Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 11

fabbricato la torre di piazza. In Lucca già nel 1203 esisteva la
società di Concordia de’ pedoni (probabilmente detti in opposizione
ai cavalieri o nobili) con priori e capitani e giuramento d’ajutarsi
a vicenda con armi e senza, rifarsi reciprocamente dei danni; e guaj a
chi offendesse alcun di loro: nessuno poteva essere accusato ad altro
giudice prima d’informarne i priori[199].
Non di rado i Comuni affidavano il governo, o parte di esso, o un
affare, od un’amministrazione, o l’eseguimento d’una condanna a
qualcuna di siffatte compagnie; e dove l’una esorbitasse, se ne
innalzava una contraria.
In Chieri erano le società de’ Militi e di San Giorgio; e della seconda
abbiamo gli statuti, preziosi a qui ricordarsi[200]. Vi si entrava
per successione o per nomina: chi ne uscisse per passare in altra,
era passibile di cinquanta lire e dell’infamia. La società pagava le
imposte di ciascuno; e solo ai membri di essa poteano vendersi le case
e le terre. Come il Comune, quella città era ordinata sotto quattro
rettori cittadini o un solo forestiero, che duravano quattro mesi,
con notaj e massari per le spese ed entrate. Eravi un minor consiglio
ed uno maggiore, il quale eleggeva i rettori. Non poteansi proporre
per gli uffizj del Comune se non membri della società; non arringare
contro il partito preso da questa; e poteva obbligarsi ogni membro a
dir nel consiglio pubblico il suo parere; che se per ciò incadesse in
una multa, era pagata dalla compagnia. Ai rettori di questa incombeva
di difendere i membri, e mantenerli illesi, dovess’anche urtare contro
le deliberazioni del Comune. Alcun di essi era insidiato? lo facevano
custodire: ferito o percosso? domandavano riparazione e compenso:
non l’ottenevano? toccavasi a stormo, e tutti tutti gli accomunati
erano tenuti prender le armi, e correre a mettere a ferro e fuoco i
beni dell’offensore; e così gli anni successivi, in sino a che non
si fossero accordati. A chi rifiutasse obbedire alla chiamata, o non
soccorresse al compagno avvolto in contese, multa di cinquanta lire.
Niuno praticasse con chi aveva offeso uno della compagnia.
Non è questa una repubblica costituita nella repubblica? e gl’interessi
de’ consorti poteano essere in collisione con quelli del Comune, e la
loro unione facea che fossero pronti a sorreggere una parte o l’altra
nelle insurrezioni, che così invelenivano di ciò ch’era preparato
per loro rimedio. A Siena nel 1371 i lavoranti di lana garriscono coi
loro maestri, pretendendo essere tassati secondo le leggi del Comune,
non secondo quelle dell’arte; e levano rumore, minacciando sangue:
ma la forza pubblica prevale, e presine tre, li mette alla corda; i
compagni per liberarli s’avventano alle armi, la città prende partito
per essi; la querela diventa politica, gli ordini pubblici ne restano
mutati, e gli artigiani dominarono in Siena, fin quando nel 1384 i
nobili, unitisi al popolo minuto, li spodestarono, e fin a quattromila
ne espulsero: onde la città perdette le arti, e se ne bonificarono
l’Anconitano, il Patrimonio, il Regno e Pisa[201].
Le taglie che già si solevano pagare ai re o ai conti, furono forse
conservate, pagandole al Comune: ma di esse e del sistema di esazione
non si raccoglie soddisfacente concetto; e il variare di qualità
e quantità secondo i tempi, a fatica si seguirebbe in una storia
municipale, non che in questa generale. La rendita maggiore proveniva
da gabelle e dazj che, secondo la scarsa economia d’allora, molto
gravavano sulle merci introdotte ed esportate. Da principio quelle che
entrassero nelle città o sul distretto pagavano per teloneo un tanto
al carro o alla bestia: dipoi più equamente si prefinirono tariffe
sul valore. La prima milanese è del 1216, e impone quattro denari
per lira del prezzo delle mercanzie, cioè un mezzo per cento: poi
nel 1396 fu alzata al dodici per lira, cioè cinque per cento, senza
distinzione[202]. Fruttavano pure all’erario le multe de’ condannati e
le confische. Poi il genio fiscale altre imposizioni introdusse, come
quella del sale[203], dei forni, del bollo alle misure, del vino al
minuto, delle acque di pubblica ragione.
