Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 12
Bizzarra mescolanza dovea presentare in quei tempi il paese; indigeni
abbattuti da lungo servaggio, cavalieri normanni in corazza e morione,
Musulmani con turbanti; santoni insieme e frati; corse del gerid e
tornei; Nordici ignoranti e corrotti Meridionali; fastosi Asiatici
e severi Scandinavi: vi si parlava greco, latino vulgare, arabo,
normando, e in ognuna di queste lingue si pubblicavano i bandi; i quali
doveano tanto quanto acconciarsi al codice Giustinianeo pei Greci, al
_Coutumier_ pei Normanni, al Corano pei Saracini, al codice longobardo
pei precedenti signori.
I Normanni, pochi e deboli, dovettero fiancheggiarsi di politica e
d’astuzie, formando un governo più abile che robusto, e sprovvisto di
quella vigorosa unità che è necessaria per tiranneggiare un popolo,
e convergerne gli sforzi ad unico intento, massime in paese come il
napoletano, così spezzato e vario di origini. Delle istituzioni de’
Longobardi e de’ Greci non cangiarono se non ciò ch’era richiesto
dall’introdurvisi della feudalità al modo dei Franchi. Magistrati e
conti longobardi, resisi ereditarj, aveano già formato la classe de’
baroni, che conservò la nobiltà anche dopo avere, per la conquista
normanna, perduto le giurisdizioni. I Normanni investiti di feudi li
sottinfeudavano a cavalieri, cioè vassalli nobili, e a gran dignitarj
ecclesiastici. Ma que’ primi Normanni, e gli altri continuamente
chiamati di Francia ad esercitare il lor valore, voleano sulle proprie
tenute regolarsi col diritto patrio: dal che vennero i feudj al
modo Franco, la cui principale differenza dai longobardi consisteva
nell’esservi ammesso alla successione soltanto il primogenito, mentre
in questi ciascun figlio ereditava.
Il sistema feudale fu comunicato anche ai paesi fin allora sottoposti
ai Greci, e Ruggero a tutti i cavalieri di Napoli infeudò cinque
moggia di terra con cinque coloni affissi a quella[220]; lo trapiantò
anche nella Sicilia, che mai non n’avea gustato, scomponendovi ogni
regolamento de’ Saracini. I coloni da liberi vennero dipendenti;
le praterie furono aggravate di pascere i cavalli del vincitore;
sottoposti a taglie i boschi e i servi della gleba; un’amministrazione
fiscale e investigatrice, surrogata alla larga e tollerante dei
Saracini, deteriorò l’agricoltura e il commercio.
Usati in patria a raccogliersi in adunanze legislative e giudiziali,
i Normanni non ne interruppero l’uso; e il nome di _parlamento_
trasportarono, come nella conquistata Inghilterra, così pure nel paese
di qua e di là dal Faro. Aperto sulle prime soltanto a Normanni, vi
si traforarono poi anche indigeni, fondendosi vinti e vincitori. Ma
al popolo non potea farsi luogo colà dove del suolo non avevano la
proprietà che abati e signori; sicchè non v’erano ammessi che i due
_bracci_ de’ baroni e degli ecclesiastici. Poi le città acquistarono
il diritto di riscattarsi dai baroni, e rendersi libere, cioè non
dipendenti che dalla regia autorità; ed allora all’ecclesiastico ed al
baronale fu aggiunto il braccio _demaniale_, cioè che rilevava solo dal
dominio del re. Quest’opera vedremo compiuta da Federico II.
Ruggero accentrò l’amministrazione nella Corte di Palermo, intorno a
sè disponendo sette grandi cariche, e sotto queste gli altri signori.
A capo di ciascun distretto stavano baroni e connestabili; di tutta
la nobiltà il gran connestabile; della marina il grand’ammiraglio: il
gran cancelliere serviva d’anello tra gli incaricati e il principe:
aggiungeansi il gran giustiziere, il gran cameriere, il gran
protonotaro, il gran siniscalco. L’archimandrita o abate generale,
eletto dai monaci, confermato dal re, aveva ispezione sulle chiese,
e specialmente le vacanti; pure i vescovi doveano a Roma ricevere la
consacrazione dal papa.
Gastaldi e sculdasci aveano ceduto i giudizj a balii, giustizieri,
castellani, i quali, col re a capo e con privilegi distinti, formavano
una gerarchia d’amministrazione, che fu la prima foggiata alla moderna,
non composta di vassalli feudalmente congiunti al signore, ma di
uffiziali che coordinatamente esercitavano la porzione di potere ad
essi affidata. Mentre dunque l’antica nobiltà restava in opposizione ai
conquistatori, una nuova nascea di gente ammessa agli impieghi, fosse
natìa o forestiera[221]: nel che pure il siciliano differiva dagli
altri diritti.
Alle leggi longobarde, che fin allora avevano forza di diritto comune,
con qualche mistura delle romane e delle consuetudini scandinave,
Ruggero sostituì le _Costituzioni_, promulgate nelle pubbliche
assemblee di baroni, uffiziali e vescovi, e che valeano in ambe le
parti del Regno. Desunse dal diritto romano la legge che dichiara
sacrilegio il mettere in disputa i fatti, i consigli, le deliberazioni
del re. Morte comminò a chi tosa o áltera la moneta; a chi rapisce una
dal monastero, sebbene non ancora velata e a titolo di sposarla; al
magistrato che malversa il pubblico denaro, o al giudice che si lasciò
corrompere; a chi dà farmachi per ispirare avversione, o ferisce a
morte alcuno nel rotolare o menare un sasso o una trave senza darne
avviso. Vietò severamente di vendere o alienare i feudi, nè che i
feudatarj contraessero matrimonj senza consenso del re, e tanto meno
maritassero le proprie figlie aventi l’eventualità di succedere.
Nessuno eserciti la medicina se non licenziato: nessuno sia fatto
cavaliere nè giudice se non venga da stirpe di militi e notaj. Molte
pene concernono le adultere e le prostitute. Chi vende un uomo libero è
ridotto in servitù[222].
Ruggero è da’ suoi esaltato colle lodi che sogliono prodigarsi al
fondatore dell’indipendenza d’uno Stato, e all’ambizione fortunata
di chi non tien conto della moralità dei mezzi. Perduti i figliuoli
Alfonso e Ruggero, l’unico superstite Guglielmo fe coronare come
collega (1154); e poco stante morì a sessantun anno, dopo ventiquattro
di regno.
Avaro, sospettoso, pusillanime, inetto riuscì quel suo successore; e
chiuso nella reggia fra sozzi e barbari piaceri, del ben pubblico non
si dava pensiero. Gl’imperatori d’Oriente e d’Occidente ne presero
baldanza di mettere in campo opposte pretensioni sopra il Reame,
mossero armi, e sollecitarono i baroni sempre inquieti. Questi aveano
avuto ricorso al Barbarossa, e quand’egli scese in Italia la prima
volta, si sollevarono dappertutto; ma esso non potè ajutarli. Bensì
gl’imperatori greci, che anelavano vendicarsi delle spedizioni dei due
Ruggeri, e che già possedeano Ancona ed altri porti sull’Adriatico,
occuparono Brindisi, che divenne il quartiere de’ baroni rivoltosi:
ma Majone, oliandolo di Bari, coll’ingegno, l’eloquenza e l’arte del
simulare e dissimulare divenuto cancelliere e grand’almirante del
regno, ed arbitro de’ consigli e degli atti di Guglielmo, riprese
questa città, e i ricoverati fece uccidere, abbacinare, sepellire nelle
carceri di Palermo. Di ciò si volle gran male a Majone, e dell’aver
lasciato che la fortezza di Mahadia sulle coste d’Africa, tenuta dai
Siciliani, soccombesse ad Abd al-Mumin re di Marocco. Spargeasi pure
che colui volesse impossessarsi della corona; onde i baroni cospirarono
contro di esso; Campania e Puglia si sollevarono; lo stesso conte
Matteo Bonello, da lui predestinato genero, se gli avversò, e riuscì
ad ucciderlo e a tenere prigioniero Guglielmo (1161). L’abuso della
vittoria fece esosi i congiurati, onde alla fine Bonello fu preso ed
accecato, rimesso l’ordine coi supplizj, e Guglielmo serbò nella storia
il titolo di _malvagio_.
