna violenza
può abolire i diritti»; onde Ancona, Fermo, Osimo, Camerino, Fano,
Jesi, Sinigaglia, Pesaro vennero all’obbedienza papale: altrettanto,
espulso Corrado Moscaincervello, avvenne del contado di Spoleto, che
abbracciava Rieti, Assisi, Foligno, Nocera; seguirono Perugia, Gubbio,
Todi, Città di Castello, cosicchè i nostri esultarono di vedersi
sbrattati da Tedeschi; e lo Stato della Chiesa non fu più soltanto un
nome, ma diveniva una realtà.
Innocenzo bramava aggiungervi l’esarcato di Ravenna e i beni della
contessa Matilde; ma poichè saldo li difendeva Filippo di Svevia, esso
si diede a fomentare gli spiriti liberali de’ Toscani, spiacenti di
durare in tirannia mentre i Lombardi s’erano assicurata la libertà.
Inanimiti da esso a confederarsi al modo de’ Lombardi per tutelar
le franchigie (1199), Firenze, Lucca, Volterra, Prato, Samminiato ed
altre giurarono pace e lega, invitandovi tutti gli Stati e i liberi
o nobili che vi volessero aderire, affine di vigilare all’osservanza
della legge, combattere chiunque facesse guerra ad alcun collegato,
rimetter pace se tra questi nascesse dissidio, obbligandosi a stare
alla decisione di arbitri. I rettori s’adunerebbero sotto un priore
per provvedere al meglio della Lega, la quale prometteva obbedirli: si
punirebbero severamente i trasgressori. I consoli o podestà farebbero
giurar essa Lega da tutti i loro cittadini; così i vescovi e conti da
tutti i loro militi e pedoni, e dai loro figli. Non si riconoscerebbe
imperatore, o legato o nunzio d’imperatore o principe, duca o marchese,
senza speciale assenso della Chiesa romana. A questa si assisterebbe
affinchè recuperasse i beni, purchè non fosse contro qualche membro
della Lega. Se il papa e i cardinali non adempissero i loro obblighi
verso questa, la Chiesa se ne terrebbe esclusa[241].
Ma Pisa, Pistoja, Poggibonsi mantenevansi coll’Impero, sicchè, scissa
la Toscana in due, cominciò a divulgarsi ivi pure la qualificazione di
guelfo e ghibellino.
Gente raffinata come vedemmo essere i Siciliani, e che cominciava in
sua favella a far intendere i suoni della nuova poesia, considerava
per barbari i Tedeschi. Enrico VI, accortosi d’avere preparato cattivo
letto al suo fanciullo Federico, morendo il raccomandò al papa.
Accettò questi; ma oltre volere che n’uscissero le truppe tedesche,
scopo all’ira popolare, pose per patto alcune modificazioni nei
_quattro capitoli_ della monarchia, ed erano che i vescovi fossero
eletti canonicamente, e i re li confermassero; a ciascun ecclesiastico
siciliano fosse permesso appellarsi a Roma; il papa potesse deputare
legati nell’isola: di rimpatto riduceva il censo a mille schifati.
Costanza non seppe ricusare; e anch’essa, quando morì (1198), lasciò la
tutela di Federico ad Innocenzo, colla provvigione di trentamila tarì
(lire 80,000).
Innocenzo gli diede per aji gli arcivescovi di Palermo, Monreale
e Capua, e tosto spedì un legato che traesse a sè il governo; onde
nelle stesse mani trovandosi il potere ecclesiastico e il civile,
ogni contestazione restava tolta di mezzo. I baroni del Regno sel
recavano in sinistra parte; e il duca Markwaldo, che, espulso di
Romagna, erasi ridotto nel suo contado di Molise, erettosi capo della
parzialità imperiale, pretese alla tutela del giovane re, come via di
farsi indipendente, assediò San Germano, e ajutato dai Pisani sbarcò
in Sicilia. Lo favorirono i Siciliani, paurosi d’una persecuzione;
ma mentre i nobili, tenendo coi Ghibellini, avvicendavano arroganza
e viltà, il popolo esecrava i Tedeschi a segno, che nè tampoco i
pellegrini di questa nazione potevano traversare impunemente il Reame
per andare in Terrasanta.