In maggiori strettezze ricorrevasi a prestiti, dando in pegno qualche
preziosità, come i Milanesi diedero più volte il tesoro di Monza.
Quel Comune, per combattere Federico II, supplì alla carezza del
denaro con carta monetata, prefiggendo potessero con essa scontarsi
le pene pecuniarie; il creditore privato non fosse tenuto riceverla
in pagamento, ma il debitore non restasse esposto al sequestro se in
cedole avesse tanto da spegnere il suo dovere. Per togliere di giro
questa carta monetata si pensò formare il catasto de’ beni, neppure
eccettuati gli ecclesiastici, misurati da geometri, e prezzati
dall’uffizio degli inventarj. Con tale provvedimento il debito
fluttuante restò rimborsato nel 1248; ma per fare il Naviglio grande,
poi per uno o per altro titolo la tassa venne prolungata[204].
I Milanesi lagnavansi che i nobili, abitando in campagna, si
sottraessero ai carichi dello Stato; nella concordia del 1225 questi
soli, e non la plebe, si volle soggetti alle taglie. A Firenze, il
1362, non trovandosi chi prestasse al cinque per cento, ser Piero di
Grifo, uomo molto saputo in tali materie, suggerì che, a chi prestasse
cento fiorini, gliene fosse scritto trecento; onde quel monte fu detto
_dell’uno tre_. Poi, per altra guerra, a chi prestava cento si scrisse
ducento, e chiamossi il monte _dell’uno due_. Nel 1380 fu ridotto
tutto al cinque per cento, e il capitale nominale al reale; dal che
nacque grandissima confusione a motivo di quelli che aveano venduto e
comprato.
Il catasto sovra dichiarazione giurata del possessore e di testimonj
si eresse a Genova nel 1214, a Bologna il 1235, a Parma il 1302. In
Firenze al 1336, secondo Giovan Villani, i tributi erano, la gabella
della mercanzia, del sale, de’ contratti, il vin minuto, le bestie,
la macina, e _l’estimo del contado_, fruttanti in tutto trecentomila
fiorini. Pare da ciò che solo il contado fosse colà sottoposto a
taglia, forse per conguagliare le gravezze particolari ai cittadini:
e in fatto l’estimo della città non potè farsi stabilmente che per
opera di Giovanni Medici nel 1427, obbligando a descrivervi tutti i
beni mobili od immobili che ciascuna famiglia possedesse dentro o fuori
del dominio fiorentino, compresevi le somme di denaro, i crediti, i
traffichi, le mercanzie che avevano, _gli schiavi e le schiave_, i
bovi, i cavalli, le gregge d’altri animali, regolando al sette e mezzo
per cento, sicchè ogni sette fiorini di rendita se ne poneva cento di
stima. Sottraevansi le spese e i carichi, poi dell’avanzo si riscoteva
la decima. Chi non pagasse metteasi a specchio, cioè si registrava in
un libro, e rimaneva escluso dalle magistrature.
Chiese, monasteri, ecclesiastici andavano immuni, coi loro contadini e
livellari, e fin coi beni di nuovo acquisto, per quanto le Repubbliche
tentassero aggravezzare almeno questi; e a malincuore i preti
s’inducevano a pagare pei beni patrimoniali, non però in mano di laico,
ma del vescovo, cui per tale occorrente comunicavano il registro dei
loro beni[205].