Quel di _buono_ fu dato a suo figlio Guglielmo, che succeduto (1166)
sotto la tutela di Margherita di Navarra, bello e giovane, procurò
cattivarsi i cuori scarcerando quella folla di prigionieri di Stato;
ma le fazioni inferocirono per disputarsi influenza nella tutela; e
le eterogenee parti ond’erasi compaginato ma non formato quel regno,
tendevano a separarsi. Margherita cercò appoggio empiendo la corte di
Franchi, tra i quali Ugo Falcando, detto il Tacito della Sicilia pel
nero e vibrato modo con cui descrisse quelle turbolenze; e di varj
prelati e gran savj in diritto. Ma da contrasti e guerre il paese
era tutto sovvolto, non meno che da tremuoti, pei quali Catania fu
distrutta, squarciate Taormina, Lentini, Siracusa; le fonti versarono
acque sanguigne; il mare nel Faro si ritirò, poi ringorgando verso la
riva elevossi fin sopra le mura di Messina, tutto miseramente lavando
(1169).
Guglielmo, tenutosi amico di Alessandro III, impedì che il Barbarossa
attentasse al suo regno; ebbe nobil parte alla conchiusione della lega
Lombarda e della pace di Venezia; poi armato per ristabilire Alessio
Comneno sul trono d’Oriente, prese Durazzo, Tessalonica ed altre piazze
di Grecia, ma da Costantinopoli fu respinto. Ajutò pure Antiochia,
Tiro, Tripoli contro il Saladino; ma di soli trentasei anni morì
(1189). La tradizione raccontò che Guglielmo il Malvagio avesse voluto
smungere tutto il denaro del suo popolo; e per far prova se alcuno ne
avesse ritenuto, mandò a vendere in piazza per tenue prezzo un suo
bellissimo cavallo arabo. Un giovane signore lo comprò in fatto, il
quale, chiesto in processo, confessò aver violato la tomba del proprio
padre per tôrre quel poco denaro. Tutto quel tesoro fece Guglielmo
sotterrare, poi corrervi sopra un fiume: ma Guglielmo il Buono riuscì
miracolosamente a scoprirne il posto, ed ivi, in riconoscenza, fabbricò
la magnifica badia di Monreale, dove ebbe la tomba, e che attesta la
suntuosità e il progresso dell’arti sicule in quell’età.
Di Guglielmo non restando figli, l’eredità ricadeva in Costanza
figlia postuma di Ruggero II e perciò sua zia[223]. Benchè di là dai
trent’anni, il Barbarossa erasi affrettato a cercarla sposa per suo
figlio Enrico; e l’inglese Gualtiero Ofamiglio, arcivescovo di Palermo,
indusse il debole Guglielmo a consentirgliela. Costanza partì con più
di cencinquanta cavalli carichi d’oro, argento, sciamiti, pallj grigi,
vaj ed altre buone cose[224]; e le nozze furono celebrate in Milano con
istraordinaria magnificenza, ma non colla benedizione dell’arcivescovo,
che era papa Urbano III, reluttante da un connubio che saldava in
Italia una famiglia ereditariamente avversa ai pontefici per la
successione della contessa Matilde, e che li privava dell’appoggio
avuto sin allora contro le esuberanze imperiali, e preparando l’unione
anche di quella corona all’Impero, scassinava l’edifizio eretto
dall’ardita perseveranza di Gregorio VII.
Guglielmo avea chiuso gli occhi fra i preparativi della terza crociata
che dicemmo; ed essendo allora i feudatarj occupati oltremare, Enrico
VI non potè mandar forze ad occupare violentemente il Regno; sicchè
estremo disordine vi irruppe. Poco badando ad Enrico e Costanza
lontani, chiunque teneva al lignaggio dei Normanni pretendeva una
porzione di dominio, e se la disputavano[225]; nell’isola i baroni
ripetevano il prisco diritto elettorale delle assemblee nazionali
come in trono vacante; nella terraferma (solita peste) si amava il
contrario per gelosia verso Palermo: l’arcivescovo Gualtiero sosteneva
il diritto ereditario di Costanza, e il giuramento ad essa prestato
in Lecce; Matteo d’Ajello, vicecancelliere, vecchione abile a condurre
un partito, animava quei che repugnavano dal vedere la Sicilia, fatta
indipendente pel valore de’ Normanni, or in piena pace cadere a re
straniero e avverso, e negava che, come a feudo, potesse una donna
succedere; i più aborrivano la dominazione tedesca, e lo storico
Falcando ripeteva: — Dio vi guardi da cotesti armati di Germania,
barbari, grossolani, stranieri ai costumi e alla civiltà vostra! Sotto
il Tedesco, Sicilia più non sarebbe che una miserabile provincia,
disgiunta dal suo sovrano, abbandonata alle espilazioni de’ suoi
uffiziali. Già parmi vederla invasa da quelle orde portate dall’impeto
a stremare col terrore, colla strage, colle rapine, colla lussuria,
e far serva quella nobiltà di Corintj che pose anticamente nido nella
Sicilia, indarno bella di filosofi e poeti tanti, e cui sarebbe tornato
men grave il giogo degli antichi tiranni. Guaj a te, Aretusa, volta
a tanta miseria, che mentre solevi modulare i carmi de’ poeti, or odi
l’ebbrietà delle tedesche baruffe, e servi alle loro turpezze!»[226].
Come avviene quando l’autorità è sfasciata, la ciurma e gli
arruffapopolo alzarono il capo; e poichè in tali occasioni vuolsi
sempre qualche capro espiatorio, si buttarono sovra i Saracini.
Per quanto tollerati, non poteasi sperar pace fra antichi padroni e
nuovi, fra due religioni così repugnanti, l’una guardante a Marocco,
l’altra a Roma. Gli Arabi aveano trescato nella minorità di Guglielmo,
e Abu’l-Kassem degli Amaditi d’Africa s’era accordato cogli eunuchi
di palazzo e coi baroni malcontenti per isvertare Stefano da Perche
francese. Ora i Palermitani saccheggiarono le case de’ Saracini, e
molti uccisero; gli altri a forza s’apersero la ritirata fino in val di
Mazara, ove i centomila loro fratelli presero l’armi per vendicarli,
nè chetarono finchè non ebbero promessa di sicurezza e de’ primitivi
privilegi.
Quand’anche tali incendj nascono spontanei, v’è chi vi soffia,
acciocchè la necessità dell’ordine costringa a prendere il partito
che il primo scaltro suggerisce: e il partito or fu si convocasse il
parlamento de’ baroni e si eleggesse un re.
Ruggero duca di Puglia, fratello maggiore del primo re di Sicilia,
dalla figliuola di Roberto conte di Lecce avea generato Tancredi, e
presto lasciatolo orfano. Guglielmo il Malvagio perseguitò questo
bastardo, e prima in carcere, poi lo spinse in esiglio: l’altro
Guglielmo l’accolse, gli affidò l’esercito contro la Grecia, e lo
titolò conte di Lecce. Istrutto dalla sventura, prudente, educato alle
matematiche, all’astrologia, alla musica, parve degno della corona e
l’ottenne: la _matrice_ di Palermo, specioso monumento di architettura
moresca mista a normanna, e dove ancora si ammirano, benchè guaste
dall’incendio del 1811, le tombe di porfido di quei re, risonò
d’applausi alla coronazione di Tancredi e del suo figlioletto Ruggero;
e fu riconosciuto pure da tutte le provincie di terraferma, e investito
ben volentieri dal pontefice.