Gualtieri conte di Brienne, francese povero ma di gran valore e
nobiltà, avea sposato la primogenita del re Tancredi, che era stata
messa in libertà per istanza del papa; e ridomandava Taranto e Lecce,
che i figli di Tancredi si erano riservati nel cedere il diritto
ereditario alla corona. Venne egli a Roma con Sibilla e colla moglie;
e il papa, lieto d’aversi un tal vassallo, lo sostenne, sicchè egli,
messi insieme sessanta Francesi, mille lire tornesi, e cinquecento
oncie d’oro dategli dal papa, riportò nel Reame molte vittorie; ma
Gualtieri Paliario, arcivescovo di Palermo ed arcicancelliere del
regno, che tramestava la Sicilia a suo talento, e dava e toglieva
contadi e feudi, vi oppose proteste e forza. Innocenzo scomunicollo,
ma per conservare integro il patrimonio al suo pupillo fu costretto
ricorrere alle armi: la fortuna de’ combattimenti si bilicò, ma alfine
arrise a Markwaldo, che avendo in mano Federico, e spargendo voce ch’e’
fosse un parto supposto[242], tenne suddita la Sicilia, e faceasene re
ove non l’avesse rattenuto paura del conte di Brienne. Nel farsi operar
della pietra morì (1201), ma Capperone continuò la parte di lui, sempre
opponendosegli il conte di Brienne, il quale però, sebbene vantasse
che Tedeschi armati non avrebbero tampoco osato affrontare Francesi
disarmati, fu sorpreso e imprigionato all’assedio del castello di
Sarno, e morì di ferite. Delle turbolenze siciliane vollero profittare
i Pisani per occupare Siracusa: ma i Genovesi, perpetui avversarj di
essi, accorsero, ne trucidarono quanti vollero, e posero in quella
città chi la governasse a nome loro. Finalmente il pontefice trionfò
dappertutto, ristabilì le città nelle antiche franchigie, e da Federico
ottenne il contado di Sora per suo fratello Ricardo, principale autore
di quelle vittorie.
Qui i parziali interessi cedono a fronte della crociata, interesse
generale non solo pel pio intento, ma pei tanti Europei che eransi
piantati nell’Asia, fondando colonie, scali di commercio, principati,
e confidandosi sugli ajuti promessi dai fratelli d’Europa. Dicemmo
dello sgomento propagatosi allorchè Gerusalemme ricadde ai Musulmani:
ma quando il gran Saladino, glorioso di quel trionfo, morì (1193),
diciassette suoi figli si disputarono il dominio, onde il vigoroso
regno degli Ajubiti si disciolse in piena anarchia. Innocenzo III
credette caduto con quello l’antemurale dell’islam, e opportunissimo
l’istante di ricuperare la santa città, sicchè bandì la croce: Enrico
VI la prese, poi, fallendo alla promessa, si valse dell’esercito nelle
sue gare private, e lasciò che altri principi andassero in Palestina
(1195), ove Malek Adel, fratello di Saladino, li fece mal capitati.