Le imposte moderate, tali cioè che il gravato creda poterle sostenere
col crescere di operosità, servono di stimolo; scoraggiano allorchè
costringono a mutare le abitudini; giudicate importabili, svogliano
dagli sforzi, e uccidono l’industria. I Comuni nostri mostravansi al
fatto persuasi che ogni spesa fatta dal Governo al di là di quel che
occorre a conservare e proteggere l’ordine sociale, è un dissipamento
e un’ingiustizia oppressiva: ma per questo vorremo noi misurare la
felicità d’un paese dai centesimi dell’estimo?[206].
Il valutare le rendite è difficilissimo, prima perchè di lor natura
sono variabili, poi perchè la scarsezza del denaro faceva se ne
esigesse gran parte in derrate; oltrechè le forme della contabilità
erano troppo diverse dalle odierne.
Variissimi erano i modi dell’esazione, i tesorieri, i deputati alle
grasce e all’annona, eletti parte dal pubblico consiglio, parte dal
podestà, parte a sorte, e da’ feudatarj nelle proprie giurisdizioni,
ma sempre sottoposti al sindacato. Spesso la riscossione affidavasi
a qualche monaco, od a corpi religiosi, come più disinteressati; e
per renderla più sicura ordinavasi perfino a chi non l’avesse ancor
pagata non venisse resa giustizia[207]; del quale ripiego si valeano
principalmente per tassare anche i cherici. Nel contado a ciascuna
pieve si assegnava una quota da ripartire fra le ville ed esigere:
al qual uopo v’avea consigli o adunanze; dove sussistevano ancora
i visconti vescovili, questi presedevano a tal bisogna insieme coi
consoli di campagna.
Le case costituivano quasi la garanzia del cittadino in faccia
al Comune. Pertanto il venderle equivaleva a perdere la qualità
d’accomunato; per ciò stesso di chi fosse espulso veniva demolita
l’abitazione, e al forestiere non si permetteva di possederne; e i
nobili di campagna, quando fossero accettati in città, per prima cosa
vi fabbricavano un palazzo. Ad Ivrea si considerava cittadino chi vi
abitasse, possedesse pel valore di dieci lire, fosse scritto nel libro
dell’imposta del Comune[208].
Zecche ebbero già i Longobardi a Pavia, a Milano, Verona, nel Friuli,
a Lucca, e forse a Spoleto e Benevento; e possiam credere continuasse
così sotto ai Franchi e agli imperatori tedeschi: ma presto conti
e marchesi domandarono o pretesero moneta propria. Per privilegio
dell’imperatore Lotario I a Manasse, gli arcivescovi soli poteano
coniarne a Milano; diritto che conservarono finchè la repubblica il
trasse a sè. Altrettanto sarà addivenuto nell’altre città, e ci restano
monete di più di cento zecche nostrali: anche alcune famiglie n’aveano
il diritto, come in Piemonte i discendenti di Aleramo, marchesi di
Monferrato, di Saluzzo, di Ceva, di Busca, di Savona, del Carretto; e
alcuni feudatarj dell’Impero, quali i conti di Desana, di Crescentino,
di Cocconato, ecc. Per lo più quelle monete aveano corso soltanto nel
paese.
Tentò il Barbarossa ritrarre a sè questa regalia, e fece battere i
soldi imperiali nei villaggi dove avea distribuito i cittadini della
distrutta Milano; ma poi la dovette consentire alle città federate,
le quali ben presto all’effigie dell’imperatore surrogarono i santi
patroni[209]. Cadute le repubbliche ai tiranni, Azzone Visconti a
Milano diede il primo esempio di stampare del proprio nome le monete:
Genova ne battea prima del 1139, quando ne chiese e ottenne privilegio
da Corrado II di Germania. A imitazione del genoino, i Fiorentini
nel 1252 batterono il ducato, che da una parte recava il Battista,
dall’altra il giglio, donde il nome di fiorini che si propagò in tutta
Europa, con oro di ventiquattro carati, e il peso d’un ottavo d’oncia,
o un sessantaquattresimo di marco, e divideasi in venti soldi[210].