Di quel tempo i Crociati d’Inghilterra e di Francia, guidati dai loro
re Ricardo Cuor di Leone e Filippo Augusto, eransi data la posta a
Messina, onde di conserva, dopo la svernata, passare in Terrasanta.
Fiera burrasca gittò la flotta genovese sulle coste di Calabria,
per modo che i Francesi, perduti cavalli e provvigioni, poveramente
approdarono in Sicilia. Ricardo, di gente normanna e d’impaziente
arditezza, quasi solo traversò a cavallo le montagne di Calabria, e
si tragittò a Messina. La caccia era rigorosissimamente osservata in
Inghilterra: non così in Sicilia: onde Ricardo, mentre a quella si
divertiva, udito un falco stridire nell’abituro d’un villano, entrò
per portarglielo via. I nostri, men chinati nella servilità, a pietre
e bastoni respinsero il prepotente, che solo alla fuga dovette la
salvezza.
A Tancredi dava noja l’arrivo di Filippo Augusto, alleato d’Enrico
VI, e di Ricardo fratello della vedova di Guglielmo, da lui tenuta
prigione. In fatto fu costretto rilasciar questa, restituendole la
dote di ventiquattromila once d’oro; ma Ricardo pretendeva anche, come
assegno vedovile, quantità di vasi d’oro e d’argento, un trono, due
tripodi, e una tavola larga mezzo metro e lunga quattro, tutti d’oro,
una tenda di damasco bastante a ducento cavalieri, inoltre cento galee
provvigionate per un anno. Tanto era di ricchezze famosa la Sicilia!
Ricusato, l’Inglese aggredì Messina; ma questa si difese a sassi, tanto
che Ricardo dovette venire ad accordo, giurando pace e protezione, e
fidanzando una figlia di Tancredi all’erede d’Inghilterra.
Enrico VI, coronato re dei Romani, per sostenere i minacciati suoi
diritti venne in Italia (1191) coi feudatarj, che rovinatisi nella
crociata, qui speravano rifarsi; e come suo padre fantasticando la
dominazione universale, si prefiggeva di conquistare la Sicilia,
farsi coronare a Roma, avere in arbitrio la Lombardia e la Toscana,
sottomettere le coste d’Africa già tributarie ai Normanni, conquistare
il trono di Costantinopoli, preda immancabile del primo occupante.
Ma, non che gli bastassero forze a sì larghi disegni, dovea cercarne
alle città lombarde col conceder loro la sua alleanza e sempre nuovi
privilegi.
Coi soccorsi di esse e delle repubbliche marittime, calò verso Roma.
Celestino III, sortito allora papa d’ottantacinque anni, procrastinava
la propria consacrazione per non dovere coronare Enrico; onde i Romani
offersero a questo di costringervelo, purchè egli abbandonasse alla
loro vendetta Tusculo, contro di cui non aveano cessato mai l’odio, e
di rado la guerra. Compiacque Enrico al fratricida desiderio (1191 —
13 aprile); unto il papa, Enrico e sua moglie dopo iterati giuramenti
furono ricevuti in città. Entrati da porta Collina gettando denari al
popolo perchè applaudisse, procedettero per Borgonuovo fin a Santa
Maria Transpontina, donde il clero in processione li condusse al
Vaticano. Precedeano il prefetto di Roma colla spada sguainata, il
conte del sacro palazzo, i magistrati della repubblica, poi i giudici,
i camerieri, l’imperatrice, i vescovi tedeschi e italiani, i principi
e dignitarj dell’impero. Celestino stava sopra elevato trono in capo
alla scalea di San Pietro, coi cardinali, vescovi e preti alla destra,
i diaconi alla sinistra, e dietro i suddiaconi colla nobiltà romana e
gli uffiziali di palazzo. Il re, scavalcato, andò al bacio del piede
pontifizio, e ginocchione colla mano sul Vangelo giurogli fedeltà,
e di soccorrerlo a mantenere i possessi, gli onori, i diritti. Il
papa gli chiese tre volte se volesse rimanere in pace colla Chiesa,
e mostrarsene figlio rispettoso; e avuto il sì, ripigliò: — Ed io ti
ricevo come figlio diletto, e ti do la pace come Dio la diede a’ suoi
discepoli», e lo baciò.
Allora mossero in processione; e alla porta Argentea esaminato sulla
fede religiosa, l’imperatore ebbe il chiericato, promettendo riprovare
gli eretici, ed assister poveri e pellegrini. Il cardinale d’Ostia
unse Enrico al braccio destro e fra le spalle; il pontefice gli porse
l’anello, la spada, lo scettro, e impose la corona d’oro a lui e alla
moglie[227]. Poi si celebrò il santo sacrifizio, durante il quale si
cantava vittoria e lunga vita al papa, all’imperatore, all’imperatrice;
l’imperatore offrì pane, cera, oro, e ricevette l’eucaristia. Finita la
messa, dal conte del palazzo gli furono posti gli stivaletti imperiali
e gli sproni di san Maurizio; poi tenne la staffa del cavallo bianco
del papa, e l’addestrò fin al Laterano: al pasto, sedette alla destra
del pontefice, mentre l’imperatrice in separata sala convitava vescovi
e grandi.
Non mancò lo spettacolo del sangue, poichè la guarnigione tedesca
uscì di Tusculo, ed i Romani, senza udir prego nè pianto, uccisero,
accecarono, mutilarono quegli abitanti, e disfecero il paese[228].
Alcuni poterono fuggire tra le montagne; altri, per amore del luogo
natìo, si tennero vicino alla patria devastata sotto _frascati_, che
poi dieder nome al paese che vi succedette.
Lasciato così deplorabile segno di sua presenza, Enrico con grosse
armi, colle promesse, colla corruzione procede alla conquista; e
contraddetto dal papa[229], ajutato dall’abate di Montecassino, prende
e devasta Roma, e senza incontrare ostacoli arriva sotto Napoli e
l’assedia. Questa, ristretta allora al quartiere che dalle falde
di Sant’Elmo e di Capodimonte declina al mare, difesa da robusti
spaldi e da buone truppe comandate dal prode Aligerno Cuttone, e col
mare aperto, resiste: Pisani e Genovesi menano navi per secondare i
Tedeschi, che intanto devastavano la campagna: ma le malattie puniscono
gli invasori, sicchè Enrico è costretto tornare in Germania pensieroso
più che pentito; Genovesi e Pisani cessano di caldeggiare un alleato
infelice; i Salernitani arrestano Costanza e la consegnano a Tancredi,
che la tiene prigioniera in Sicilia, finchè, ad istanza del papa, la
restituì senza patti nè riscatto, fidando nella gratitudine.
Tancredi, che non avea saputo mostrarsi degno del diadema col
difenderlo in persona, morì ben presto, ed essendogli premorto il
primogenito (1194), non lasciava che il fanciullo Guglielmo III in
tutela di sua moglie Sibilla d’Acerra, in mezzo a gare de’ baroni coi
cavalieri, inviperite, lunghe, disastrose e a nulla conducenti. Era
uscita alla peggio la crociata; e Filippo Augusto, sbarcato a Otranto,
ebbe a Roma dal papa dispensa dal voto e la palma de’ pellegrini: anche
il Cuor di Leone, dopo imprese da paladino, tornò in Europa travestito
per isfuggire ai molti nemici; ma il duca d’Austria lo colse, e lo
cedette all’imperatore (1192) per sessantamila marchi d’argento; e
questi lo rivendette all’Inghilterra per centomila, oltre metà tanti
per finire l’impresa di Sicilia[230].
