Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 08

s’industriò di staccare dalla Lega Alessandro, e gli inviò deputati ad
Anagni, i quali gli dissero: — È indubitato che, dai primordj della
Chiesa, Dio volle vi fossero due capi, dai quali venisse governato
questo mondo: la dignità sacerdotale, e la podestà regia. Se queste non
si appoggino in vicendevole concordia, non potrà mantenersi la pace,
e il mondo andrà in subugli e guerre. Cessi dunque la nimistà fra voi
due, capi del mondo; e vostra mercè sia resa la pace alla Chiesa e al
popolo cristiano»[136]. Alessandro rispose, ben egli volerla, ma questa
dover essere comune anche a’ suoi alleati e difensori. Il pontefice
trattava di ciò pubblicamente; gli ambasciadori imperiali avrebbero
voluto stipulare in privato, col pretesto che alcuni avversavano la
loro concordia: ma sebbene per quindici giorni si disputasse, nulla fu
tratto a riva. Federico dunque chiese un abboccamento con Alessandro,
e questi (tanto si fidava) volle da lui, da suo figlio e dagli altri
grandi il giuramento di non nuocere alla sua persona, e andò a Venezia
coi deputati delle città lombarde[137].
Federico proponeva o si stesse al dettato della dieta di Roncaglia,
oppure a quanto osservavasi al tempo di Enrico IV: i Lombardi
rifiutavano la prima, non convenzione, ma ordinanza di Roncaglia;
quanto all’altra, dicevano mal ricordarsi di quegli usi; sapere che da
un pezzo godeano le regalie e il diritto di eleggere i magistrati, e
voler conservarlo; sicchè non potè venirsi a conchiusione. Bastò dunque
appuntare un accordo (1177), ove Federico riconosceva il pontefice
escludendo gli antipapi, e prometteva tregua per quindici anni col
re di Sicilia, per sei colle città lombarde, duranti i quali egli
non n’esigerebbe il giuramento di fedeltà, e si stabilirebbero de’
_treguarj_ che terminassero le contese eventuali, impedendo di farsi
ragione colle armi. Esso imperatore in compenso godrebbe per quindici
anni i beni allodiali della contessa Matilde, che poi cederebbe alla
Chiesa romana; e a tali condizioni verrebbe ricomunicato.
Fu Alessandro III uno sleale, che abbandonò gli alleati suoi per
patteggiare in disparte? o fu un inetto che non seppe cogliere il
destro di distruggere la potestà imperiale e l’ingerenza tedesca, e
assicurare per sempre l’indipendenza d’Italia?
Nè l’un nè l’altro può crederlo chi non confonda le idee e le
aspirazioni dei tempi nostri con quelli d’allora. I Lombardi non aveano
mai inteso d’annichilar l’imperatore, e fino ne’ momenti più prosperi
chiesero soltanto di vedere assicurati i proprj privilegi, sotto la
primazia di quello: come gli arimanni si consideravano liberi perchè
dipendenti dal solo re, così libere chiamavansi le città che non
avessero altra superiorità che l’imperatore. Anzi i capi della Lega
dinanzi al papa nella chiesa di Ferrara il 1177 dichiaravano: — Sia
noto alla santità vostra e alla potestà imperiale, che con riconoscenza
riceveremo la pace dall’imperatore, salvo l’onore dell’Italia, e che
desideriamo essere rimessi nella grazia di lui, secondo le vecchie
consuetudini, nè ricusiamo le antiche giustizie: ma non consentiremo
mai a spogliarci della nostra libertà, che abbiamo ereditata dai padri
e dagli avi, e non la perderemo che colla vita, essendoci più caro il
morir liberi che il vivere in servitù»[138].
A tale intento avviava appunto la tregua, durante la quale fu stipulata
una soda pace. Quanto al pontefice, abbattendo l’imperatore avrebbe
disfatto l’opera de’ predecessori suoi, i quali avevano ridesto il
nome d’imperator romano, e affidato a quello la primazia temporale
della cristianità; e quand’anco gli ebbero contumaci e ribelli, mai
non pensarono distruggerli, ma al più surrogarne uno, meglio docile e
religioso.