Subito gl’imitarono Francesi, Ungheresi ed altri popoli, e fra noi i re
di Napoli, i conti di Savoja, i marchesi di Monferrato, i Veneziani;
e molto accreditato fu in commercio lo zecchino veneto, battuto
primamente nel 1284, sul quale si conservarono sempre la rozza impronta
primitiva del doge che riceve lo stendardo da san Marco, e la barbara
e devota iscrizione _Sit tibi, Christe, datus quem tu regis iste
ducatus._
Dacchè la lira cessò d’equivalere veramente al peso d’una libbra d’oro
o d’argento, variò senza limite la proporzione, solo sussistendo la
divisione in venti soldi, e del soldo in dodici denari. Non entreremo
nel pecoreccio degli avvicendati valori delle monete e del conguaglio
fra l’oro e l’argento; e basti dire che quest’ultimo era principalmente
adoperato nel commercio di Levante e che in generale vuolsi fare stima
che la scoperta dell’America ne ridusse il valore a un sesto, e a un
terzo quel dell’oro.
Monete di rame non si conoscono de’ tempi barbari, onde o mancavano al
giornaliero commercio, o si dovea coniarne di argento troppo sottili, o
peggiorare la lega.
È argomento dell’opulenza italiana che Venezia, all’entrare del secolo
xv, battesse l’anno un milione di zecchini; e Firenze quattrocentomila
fiorini in oro, e più di ducentomila libbre d’argento; e dal 1365 al
1415 vi si erano coniati undici milioni e mezzo di zecchini d’oro. Se
vogliansi lodare come manifatture e come lusinga alla nazionale vanità
che tanto lega i cittadini, ognun però vede quanta confusione dovesse
derivare da tanta varietà. Il disordine introduceva il solito morbo
de’ cambisti, che soli tenendo il filo di quel labirinto, vantaggiavano
alla grossa.
La scienza amministrativa e finanziera nacque in Italia, o qui prima si
pensò a ridurre in un quadro tutte le entrate e le uscite, formandone
il bilancio, come si chiamava con nome espressivo[211].
Pisani, Genovesi, Amalfitani, ma principalmente i Veneziani, estesi
in tanto commercio, sentirono il bisogno di conoscere le condizioni
proprie e dei popoli con cui erano in relazione di traffici e di
politica. Fin dal xii secolo Venezia ordinò ne’ suoi archivj i pubblici
atti, fe scrivere la storia civile, e stabilì le forme secondo cui
gli agenti diplomatici dovessero raccogliere e presentare al senato
i ragguagli dei paesi ov’erano spediti[212]. Quindi nessun governo
fu altrettanto istruito; e que’ ragguagli su’ principi, sulle forze,
sulla potenza de’ varj Stati, allora anticipavano l’esperienza, ora
sono miniera di statistiche cognizioni. Anche nell’interno i governanti
doveano dare minuto ragguaglio delle provincie loro; poi nel 1338 vi
troviamo traccie di anagrafi. Nel 1330 Jacopo Tondi, uno della Signoria
di Siena, eseguì una visita uffiziale dello Stato sanese e ne compilò
una relazione, che è il primo saggio di quei prospetti statistici, dei
quali si fa vanto la nostra età[213]. Le altre repubbliche adopravano
a somiglianza, e potrebbero raccogliersi le statistiche dagli storici
e dagli archivj, dove pure giaciono gli atti verbali de’ consigli
d’allora, ricchissimi d’insegnamento.
Se fra tante disparità vogliamo cercare i fattori comuni, troviamo
dappertutto la sovranità del popolo, che ne’ casi più rilevanti la
esercitava direttamente, negli ordinarj la delegava a rappresentanti.