Al fiuto di questa somma accorsero i baroni tedeschi ad offrirsi
ad Enrico, che allestitosi, scese nella Lombardia. La trovava in
nuovi subugli. I vescovi aveano perduto l’autorità temporale, nè
i Comuni ancora assodata la propria in modo d’aver pace. I diversi
ordini partecipavano diversamente al Governo, e secondo i varj paesi
variavano le relazioni coi vicini, per modo che ogni città regolavasi
con politica e leggi differenti, demolito l’antico, non istabilito
il nuovo. Le leghe riuscivano meno a stabilir la concordia che ad
impacciare la legge; i signori conservatisi indipendenti s’arrogavano
diritti di sovranità; le città maggiori voleano sottomettere le vicine,
ed eroismo era l’energia dell’odio. Che se tra quella confusione (del
resto naturale ad ogni reggimento nuovo) alcuno ergevasi a metter
ordine, sì il faceva con guise tiranniche.
Essendosi Enrico mostrato propizio a Pavia e Cremona (1194),
permettendo a quella di valersi di tutte l’acque del Ticino, e a questa
sottomettendo Crema, le due imbaldanzite eransi collegate con Lodi,
Como, Bergamo e col marchese di Monferrato a’ danni di Milano; la quale
nelle giornate campali riusciva superiore, è vero, ma trovavasi cinta
di nemici, che le sperperavano le campagne e rompevano i commerci.
Enrico, raccolti gli stati a Vercelli, procurò instaurare la quiete;
ma lontano e dalla politica e dalla forza del padre, scarsamente
approdò; onde seguì sua via per Genova, anch’essa sovvertita da
fazioni, da frequenti zuffe, da effimeri Governi, e che allora stava
sotto al podestà Oberto di Olevano pavese. Ai Genovesi scrisse: —
Se, ajutanti voi, io ricupero il Reame, mio sarà l’onore, vostro il
profitto: giacchè non io od i Tedeschi miei vi soggiorneremo, ma voi
stessi»; e seguiva confermando le esenzioni precedenti, e dando nuove
giurisdizioni e privilegi, la città di Siracusa, ducencinquanta feudi
in val di Noto: a Pisa parimenti concesse in feudo Gaeta, Mazara,
Trapani, e metà di Palermo, Salerno, Napoli, Messina, oltre molti
ingrandimenti in Toscana. Così largheggiando di promesse quanto meno
intendeva mantenerle, ottenne soccorsi; poi entrato nel Reame, ebbe
spontanee tutte le città, perfino quella Napoli, che poc’anzi si era
con tanta costanza sostenuta. Salerno, sentendosi rea d’aver tradito
l’imperatrice Costanza, si difese ostinata; ma presa, fu messa a
sacco e ferro, neppur risparmiando le chiese, e i cittadini migliori
impiccando, torturando, cacciando in prigione o in esiglio, sicchè la
città, di famosa importanza sotto i Longobardi e i Normanni, più non
risorse. Capua pure fu espugnata a forza da Guglielmo di Monferrato e
da’ Genovesi e Pisani: Eraclea (Policora), patria di Zeusi, colonia
fiorentissima in antico, fu distrutta: qualunque città esitasse a
sottomettersi, era devastata senza pietà. In Sicilia sottoposte Messina
e Palermo, l’imperatore, colla pompa che suggerisce la paura, fu
incoronato, e tutta l’isola gli giurò obbedienza.
Con fallaci lusinghe aveva egli tratto Sibilla ed i figliuoli dal
castello di Calatabelotta, dove s’erano fortificati coi loro fedeli;
poi raccolti gli stati a Palermo, accusò lei e molti grandi di una
congiura. Non la fondava che sopra una lettera consegnatagli (diceva)
da un frate; ma bastò perchè quanti aveano tenuto col partito
nazionale, laici od ecclesiastici, fossero mandati alla forca o al
palo, accecati, arsi vivi, esposti alle beffe, relegati in Germania; re
Guglielmo, toltogli il vedere e il generare, fu tenuto prigione finchè
andò monaco; Sibilla e le figlie rapite in carcere, poi nella badia di
Hohenbruck in Alsazia; turbate le ossa di Tancredi per istrappare il
diadema a lui e al figlio Ruggero; bruciati quanti aveano contribuito
alla loro coronazione.
Fu spenta così nel sangue la dinastia normanna, di cui i regnicoli
ricordano ancora con compiacenza i tempi e le famose ricchezze. Re
Tancredi avea dato ventimila oncie d’oro per dote di sua figlia;
Arnaldo di Lubecca ci rammentò le tavole, i letti, le sedie d’oro nel
palazzo di Palermo; Ruggero Hoveden fa trovare da Enrico nel tesoro di
Salerno ducentomila oncie d’oro; e in quel di Palermo senza fine armi
ricche, stoffe d’oro e d’argento, sete ricamate, altre preziosità, con
cui potè far larghezza a’ suoi fedeli; eppure censessanta somieri vi
vollero per trasportarne il resto nel castello di Trifels[231].
Con tirannia stolidamente feroce sottentrava la dinastia sveva, che
mal per lei. Anche le città sottomessesi volontarie, furono trattate
come conquista; Siracusa e la risorta Catania incendiate, senza
riguardo a nobiltà o a grado; Napoli e Capua smantellate, e per le
vie di questa trascinato a coda di cavallo, poi impeso pei piedi, indi
strozzato da un buffone Ricardo conte d’Acerra, cognato di Tancredi,
ultimo lustro dell’antica dinastia. Giordano e Margaritone, più ligi
all’imperatore perchè un tempo avevano sguainato pe’ suoi nemici,
inventavano delitti e trame, affine d’intitolar punizione la vendetta.
Uno ch’erasi millantato di poter rendere la libertà e il trono a
Sibilla, fu collocato sopra un seggio di fuoco, con corona di ferro
rovente: massime su ecclesiastici e prelati s’infierì, e chi fu arso,
chi scorticato, chi mutilo, chi mazzerato.
Non che mancare alle condizioni promesse a Genovesi e Pisani, Enrico
li fraudò degli antichi privilegi, proibendo vi tenessero consoli,
e proscrivendo tutti i negozianti forestieri. Del papa non si curò
più che tanto, nè gli chiese l’investitura; onde questo l’avrebbe
scomunicato, se nol tratteneva la naturale bontà, e la speranza che
mantenesse la ripetuta promessa di crociarsi.
Dava fiducia di presti cambiamenti il non aver successori il re svevo;
quando si annunziò che Costanza era feconda. Enrico volle venisse nel
Reame, quasi per dare un re indigeno; e avendo essa partorito a Jesi,
al bambino pose nome Federico Ruggero, come quello che univa i due
sangui nobilissimi. I Ghibellini ne fecero galla; i Guelfi sparsero
ogni sorta di dicerie su questo intempestivo natale[232]; ed Enrico ne
prese baldanza a compiere il disegno del Barbarossa di far ereditario
l’impero in sua casa, tanto più da che trovavasi favorito dalla
vittoria e dai tesori della Sicilia.
Cominciò dal sistemare la media Italia in modo di tener soggetta tutta
la penisola. Pertanto a Filippo, ultimo figlio del Barbarossa e che poi
divenne duca di Svevia, diede in moglie Irene figlia d’Isacco Langelo
imperatore di Costantinopoli, e vedova del primogenito di Tancredi; e
in feudo la Toscana ed altri beni della contessa Matilde: a Markwaldo
d’Anweiler suo siniscalco, e ministro delle crudeltà, infeudò la marca
d’Ancona: a Corrado di Svevia quella di Spoleto usurpandola alla Chiesa
con titolo di rintegrare le imperiali prerogative, e restringendo
il papa a poco più che all’indocile Roma. Vedendosi riminacciato il
giogo degli Svevi, le città guelfe di Lombardia, da lui poste al bando
dell’Impero, rinnovarono a Borgo Sandonnino la Lega Lombarda (1193 — 13
giugno), alla quale diedero il nome Verona, Mantova, Modena, Faenza,
Bologna, Reggio, Padova, Piacenza, Gravedona, oltre Crema, Brescia e
Milano. Così i Guelfi perseveravano nell’assunto loro di campare Italia
dalla straniera servitù.
