Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 09
La libertà dei Comuni guardavasi dunque non come un diritto primitivo,
ma come una concessione sovrana; dal re si chiedevano come privilegio
fin le giustizie; dal re si facevano confermare i successivi acquisti:
ma, secondo il senso feudale, consideravasi indipendenza il non aver
altro superiore che gl’imperatori.
Tanto però bastava perchè questi potessero turbare le Repubbliche
colle loro pretensioni. Altre ne mettevano in campo i feudatarj e
conti, che solo per necessità aveano rassegnato i diritti antichi. Già
dicemmo (pag. 69) come i vescovi fossero ricchissimi e signori di tanta
parte di feudi e di giurisdizione. A quello di Brescia spettava un
quinto dei feudi della diocesi: ed erano tanti, che Enrico imperatore
avendone sequestrati alcuni in pena del favore dato ai papi, trovaronsi
ammontare a tremila biolche di terra; che poi il Comune di Brescia
ritolse alla Camera imperiale, dandole a livello a tremila poveri.
Arimanno vescovo cercò ricuperare quei feudi ed altri che l’imperatore
aveva investiti a laici; ma i nuovi investiti si opposero, fecero
lega cogli arimanni, irati al vescovo e al Comune che li gravava di
contribuzioni ad onta dell’antica immunità: ne venne guerra di fortuna
varia, sinchè anche gli arimanni ottennero per patto i privilegi che
già godeano i valvassori, e assoluzione da ogni tributo e servizio di
corpo[156].
I vescovi essendo stati sovrani, consideravano come usurpatore o
astiavano come vincitore il Comune, e sofisticavano sui diritti di
quello. Intendo in questo senso una carta del 1158, ove i canonici di
Santa Maria di Novara giurano fra loro di non dar mano a far passare al
Comune le cose di essa chiesa, nè col fatto o col consiglio permettere
che questa paghi fodro o dazio al popolo o ai consoli; nè ajutarli
in ciò che spetti al fortificare la città; nè daranno canonicati
ai discendenti dei consoli che aveano aperto a forza il granajo del
capitolo, sinchè i padri son vivi, nè di quei consoli che in alcun modo
pregiudicassero alla chiesa, o entrassero per forza nella canonica o
nelle case de’ fratelli[157].
Sempre poi i vescovi serbarono qualche resto dell’autorità loro; e
come ricchissimi che manteneansi ancora, e capi d’una gerarchia e di
un tribunale ecclesiastico, guardavansi quai primi cittadini, opinando
prima di tutti, e facendo la prima comparsa negli affari. Questo
intralciamento di diritti e di pretensioni potea non recare trista
sequela di cozzi e di gelosie?
In mezzo a queste, le Repubbliche si organizzarono ciascuna
distintamente con una varietà che è mirabile sintomo d’estesa ragione
negl’Italiani, ma che è impossibile a seguirsi se non nelle storie
domestiche. Accennando que’ sommi capi in che le più s’accordavano,
dirò come la suprema signoria stesse nell’assemblea dei cittadini,
alla quale, a suon di trombe o di campana, convocavansi plebei insieme
e nobili, sommati talvolta a centinaja e migliaja. In Milano era di
ottocento, poi fu cresciuta e là ed altrove sino a millecinquecento e
a tremila, escludendo solo i mestieri sordidi. A Firenze vi entravano
le ventiquattro arti e i settantadue mestieri. In quella generale
adunanza, a voti si decideva della pace, della guerra, delle alleanze.
Sembra non vi si favellasse molto, e che ciò fosse un male lo lascerem
dire ad altri; ma i partiti non si pigliavano generalmente a semplice
maggioranza, volendosi ove i due terzi, ove i tre quarti; in alcun
luogo si raccoglieva complessivamente il voto di ciascuno de’ corpi che
componeano il gran consiglio.
Pei molti affari dove occorre segreto e decisione spedita e
spassionata, venne istituito il consiglio minore o _di credenza_[158],
composto de’ più ragguardevoli, giurati di non palesare i trattamenti.
Erano di spettanza sua le finanze, il vigilare sopra i consoli, le
relazioni esterne, e vi si disponevano i partiti da sottoporre alla
deliberazione del popolo.
I consoli, magistratura, come dicemmo, di attribuzioni particolari,
e che al formarsi de’ Comuni furono posti al governo, erano scelti
per suffragi; e senza la cauta divisione de’ poteri, doveano render
giustizia e amministrare la guerra, quasi non corresse divario fra i
perturbatori dell’ordine interno e dell’esteriore. I campagnuoli non
erano partecipi della pubblica amministrazione; ma molti castelli e
borghi, massime di Lombardia, crearono consoli proprj, più limitati di
autorità, sebbene intenti ad emulare i consoli cittadini.
I doveri dei consoli venivano annoverati nel giuramento che essi
prestavano entrando in carica, e che inscrivasi negli statuti. In
quelli di Genova, i più antichi che si conoscano[159], leggesi il
seguente:
— In nome del Signore, noi piglieremo il magistrato questo giorno
della purificazione della Madonna, e nel medesimo giorno, terminata la
compagnia, il deporremo.
«Opereremo sempre a utilità del vescovado e Comune nostro, e ad onore
della santa madre Chiesa.
«Esamineremo le quistioni private sulle istanze degli interessati, le
pubbliche anche senza istanza, di buona fede, secondo ragione e con
perfetta egualità, non pregiudicando al Comune in favore de’ privati,
nè ai privati in favor del Comune.
«In caso di disparere tra noi, varrà la pluralità; in caso di parità,
ci riporteremo a un savio, di cui non sia conosciuto il parere.
«Rivocheremo e miglioreremo le sentenze fatte dal nostro consolato,
qualunque volta il richieda la giustizia.
«Sentenzieremo in pubblico entro quindici giorni dopo presentato il
libello, quando non cada in dì festivo, o l’attore non si ritiri.
«Per una sentenza non percepiremo direttamente o indirettamente più di
tre soldi.
«Quando alcuna parte non trovi avvocato difensore, a sua istanza
glien’eleggeremo; e se l’eletto ricusi, o non si adoperi di buona fede,
gli vieteremo di comparirci dinanzi per tutto il nostro consolato.
«Imporremo a’ testimonj chiamati in giudizio dalle parti, di comparire
e deporre il vero, obbligandoli, in caso di rifiuto, al rifacimento del
danno. Nelle cause maggiori non si vorrà meno di dodici testimonj. Di
chi citato a testimoniare, negasse comparire davanti a noi e giurare
il vero, faremo vendetta a nostro arbitrio, ancorchè sia negli ordini
sacri, perchè così vuole ragione.
«Le proprietà, i feudi e i diritti posseduti pacificamente per
trent’anni, conserveremo intatti a’ possessori.
«In caso d’omicidio premeditato e palese, manderemo in esiglio il
colpevole, daremo il guasto a’ suoi beni, e il possesso di quelli a’
più stretti congiunti dell’ucciso, o, quando li rifiutassero, alla
cattedrale. Se non sia provato chiaramente il reo, permetteremo a’
congiunti fino in terzo grado di domandargli d’ammenda quanto vorranno,
o quanto almeno potrà dare l’accusato. E s’egli rifiuterà pagarla,
e sfiderà a battaglia l’accusatore, sarà lecito, e il soccombente
puniremo come avremmo punito il palese omicida.
«Chiunque portasse armi dal suono del campanone sin alla fine del
parlamento, condanneremo in lire dieci se n’abbia almeno cinquanta, o
in una se n’abbia sopra dieci, e in meno a nostro arbitrio se povero.