I Veneziani che aveano giurato ad Alessandro, finch’egli vi stesse,
non ricevere nella loro città Federico, dispensati dalla promessa,
andarono a prenderlo da Chioggia colla splendidezza che la sposa
dell’Adriatico pose sempre nelle sue feste. Federico, approdato alla
piazzetta, baciò il piede del papa, al quale poi servì da mazziere,
allontanando colla verga la folla; della predica che Alessandro recitò
in latino, il patriarca d’Aquileja fece la spiegazione in tedesco, onde
contentare la devozione dell’imperatore; il quale assolto, dopo il
_credo_ baciò ancora il calcagno del pontefice e fe l’oblazione; poi
ne ricevette la comunione; e finita la messa, lo accompagnò per mano
sino alla porta della basilica, gli tenne la staffa, e lo menò per la
briglia fino al palazzo[139]. Che il papa mettesse il piede sovra il
collo dell’umiliato imperatore, proferendo il versetto del salmo _Sovra
l’aspide e il basilisco passeggerai, calcherai il leone e il drago_,
e che Federico rispondesse di rendere quell’omaggio non a lui ma a san
Pietro, è un fatto controverso, ma che nulla ripugna coi tempi; che se
gli spiriti forti del secolo passato, striscianti appiè dei troni, lo
negarono con orrore, la libera Venezia non esitò a farlo dipingere tra
i fasti nazionali.
In nome del Barbarossa, Enrico di Diesse giurò sui vangeli, sulle
reliquie, e sopra l’anima dell’imperatore, che questo manterrebbe la
pace: altrettanto fecero dodici principi dell’Impero, gli ambasciadori
di Sicilia, e i consoli di Milano, Piacenza, Brescia, Bergamo, Verona,
Parma, Reggio, Bologna, Novara, Alessandria, Padova, Venezia. I vescovi
di Padova, Pavia, Piacenza, Cremona, Brescia, Novara, Acqui, Mantova,
Fano, che in opposizione alle loro plebi aveano favorito all’imperatore
e all’antipapa, furono ribenedetti.
Alessandro III fu ricevuto festivamente anche dai Romani, avendo
conceduto che il senato durasse, ma con giuramento di fedeltà al
papa, al quale si restituissero la basilica di San Pietro e le
regalie. L’antipapa venne all’obbedienza dacchè si trovò abbandonato
dall’imperatore: ma un avanzo di coloro che credono fermezza
l’ostinazione, nominò un altro che presto fu imprigionato. Un concilio
ecumenico in Laterano di trecentodue vescovi procurò rimarginar le
piaghe della Chiesa.
Federico, ch’era tornato in Germania per racconciarne il freno,
mandò deputati, i quali in Piacenza stesero i preliminari d’un
accordo. A Costanza, memorabile città lietamente posta colà dove il
Reno sfugge dal lago, e al verdeggiante declivio fan contrasto le
ghiacciaje del Sangallo e d’Appenzell, fu poi conchiusa tra le città
lombarde e l’Impero la pace (1183 — giugno) che coronava i magnanimi
sforzi, e consolidava le repubbliche nostre, non più come un fatto
ma come un diritto. L’imperatore dichiarava avrebbe potuto castigare
i colpevoli, ma per clemenza e dolcezza preferiva perdonare, e far
loro del bene. Comprese nel trattato furono Milano, Vercelli, Novara,
Lodi, Bergamo, Brescia, Mantova, Verona, Vicenza, Padova, Treviso,
Bologna, Faenza, Modena, Reggio, Parma, Piacenza: come alleate
dell’imperatore figurarono Pavia, Cremona, Como, Genova, Alba, Tortona,
Asti, Alessandria che, anticipando la pace, n’aveva conchiusa una
particolare, e mutato il nome in Cesarea. De’ signori feudatarj non
appajono che Obizo Malaspina di Lunigiana colla parte imperiale; colla
nostra i conti di Biandrate e di Monferrato. A Ferrara si lasciò
arbitrio di accedere fra due mesi. Restarono escluse nominatamente
Imola, Castro, San Cassiano, Bobbio, Gravedona, Feltre, Belluno,
Céneda. Venezia non v’è tampoco nominata, giacchè, essendo indipendente
affatto dall’Impero, non voleva pregiudicarsi con questo trattato.