E servitù veramente minacciava Enrico, avvicendando crudeltà e perfidie
contro i nostri non solo ma anche contro i Tedeschi. Raccolti gli
abbattuti da lungo servaggio, cavalieri normanni in corazza e morione,
Musulmani con turbanti; santoni insieme e frati; corse del gerid e
tornei; Nordici ignoranti e corrotti Meridionali; fastosi Asiatici
e severi Scandinavi: vi si parlava greco, latino vulgare, arabo,
normando, e in ognuna di queste lingue si pubblicavano i bandi; i quali
doveano tanto quanto acconciarsi al codice Giustinianeo pei Greci, al
_Coutumier_ pei Normanni, al Corano pei Saracini, al codice longobardo
pei precedenti signori.
I Normanni, pochi e deboli, dovettero fiancheggiarsi di politica e
d’astuzie, formando un governo più abile che robusto, e sprovvisto di
quella vigorosa unità che è necessaria per tiranneggiare un popolo,
e convergerne gli sforzi ad unico intento, massime in paese come il
napoletano, così spezzato e vario di origini. Delle istituzioni de’
Longobardi e de’ Greci non cangiarono se non ciò ch’era richiesto
dall’introdurvisi della feudalità al modo dei Franchi. Magistrati e
conti longobardi, resisi ereditarj, aveano già formato la classe de’
baroni, che conservò la nobiltà anche dopo avere, per la conquista
normanna, perduto le giurisdizioni. I Normanni investiti di feudi li
sottinfeudavano a cavalieri, cioè vassalli nobili, e a gran dignitarj
ecclesiastici. Ma que’ primi Normanni, e gli altri continuamente
chiamati di Francia ad esercitare il lor valore, voleano sulle proprie
tenute regolarsi col diritto patrio: dal che vennero i feudj al
modo Franco, la cui principale differenza dai longobardi consisteva
nell’esservi ammesso alla successione soltanto il primogenito, mentre
in questi ciascun figlio ereditava.
Il sistema feudale fu comunicato anche ai paesi fin allora sottoposti
ai Greci, e Ruggero a tutti i cavalieri di Napoli infeudò cinque
moggia di terra con cinque coloni affissi a quella[220]; lo trapiantò
anche nella Sicilia, che mai non n’avea gustato, scomponendovi ogni
regolamento de’ Saracini. I coloni da liberi vennero dipendenti;
le praterie furono aggravate di pascere i cavalli del vincitore;
sottoposti a taglie i boschi e i servi della gleba; un’amministrazione
fiscale e investigatrice, surrogata alla larga e tollerante dei
Saracini, deteriorò l’agricoltura e il commercio.
Usati in patria a raccogliersi in adunanze legislative e giudiziali,
i Normanni non ne interruppero l’uso; e il nome di _parlamento_
trasportarono, come nella conquistata Inghilterra, così pure nel paese
di qua e di là dal Faro. Aperto sulle prime soltanto a Normanni, vi
si traforarono poi anche indigeni, fondendosi vinti e vincitori. Ma
al popolo non potea farsi luogo colà dove del suolo non avevano la
proprietà che abati e signori; sicchè non v’erano ammessi che i due
_bracci_ de’ baroni e degli ecclesiastici. Poi le città acquistarono
il diritto di riscattarsi dai baroni, e rendersi libere, cioè non
dipendenti che dalla regia autorità; ed allora all’ecclesiastico ed al
baronale fu aggiunto il braccio _demaniale_, cioè che rilevava solo dal
dominio del re. Quest’opera vedremo compiuta da Federico II.
Ruggero accentrò l’amministrazione nella Corte di Palermo, intorno a
sè disponendo sette grandi cariche, e sotto queste gli altri signori.
A capo di ciascun distretto stavano baroni e connestabili; di tutta
la nobiltà il gran connestabile; della marina il grand’ammiraglio: il
gran cancelliere serviva d’anello tra gli incaricati e il principe:
aggiungeansi il gran giustiziere, il gran cameriere, il gran
protonotaro, il gran siniscalco. L’archimandrita o abate generale,
eletto dai monaci, confermato dal re, aveva ispezione sulle chiese,
e specialmente le vacanti; pure i vescovi doveano a Roma ricevere la
consacrazione dal papa.
Gastaldi e sculdasci aveano ceduto i giudizj a balii, giustizieri,
castellani, i quali, col re a capo e con privilegi distinti, formavano
una gerarchia d’amministrazione, che fu la prima foggiata alla moderna,
non composta di vassalli feudalmente congiunti al signore, ma di
uffiziali che coordinatamente esercitavano la porzione di potere ad
essi affidata. Mentre dunque l’antica nobiltà restava in opposizione ai
conquistatori, una nuova nascea di gente ammessa agli impieghi, fosse
natìa o forestiera[221]: nel che pure il siciliano differiva dagli
altri diritti.
Alle leggi longobarde, che fin allora avevano forza di diritto comune,
con qualche mistura delle romane e delle consuetudini scandinave,
Ruggero sostituì le _Costituzioni_, promulgate nelle pubbliche
assemblee di baroni, uffiziali e vescovi, e che valeano in ambe le
parti del Regno. Desunse dal diritto romano la legge che dichiara
sacrilegio il mettere in disputa i fatti, i consigli, le deliberazioni
del re. Morte comminò a chi tosa o áltera la moneta; a chi rapisce una
dal monastero, sebbene non ancora velata e a titolo di sposarla; al
magistrato che malversa il pubblico denaro, o al giudice che si lasciò
corrompere; a chi dà farmachi per ispirare avversione, o ferisce a
morte alcuno nel rotolare o menare un sasso o una trave senza darne
avviso. Vietò severamente di vendere o alienare i feudi, nè che i
feudatarj contraessero matrimonj senza consenso del re, e tanto meno
maritassero le proprie figlie aventi l’eventualità di succedere.
Nessuno eserciti la medicina se non licenziato: nessuno sia fatto
cavaliere nè giudice se non venga da stirpe di militi e notaj. Molte
pene concernono le adultere e le prostitute. Chi vende un uomo libero è
ridotto in servitù[222].
Ruggero è da’ suoi esaltato colle lodi che sogliono prodigarsi al
fondatore dell’indipendenza d’uno Stato, e all’ambizione fortunata
di chi non tien conto della moralità dei mezzi. Perduti i figliuoli
Alfonso e Ruggero, l’unico superstite Guglielmo fe coronare come
collega (1154); e poco stante morì a sessantun anno, dopo ventiquattro
di regno.
Avaro, sospettoso, pusillanime, inetto riuscì quel suo successore; e
chiuso nella reggia fra sozzi e barbari piaceri, del ben pubblico non
si dava pensiero. Gl’imperatori d’Oriente e d’Occidente ne presero
baldanza di mettere in campo opposte pretensioni sopra il Reame,
mossero armi, e sollecitarono i baroni sempre inquieti. Questi aveano
avuto ricorso al Barbarossa, e quand’egli scese in Italia la prima
volta, si sollevarono dappertutto; ma esso non potè ajutarli. Bensì
gl’imperatori greci, che anelavano vendicarsi delle spedizioni dei due
Ruggeri, e che già possedeano Ancona ed altri porti sull’Adriatico,
occuparono Brindisi, che divenne il quartiere de’ baroni rivoltosi:
ma Majone, oliandolo di Bari, coll’ingegno, l’eloquenza e l’arte del
simulare e dissimulare divenuto cancelliere e grand’almirante del
regno, ed arbitro de’ consigli e degli atti di Guglielmo, riprese
questa città, e i ricoverati fece uccidere, abbacinare, sepellire nelle
carceri di Palermo. Di ciò si volle gran male a Majone, e dell’aver
lasciato che la fortezza di Mahadia sulle coste d’Africa, tenuta dai
Siciliani, soccombesse ad Abd al-Mumin re di Marocco. Spargeasi pure
che colui volesse impossessarsi della corona; onde i baroni cospirarono
contro di esso; Campania e Puglia si sollevarono; lo stesso conte
Matteo Bonello, da lui predestinato genero, se gli avversò, e riuscì
ad ucciderlo e a tenere prigioniero Guglielmo (1161). L’abuso della
vittoria fece esosi i congiurati, onde alla fine Bonello fu preso ed
accecato, rimesso l’ordine coi supplizj, e Guglielmo serbò nella storia
il titolo di _malvagio_.