«Non permetteremo torri più alte di ottanta piedi, e a venti soldi per
piede condanneremo i trasgressori.
«I falsatori di monete e i complici loro spoglieremo d’ogni avere e
d’ogni diritto a favore del pubblico erario; proporremo al parlamento
che siano banditi in perpetuo; e venendo in nostro potere, farem
loro troncare la destra. Sarà però necessario a un tanto castigo o la
confessione del reo, o ch’e’ sia convinto mediante legale deposizione
de’ testimonj.
«Ad ambasciatori assegneremo solo l’onorario approvato dalla
maggioranza del parlamento.
«Vieteremo il portare nel nostro distretto merci pregiudicievoli alle
nostrali, salvo i legnami e guarnimenti di nave.
«Non imprenderemo guerra, nè faremo oste, divieto o imposizione senza
il consenso del parlamento; nè aumenteremo i dazj marittimi, fuorchè
all’occasione di nuova guerra in mare; e i pesi cadranno uguali su
tutti.
«Chiunque, invitato da noi o dal popolo ad ascriversi nella nostra
compagnia, non avrà aderito entro undici giorni, ne sarà escluso per
tre anni avvenire; non accetteremo in giudizio le sue istanze, salvo
fosse per difesa; nè lo nomineremo ai pubblici uffizj, e farem divieto
che nessuno della nostra compagnia lo serva delle sue navi, o lo
difenda ai tribunali.
«Qualunque volta un estranio sarà accettato nella nostra compagnia, gli
daremo il giuramento di abitazione non interrotta nella nostra città,
secondo il consueto degli altri cittadini. Pe’ conti, pe’ marchesi
e per le persone domiciliate fra Chiavari e Portovenere basterà
l’abitazione di tre mesi l’anno.
«Osserveremo fedelmente l’appalto delle monete a coloro che si sono
obbligati verso il Comune, e saranno leali alle convenzioni co’
principi e popoli forestieri».
Per correggere lo sconcio feudale di lasciare nelle mani stesse
l’amministrazione e la giustizia, si distinsero i consoli minori
o dei placiti, specialmente applicati ai giudizj, a differenza di
quei del Comune o maggiori[160]. Trattavano collegialmente le cause:
tenendo giurisdizione separata in distinti quartieri: e il tribunale
di ciascuno distinguevasi con insegna particolare, dicendosi del bue,
dell’aquila, dell’orso, del leone, e così via; a Piacenza erano dipinti
sul tribunale il griffone e il cervo, a Verona l’ariete; a Mantova
diceansi del banco di san Pietro, di sant’Andrea, di san Giacomo, di
san Martino[161].
Consoli chiamavansi, fin prima della libertà, altri sovrantendenti
alle grasce, alla marina, alle arti o simili, e così continuarono. Nel
1172 Milano creava otto consoli de’ mercanti, collo stipendio di sette
lire di terzuoli, e l’obbligo di sopravvedere alle misure, riscuotere
le multe dei bandi, delle bestemmie e di somiglianti trasgressioni,
e provvedere che i mercanti andassero sicuri. I consoli delle faggie
doveano rivendicare e difendere i diritti del Comune sovra i pascoli
intorno alla città, e sopravvegliare alle strade: il quale uffizio a
Chieri chiamavasi dei sacristi, a Siena de’ viaj. Di poi ciascun corpo
volle avere o piuttosto conservò consoli proprj; e così le parrocchie
e le terre, dove sussistettero fin ai giorni nostri quali agenti del
Comune.
Nell’elezione dei consoli operavano spesso l’intrigo e l’ingerenza
delle famiglie potenti; e trovandosi scelti da case e da fazioni
nemiche, si contrariavano gli uni gli altri, incagliando gli affari, e
per tema o preghiere o disservigio lasciando lesa o monca la giustizia.
La potenza de’ consoli annui ed elettivi non era bastante a reprimere
i faziosi, nè potea reggersi che appoggiata ad un partito, mancando
dell’imparzialità necessaria a garantire i diritti di tutti. I consoli,
nemici personali de’ castellani ch’essi aveano spossessati, poteano
esserne giudici? Tornando cittadini dopo un anno, trovavansi esposti
alle vendette de’ ribaldi che avessero puniti o delle famiglie offese.
Per dominar l’anarchia bisognava un tribunale che da più alto reggesse
cittadini e castellani, che non fosse nè feudale nè borghese, che
potesse reprimer robustamente le lotte; popolare così che i cittadini
lo potessero opporre ai nobili, eppur nobile affinchè l’aristocrazia
l’accettasse, e che per origine non avesse e per lunga dimora non
adottasse le passioni de’ cittadini. A tale intento Bologna chiamò
il faentino Guido di Ranieri da Sasso, che esercitasse il potere de’
consoli del Comune, e presedesse a quelli de’ placiti. Questo nuovo
magistrato s’intitolò _la podestà_, come quelli che il Barbarossa
ai Comuni sottomessi aveva imposti invece dei consoli; e dovea
rappresentare l’antico elemento imperiale, quasi custode della legale
società, e di quella giustizia che, anche dopo l’emancipazione, si
considerava come privilegio imperiale.
Tale novità si conobbe spediente per ridurre nel Comune anche
quest’avanzo delle pretensioni imperiali, ottenere più disinteressata
l’applicazione delle leggi, e operare ne’ casi urgenti colla prestezza
che viene dall’unità dell’esecutore. Fu dunque adottata, e cernivasi
il podestà fosse dalla nobiltà castellana rimasta indipendente, fosse
da città della fazione medesima, fosse tra persone celebrate per
onestà o per conoscenza di leggi. Proposto nel pubblico consiglio, era
eletto a pluralità di voti, ovvero se ne comprometteva la nomina in un
certo numero di probi: taluni lo chiedeano al papa o all’imperatore,
ma presentandogli le convenzioni o lo statuto ch’ei dovea giurare
anche prima di conoscerlo. Da Perugia si mandavano cittadini, e più
volentieri frati, a conoscere nelle città forestiere gli uomini
di maggior vaglia, da’ cui nomi imborsati si sortiva il nuovo
podestà[162].
Al designato spedivasi un’ambasceria; ed egli, al Capodanno o al san
Martino, entrava con solenne incontro de’ cittadini e del vescovo,
e con messa e panegirica orazione; e venuto sulla piazza maggiore,
recitava una diceria, giurava osservare gli statuti, non ritenere
la carica oltre un anno, e non partirsi prima d’aver subìto il
sindacato[163], e nel nome di Dio assumeva l’uffizio.
Egli menava seco due cavalieri per guardia ed onoranza; assessori e
giudici per consiglio, notaj, siniscalco, ministri, servi, cavalli.
La giustizia talvolta esercitava col solo privato consesso, in alcuni
paesi coi consoli de’ placiti come a Milano, o co’ giudici de’ collegi
come a Parma[164]. Funzionario unico, riuniva l’autorità politica e
la giudiziaria de’ consoli, ridotti a semplici consiglieri col titolo
di priori, anziani, rettori o simili: straniero come gli antichi
conti, eppur magistrato responsale come un cittadino, uom di toga e di
spada, giudice e dittatore, reprime e castellani e borghesi del pari,
eseguendo egli stesso i suoi decreti, e usava poteri discrezionali come
in tempo di guerra. Qui pure il giuramento specificava i doveri del
podestà, alcuni dei quali erano generici, altri speciali d’un tempo e
d’un luogo.