Innocenzo, come voleva il perfezionamento della Chiesa per mezzo
della morale e dell’indipendenza, così s’infervorò al ricupero della
santa città; proibì gli spettacoli e tornei per cinque anni, mandò a
raccattare denaro per tutta cristianità, egli stesso fece fondere il
suo vasellame d’oro e d’argento, riducendosi ad argilla e legno. Folco
curato di Neuilly predicò per Francia la crociata, e moltissimi baroni
e prelati gli ascoltarono, all’impresa non accettandosi la turba, ma
solo gente disciplinata. Spedirono essi ambasciadori a Venezia per
chiederle navi da trasporto e ajuti: ma mentre i papi e gli altri
popoli lanciavansi a quell’impresa (1198) con impeto devoto e pio
disinteresse, le repubbliche nostre marittime vi scorgeano occasioni
di guadagno, e opportunità di fondar banchi e scali e prevalere agli
emuli; anzi non si faceano scrupolo di somministrar navi, arredi e
piloti a que’ Saracini, contro cui la cristianità combatteva. Già
in molte città della Siria e della Grecia teneano colonie, regolate
colle patrie leggi; ma il contatto coi Greci avea portato ai Veneziani
disgusti e sanguinose animadversioni. Sentendosi cresciuti in forze
dacchè i Latini dominavano nel Levante, cessarono gli antichi riguardi
verso gl’imperatori; dicemmo come gli osteggiassero, e covavano sempre
il desiderio di umiliare i Greci sprezzati, e insieme di distruggere i
banchi che quelli aveano concesso ai Pisani.
A Venezia soleano prendere imbarco i pellegrini per Terrasanta, ai
quali restava permesso vagare per la città con croci e gonfaloni;
e alcuni uffiziali, detti Tolomazzi, erano eletti al solo uopo di
assisterli e consigliarli nell’acquistare il bisognevole pel viaggio e
pattuire i noli; i _signori di notte_ decidevano sommariamente le cause
e querele loro; e il pellegrino alle processioni poteva intervenire
appajato ad un patrizio, che gli cedeva la destra e gli regalava
il cero. Ma questa volta non vi vennero solo devoti palmieri, bensì
ambasciatori della più alta baronia di Francia.
Sedeva allora doge Enrico Dandolo (1201), che colle armi e coi
maneggi avea sempre sostenuto la gloria nazionale, nè languiva
benchè nonagenario. Personalmente era stato offeso dall’imperatore di
Costantinopoli, e quasi accecato, sicchè dovette accogliere volonteroso
l’occasione di vendicarsi con un’impresa che tornerebbe di onore e
vantaggio della patria. Convocato il popolo in San Marco, dopo la messa
dello Spirito Santo si levò ed espose: — I baroni francesi chiedono
a voi, popolo veneziano, navi per trasportare quattromilacinquecento
cavalli, ventimila fanti e provvigioni per nove mesi. Noi domandammo
per compenso ottantacinquemila marchi (4,250,000 lire). Inoltre, se a
voi piaccia, la Repubblica armerà cinquanta galee, purchè le sia ceduta
metà delle conquiste che si faranno. Piace a voi, popolo veneziano, la
proposta e il patto?» I messi francesi in ginocchione tendeano le mani
supplichevoli ripetendo la domanda, persuasi che i soli potenti fossero
i Veneziani sul mare, i Franchi per terra; e giuravano sulle armi e sul
vangelo di mantenere le convenzioni.
Il popolo a gran voci applaudiva al trattato, e più crebbe il fervore
quando il doge dal pulpito soggiunse a’ suoi: — Voi siete accompagnati
alla miglior gente del mondo, e per la più nobile impresa che mai
alcun popolo assumesse. Vecchio son io e fiaccato, e avrei mestieri
di riposo e di pensare alla fine del mio corso: ma vedo che nessuno
vi potrebbe regolare come io vostro capo. E però, se volete che io
pigli la croce per custodirvi e governarvi, e in luogo mio lasci i miei
figliuoli a guardia della patria, io verrò a vivere e morire con voi e
coi pellegrini». Tutti ad una voce gridarono _Si faccia, Dio lo vuole_;
egli attaccossi la croce al corno ducale; e inteneriti si mischiavano
in abbracci i baroni francesi coi veneti negozianti[243].