Quel di _buono_ fu dato a suo figlio Guglielmo, che succeduto (1166)
sotto la tutela di Margherita di Navarra, bello e giovane, procurò
cattivarsi i cuori scarcerando quella folla di prigionieri di Stato;
ma le fazioni inferocirono per disputarsi influenza nella tutela; e
le eterogenee parti ond’erasi compaginato ma non formato quel regno,
tendevano a separarsi. Margherita cercò appoggio empiendo la corte di
Franchi, tra i quali Ugo Falcando, detto il Tacito della Sicilia pel
nero e vibrato modo con cui descrisse quelle turbolenze; e di varj
prelati e gran savj in diritto. Ma da contrasti e guerre il paese
era tutto sovvolto, non meno che da tremuoti, pei quali Catania fu
distrutta, squarciate Taormina, Lentini, Siracusa; le fonti versarono
acque sanguigne; il mare nel Faro si ritirò, poi ringorgando verso la
riva elevossi fin sopra le mura di Messina, tutto miseramente lavando
(1169).
Guglielmo, tenutosi amico di Alessandro III, impedì che il Barbarossa
attentasse al suo regno; ebbe nobil parte alla conchiusione della lega
Lombarda e della pace di Venezia; poi armato per ristabilire Alessio
Comneno sul trono d’Oriente, prese Durazzo, Tessalonica ed altre piazze
di Grecia, ma da Costantinopoli fu respinto. Ajutò pure Antiochia,
Tiro, Tripoli contro il Saladino; ma di soli trentasei anni morì
(1189). La tradizione raccontò che Guglielmo il Malvagio avesse voluto
smungere tutto il denaro del suo popolo; e per far prova se alcuno ne
avesse ritenuto, mandò a vendere in piazza per tenue prezzo un suo
bellissimo cavallo arabo. Un giovane signore lo comprò in fatto, il
quale, chiesto in processo, confessò aver violato la tomba del proprio
padre per tôrre quel poco denaro. Tutto quel tesoro fece Guglielmo
sotterrare, poi corrervi sopra un fiume: ma Guglielmo il Buono riuscì
miracolosamente a scoprirne il posto, ed ivi, in riconoscenza, fabbricò
la magnifica badia di Monreale, dove ebbe la tomba, e che attesta la
suntuosità e il progresso dell’arti sicule in quell’età.
Di Guglielmo non restando figli, l’eredità ricadeva in Costanza
figlia postuma di Ruggero II e perciò sua zia[223]. Benchè di là dai
trent’anni, il Barbarossa erasi affrettato a cercarla sposa per suo
figlio Enrico; e l’inglese Gualtiero Ofamiglio, arcivescovo di Palermo,
indusse il debole Guglielmo a consentirgliela. Costanza partì con più
di cencinquanta cavalli carichi d’oro, argento, sciamiti, pallj grigi,
vaj ed altre buone cose[224]; e le nozze furono celebrate in Milano con
istraordinaria magnificenza, ma non colla benedizione dell’arcivescovo,
che era papa Urbano III, reluttante da un connubio che saldava in
Italia una famiglia ereditariamente avversa ai pontefici per la
successione della contessa Matilde, e che li privava dell’appoggio
avuto sin allora contro le esuberanze imperiali, e preparando l’unione
anche di quella corona all’Impero, scassinava l’edifizio eretto
dall’ardita perseveranza di Gregorio VII.
Guglielmo avea chiuso gli occhi fra i preparativi della terza crociata
che dicemmo; ed essendo allora i feudatarj occupati oltremare, Enrico
VI non potè mandar forze ad occupare violentemente il Regno; sicchè
estremo disordine vi irruppe. Poco badando ad Enrico e Costanza
lontani, chiunque teneva al lignaggio dei Normanni pretendeva una
porzione di dominio, e se la disputavano[225]; nell’isola i baroni
ripetevano il prisco diritto elettorale delle assemblee nazionali
come in trono vacante; nella terraferma (solita peste) si amava il
contrario per gelosia verso Palermo: l’arcivescovo Gualtiero sosteneva
il diritto ereditario di Costanza, e il giuramento ad essa prestato
in Lecce; Matteo d’Ajello, vicecancelliere, vecchione abile a condurre
un partito, animava quei che repugnavano dal vedere la Sicilia, fatta
indipendente pel valore de’ Normanni, or in piena pace cadere a re
straniero e avverso, e negava che, come a feudo, potesse una donna
succedere; i più aborrivano la dominazione tedesca, e lo storico
Falcando ripeteva: — Dio vi guardi da cotesti armati di Germania,
barbari, grossolani, stranieri ai costumi e alla civiltà vostra! Sotto
il Tedesco, Sicilia più non sarebbe che una miserabile provincia,
disgiunta dal suo sovrano, abbandonata alle espilazioni de’ suoi
uffiziali. Già parmi vederla invasa da quelle orde portate dall’impeto
a stremare col terrore, colla strage, colle rapine, colla lussuria,
e far serva quella nobiltà di Corintj che pose anticamente nido nella
Sicilia, indarno bella di filosofi e poeti tanti, e cui sarebbe tornato
men grave il giogo degli antichi tiranni. Guaj a te, Aretusa, volta
a tanta miseria, che mentre solevi modulare i carmi de’ poeti, or odi
l’ebbrietà delle tedesche baruffe, e servi alle loro turpezze!»[226].
Come avviene quando l’autorità è sfasciata, la ciurma e gli
arruffapopolo alzarono il capo; e poichè in tali occasioni vuolsi
sempre qualche capro espiatorio, si buttarono sovra i Saracini.
Per quanto tollerati, non poteasi sperar pace fra antichi padroni e
nuovi, fra due religioni così repugnanti, l’una guardante a Marocco,
l’altra a Roma. Gli Arabi aveano trescato nella minorità di Guglielmo,
e Abu’l-Kassem degli Amaditi d’Africa s’era accordato cogli eunuchi
di palazzo e coi baroni malcontenti per isvertare Stefano da Perche
francese. Ora i Palermitani saccheggiarono le case de’ Saracini, e
molti uccisero; gli altri a forza s’apersero la ritirata fino in val di
Mazara, ove i centomila loro fratelli presero l’armi per vendicarli,
nè chetarono finchè non ebbero promessa di sicurezza e de’ primitivi
privilegi.
Quand’anche tali incendj nascono spontanei, v’è chi vi soffia,
acciocchè la necessità dell’ordine costringa a prendere il partito
che il primo scaltro suggerisce: e il partito or fu si convocasse il
parlamento de’ baroni e si eleggesse un re.
Ruggero duca di Puglia, fratello maggiore del primo re di Sicilia,
dalla figliuola di Roberto conte di Lecce avea generato Tancredi, e
presto lasciatolo orfano. Guglielmo il Malvagio perseguitò questo
bastardo, e prima in carcere, poi lo spinse in esiglio: l’altro
Guglielmo l’accolse, gli affidò l’esercito contro la Grecia, e lo
titolò conte di Lecce. Istrutto dalla sventura, prudente, educato alle
matematiche, all’astrologia, alla musica, parve degno della corona e
l’ottenne: la _matrice_ di Palermo, specioso monumento di architettura
moresca mista a normanna, e dove ancora si ammirano, benchè guaste
dall’incendio del 1811, le tombe di porfido di quei re, risonò
d’applausi alla coronazione di Tancredi e del suo figlioletto Ruggero;
e fu riconosciuto pure da tutte le provincie di terraferma, e investito
ben volentieri dal pontefice.