Lo statuto genovese porta che il consiglio nomini ogni anno trenta
elettori, i quali procedano all’elezione del podestà per via di
polizze: all’eletto accettante due nunzj portino a giurare i seguenti
capitoli, presente il consiglio della natìa sua terra: — Non vedrà gli
statuti di Genova se non dopo giurato di osservarli: sarà servito da
venti persone, e accompagnato da tre cavalieri e da due a tre giudici
a sua elezione, i quali con titolo di vicarj o luogotenenti terranno
gradatamente sue veci in caso di assenza, malattia o morte: salarj,
pigioni, spese di viaggio resteranno a carico di lui, ma riceverà
provvisione di lire milletrecento di Genova (da mezz’oncia d’oro),
due lire al giorno di più nelle campagne marittime, nelle terrestri
quattro, nelle ambascerie quanto deciderà il consiglio: l’anniversario
del giorno che avrà preso il magistrato, dovrà uscire di Genova, e
seco i suoi terrazzani e distrettuali, del che si rogherà speciale
istromento.
Il podestà di Milano giurava comportarsi col miglior modo e senno
all’utile della comunità, specialmente per la pace e le guerre; le
convenzioni e concordie tra Milano ed altre città o private persone
farà mettere in iscritto e conservare; il Comune manterrà nelle
concordie e convenzioni e nelle concessioni e dazj, e a ricuperarli
e serbarli; non sarà guida nè spia a danno della città, per servizio
di niun suo nemico. Quando si trovi entro i pubblici fossati, ogni
giorno monterà al suo uffizio, e la giustizia eserciterà a pro della
repubblica, nè oltre venti giorni in tutto l’anno starà fuori del
Comune; non commetterà furto nè frode, nè consentirallo ad altri, ed
i commessi denunzierà nel pubblico arringo. A titolo d’uffizio non
piglierà cosa alcuna nè egli nè sua moglie o figliuoli, e neppure nelle
legazioni; nè avrà altro stipendio che di lire duemila, e il salario
di cinque giudici. Nelle cause pertinenti a’ consoli di giustizia o
del Comune, non darà alcun consiglio se non ai giudici; delle sentenze
sue piglierà soltanto dodici denari per libbra, cioè dieci pel Comune
e due pe’ giudici suoi; le sentenze da proferire non manifesterà
se non ad un suo giudice ed al notaro che ha a scriverle, e saranno
conformi alle leggi di Milano. L’appalto del viatico, del fodro, della
moneta non delibererà, se non avuto il consiglio de’ savj. Rileverà i
consoli di tutte le cause che pronunziarono di suo comando o precetto,
e parimenti d’ogni giuramento in fine dell’uffizio suo. Non farà
remissione di alcuna taglia, se non per cagione d’incendio, tempesta,
povertà nota, od altra giusta causa approvata dal consiglio di
credenza. Non prenderà alcun prestito se non fuori della giurisdizione
in benefizio della repubblica. Ogni mese riceva e renda i conti,
stendendone autentica scrittura; e si faccia rileggere il giuramento,
diligentemente ascoltandolo. Villa nè borghigiano o rustico alcuno
affranchi dai carichi imposti per la repubblica, senza il consentimento
del comune consiglio. Le costituzioni del Comune non muti senza il
consiglio di credenza. Faccia eseguire le sentenze proferite, e le
pene contro i fornai delinquenti e i malfattori. Quelli posti nel
bando per omicidio o congiurato, non permetta abitare nel comune di
Milano, e le terre o abitazioni di quelli tenga incolte e devastate:
non conceda verun uffizio o ambasciata a banditi, nè a falliti od
infami: definisca le appellazioni fatte sopra cause di omicidj, bandi,
incendj, battaglie, eccetto se l’appellante non dia all’avversario
sicurtà della restituzion delle spese, giurando non aver dato niente
al giudice delle appellazioni, nè ad altra persona fuor dell’avvocato,
o per cavare scritture. Fedelmente ricercherà se niun ufficiale faccia
frode: tutti i provvisionati del Comune costringerà a dar conto ogni
quattro mesi de’ denari avuti per la comunità. Non farà o lascerà far
ricerca sulle condanne date per gli antecessori suoi, nè sui denari
spesi dal Comune per tali uffiziali. Giudei ed eretici deve sbandire da
Milano e suo contado, dopo che per l’arcivescovo gli sieno denunziati;
quelli che gli avessero ricettati ammonisca perchè fra venti giorni
gli abbiano espulsi, altrimenti essi pure saranno posti nel bando, dal
quale non si potranno cavare senza licenza ecclesiastica; le case loro
faccia diroccare. Se alcuno statuto ritrovasse contrario alla Chiesa,
lo annullerebbe. Finito il suo reggimento, quindici giorni dimorasse a
Milano insieme colla sua comitiva, aspettando il sindacato (CORIO).
La spada sguainata che si recava innanzi al podestà, esprimeva il
diritto di sangue: ma spesso doveva esercitarlo con aspetto di guerra
e di violenza. Alcun pubblico delitto era denunziato? dal balcone
del palazzo egli sciorinava il gonfalone di giustizia, colle trombe
chiamava i cittadini alle armi, e a capo loro moveva ad assediare la
casa del reo. A Perugia sono uccisi due giudici, e si ordina di tener
chiuse le botteghe finchè non siano scoperti i rei; e così stettero
per tre mesi. — Giuro che, se alcun nobile, o non giurato in popolo,
ucciderà o farà uccidere o consentirà che si uccida alcun anziano o
notajo d’anziani o uomo giurato in popolo..., senza intervallo farò
sonare la campana del popolo, e con quel popolo o alcuna parte di
esso, con sterminato furore andrò alla casa di quel cotale uccisore,
e innanzi che quindi mi parta, infino alle fondamenta farò disfare...
E insino a tanto che la distruzione e il guastamento di tutti i beni
del malfattore predetto, così nella città come nel contado, non sia
compiuto di fare, nulla bottega d’arte o mestiere, o corte alcuna della
città fia tenuta aperta». In tale sentenza ogn’anno giurava il capitano
del popolo di Pisa; e aggiungeva che punirebbe il figlio pel padre, il
padre pel figlio, non lascerebbe mai più coltivare o comprare i loro
beni, darebbe un premio a chi li pigliasse o uccidesse[165].
Tanto fin la giustizia assumeva aspetto di violenza, perchè le
Repubbliche, a modo de’ feudatarj, traevano il diritto punitivo da
quel della guerra privata e della vendetta personale, e i signori erano
avvezzi a obbedire soltanto alla forza; onde non era se non la pubblica
sostituita alla privata, e i castighi somigliavano alle rappresaglie
delle passioni, le quali non si erano spente ma solo dirette,
ignorandosi ancora la pacifica amministrazione.
In somma il podestà comprendeva in sè l’antitesi della società
d’allora. Come dittatore, veste carattere politico, assale, difende,
bandisce, uccide, dirocca case e castelli, arma e disarma la città,
conduce l’esercito; e riconoscendo due partiti ostili, due tendenze
contrapposte, le regola col reprimerne una, cioè col limitare la
libertà. Come giudice, veste carattere legale, semplice stromento della
legge, innanzi alla quale si eclissano partiti, persone, famiglie; nè
egli dee permettersi verun passo che offenda la libertà. Giurato ad
osservar gli statuti, contornato da persone di legge, venuto da paese
estraneo per amministrar con imparzialità; esposto al sindacato; eppure
come dittatore è costretto a un’ingiustizia continua fra i due partiti
in lotta; è esposto all’eventualità de’ conflitti; robusto in un
momento di sollevazione, è inetto allorchè le due fazioni s’accordino
in modo, che egli non possa valersi dell’una per reprimere l’altra.