A tenore del quale, le città della Lombardia, della Marca e
della Romagna, entro il loro recinto godrebbero le regalie che da
immemorabile possedevano, e fuori di esso, solo in quanto n’avessero
concessione dall’imperatore; il vescovo con deputati imperiali
esaminerebbe quali infatti fossero tali diritti, se pure le città non
volessero declinare quest’indagine col pagare ciascuna annui duemila
marchi d’argento, o meno, a volontà dell’imperatore. Questi, salva
la sua supremazia, conferma le immunità e i diritti concessi avanti
la guerra da lui o da’ predecessori, purchè non cadano a pregiudizio
d’un terzo. I vescovi che per lo innanzi solessero per imperiale
concessione confermare i consoli, continuassero; nelle altre città
si facessero tra cinque anni confermare dai commissarj imperiali,
e in appresso ricevessero l’investitura dall’imperatore. Il quale
ponesse in ogni città un giudice, cui appellarsi nelle cause civili
eccedenti il valore di venticinque lire imperiali (lire 1575), e che
giudicassero fra due mesi, ma secondo le leggi della città. Tutti i
cittadini dai sedici ai sessant’anni giureranno fedeltà all’imperatore
ogni dieci anni; a questo, ogniqualvolta venisse in Italia, daranno
il fodro e gli alloggi, ripareranno le strade, apriranno mercato pel
suo approvvigionamento: egli però non si baderà a lungo in nessuna
città o diocesi, per non esserle di soverchio aggravio. Del resto sia
in arbitrio delle città il fortificarsi e confederarsi, e rimangano
cessate le infeudazioni che si fossero concedute dopo la guerra a
pregiudizio di esse[140].
L’imperatore tornò poi la sesta volta in Italia, ma in aspetto amico;
sicchè le città nostre gareggiarono in mostrare che, come gli aveano
resistito in campo, sapeano accoglierlo ed onorarlo pacificato.
A Verona durò tre mesi molto alle strette col pontefice Lucio III
intorno ai beni della contessa Matilde, senza riuscire ancora ad una
definizione. I Romani, tornati ben tosto sugli umori vecchi e sulle
idee di Arnaldo, ostinavansi non tanto ad aver repubblica quanto a
disobbedire al papa, che tennero sempre fuori di Roma; e marciati
contro Tusculo, dove s’erano fortificati gli avversarj, presi molti
cherici, gli accecarono, conservando gli occhi a un solo che li
riconducesse in città sovra giumenti e con mitere in capo. Così i
nostri emulavano la brutalità tedesca: e qual bene promettersi da una
repubblica mancante di quel che n’è primo fondamento la morale? Il
papa li scomunicò (1188); ma solo a Clemente III venne fatto di sopire
la rivolta di quarantacinque anni, col solito scapito della libertà;
poichè egli ridusse sotto la propria autorità il senato, il Comune,
la basilica di San Pietro, e le altre chiese e i diritti regali, pochi
lasciandone alla città.
Federico, malgrado la pace, ad or ad ora abbandonavasi allo sdegno;
indispettito coi Cremonesi che, da fedelissimi, gli erano poi mancati,
non solo edificò Crema a loro dispetto[141], ma li guerreggiò; col papa
Urbano III ebbe nuovi diverbj per l’eredità della contessa Matilde;
de’ vescovi che morissero occupava i beni; col pretesto di punire
badesse scandalose, invadeva possessi de’ monasteri; impediva il passo
dell’Alpi a quei che andassero a Roma. Fe’ cingere la corona di ferro a
suo figlio Enrico; e perchè quello di re d’Italia non fosse un titolo
senza soggetto, procurò congiungere alla primazia sui Lombardi il
dominio del reame meridionale: ma donde sperava il consolidamento della
grandezza di sua casa, ne venne la ruina.