Erano questi divisi in un consiglio maggiore, specialmente incaricato
del potere legislativo; e in un minore, che assisteva il capo dello
Stato nell’esecutivo. I pubblici uffizj erano elettivi, di breve
durata, e sottoposti a sindacato. Ogni Comune aveva uno statuto, in
cui si comprendevano le leggi organiche della repubblica, i diritti e
le consuetudini di tutti e de’ singoli, le leggi criminali e i decreti
civili, mescolati di romano e di germanico; e dove gran parte aveano le
ordinanze censorie e suntuarie. Questi statuti obbligavano in quanto
ciascuno li giurava o all’atto di divenir cittadino, o nell’assumere
una magistratura; avanzo del diritto feudale, per cui la fede rimaneva
un fatto personale. Ciascun quartiere o consorzio o maestranza era
responsale della condotta dei consorti; e il reo sottoponevasi alle
loro speciali giudicature prima di trasmetterlo al tribunale del
Comune. Queste divisioni del Comune stesso in corpi moltiplicavano
occasioni di conflitto: lo perchè speciale studio degli statuti era il
conservare la pace pubblica.
L’età nuova comincia dunque colla stessa varietà di forme che
già trovammo nella prisca. Tante erano quante le città, le quali,
costituitesi ognuna indipendentemente dall’altra, aveano provveduto
come credevano al proprio meglio; di che infinite varietà, spesso
stravaganti, sempre inesperte.
Ma il fatto più appariscente è che esistevano municipi, non provincie,
non Stati. Nè qui soltanto, ma in tutta Europa presentavasi allora
questa moltiplicità di centri sopra angusto spazio, senza nesso comune;
e dove il ben generale terminava ai limiti del territorio, considerando
proprio vantaggio il danno del vicino. Quindi diversità di statuti,
di pesi, di misure, di dogane; quindi un incomodo succedersi di
pedaggi, mentre rimanevano degradate le strade, sia perchè non vi aveva
accordo a mantenerle, sia perchè ad ogni rompere di nimicizia venivano
guastate. E di nimicizia era seme la vicinanza stessa; e quando ogni
Comune costituiva uno Stato, sconnesso dal vicino, le investiture, i
privilegi, gli statuti si assimilavano a trattati di pace e di mutua
assicurazione.
Niuna podestà sovremineva; giacchè il re vigilava bensì perchè
fosse pagato il censo dovuto alla Camera, e dati i doni o i sussidj
convenuti; e perchè i giudici del feudo o del Comune non proferissero
sui casi riservati agli uffiziali regj, nè di persone o beni al
re solo sottoposti; ma non dovea nè potea mescolarsi dell’interna
amministrazione. Ne derivava come difetto generale la debolezza,
essendo il Governo diretto da troppi, e spesso dalla piazza, la
peggiore delle tirannie e delle miserie. I magistrati (solito effetto
del voto universale) non erano tanto solleciti del vero bene, quanto
dell’opinione degli elettori; e non tiranneggiavano, ma dove complisse
peccavano d’ingiustizia.
Mentre poi ciascuna repubblica studiava a formarsi una legislazione
particolare, nessuna seppe prepararsi statuti che garantissero la sua
libertà, frenassero i prepotenti, limitassero i depositarj del potere.