Di tanta autorità poteva facilmente abusare; onde fu assiepato di
gelose precauzioni: ad invitarlo si deputavano persone religiose,
estranie alle brighe; talvolta a sei e fin a tre mesi se ne limitò
la durata, benchè talaltra venisse allungata[166]; in città non
dovea contrarre parentele, non mangiare presso alcuno. La breve
durata cagionava gli scomodi d’un perpetuo tirocinio; eppure durante
l’effimera magistratura il podestà rimaneva arbitro delle vite,
per la latitudine concessa dalle consuetudini. Il potere giudiziale
esercitavasi troppo mescolatamente col politico, e la ragion di Stato
soffocava la schietta voce della giustizia. Nelle rivoluzioni poi al
podestà concedevasi balìa dittatoria, sicchè castigava a tumulto i rei,
cioè la parte avversa e la soccombente. I Bolognesi nel 1192 tolsero a
podestà Gherardo Scannabecchi loro vescovo, ma nojatisi di lui, vollero
sostituirvi i consoli: il vescovo s’ostinava a tener il potere, sinchè
una levata di popolo lo gittò in fuga. I Pisani chiesero podestà papa
Bonifazio VIII, ed egli accettò collo stipendio di quattromila fiorini:
altrove fu podestà un re. Il sindacato non era una cautela politica
contro gli abusi del potere, giacchè si facea sol dopo scaduto di
carica, ma una salvaguardia della moralità e un risarcimento ai danni
privati, derivato esso pure da consuetudini romane[167]. N’usciva con
lode? il podestà riceveva dal Comune un pennone, una targa o altro
segno; a Giovanni Raffacani fiorentino gli Orvietani nel partire
posero in capo una corona d’oro, e gli diedero una spada e uno scudo
con gran trionfo[168]; e non v’è città che non serbi una lapida o
l’effigie d’alcuno: onorificenze dappoi profuse per piacenteria o per
amistà[169].
Procedendo a tentone come gente inesperta, al primo sconcio che
apparisse mutavano forma di governo, salvo a tornare fra pochi mesi al
primiero. Fu volta che, scontenta del comune aristocratico, la plebe
elesse un capitano suo proprio, straniero anch’egli, che per un anno
o per sei mesi la tutelasse[170]; talaltra nominavasi un capitano
di guerra, che dimezzava il potere dei predetti, avendo in mano la
forza. In Bologna il comune dei nobili era preseduto dal pretore; i
non nobili formavano il popolo, con un prefetto o capitano. Milano nel
1186 eleggea primo podestà Uberto Visconti; l’anno appresso tornò al
consolato; nel 1191 usava ancora un podestà, tre nel 1201, cinque nel
seguente, tre ancora nel 1204. Firenze erasi divisa in dodici arti;
sette maggiori, de’ giureconsulti e notaj, de’ mercanti di panno in
Calimala, de’ cambisti, lanajuoli, medici e speziali, mercanti di
seta, pellicciaj; e cinque minori, de’ bottegaj, macellari, calzolaj,
muratori e falegnami, mariscalchi e magnani: ed anche il nobile che
volesse impieghi doveva essere in qualcuna matricolato. Nel 1294
creatasi la signoria dei priori delle arti e della libertà, alla
prima elezione non presero parte che le tre prime, alla seconda sei,
a ciascuna delle quali toglievasi un priore, rinnovandoli ogni terzo
mese. Viveano in comune a pubbliche spese, non uscendo di palazzo per
quanto la balìa durava; rappresentavano lo Stato, ed esercitavano il
potere esecutivo; ed uniti coi capi e coi consigli o capitudini delle
arti maggiori, con alcuni aggiunti (_arroti_) nominavano a scrutinio i
proprj successori[171]. Mal rassegnandosi i nobili a questa oligarchia
plebea, fu introdotto nel 1292 il gonfaloniere della giustizia, per
reprimere i perturbatori della quiete: e quand’egli esponesse la
bandiera sul pubblico palazzo, i capi delle venti compagnie doveano
raggiungerlo, per assalire con lui i sediziosi e punirli. Quest’esempio
trovò i seguaci.
Un abate del popolo o molti incontriamo altrove: un doge al modo di
Venezia assumevano ne’ maggiori frangenti Pisa e Genova; trasferendo
in esso ogni pubblico potere, salvi però i collegi delle arti e i
pubblici ordinamenti. In Bologna l’autorità sovrana era divisa fra
il podestà, i consoli e tre consigli, cioè il generale, lo speciale
e quel di credenza: nel primo entravano tutti i cittadini sopra i
diciott’anni, esclusi gl’infimi artieri; il secondo era di seicento;
nell’altro di minor numero aveano luogo tutti i giureconsulti paesani.
Dicembre entrante, i due primi consigli venivano convocati dai consoli
o dal podestà, e messe innanzi al loro tribunale due urne coi nomi
dei componenti essi consigli; e da ciascuna delle quattro tribù in
cui era partita la città, estratti a sorte dieci elettori, venivano
rinchiusi insieme, ed obbligati, entro ventiquattr’ore, a nominare,
colla maggioranza di ventisette voti, quei che dovessero entrare ne’
consigli. Ai consoli o al podestà spettava l’iniziativa degli affari,
che poi erano decisi dai consigli, dove per lo più quattro oratori soli
avevano la parola, gli altri limitavansi a votare.
È questo uno dei mille modi coi quali fu dai Comuni del medioevo
affrontato quel che oggi pure è intricato problema dei paesi
costituzionali, le elezioni. Nulla è men sincero che il voto emesso
dall’intera nazione radunata, dove esso va confuso collo schiamazzo
plebeo o la tresca astuta, dove non tutte le classi sono equamente
rappresentate, dove l’ignaro e l’intrigante valgono l’onesto
e illuminato, e la libertà ne va il più spesso alla peggio. Si
procurarono dunque varj ripari, per lo più ricorrendo alla sorte o a
complicatissime combinazioni, di cui Venezia e Lucca particolarmente
offrono bizzarri esempj.
In Venezia il doge ne’ primi sei secoli era scelto dal popolo; dopo
il 1173 da undici elettori; dopo il 1178 il maggior consiglio cerniva
quattro commissarj, ciascun de’ quali nominava dieci elettori,
cresciuti poi a quarantuno nel 1249. Così durò fino al 1268, quando,
per cansare il broglio, s’introdusse la più strana complicazione.
I membri d’esso consiglio metteansi a squittinio con palle di cera,
trenta delle quali chiudevano una cartolina iscritta _elector_: dei
nove cui toccavano le fortunate, due venivano esclusi, gli altri
designavano quaranta elettori, i quali col metodo stesso riduceansi
a dodici. Il primo di essi ne eleggeva tre, due gli altri, e tutti
venticinque doveano essere confermati da nove voti; poi ridotti a nove,
ciascuno doveva indicarne cinque, e tutti i quarantacinque ottenere
almeno sette voti. I primi otto tra questi ne _cappavano_ quattro
ciascheduno, e tre i tre ultimi; onde venivano quarantun elettori, che
messi ai voti, doveano riportare almen nove delle undici palle. Se un
elettore nel maggior consiglio non conseguisse l’assoluta maggioranza,
restava escluso, e gli undici dovevano surrogarne un altro. Così cinque
ballottazioni e cinque scrutinj producevano i quarantun elettori. Di
botto erano chiusi in una sala, finchè non avessero nominato il doge;
trattati splendidamente, liberi di chiedere qualunque capriccio, ma
quel che uno domandasse era dato a tutti: uno volle un rosario, e
se ne recarono quarantuno; un altro le favole d’Esopo, e fu fatica
il ritrovarne altrettanti esemplari. Gli elettori nominavano tre
ma come una concessione sovrana; dal re si chiedevano come privilegio
fin le giustizie; dal re si facevano confermare i successivi acquisti:
ma, secondo il senso feudale, consideravasi indipendenza il non aver
altro superiore che gl’imperatori.