Commessi gli affari d’Italia ad Enrico, il Barbarossa tornò in Germania
a domare i baroni che gli aveano recato molestia durante la guerra
d’Italia, ed esercitò l’autorità imperiale con rigore qual altri non
aveva usato da Carlo Magno in poi, fisso soprattutto nel pensiero di
renderla ereditaria nella sua famiglia. Singolarmente gli diede a fare
Enrico il Leone. Avendo esso imperatore saputo indurre il vecchio
Guelfo a rinunziargli i beni di sua casa in Italia e in Germania,
fra cui l’eredità della contessa Matilde, Enrico da quel giorno negò
soccorrerlo nelle guerre d’Italia, benchè supplicato a ginocchi;
messo al bando dell’Impero, fu vinto, e a stento ottenne di conservare
il Brunswick e il Luneburg: ma l’abbassamento di quella casa lasciò
rialzarsi i baroni secolari ed ecclesiastici, che si assicurarono il
pieno dominio del proprio territorio.
Repente un gemito universale annunziò che Gerusalemme, la santa città,
liberata col sangue di tutta Europa, era stata ripresa dai Musulmani,
e il colle di Sion e la valle del Cedron echeggiavano ancora alle
invocazioni di Allah. Il gran Saladino, profittando della rivalità dei
principi latini, gli assalì (1187) e sconfisse, occupò Acri, Cesarea,
Nazaret, Betlem, e alfine Gerusalemme stessa: ed ebbe prigioniero il re
Guido di Lusignano. Menò egli strage particolarmente de’ cavalieri del
Tempio e dell’Ospedale, moltissimi fece prigioni, fra cui Guglielmo di
Monferrato, cugino del Barbarossa, il cui figlio avea sposato Sibilla
sorella di Baldovino re di Gerusalemme, che gli portò in dote la contea
di Joppe. Un altro suo figlio Corrado, trovandosi allora pellegrino in
Terrasanta, tolse a difendere Tiro, durando intrepido, benchè Saladino
minacciasse uccidergli il vecchio padre se non rendesse questa città.
La nuova di tali disastri fu portata in Italia da messi vestiti
a bruno, che andavano tratteggiando gli esecrandi oltraggi usati
alla religione, la santa croce trascinata per le vie, il sepolcro
insozzato, i fanciulli educati al Corano, le donne tratte negli harem,
e mostravano una immagine dove Cristo era battuto e calpesto da un
Arabo, nel quale doveva riconoscersi Maometto. Quest’annunzio accelerò
la morte ad Urbano III, che prima aveva scritto a tutti i potentati
cristiani eccitandoli a soccorrere Terrasanta. Come avviene nei gravi
disastri, una riforma generale parve diffondersi; tregua si convenne
fra tutti i combattenti; i cardinali raccolti a Ferrara per eleggere il
nuovo pontefice, non solo incitarono i re alla crociata, ma proposero
voler guidarla essi stessi; bandirono la tregua di Dio per sette anni,
e scomunicato chi la violasse; e cominciando l’ammenda da sè, promisero
vivere poveramente, e non ricever doni da sollecitatori, non montare
a cavallo (1187), finchè la terra santificata dalla presenza di Cristo
non fosse ricuperata. Gregorio VIII, vecchio di santa vita e macero da
penitenze, nel brevissimo regno non fece che predicare la spedizione,
e a tal uopo cercò rappattumare i discordi, e principalmente Genovesi e
Pisani che si erano continuato feroce guerra. Clemente III succedutogli
persistette nell’intento: fra gli altri, Guglielmo arcivescovo di Tiro,
ministro di Baldovino IV e storico delle crociate, predicò a Milano,
a Bologna, ove duemila cittadini presero la croce, e in altre città:
si permise ai re di riscuotere una _decima Saladina_ sopra tutte le
rendite d’ecclesiastici e di secolari per le spese della guerra: si
comandò il magro ogni mercoledì, digiuno ogni sabbato, non giurare,
non giocare a dadi, non imbandire più di due piatti, non portare vesti
scarlatte o vajo o zibellino, ed altre manifestazioni che durano quanto
l’entusiasmo.