Di quel tempo i Crociati d’Inghilterra e di Francia, guidati dai loro
re Ricardo Cuor di Leone e Filippo Augusto, eransi data la posta a
Messina, onde di conserva, dopo la svernata, passare in Terrasanta.
Fiera burrasca gittò la flotta genovese sulle coste di Calabria,
per modo che i Francesi, perduti cavalli e provvigioni, poveramente
approdarono in Sicilia. Ricardo, di gente normanna e d’impaziente
arditezza, quasi solo traversò a cavallo le montagne di Calabria, e
si tragittò a Messina. La caccia era rigorosissimamente osservata in
Inghilterra: non così in Sicilia: onde Ricardo, mentre a quella si
divertiva, udito un falco stridire nell’abituro d’un villano, entrò
per portarglielo via. I nostri, men chinati nella servilità, a pietre
e bastoni respinsero il prepotente, che solo alla fuga dovette la
salvezza.
A Tancredi dava noja l’arrivo di Filippo Augusto, alleato d’Enrico
VI, e di Ricardo fratello della vedova di Guglielmo, da lui tenuta
prigione. In fatto fu costretto rilasciar questa, restituendole la
dote di ventiquattromila once d’oro; ma Ricardo pretendeva anche, come
assegno vedovile, quantità di vasi d’oro e d’argento, un trono, due
tripodi, e una tavola larga mezzo metro e lunga quattro, tutti d’oro,
una tenda di damasco bastante a ducento cavalieri, inoltre cento galee
provvigionate per un anno. Tanto era di ricchezze famosa la Sicilia!
Ricusato, l’Inglese aggredì Messina; ma questa si difese a sassi, tanto
che Ricardo dovette venire ad accordo, giurando pace e protezione, e
fidanzando una figlia di Tancredi all’erede d’Inghilterra.
Enrico VI, coronato re dei Romani, per sostenere i minacciati suoi
diritti venne in Italia (1191) coi feudatarj, che rovinatisi nella
crociata, qui speravano rifarsi; e come suo padre fantasticando la
dominazione universale, si prefiggeva di conquistare la Sicilia,
farsi coronare a Roma, avere in arbitrio la Lombardia e la Toscana,
sottomettere le coste d’Africa già tributarie ai Normanni, conquistare
il trono di Costantinopoli, preda immancabile del primo occupante.
Ma, non che gli bastassero forze a sì larghi disegni, dovea cercarne
alle città lombarde col conceder loro la sua alleanza e sempre nuovi
privilegi.
Coi soccorsi di esse e delle repubbliche marittime, calò verso Roma.
Celestino III, sortito allora papa d’ottantacinque anni, procrastinava
la propria consacrazione per non dovere coronare Enrico; onde i Romani
offersero a questo di costringervelo, purchè egli abbandonasse alla
loro vendetta Tusculo, contro di cui non aveano cessato mai l’odio, e
di rado la guerra. Compiacque Enrico al fratricida desiderio (1191 —
13 aprile); unto il papa, Enrico e sua moglie dopo iterati giuramenti
furono ricevuti in città. Entrati da porta Collina gettando denari al
popolo perchè applaudisse, procedettero per Borgonuovo fin a Santa
Maria Transpontina, donde il clero in processione li condusse al
Vaticano. Precedeano il prefetto di Roma colla spada sguainata, il
conte del sacro palazzo, i magistrati della repubblica, poi i giudici,
i camerieri, l’imperatrice, i vescovi tedeschi e italiani, i principi
e dignitarj dell’impero. Celestino stava sopra elevato trono in capo
alla scalea di San Pietro, coi cardinali, vescovi e preti alla destra,
i diaconi alla sinistra, e dietro i suddiaconi colla nobiltà romana e
gli uffiziali di palazzo. Il re, scavalcato, andò al bacio del piede
pontifizio, e ginocchione colla mano sul Vangelo giurogli fedeltà,
e di soccorrerlo a mantenere i possessi, gli onori, i diritti. Il
papa gli chiese tre volte se volesse rimanere in pace colla Chiesa,
e mostrarsene figlio rispettoso; e avuto il sì, ripigliò: — Ed io ti
ricevo come figlio diletto, e ti do la pace come Dio la diede a’ suoi
discepoli», e lo baciò.
Allora mossero in processione; e alla porta Argentea esaminato sulla
fede religiosa, l’imperatore ebbe il chiericato, promettendo riprovare
gli eretici, ed assister poveri e pellegrini. Il cardinale d’Ostia
unse Enrico al braccio destro e fra le spalle; il pontefice gli porse
l’anello, la spada, lo scettro, e impose la corona d’oro a lui e alla
moglie[227]. Poi si celebrò il santo sacrifizio, durante il quale si
cantava vittoria e lunga vita al papa, all’imperatore, all’imperatrice;
l’imperatore offrì pane, cera, oro, e ricevette l’eucaristia. Finita la
messa, dal conte del palazzo gli furono posti gli stivaletti imperiali
e gli sproni di san Maurizio; poi tenne la staffa del cavallo bianco
del papa, e l’addestrò fin al Laterano: al pasto, sedette alla destra
del pontefice, mentre l’imperatrice in separata sala convitava vescovi
e grandi.
Non mancò lo spettacolo del sangue, poichè la guarnigione tedesca
uscì di Tusculo, ed i Romani, senza udir prego nè pianto, uccisero,
accecarono, mutilarono quegli abitanti, e disfecero il paese[228].
Alcuni poterono fuggire tra le montagne; altri, per amore del luogo
natìo, si tennero vicino alla patria devastata sotto _frascati_, che
poi dieder nome al paese che vi succedette.
Lasciato così deplorabile segno di sua presenza, Enrico con grosse
armi, colle promesse, colla corruzione procede alla conquista; e
contraddetto dal papa[229], ajutato dall’abate di Montecassino, prende
e devasta Roma, e senza incontrare ostacoli arriva sotto Napoli e
l’assedia. Questa, ristretta allora al quartiere che dalle falde
di Sant’Elmo e di Capodimonte declina al mare, difesa da robusti
spaldi e da buone truppe comandate dal prode Aligerno Cuttone, e col
mare aperto, resiste: Pisani e Genovesi menano navi per secondare i
Tedeschi, che intanto devastavano la campagna: ma le malattie puniscono
gli invasori, sicchè Enrico è costretto tornare in Germania pensieroso
più che pentito; Genovesi e Pisani cessano di caldeggiare un alleato
infelice; i Salernitani arrestano Costanza e la consegnano a Tancredi,
che la tiene prigioniera in Sicilia, finchè, ad istanza del papa, la
restituì senza patti nè riscatto, fidando nella gratitudine.
Tancredi, che non avea saputo mostrarsi degno del diadema col
difenderlo in persona, morì ben presto, ed essendogli premorto il
primogenito (1194), non lasciava che il fanciullo Guglielmo III in
tutela di sua moglie Sibilla d’Acerra, in mezzo a gare de’ baroni coi
cavalieri, inviperite, lunghe, disastrose e a nulla conducenti. Era
uscita alla peggio la crociata; e Filippo Augusto, sbarcato a Otranto,
ebbe a Roma dal papa dispensa dal voto e la palma de’ pellegrini: anche
il Cuor di Leone, dopo imprese da paladino, tornò in Europa travestito
per isfuggire ai molti nemici; ma il duca d’Austria lo colse, e lo
cedette all’imperatore (1192) per sessantamila marchi d’argento; e
questi lo rivendette all’Inghilterra per centomila, oltre metà tanti
per finire l’impresa di Sicilia[230].