Tanto però bastava perchè questi potessero turbare le Repubbliche
colle loro pretensioni. Altre ne mettevano in campo i feudatarj e
conti, che solo per necessità aveano rassegnato i diritti antichi. Già
dicemmo (pag. 69) come i vescovi fossero ricchissimi e signori di tanta
parte di feudi e di giurisdizione. A quello di Brescia spettava un
quinto dei feudi della diocesi: ed erano tanti, che Enrico imperatore
avendone sequestrati alcuni in pena del favore dato ai papi, trovaronsi
ammontare a tremila biolche di terra; che poi il Comune di Brescia
ritolse alla Camera imperiale, dandole a livello a tremila poveri.
Arimanno vescovo cercò ricuperare quei feudi ed altri che l’imperatore
aveva investiti a laici; ma i nuovi investiti si opposero, fecero
lega cogli arimanni, irati al vescovo e al Comune che li gravava di
contribuzioni ad onta dell’antica immunità: ne venne guerra di fortuna
varia, sinchè anche gli arimanni ottennero per patto i privilegi che
già godeano i valvassori, e assoluzione da ogni tributo e servizio di
corpo[156].
I vescovi essendo stati sovrani, consideravano come usurpatore o
astiavano come vincitore il Comune, e sofisticavano sui diritti di
quello. Intendo in questo senso una carta del 1158, ove i canonici di
Santa Maria di Novara giurano fra loro di non dar mano a far passare al
Comune le cose di essa chiesa, nè col fatto o col consiglio permettere
che questa paghi fodro o dazio al popolo o ai consoli; nè ajutarli
in ciò che spetti al fortificare la città; nè daranno canonicati
ai discendenti dei consoli che aveano aperto a forza il granajo del
capitolo, sinchè i padri son vivi, nè di quei consoli che in alcun modo
pregiudicassero alla chiesa, o entrassero per forza nella canonica o
nelle case de’ fratelli[157].
Sempre poi i vescovi serbarono qualche resto dell’autorità loro; e
come ricchissimi che manteneansi ancora, e capi d’una gerarchia e di
un tribunale ecclesiastico, guardavansi quai primi cittadini, opinando
prima di tutti, e facendo la prima comparsa negli affari. Questo
intralciamento di diritti e di pretensioni potea non recare trista
sequela di cozzi e di gelosie?
In mezzo a queste, le Repubbliche si organizzarono ciascuna
distintamente con una varietà che è mirabile sintomo d’estesa ragione
negl’Italiani, ma che è impossibile a seguirsi se non nelle storie
domestiche. Accennando que’ sommi capi in che le più s’accordavano,
dirò come la suprema signoria stesse nell’assemblea dei cittadini,
alla quale, a suon di trombe o di campana, convocavansi plebei insieme
e nobili, sommati talvolta a centinaja e migliaja. In Milano era di
ottocento, poi fu cresciuta e là ed altrove sino a millecinquecento e
a tremila, escludendo solo i mestieri sordidi. A Firenze vi entravano
le ventiquattro arti e i settantadue mestieri. In quella generale
adunanza, a voti si decideva della pace, della guerra, delle alleanze.
Sembra non vi si favellasse molto, e che ciò fosse un male lo lascerem
dire ad altri; ma i partiti non si pigliavano generalmente a semplice
maggioranza, volendosi ove i due terzi, ove i tre quarti; in alcun
luogo si raccoglieva complessivamente il voto di ciascuno de’ corpi che
componeano il gran consiglio.
Pei molti affari dove occorre segreto e decisione spedita e
spassionata, venne istituito il consiglio minore o _di credenza_[158],
composto de’ più ragguardevoli, giurati di non palesare i trattamenti.
Erano di spettanza sua le finanze, il vigilare sopra i consoli, le
relazioni esterne, e vi si disponevano i partiti da sottoporre alla
deliberazione del popolo.
I consoli, magistratura, come dicemmo, di attribuzioni particolari,
e che al formarsi de’ Comuni furono posti al governo, erano scelti
per suffragi; e senza la cauta divisione de’ poteri, doveano render
giustizia e amministrare la guerra, quasi non corresse divario fra i
perturbatori dell’ordine interno e dell’esteriore. I campagnuoli non
erano partecipi della pubblica amministrazione; ma molti castelli e
borghi, massime di Lombardia, crearono consoli proprj, più limitati di
autorità, sebbene intenti ad emulare i consoli cittadini.
I doveri dei consoli venivano annoverati nel giuramento che essi
prestavano entrando in carica, e che inscrivasi negli statuti. In
quelli di Genova, i più antichi che si conoscano[159], leggesi il
seguente:
— In nome del Signore, noi piglieremo il magistrato questo giorno
della purificazione della Madonna, e nel medesimo giorno, terminata la
compagnia, il deporremo.
«Opereremo sempre a utilità del vescovado e Comune nostro, e ad onore
della santa madre Chiesa.
«Esamineremo le quistioni private sulle istanze degli interessati, le
pubbliche anche senza istanza, di buona fede, secondo ragione e con
perfetta egualità, non pregiudicando al Comune in favore de’ privati,
nè ai privati in favor del Comune.
«In caso di disparere tra noi, varrà la pluralità; in caso di parità,
ci riporteremo a un savio, di cui non sia conosciuto il parere.
«Rivocheremo e miglioreremo le sentenze fatte dal nostro consolato,
qualunque volta il richieda la giustizia.
«Sentenzieremo in pubblico entro quindici giorni dopo presentato il
libello, quando non cada in dì festivo, o l’attore non si ritiri.
«Per una sentenza non percepiremo direttamente o indirettamente più di
tre soldi.
«Quando alcuna parte non trovi avvocato difensore, a sua istanza
glien’eleggeremo; e se l’eletto ricusi, o non si adoperi di buona fede,
gli vieteremo di comparirci dinanzi per tutto il nostro consolato.
«Imporremo a’ testimonj chiamati in giudizio dalle parti, di comparire
e deporre il vero, obbligandoli, in caso di rifiuto, al rifacimento del
danno. Nelle cause maggiori non si vorrà meno di dodici testimonj. Di
chi citato a testimoniare, negasse comparire davanti a noi e giurare
il vero, faremo vendetta a nostro arbitrio, ancorchè sia negli ordini
sacri, perchè così vuole ragione.
«Le proprietà, i feudi e i diritti posseduti pacificamente per
trent’anni, conserveremo intatti a’ possessori.
«In caso d’omicidio premeditato e palese, manderemo in esiglio il
colpevole, daremo il guasto a’ suoi beni, e il possesso di quelli a’
più stretti congiunti dell’ucciso, o, quando li rifiutassero, alla
cattedrale. Se non sia provato chiaramente il reo, permetteremo a’
congiunti fino in terzo grado di domandargli d’ammenda quanto vorranno,
o quanto almeno potrà dare l’accusato. E s’egli rifiuterà pagarla,
e sfiderà a battaglia l’accusatore, sarà lecito, e il soccombente
puniremo come avremmo punito il palese omicida.
«Chiunque portasse armi dal suono del campanone sin alla fine del
parlamento, condanneremo in lire dieci se n’abbia almeno cinquanta, o
in una se n’abbia sopra dieci, e in meno a nostro arbitrio se povero.
«Non permetteremo torri più alte di ottanta piedi, e a venti soldi per
piede condanneremo i trasgressori.