In sottigliezza di costituzioni mal s’intende il grosso del popolo,
mentre di ciascuno è bisogno la giustizia, dalla quale dipendono
persone e beni. Solleciti della sicurezza dei contratti, di ordinare
le successioni, reprimere i piccoli delitti, non provvidero ad assodare
una buona struttura pubblica con quel ch’è primo scopo della politica,
un Governo regolato insieme e libero. Adunque non previdenza per
l’avvenire, non freno all’ambizione de’ pochi o alle esuberanze della
moltitudine, paghi della libertà senza sfuggire l’anarchia, nessuno
pensò a combinarla colla sicurezza personale e pubblica, a secondare
lo svolgimento delle istituzioni. Le passioni, più impetuose quando
non temperate da costumi e da studj, rendevano frequenti i delitti; e
quello sminuzzamento di Stati agevolava il sottrarsi al castigo. Quindi
incerte idee sulla moralità, un delitto portando pena diversa a pochi
passi di distanza: quindi mancato quel ch’è efficacissimo carattere
della giustizia, la certezza della punizione, giacchè il delinquente
trovava vicinissimo un asilo su terra forestiera: quindi il Governo
costretto occuparsi quasi unicamente d’amministrare la giustizia
criminale, ed ai magistrati doveva affidarsi un potere illimitato, che
facilmente diveniva micidiale della libertà, o che portava per reazione
la vita privata a ribellarsi alla pubblica, l’individuo a nuocere al
cittadino, cercando l’affrancazione in quell’isolamento che era stato
carattere della feudalità.
Così delle singole repubbliche: tutte insieme poi non seppero stabilire
una buona federazione, che non solo le avrebbe salvate dai nemici,
ma poteva offrire un modello alla restante Europa. La Lega Lombarda,
esemplarmente gloriosa ne’ primi effetti, non conobbe altrettanto la
civile prudenza; non seppe quel che spesso noi pure dimentichiamo, che
non v’è autorità senza unità, e senz’autorità non v’è pace e libertà: e
il formare una salda confederazione che avesse centro a Milano, patria
dappertutto, e feste ed esercito comune, e tesoro e patti e assemblee
determinate; il vedere che il torto fatto ad una era fatto a tutte,
minaccia di tutte la morte di una; il rassegnarsi a un male immediato
per reprimere un abuso che causerebbe mali remoti, era un troppo
aspettarsi da gente abbagliata dal trionfo, e nuova negli accorgimenti
politici.
D’unità nazionale neppur nacque il pensiero, tant’era cosa insolita;
come a Napoleone non venne l’idea di valersi de’ battelli a vapore
o dell’inescazione fulminante. Che le libertà parziali non valgono
senza l’indipendenza, chi allora lo capiva? Non ebbero parlamenti
savj come l’inglese, non rivoluzioni iniziatrici come la francese:
ma questi sarebbero riusciti tali senza la esperienza de’ nostri
Comuni? Il reggere ai mali che accompagnano la libertà è difficile,
lento il successo; talchè il grosso degli uomini cade per istanchezza
o precipita per impazienza. Troppo rari il Cielo suscita di quegli
eroi civili che vagliano ad erigere tutta la popolazione alla propria
altezza, e che tengano per condizione e per unico mezzo di riuscita
il libero concorso di quella. Le nazioni libere possono aspirare
alla vittoria, non al riposo; e i Comuni nostri, nel fervore della
lotta, nell’ebbrezza della vittoria e nella fiducia della rinnovata
fratellanza, si abbandonarono al buon volere dei collegati e al senno
dei rettori, che, qualvolta occorresse, doveano raccogliersi per
discutere dell’interesse universale; tutti gli spedienti furono attuali
e momentanei, senz’avvisare al tempo in cui sarebbe allontanato il
pericolo, sbollito l’ardore, sottentrate le brighe e le gelosie, ahi!
troppo pronte seguaci delle vittorie popolari.


CAPITOLO LXXXVI.
Ultimi Normanni in Sicilia. Enrico VI.

Abbiam veduto come il paese più meridionale d’Italia, cuna di
tante magnanime repubbliche prima della conquista romana, poi dopo
l’irruzione dei Barbari suddiviso tra molti principati longobardi e
molti Comuni greci, venisse concentrato dai Normanni in un dominio, che
d’allora gl’italiani chiamarono per antonomasia _il regno_ (1130). Re
di Sicilia, duca di Puglia, principe di Capua, Ruggero II assunse la
pomposa divisa _Appulus et Calaber, Siculus mihi servit et Afer_; anzi
Falcone Beneventano riferisce un documento, ov’egli s’intitola _Dei
gratia Siciliæ et Italiæ rex, Christianorum adjutor et clypeus_.