Al fiuto di questa somma accorsero i baroni tedeschi ad offrirsi
ad Enrico, che allestitosi, scese nella Lombardia. La trovava in
nuovi subugli. I vescovi aveano perduto l’autorità temporale, nè
i Comuni ancora assodata la propria in modo d’aver pace. I diversi
ordini partecipavano diversamente al Governo, e secondo i varj paesi
variavano le relazioni coi vicini, per modo che ogni città regolavasi
con politica e leggi differenti, demolito l’antico, non istabilito
il nuovo. Le leghe riuscivano meno a stabilir la concordia che ad
impacciare la legge; i signori conservatisi indipendenti s’arrogavano
diritti di sovranità; le città maggiori voleano sottomettere le vicine,
ed eroismo era l’energia dell’odio. Che se tra quella confusione (del
resto naturale ad ogni reggimento nuovo) alcuno ergevasi a metter
ordine, sì il faceva con guise tiranniche.
Essendosi Enrico mostrato propizio a Pavia e Cremona (1194),
permettendo a quella di valersi di tutte l’acque del Ticino, e a questa
sottomettendo Crema, le due imbaldanzite eransi collegate con Lodi,
Como, Bergamo e col marchese di Monferrato a’ danni di Milano; la quale
nelle giornate campali riusciva superiore, è vero, ma trovavasi cinta
di nemici, che le sperperavano le campagne e rompevano i commerci.
Enrico, raccolti gli stati a Vercelli, procurò instaurare la quiete;
ma lontano e dalla politica e dalla forza del padre, scarsamente
approdò; onde seguì sua via per Genova, anch’essa sovvertita da
fazioni, da frequenti zuffe, da effimeri Governi, e che allora stava
sotto al podestà Oberto di Olevano pavese. Ai Genovesi scrisse: —
Se, ajutanti voi, io ricupero il Reame, mio sarà l’onore, vostro il
profitto: giacchè non io od i Tedeschi miei vi soggiorneremo, ma voi
stessi»; e seguiva confermando le esenzioni precedenti, e dando nuove
giurisdizioni e privilegi, la città di Siracusa, ducencinquanta feudi
in val di Noto: a Pisa parimenti concesse in feudo Gaeta, Mazara,
Trapani, e metà di Palermo, Salerno, Napoli, Messina, oltre molti
ingrandimenti in Toscana. Così largheggiando di promesse quanto meno
intendeva mantenerle, ottenne soccorsi; poi entrato nel Reame, ebbe
spontanee tutte le città, perfino quella Napoli, che poc’anzi si era
con tanta costanza sostenuta. Salerno, sentendosi rea d’aver tradito
l’imperatrice Costanza, si difese ostinata; ma presa, fu messa a
sacco e ferro, neppur risparmiando le chiese, e i cittadini migliori
impiccando, torturando, cacciando in prigione o in esiglio, sicchè la
città, di famosa importanza sotto i Longobardi e i Normanni, più non
risorse. Capua pure fu espugnata a forza da Guglielmo di Monferrato e
da’ Genovesi e Pisani: Eraclea (Policora), patria di Zeusi, colonia
fiorentissima in antico, fu distrutta: qualunque città esitasse a
sottomettersi, era devastata senza pietà. In Sicilia sottoposte Messina
e Palermo, l’imperatore, colla pompa che suggerisce la paura, fu
incoronato, e tutta l’isola gli giurò obbedienza.
Con fallaci lusinghe aveva egli tratto Sibilla ed i figliuoli dal
castello di Calatabelotta, dove s’erano fortificati coi loro fedeli;
poi raccolti gli stati a Palermo, accusò lei e molti grandi di una
congiura. Non la fondava che sopra una lettera consegnatagli (diceva)
da un frate; ma bastò perchè quanti aveano tenuto col partito
nazionale, laici od ecclesiastici, fossero mandati alla forca o al
palo, accecati, arsi vivi, esposti alle beffe, relegati in Germania; re
Guglielmo, toltogli il vedere e il generare, fu tenuto prigione finchè
andò monaco; Sibilla e le figlie rapite in carcere, poi nella badia di
Hohenbruck in Alsazia; turbate le ossa di Tancredi per istrappare il
diadema a lui e al figlio Ruggero; bruciati quanti aveano contribuito
alla loro coronazione.
Fu spenta così nel sangue la dinastia normanna, di cui i regnicoli
ricordano ancora con compiacenza i tempi e le famose ricchezze. Re
Tancredi avea dato ventimila oncie d’oro per dote di sua figlia;
Arnaldo di Lubecca ci rammentò le tavole, i letti, le sedie d’oro nel
palazzo di Palermo; Ruggero Hoveden fa trovare da Enrico nel tesoro di
Salerno ducentomila oncie d’oro; e in quel di Palermo senza fine armi
ricche, stoffe d’oro e d’argento, sete ricamate, altre preziosità, con
cui potè far larghezza a’ suoi fedeli; eppure censessanta somieri vi
vollero per trasportarne il resto nel castello di Trifels[231].
Con tirannia stolidamente feroce sottentrava la dinastia sveva, che
mal per lei. Anche le città sottomessesi volontarie, furono trattate
come conquista; Siracusa e la risorta Catania incendiate, senza
riguardo a nobiltà o a grado; Napoli e Capua smantellate, e per le
vie di questa trascinato a coda di cavallo, poi impeso pei piedi, indi
strozzato da un buffone Ricardo conte d’Acerra, cognato di Tancredi,
ultimo lustro dell’antica dinastia. Giordano e Margaritone, più ligi
all’imperatore perchè un tempo avevano sguainato pe’ suoi nemici,
inventavano delitti e trame, affine d’intitolar punizione la vendetta.
Uno ch’erasi millantato di poter rendere la libertà e il trono a
Sibilla, fu collocato sopra un seggio di fuoco, con corona di ferro
rovente: massime su ecclesiastici e prelati s’infierì, e chi fu arso,
chi scorticato, chi mutilo, chi mazzerato.
Non che mancare alle condizioni promesse a Genovesi e Pisani, Enrico
li fraudò degli antichi privilegi, proibendo vi tenessero consoli,
e proscrivendo tutti i negozianti forestieri. Del papa non si curò
più che tanto, nè gli chiese l’investitura; onde questo l’avrebbe
scomunicato, se nol tratteneva la naturale bontà, e la speranza che
mantenesse la ripetuta promessa di crociarsi.
Dava fiducia di presti cambiamenti il non aver successori il re svevo;
quando si annunziò che Costanza era feconda. Enrico volle venisse nel
Reame, quasi per dare un re indigeno; e avendo essa partorito a Jesi,
al bambino pose nome Federico Ruggero, come quello che univa i due
sangui nobilissimi. I Ghibellini ne fecero galla; i Guelfi sparsero
ogni sorta di dicerie su questo intempestivo natale[232]; ed Enrico ne
prese baldanza a compiere il disegno del Barbarossa di far ereditario
l’impero in sua casa, tanto più da che trovavasi favorito dalla
vittoria e dai tesori della Sicilia.
Cominciò dal sistemare la media Italia in modo di tener soggetta tutta
la penisola. Pertanto a Filippo, ultimo figlio del Barbarossa e che poi
divenne duca di Svevia, diede in moglie Irene figlia d’Isacco Langelo
imperatore di Costantinopoli, e vedova del primogenito di Tancredi; e
in feudo la Toscana ed altri beni della contessa Matilde: a Markwaldo
d’Anweiler suo siniscalco, e ministro delle crudeltà, infeudò la marca
d’Ancona: a Corrado di Svevia quella di Spoleto usurpandola alla Chiesa
con titolo di rintegrare le imperiali prerogative, e restringendo
il papa a poco più che all’indocile Roma. Vedendosi riminacciato il
giogo degli Svevi, le città guelfe di Lombardia, da lui poste al bando
dell’Impero, rinnovarono a Borgo Sandonnino la Lega Lombarda (1193 — 13
giugno), alla quale diedero il nome Verona, Mantova, Modena, Faenza,
Bologna, Reggio, Padova, Piacenza, Gravedona, oltre Crema, Brescia e
Milano. Così i Guelfi perseveravano nell’assunto loro di campare Italia
dalla straniera servitù.
E servitù veramente minacciava Enrico, avvicendando crudeltà e perfidie
contro i nostri non solo ma anche contro i Tedeschi. Raccolti gli
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