«I falsatori di monete e i complici loro spoglieremo d’ogni avere e
d’ogni diritto a favore del pubblico erario; proporremo al parlamento
che siano banditi in perpetuo; e venendo in nostro potere, farem
loro troncare la destra. Sarà però necessario a un tanto castigo o la
confessione del reo, o ch’e’ sia convinto mediante legale deposizione
de’ testimonj.
«Ad ambasciatori assegneremo solo l’onorario approvato dalla
maggioranza del parlamento.
«Vieteremo il portare nel nostro distretto merci pregiudicievoli alle
nostrali, salvo i legnami e guarnimenti di nave.
«Non imprenderemo guerra, nè faremo oste, divieto o imposizione senza
il consenso del parlamento; nè aumenteremo i dazj marittimi, fuorchè
all’occasione di nuova guerra in mare; e i pesi cadranno uguali su
tutti.
«Chiunque, invitato da noi o dal popolo ad ascriversi nella nostra
compagnia, non avrà aderito entro undici giorni, ne sarà escluso per
tre anni avvenire; non accetteremo in giudizio le sue istanze, salvo
fosse per difesa; nè lo nomineremo ai pubblici uffizj, e farem divieto
che nessuno della nostra compagnia lo serva delle sue navi, o lo
difenda ai tribunali.
«Qualunque volta un estranio sarà accettato nella nostra compagnia, gli
daremo il giuramento di abitazione non interrotta nella nostra città,
secondo il consueto degli altri cittadini. Pe’ conti, pe’ marchesi
e per le persone domiciliate fra Chiavari e Portovenere basterà
l’abitazione di tre mesi l’anno.
«Osserveremo fedelmente l’appalto delle monete a coloro che si sono
obbligati verso il Comune, e saranno leali alle convenzioni co’
principi e popoli forestieri».
Per correggere lo sconcio feudale di lasciare nelle mani stesse
l’amministrazione e la giustizia, si distinsero i consoli minori
o dei placiti, specialmente applicati ai giudizj, a differenza di
quei del Comune o maggiori[160]. Trattavano collegialmente le cause:
tenendo giurisdizione separata in distinti quartieri: e il tribunale
di ciascuno distinguevasi con insegna particolare, dicendosi del bue,
dell’aquila, dell’orso, del leone, e così via; a Piacenza erano dipinti
sul tribunale il griffone e il cervo, a Verona l’ariete; a Mantova
diceansi del banco di san Pietro, di sant’Andrea, di san Giacomo, di
san Martino[161].
Consoli chiamavansi, fin prima della libertà, altri sovrantendenti
alle grasce, alla marina, alle arti o simili, e così continuarono. Nel
1172 Milano creava otto consoli de’ mercanti, collo stipendio di sette
lire di terzuoli, e l’obbligo di sopravvedere alle misure, riscuotere
le multe dei bandi, delle bestemmie e di somiglianti trasgressioni,
e provvedere che i mercanti andassero sicuri. I consoli delle faggie
doveano rivendicare e difendere i diritti del Comune sovra i pascoli
intorno alla città, e sopravvegliare alle strade: il quale uffizio a
Chieri chiamavasi dei sacristi, a Siena de’ viaj. Di poi ciascun corpo
volle avere o piuttosto conservò consoli proprj; e così le parrocchie
e le terre, dove sussistettero fin ai giorni nostri quali agenti del
Comune.
Nell’elezione dei consoli operavano spesso l’intrigo e l’ingerenza
delle famiglie potenti; e trovandosi scelti da case e da fazioni
nemiche, si contrariavano gli uni gli altri, incagliando gli affari, e
per tema o preghiere o disservigio lasciando lesa o monca la giustizia.
La potenza de’ consoli annui ed elettivi non era bastante a reprimere
i faziosi, nè potea reggersi che appoggiata ad un partito, mancando
dell’imparzialità necessaria a garantire i diritti di tutti. I consoli,
nemici personali de’ castellani ch’essi aveano spossessati, poteano
esserne giudici? Tornando cittadini dopo un anno, trovavansi esposti
alle vendette de’ ribaldi che avessero puniti o delle famiglie offese.
Per dominar l’anarchia bisognava un tribunale che da più alto reggesse
cittadini e castellani, che non fosse nè feudale nè borghese, che
potesse reprimer robustamente le lotte; popolare così che i cittadini
lo potessero opporre ai nobili, eppur nobile affinchè l’aristocrazia
l’accettasse, e che per origine non avesse e per lunga dimora non
adottasse le passioni de’ cittadini. A tale intento Bologna chiamò
il faentino Guido di Ranieri da Sasso, che esercitasse il potere de’
consoli del Comune, e presedesse a quelli de’ placiti. Questo nuovo
magistrato s’intitolò _la podestà_, come quelli che il Barbarossa
ai Comuni sottomessi aveva imposti invece dei consoli; e dovea
rappresentare l’antico elemento imperiale, quasi custode della legale
società, e di quella giustizia che, anche dopo l’emancipazione, si
considerava come privilegio imperiale.
Tale novità si conobbe spediente per ridurre nel Comune anche
quest’avanzo delle pretensioni imperiali, ottenere più disinteressata
l’applicazione delle leggi, e operare ne’ casi urgenti colla prestezza
che viene dall’unità dell’esecutore. Fu dunque adottata, e cernivasi
il podestà fosse dalla nobiltà castellana rimasta indipendente, fosse
da città della fazione medesima, fosse tra persone celebrate per
onestà o per conoscenza di leggi. Proposto nel pubblico consiglio, era
eletto a pluralità di voti, ovvero se ne comprometteva la nomina in un
certo numero di probi: taluni lo chiedeano al papa o all’imperatore,
ma presentandogli le convenzioni o lo statuto ch’ei dovea giurare
anche prima di conoscerlo. Da Perugia si mandavano cittadini, e più
volentieri frati, a conoscere nelle città forestiere gli uomini
di maggior vaglia, da’ cui nomi imborsati si sortiva il nuovo
podestà[162].
Al designato spedivasi un’ambasceria; ed egli, al Capodanno o al san
Martino, entrava con solenne incontro de’ cittadini e del vescovo,
e con messa e panegirica orazione; e venuto sulla piazza maggiore,
recitava una diceria, giurava osservare gli statuti, non ritenere
la carica oltre un anno, e non partirsi prima d’aver subìto il
sindacato[163], e nel nome di Dio assumeva l’uffizio.
Egli menava seco due cavalieri per guardia ed onoranza; assessori e
giudici per consiglio, notaj, siniscalco, ministri, servi, cavalli.
La giustizia talvolta esercitava col solo privato consesso, in alcuni
paesi coi consoli de’ placiti come a Milano, o co’ giudici de’ collegi
come a Parma[164]. Funzionario unico, riuniva l’autorità politica e
la giudiziaria de’ consoli, ridotti a semplici consiglieri col titolo
di priori, anziani, rettori o simili: straniero come gli antichi
conti, eppur magistrato responsale come un cittadino, uom di toga e di
spada, giudice e dittatore, reprime e castellani e borghesi del pari,
eseguendo egli stesso i suoi decreti, e usava poteri discrezionali come
in tempo di guerra. Qui pure il giuramento specificava i doveri del
podestà, alcuni dei quali erano generici, altri speciali d’un tempo e
d’un luogo.