Gl’Italiani, che, appunto in quest’occasione, Corrado abate uspergense
chiama «bellicosi, discreti, sobrj, lontani dalla prodigalità, parchi
nelle spese quando non sieno necessarie, e soli fra tutti i popoli
che si reggano a leggi scritte», corsero primi all’impresa; e Toscani
e Romagnuoli, sotto la guida degli arcivescovi di Pisa e di Ravenna,
approdarono a Tiro. Guglielmo il Buono ordinò un generale registro
di tutti i feudatarj del regno di Sicilia e degli uomini che ciascun
doveva[142], intimando stessero pronti a partire; ed essi s’obbligarono
a contribuire il doppio d’uomini: e una flotta condotta dall’ammiraglio
Margaritone di Brindisi valse non poco a sostener Tiro. Saladino,
costretto a lasciare questa città, tentò sorprendere Tripoli; ma i
nostri giunsero in tempo a salvare quegli ultimi resti del _glorioso
acquisto_.
Federico Barbarossa, che giovane avea fatto l’impresa di Terrasanta,
volle coronare la faticosa vita coll’assumere di nuovo la croce.
Imbevuto del concetto della onnipotenza imperiale qual gli era stata
definita a Roncaglia, mandò intimare a Saladino lasciasse la città
santa a lui, signore universale perchè successore degli antichi
cesari. Saladino vi oppose il diritto della conquista, e si preparò a
sostenerlo. Il Barbarossa col proprio figlio e con sessantotto signori,
trentamila cavalieri e ottantaduemila fanti passò dunque in Palestina
e prosperò; ma traversando il fiume Salef restò annegato; e la crociata
riuscì a fine disastroso.
Il Barbarossa, come gli eroi della tragedia antica, operava in forza
del carattere, non della moralità; postosi un principio, voleva
seguirlo. I Comaschi gli applausero come restauratore del diritto,
punitor delle violenze; altrove fu esaltato come liberatore d’Italia,
mirando solo agli interessi particolari e a quella indipendenza
che spesso fu considerata come idea principale, mentre non è che
secondaria. Tutti poi i nostri lo inneggiarono quando rinunziò alle
idee germaniche, conservando sola la lealtà, con cui accettò il patto
di Costanza. I Germani lo venerarono qual rappresentante della loro
stirpe, e non lo credettero morto, ma che si fosse ridotto nel campo
dorato sul Kiffhäuser, tenendo corte colla figlia e coi burgravi,
sedendo a una tavola di marmo, attorno alla quale crebbe la sua barba
rossa. E verrà giorno che uscirà ancora co’ suoi fedeli, e farà grande
il popolo tedesco sopra tutti gli altri. In Italia altrimenti; e mentre
a Carlo e Ottone, perchè favorevoli alla causa popolare, fu mantenuto
il titolo di Grandi, Federico, non inferiore ad essi, vien tuttora
ricordato con orrore dal popolo, cui si mostrò infesto[143].


CAPITOLO LXXXV.
Ordinamento e governo delle Repubbliche.

Così scarsi tornano nella nostra storia i momenti, ai quali possa
confortarsi la ragione ed esaltarsi il sentimento, che è ben dritto se
gl’italiani si fermano con compiacenza sopra la Lega Lombarda.
Legame puramente esterno e di momentanea provvisione, essa non cambiava
le condizioni de’ singoli Stati, ciascuno de’ quali come indipendente
proseguiva nella fatica di ordinarsi. Abbastanza ripetemmo che la
rivoluzione dei Comuni, tanto decisiva, non fu radicale, e lasciò
sussistere molte parti del passato, che oggi sarebbero le prime a
distruggersi. Oggi poi si vorrebbe innanzi tutto precisare i diritti
dei cittadini, farli tutti eguali in faccia alla legge, concentrare i
poteri maestatici in un magistrato supremo, abbastanza robusto nella
sua azione; separare la podestà legislativa dall’esecutiva, e dare
indipendenza e stabilità alla giudiziale, distribuita in una gerarchia
di tribunali con precise attribuzioni; proclamare leggi fisse, ed
evitare ogni tumultuosa applicazione di esse; discutere pubblicamente
i conti, scompartire con equità l’imposta, ottenere l’esercizio rapido
e uniforme dell’autorità, sottraendola all’arbitrio di un capo, alle
gelosie dell’aristocrazia, alle tumultuose incostanze del vulgo;
trovare il modo più conveniente a rendere rappresentato ogni bisogno,
ogni forza, ogni capacità, ed anche la provincia per togliere la
prevalenza oppressiva della capitale; chiarire e sodare le relazioni
cogli Stati vicini, e i diritti e doveri reciproci; e principalmente
assicurare l’indipendenza dello Stato per maniera che nessuno estranio
s’intrometta dell’interno suo ordinamento.