Colle genti che rapì sì nella spedizione di Grecia, sì in quella contro
Tripoli e l’isola delle Gerbe, ripopolò la sua isola. Come sapesse
a tempo chinarsi e resistere ai papi, narrammo; si mostrò sempre
riverente a san Brunone, che in Calabria avea fondato i Certosini; le
scienze amò e protesse; all’Edrisi, famoso geografo musulmano, diede
un feudo perchè dimorasse alla sua corte compilando le _Peregrinazioni
d’un curioso che vuol conoscere a fondo i diversi paesi del mondo_,
ove dispose in nuovo e bizzarro sistema le cognizioni geografiche
degli Arabi, ad illustrazione d’una sfera d’argento, pesante ottocento
marche, dov’erano incisi tutti i paesi conosciuti. Il palazzo di
Palermo sua capitale, colla magnifica cappella di san Pietro, avente
le pareti e il pavimento a musaici squisiti, e dove ancora si legge
l’iscrizione trilingue da lui apposta al primo oriuolo che ivi collocò;
la cattedrale di Cefalù e quella di Salerno, ricca delle spoglie
di Pesto; le chiese di San Nicolò a Messina e a Bari, il monastero
della Cava, sono monumenti della magnificenza di Ruggero. A Palermo,
oltre edifizj spiranti dovizia e splendidezza, aperse un vasto parco,
popolato di selvaggina, e ricreato d’acque condotte sotterra[214]:
dalla Grecia e dall’Africa trasferì la coltura dell’albero del pane,
del papiro[215], del pistacchio, della canna da zuccaro; e dalla
Morea i gelsi e i filugelli, e operaj di seta. Che però questa già vi
si lavorasse dagli Arabi, lo prova il famoso manto imperiale, fatto
per ordine di Ruggero, con iscrizione cufica del 528 dell’egira,
rispondente al 1133; e che poi portato in Germania da Enrico VI, ora
conservasi a Norimberga. Ma allora i telaj rompevano il silenzio della
reggia di Ruggero per preparare d’ogni genere tessuti, e broccati, e
fiorami, e arabeschi, con gemme interposte e colori variatissimi[216];
oltre che vi si convertiva in panni la lana francese.
Tornando d’Oriente, Pisani, Veneziani, Genovesi rinfrescavano a
Palermo: Spedalieri e Templari rizzarono conventi in Trapani, ordinaria
posata de’ Crociati[217]: i Veneziani aveano a Palermo una società
mercantile con magistrati proprj, cassieri e presidente; i Genovesi un
banco a Siracusa e casa forte a Messina: gli Amalfitani empivano una
strada di Napoli di loro botteghe, massime di stoffe di lana e seta, e
avevano un quartiere a Siracusa, un consorzio mercantile a Messina.
I Musulmani conservavano ancora alcune campagne, godendo eguaglianza
di leggi, con una tolleranza unica a quei tempi; quartiere proprio
nelle città con franchigie, magistrati e notaj, e libero culto; sin
feudi ottennero; e se alcuni come prigioni di guerra teneansi in
condizione servile, più di centomila distribuiti in tribù sotto i loro
sceicchi lavoravano liberamente il val di Màzara ed altri territorj.
Filippo, uno degli eunuchi di Ruggero, musulmano convertito, salì fino
grand’ammiraglio, e fu spedito ad espugnare Bona in Africa (1149). Ne
presero gelosia i baroni normanni, che l’accusarono di mangiar carne il
venerdì e in quaresima, andare con repugnanza nelle chiese, e di piatto
tornare alle moschee: e Ruggero l’abbandonò al loro rancore, sicchè,
legato alla coda d’un cavallo indomito, fu fatto a pezzi, e i pezzi
gettati al fuoco[218].