Lo statuto genovese porta che il consiglio nomini ogni anno trenta
elettori, i quali procedano all’elezione del podestà per via di
polizze: all’eletto accettante due nunzj portino a giurare i seguenti
capitoli, presente il consiglio della natìa sua terra: — Non vedrà gli
statuti di Genova se non dopo giurato di osservarli: sarà servito da
venti persone, e accompagnato da tre cavalieri e da due a tre giudici
a sua elezione, i quali con titolo di vicarj o luogotenenti terranno
gradatamente sue veci in caso di assenza, malattia o morte: salarj,
pigioni, spese di viaggio resteranno a carico di lui, ma riceverà
provvisione di lire milletrecento di Genova (da mezz’oncia d’oro),
due lire al giorno di più nelle campagne marittime, nelle terrestri
quattro, nelle ambascerie quanto deciderà il consiglio: l’anniversario
del giorno che avrà preso il magistrato, dovrà uscire di Genova, e
seco i suoi terrazzani e distrettuali, del che si rogherà speciale
istromento.
Il podestà di Milano giurava comportarsi col miglior modo e senno
all’utile della comunità, specialmente per la pace e le guerre; le
convenzioni e concordie tra Milano ed altre città o private persone
farà mettere in iscritto e conservare; il Comune manterrà nelle
concordie e convenzioni e nelle concessioni e dazj, e a ricuperarli
e serbarli; non sarà guida nè spia a danno della città, per servizio
di niun suo nemico. Quando si trovi entro i pubblici fossati, ogni
giorno monterà al suo uffizio, e la giustizia eserciterà a pro della
repubblica, nè oltre venti giorni in tutto l’anno starà fuori del
Comune; non commetterà furto nè frode, nè consentirallo ad altri, ed
i commessi denunzierà nel pubblico arringo. A titolo d’uffizio non
piglierà cosa alcuna nè egli nè sua moglie o figliuoli, e neppure nelle
legazioni; nè avrà altro stipendio che di lire duemila, e il salario
di cinque giudici. Nelle cause pertinenti a’ consoli di giustizia o
del Comune, non darà alcun consiglio se non ai giudici; delle sentenze
sue piglierà soltanto dodici denari per libbra, cioè dieci pel Comune
e due pe’ giudici suoi; le sentenze da proferire non manifesterà
se non ad un suo giudice ed al notaro che ha a scriverle, e saranno
conformi alle leggi di Milano. L’appalto del viatico, del fodro, della
moneta non delibererà, se non avuto il consiglio de’ savj. Rileverà i
consoli di tutte le cause che pronunziarono di suo comando o precetto,
e parimenti d’ogni giuramento in fine dell’uffizio suo. Non farà
remissione di alcuna taglia, se non per cagione d’incendio, tempesta,
povertà nota, od altra giusta causa approvata dal consiglio di
credenza. Non prenderà alcun prestito se non fuori della giurisdizione
in benefizio della repubblica. Ogni mese riceva e renda i conti,
stendendone autentica scrittura; e si faccia rileggere il giuramento,
diligentemente ascoltandolo. Villa nè borghigiano o rustico alcuno
affranchi dai carichi imposti per la repubblica, senza il consentimento
del comune consiglio. Le costituzioni del Comune non muti senza il
consiglio di credenza. Faccia eseguire le sentenze proferite, e le
pene contro i fornai delinquenti e i malfattori. Quelli posti nel
bando per omicidio o congiurato, non permetta abitare nel comune di
Milano, e le terre o abitazioni di quelli tenga incolte e devastate:
non conceda verun uffizio o ambasciata a banditi, nè a falliti od
infami: definisca le appellazioni fatte sopra cause di omicidj, bandi,
incendj, battaglie, eccetto se l’appellante non dia all’avversario
sicurtà della restituzion delle spese, giurando non aver dato niente
al giudice delle appellazioni, nè ad altra persona fuor dell’avvocato,
o per cavare scritture. Fedelmente ricercherà se niun ufficiale faccia
frode: tutti i provvisionati del Comune costringerà a dar conto ogni
quattro mesi de’ denari avuti per la comunità. Non farà o lascerà far
ricerca sulle condanne date per gli antecessori suoi, nè sui denari
spesi dal Comune per tali uffiziali. Giudei ed eretici deve sbandire da
Milano e suo contado, dopo che per l’arcivescovo gli sieno denunziati;
quelli che gli avessero ricettati ammonisca perchè fra venti giorni
gli abbiano espulsi, altrimenti essi pure saranno posti nel bando, dal
quale non si potranno cavare senza licenza ecclesiastica; le case loro
faccia diroccare. Se alcuno statuto ritrovasse contrario alla Chiesa,
lo annullerebbe. Finito il suo reggimento, quindici giorni dimorasse a
Milano insieme colla sua comitiva, aspettando il sindacato (CORIO).
La spada sguainata che si recava innanzi al podestà, esprimeva il
diritto di sangue: ma spesso doveva esercitarlo con aspetto di guerra
e di violenza. Alcun pubblico delitto era denunziato? dal balcone
del palazzo egli sciorinava il gonfalone di giustizia, colle trombe
chiamava i cittadini alle armi, e a capo loro moveva ad assediare la
casa del reo. A Perugia sono uccisi due giudici, e si ordina di tener
chiuse le botteghe finchè non siano scoperti i rei; e così stettero
per tre mesi. — Giuro che, se alcun nobile, o non giurato in popolo,
ucciderà o farà uccidere o consentirà che si uccida alcun anziano o
notajo d’anziani o uomo giurato in popolo..., senza intervallo farò
sonare la campana del popolo, e con quel popolo o alcuna parte di
esso, con sterminato furore andrò alla casa di quel cotale uccisore,
e innanzi che quindi mi parta, infino alle fondamenta farò disfare...
E insino a tanto che la distruzione e il guastamento di tutti i beni
del malfattore predetto, così nella città come nel contado, non sia
compiuto di fare, nulla bottega d’arte o mestiere, o corte alcuna della
città fia tenuta aperta». In tale sentenza ogn’anno giurava il capitano
del popolo di Pisa; e aggiungeva che punirebbe il figlio pel padre, il
padre pel figlio, non lascerebbe mai più coltivare o comprare i loro
beni, darebbe un premio a chi li pigliasse o uccidesse[165].
Tanto fin la giustizia assumeva aspetto di violenza, perchè le
Repubbliche, a modo de’ feudatarj, traevano il diritto punitivo da
quel della guerra privata e della vendetta personale, e i signori erano
avvezzi a obbedire soltanto alla forza; onde non era se non la pubblica
sostituita alla privata, e i castighi somigliavano alle rappresaglie
delle passioni, le quali non si erano spente ma solo dirette,
ignorandosi ancora la pacifica amministrazione.
In somma il podestà comprendeva in sè l’antitesi della società
d’allora. Come dittatore, veste carattere politico, assale, difende,
bandisce, uccide, dirocca case e castelli, arma e disarma la città,
conduce l’esercito; e riconoscendo due partiti ostili, due tendenze
contrapposte, le regola col reprimerne una, cioè col limitare la
libertà. Come giudice, veste carattere legale, semplice stromento della
legge, innanzi alla quale si eclissano partiti, persone, famiglie; nè
egli dee permettersi verun passo che offenda la libertà. Giurato ad
osservar gli statuti, contornato da persone di legge, venuto da paese
estraneo per amministrar con imparzialità; esposto al sindacato; eppure
come dittatore è costretto a un’ingiustizia continua fra i due partiti
in lotta; è esposto all’eventualità de’ conflitti; robusto in un
momento di sollevazione, è inetto allorchè le due fazioni s’accordino
in modo, che egli non possa valersi dell’una per reprimere l’altra.