Non a questo senso intendevasi allora la libertà, nè chiaro concetto
si avea di ciò che or chiamiamo lo Stato; e dal tentonare d’inesperti
sarebbe troppo l’attendersi quel senno e quella prudenza, che sì spesso
fallisce a noi pure, a noi insegnati da lunghissima esperienza e da
tanti errori. Ingegniamoci di orientarci per quanto è possibile fra
tanta varietà di ordini, di statuti, di vicende.
Sottoposta che fu la campagna alla città, limite di ciascuna Repubblica
rimase ordinariamente quello delle giurisdizioni vescovili; onde oggi
ancora le diocesi, colla bizzarra loro conformazione, indicano il
territorio di quelle. Da ciò, se non originata, mantenuta la prodigiosa
differenza dei dialetti; da ciò la moltiplicità di edifizj civili e
religiosi, nessuna volendo restare di sotto della vicina; da ciò le
guerricciole; da ciò fatti meno penosi i frequenti esigli, poichè il
fuoruscito a due passi trovava sicurezza, senza aver mutato nè favella
nè clima.
La pace di Costanza ebbe sanzionata la rivoluzione, che da serve
ridusse franche le città, ma non attribuiva loro l’indipendenza,
bensì la libera podestà di governo, il diritto d’eleggere ciascuna
i proprj magistrati, far leggi, munirsi, conchiudere pace e guerra,
imporsi tributi e ripartirli, regolare la polizia rurale e l’industria,
militare sotto la propria bandiera, non essere obbligati andar fuori
del Comune per pagare tributo o rispondere a citazioni, esercitare
liberamente la pesca e la caccia. Essa pace non conferiva però nuovi
diritti, neppure uguagliava gli antichi; ciascuno rimaneva nella
condizione ove l’avea trovato la guerra, con più o meno privilegi,
secondo gli aveva compri, estorti, acquistati, ottenuti. Nè tampoco
si distruggeva veruna delle antiche dipendenze; e nella città libera
potevano ancora durare un conte feudale, un vescovo con diritti
sovrani, qualche uomo indipendente dai comuni magistrati, e servi fuor
della legge.
Di sopra poi di tutti stava un re o un imperatore, la cui supremazia
in sostanza si riduceva a mettere il proprio nome sulle monete e
agli istromenti, riscuotere annuo tributo, e la _paratica_ al primo
suo venire in Italia, determinata per ciascun Comune con particolari
convenzioni. Nel 1185 Federico I «volendo viemeglio premiare quelli
che più perseverano nella devozione alla sacra maestà dell’Impero,
ed osservando il valore, la fede, la devozione de’ _suoi_ diletti
cittadini milanesi, il cui affetto, più degli altri ardente, li mostra
di giorno in giorno meglio meritevoli de’ suoi favori»[144], cede loro
tutte le regalie che esso teneva nell’arcivescovado di Milano in terra
e in mare, determinando il tributo in lire trecento, oltre la paratica.
Quest’ultima dagli abitanti di Treviglio fu fissata in sei marchi
d’argento. Il Comune di Brescia ricompravasi nel 1192 da tutte le
regalie per due marchi l’anno, e gliene faceva carta Enrico VI.
I diritti regali non espressi nel patto di Costanza era convenuto
sarebbero ponderati dal vescovo di ciascuna città insieme con probi
uomini; ma essi non competendo se non al re che fosse eletto dal voto
nazionale, pochi fra’ successori del Barbarossa li godettero; e per
lo più s’accontentarono d’un omaggio e del giuramento di fedeltà,
trattando i nostri a maniera d’alleati. Enrico VI e Federico II,
bisognando d’ajuti in guerra, strinsero leghe con qualche città,
assolvendola dagli obblighi imposti dalla pace di Costanza; di modo che
o per cessione del re, o per ritrosia de’ popoli, s’andò smettendo ogni
aggravio, eccetto il fodro, che venne convertito in sussidio grazioso.