La gelosia fe stare inoperose Pisa e Genova, tanto più che esse si
faceano guerra accannita, dalla quale tentò invano distorle il papa:
però Lombardi e Piemontesi vi vennero, fra cui Sicardo vescovo di
Cremona, che nella sua storia ci descrisse questi fatti; e capo della
spedizione fu eletto Bonifazio II marchese di Monferrato, fratello del
prode Corrado marchese di Tiro. Da Francia, da Borgogna, da Fiandra
accorrevano cavalieri a Venezia, dove trovarono arredati i navigli;
ma altri imbarcaronsi altrove, con pregiudizio proprio dell’impresa.
Imperocchè vennero a mancare i denari onde pagare il noleggio ai
Veneziani, benchè giojelli e vasi fossero convertiti in zecchini, dando
tutto fuorchè i cavalli e l’armi, e confidandosi nella Provvidenza.
Pertanto il doge disse: — Ebbene, noi rimetteremo questo debito ai
Crociati, purchè ci ajutino a riprendere Zara, sottrattasi a noi per
darsi al re d’Ungheria». Molti faceansi coscienza del voltare contro
Cristiani l’armi giurate contro Infedeli; più si oppose il papa, sul
riflesso che quel re, avendo anch’egli preso la croce, restava protetto
dalla tregua di Dio: ma il doge non vi badò, con grave scandalo de’
Settentrionali avvezzi a sottoporre interessi e calcoli al volere
pontifizio.
Salpata la più bella flotta che mai avesse veleggiato l’Adriatico,
prendono Trieste, spezzano le catene del porto di Zara; ma qui
pullulano fiere discordie fra i Crociati, che si uccidono gli uni
gli altri, e il papa disapprovando l’impresa, ordina di restituire il
bottino, e far penitenza e riparazione: e poichè i Veneti in quella
vece diroccano le mura, li scomunica, senza per questo disobbligarli
dal voto, mentre ribenedice i Francesi che mandarono a scusarsi, ed
ordina che, senza volgersi a destra nè a sinistra, passino in Siria.
Frattanto gravi accidenti complicavano l’intento della spedizione.
Benchè gl’imperatori bisantini dominassero sempre su molta parte
dell’Italia, noi reputammo alieno dal nostro soggetto il seguirne
la serie e i fatti. Del resto il lettore che si ricorda degli ultimi
tempi di Roma imperiale può figurare vi continuasse quel sistema di
serraglio, con regnanti dappoco, favoriti onnipotenti, da null’altro
temperati che da frequenti rivoluzioni, per cui un intrigo di
palazzo cambiava o gli imperatori o i ministri; e Costantinopoli vi
applaudiva, e tutto l’Impero non facea che mutare il nome di quello
a cui obbedire. In quella Chiesa non vi era stato l’antagonismo col
Governo; e sottomessa com’era, non potè impedire la corruzione del
potere, che a vicenda era trascinato negli errori dell’autorità
che aveva a sè riunita. Intanto assalti sempre più stringenti di
nemici esterni; intanto le coscienze turbate dalla regia pretensione
d’interporsi ai dogmi e ai riti; intanto una letteratura, non ancor
rimestata da stranieri, eppure impotente, che degl’insigni classici non
sapea valersi se non per commentarli, e la lingua più bella e forbita
adoperava soltanto a trastulli senili e a sofistiche controversie.
Questo quadro tengano sott’occhio coloro che non hanno se non
vilipendio pei paesi invasi da Barbari, e rimpianto per la dominazione
romana schiantata dall’Italia. Qualche nuovo vigore parve recare su
quel trono d’orpello la famiglia Comneno, di cui era quell’Alessio che
vedemmo barcollante amico e coperto nemico dei Crociati: e per poco
ch’e’ valesse, nessuno l’eguagliò de’ suoi successori. Giovanni Comneno
(1118) menò per ventiquattro anni guerre felici. A Manuele (1143),
succedutogli con spiriti cavallereschi più che prudenza a dirigerli,
Ruggero II di Sicilia portò l’assalto che dicemmo, in cui desolò le
coste del Jonio, espugnò Tebe e Corinto, menando via quanto di meglio