Pochi anni dappoi il musulmano Mohammed ebn-Giobair, che viaggiò in
Sicilia, scriveva: — Re Guglielmo, commendevole ne’ suoi portamenti, si
giova de’ Musulmani, e ha paggi eunuchi per intimi, fedeli all’islam
benchè nascostamente; ha gran confidenza ne’ Musulmani, e v’affida
anche gli affari più delicati; tiene una compagnia di Negri musulmani
sotto un comandante musulmano; i visiri e i ciambellani trae dai
molti paggi, i quali sono e impiegati del Governo e persone di Corte,
e sfoggiano lusso di vesti, agili cavalli, e tutti hanno corteggio e
seguito proprio. Il re a Messina ha un palazzo bianco come una colomba,
dove stanno occupati molti paggi e fanciulle; esso s’abbandona ai
piaceri della Corte a modo dei re musulmani, cui imita nel sistema
delle leggi, nell’andamento del Governo, nella distribuzione dei
sudditi, nella magnificenza. Molto deferisce ai medici e astrologi
suoi: dicono legga e scriva l’arabo, e un suo intimo ci assicurò
abbia adottato il motto _Lode a Dio, giusta è la sua lode_; come il
motto di suo padre era _Lode a Dio in riconoscenza de’ suoi benefizj_.
Le fanciulle e concubine del suo palazzo sono musulmane tutte; e un
cameriere di nome Yahia, impiegato nella manifattura de’ panni, dove
ricama a oro le vesti del re, ci assicurò che le cristiane Franche
dimoranti in palazzo erano state convertite dalle nostre senza che il
re lo sapesse, e molto s’industriavano in opere di carità.
«A Palermo i Musulmani conservano un avanzo di fede; tengono
pulitamente le moschee, fan la preghiera alla chiamata del muezzin,
dimorano in borgate distinte dai Cristiani, tengono e frequentano i
mercati. Proibita la pubblica professione di fede (_khotbah_), fanno
solo l’adunanza del venerdì, ma ne’ giorni del beiram pregano per
i principi abbassidi. Hanno un cadì, che giudica i loro processi:
una moschea principale ed altre innumerevoli, nella più parte delle
quali si dà lezione del Corano. Le donne cristiane nell’eleganza
del parlare e nel modo di velarsi e di portare i mantelli imitano le
musulmane. A Natale escono in vesti di seta color d’oro, avvolte in
mantelli eleganti, coperte di veli di colore, con stivaletti dorati,
e pompeggiano nelle chiese, cariche di collane, d’essenze, di belletto
come le musulmane.
«Non è guari, arrivò a Trapani il caid Abu’l-Kassem, capo de’
Musulmani in Sicilia, caduto in disgrazia del re per calunnie; e
sebbene sfuggisse la condanna, gli furono estorti trentamila denari
d’oro, senza rendergli alcuna delle case e terre avite. Dianzi riebbe
il favore del re, che lo pose in un servizio di governo, ed egli vi
si rassegnò, come lo schiavo di cui siansi presi la persona e gli
averi»[219].
E segue raccontando come qualunque Musulmano, per sottrarsi alla
collera de’ parenti, rifuggisse in una chiesa, era battezzato; che i
Musulmani offrivano le loro figlie ai pellegrini perchè le sposassero,
e queste lasciavano liete la famiglia per sottrarsi alla tentazione
dell’apostasia e per vivere in paese musulmano. Sono le consuete
esagerazioni de’ partiti soccombenti; ma ne trapela come i principi
normanni procurassero usufruttare la civiltà orientale; e lungamente
noi incontreremo ancora quegl’Infedeli nelle vicende della Sicilia.
Anche gli Ebrei, altrove perseguitati, ivi ebbero sicurezza,
e Beniamino di Tudela nel suo viaggio del 1172 ne contava
millecinquecento a Palermo, ducento a Messina.