Di tanta autorità poteva facilmente abusare; onde fu assiepato di
gelose precauzioni: ad invitarlo si deputavano persone religiose,
estranie alle brighe; talvolta a sei e fin a tre mesi se ne limitò
la durata, benchè talaltra venisse allungata[166]; in città non
dovea contrarre parentele, non mangiare presso alcuno. La breve
durata cagionava gli scomodi d’un perpetuo tirocinio; eppure durante
l’effimera magistratura il podestà rimaneva arbitro delle vite,
per la latitudine concessa dalle consuetudini. Il potere giudiziale
esercitavasi troppo mescolatamente col politico, e la ragion di Stato
soffocava la schietta voce della giustizia. Nelle rivoluzioni poi al
podestà concedevasi balìa dittatoria, sicchè castigava a tumulto i rei,
cioè la parte avversa e la soccombente. I Bolognesi nel 1192 tolsero a
podestà Gherardo Scannabecchi loro vescovo, ma nojatisi di lui, vollero
sostituirvi i consoli: il vescovo s’ostinava a tener il potere, sinchè
una levata di popolo lo gittò in fuga. I Pisani chiesero podestà papa
Bonifazio VIII, ed egli accettò collo stipendio di quattromila fiorini:
altrove fu podestà un re. Il sindacato non era una cautela politica
contro gli abusi del potere, giacchè si facea sol dopo scaduto di
carica, ma una salvaguardia della moralità e un risarcimento ai danni
privati, derivato esso pure da consuetudini romane[167]. N’usciva con
lode? il podestà riceveva dal Comune un pennone, una targa o altro
segno; a Giovanni Raffacani fiorentino gli Orvietani nel partire
posero in capo una corona d’oro, e gli diedero una spada e uno scudo
con gran trionfo[168]; e non v’è città che non serbi una lapida o
l’effigie d’alcuno: onorificenze dappoi profuse per piacenteria o per
amistà[169].
Procedendo a tentone come gente inesperta, al primo sconcio che
apparisse mutavano forma di governo, salvo a tornare fra pochi mesi al
primiero. Fu volta che, scontenta del comune aristocratico, la plebe
elesse un capitano suo proprio, straniero anch’egli, che per un anno
o per sei mesi la tutelasse[170]; talaltra nominavasi un capitano
di guerra, che dimezzava il potere dei predetti, avendo in mano la
forza. In Bologna il comune dei nobili era preseduto dal pretore; i
non nobili formavano il popolo, con un prefetto o capitano. Milano nel
1186 eleggea primo podestà Uberto Visconti; l’anno appresso tornò al
consolato; nel 1191 usava ancora un podestà, tre nel 1201, cinque nel
seguente, tre ancora nel 1204. Firenze erasi divisa in dodici arti;
sette maggiori, de’ giureconsulti e notaj, de’ mercanti di panno in
Calimala, de’ cambisti, lanajuoli, medici e speziali, mercanti di
seta, pellicciaj; e cinque minori, de’ bottegaj, macellari, calzolaj,
muratori e falegnami, mariscalchi e magnani: ed anche il nobile che
volesse impieghi doveva essere in qualcuna matricolato. Nel 1294
creatasi la signoria dei priori delle arti e della libertà, alla
prima elezione non presero parte che le tre prime, alla seconda sei,
a ciascuna delle quali toglievasi un priore, rinnovandoli ogni terzo
mese. Viveano in comune a pubbliche spese, non uscendo di palazzo per
quanto la balìa durava; rappresentavano lo Stato, ed esercitavano il
potere esecutivo; ed uniti coi capi e coi consigli o capitudini delle
arti maggiori, con alcuni aggiunti (_arroti_) nominavano a scrutinio i
proprj successori[171]. Mal rassegnandosi i nobili a questa oligarchia
plebea, fu introdotto nel 1292 il gonfaloniere della giustizia, per
reprimere i perturbatori della quiete: e quand’egli esponesse la
bandiera sul pubblico palazzo, i capi delle venti compagnie doveano
raggiungerlo, per assalire con lui i sediziosi e punirli. Quest’esempio
trovò i seguaci.
Un abate del popolo o molti incontriamo altrove: un doge al modo di
Venezia assumevano ne’ maggiori frangenti Pisa e Genova; trasferendo
in esso ogni pubblico potere, salvi però i collegi delle arti e i
pubblici ordinamenti. In Bologna l’autorità sovrana era divisa fra
il podestà, i consoli e tre consigli, cioè il generale, lo speciale
e quel di credenza: nel primo entravano tutti i cittadini sopra i
diciott’anni, esclusi gl’infimi artieri; il secondo era di seicento;
nell’altro di minor numero aveano luogo tutti i giureconsulti paesani.
Dicembre entrante, i due primi consigli venivano convocati dai consoli
o dal podestà, e messe innanzi al loro tribunale due urne coi nomi
dei componenti essi consigli; e da ciascuna delle quattro tribù in
cui era partita la città, estratti a sorte dieci elettori, venivano
rinchiusi insieme, ed obbligati, entro ventiquattr’ore, a nominare,
colla maggioranza di ventisette voti, quei che dovessero entrare ne’
consigli. Ai consoli o al podestà spettava l’iniziativa degli affari,
che poi erano decisi dai consigli, dove per lo più quattro oratori soli
avevano la parola, gli altri limitavansi a votare.
È questo uno dei mille modi coi quali fu dai Comuni del medioevo
affrontato quel che oggi pure è intricato problema dei paesi
costituzionali, le elezioni. Nulla è men sincero che il voto emesso
dall’intera nazione radunata, dove esso va confuso collo schiamazzo
plebeo o la tresca astuta, dove non tutte le classi sono equamente
rappresentate, dove l’ignaro e l’intrigante valgono l’onesto
e illuminato, e la libertà ne va il più spesso alla peggio. Si
procurarono dunque varj ripari, per lo più ricorrendo alla sorte o a
complicatissime combinazioni, di cui Venezia e Lucca particolarmente
offrono bizzarri esempj.
In Venezia il doge ne’ primi sei secoli era scelto dal popolo; dopo
il 1173 da undici elettori; dopo il 1178 il maggior consiglio cerniva
quattro commissarj, ciascun de’ quali nominava dieci elettori,
cresciuti poi a quarantuno nel 1249. Così durò fino al 1268, quando,
per cansare il broglio, s’introdusse la più strana complicazione.
I membri d’esso consiglio metteansi a squittinio con palle di cera,
trenta delle quali chiudevano una cartolina iscritta _elector_: dei
nove cui toccavano le fortunate, due venivano esclusi, gli altri
designavano quaranta elettori, i quali col metodo stesso riduceansi
a dodici. Il primo di essi ne eleggeva tre, due gli altri, e tutti
venticinque doveano essere confermati da nove voti; poi ridotti a nove,
ciascuno doveva indicarne cinque, e tutti i quarantacinque ottenere
almeno sette voti. I primi otto tra questi ne _cappavano_ quattro
ciascheduno, e tre i tre ultimi; onde venivano quarantun elettori, che
messi ai voti, doveano riportare almen nove delle undici palle. Se un
elettore nel maggior consiglio non conseguisse l’assoluta maggioranza,
restava escluso, e gli undici dovevano surrogarne un altro. Così cinque
ballottazioni e cinque scrutinj producevano i quarantun elettori. Di
botto erano chiusi in una sala, finchè non avessero nominato il doge;
trattati splendidamente, liberi di chiedere qualunque capriccio, ma
quel che uno domandasse era dato a tutti: uno volle un rosario, e
se ne recarono quarantuno; un altro le favole d’Esopo, e fu fatica
il ritrovarne altrettanti esemplari. Gli elettori nominavano tre
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