Anche dalla conferma dei magistrati, riservata all’imperatore o a’
suoi messi, le città si riscossero a denaro; sebbene le ghibelline, per
condiscendenza, gliela chiedessero ancora. Nel 1195, davanti alla porta
Torre di Como, Girardo de Zanibone, Tettamanzo de Gaidaldi, Odone di
Medolate, consoli del Comune di Cremona, col mezzo della lancia e del
gonfalone rosso con croce bianca, riceveano da Enrico VI l’investitura
di quanto si contiene nel privilegio di esso Comune[145].
Federico I erasi riservata l’appellazione delle cause[146], e a
riceverla delegava vicarj; venuti però questi di peso, le città se ne
fecero esentare, traendo anche tale diritto ai proprj magistrati o ai
vescovi[147].
Dapprima i messi regj ed i vicarj imperiali poteano ogni cosa quanto
l’imperatore, salvo che conferire i feudi maggiori o di trono, e
alienare o ipotecare beni e diritti dell’Impero. Abbiamo l’investitura
che Federico II dava nel 1249 a Tommaso conte di Savoja quale vicario
della Lombardia da Pavia in giù, affinchè conservasse la pace e la
giustizia; concedendogli perciò il mero e misto imperio e podestà
della spada contro i malfattori, principalmente quei che molestano
le strade; udire e risolvere le quistioni civili e criminali,
competenti all’imperatore; imporre bandi e multe; interporre decreti
per l’alienazione di cose ecclesiastiche e per tutela de’ pupilli;
dar tutori e curatori, restituire in intero, ricevere l’appello
dalle sentenze dei giudici ordinarj; ma dalla sentenza di lui possa
ricorrersi al trono[148]. Sì estesa autorità andò restringendosi;
i messi regj si ridussero a poco meglio che nodari; e il vicariato,
non che sostenere l’autorità imperiale, servì ad ampliare quella de’
grandi, che compravano esso titolo per assodare la propria dominazione.
Guarnieri conte di Humberg, vicario d’Enrico VII, dovette abbandonare
la Lombardia per assoluta mancanza di denaro: per la causa istessa
Princivalle del Fiesco, vicario di Rodolfo d’Habsburg, vendette alle
città di Toscana le giurisdizioni dell’Impero[149].
Ne’ ricchissimi archivj di Lucca investigammo altrove la formazione di
quel Comune (pag. 38): studiandovi ora le relazioni delle Repubbliche
coll’Impero, troviamo che nel 1162, alla presenza dell’arcivescovo di
Colonia, arcicancelliere dell’Italia e legato imperiale, i consoli
maggiori giurarono sugli evangeli fedeltà a Federico I, e di nulla
attentare a suo danno, anzi soccorrerlo a sostener la corona e
l’onor suo, o recuperarli; non palesare gli ordini secreti ch’egli
trasmettesse; e per la guerra o per la pace in Toscana e per le regalie
starà alla sua parola, l’ajuterà a riscuotere il fodro nel vescovado
di Lucca, da tutti i cittadini farà dargli il giuramento, non guastare
nè lasciar guastare la strada, dare all’imperatore venti militi nella
spedizione verso Roma e la Puglia, pagare l’annuo tributo convenuto
di quattrocento lire, in ricompra di tutte le regalie per sei anni.
L’imperatore concede in ricambio alla città di Lucca di eleggere i
consoli, i quali vadano a ricevere da esso l’investitura, e gli giurino
fedeltà[150].
Qui è riconosciuta la piena libertà del Comune: eppure, due anni dopo,
esso Federico confermava il mero e misto imperio al vescovo di Lucca
sopra gran quantità di terre, ville, castelli, autorizzandolo a far
leggi e giustizia, e governare per sè o pel suo nunzio, come farebbe
l’imperatore o un nunzio suo[151]. Poi nel 1185 dava un diploma in
favore dei Comuni e signori di Garfagnana, di Montemagno, di Versilia,
di Camajore, prendendoli in protezione, esimendoli da ogni dominio
di città o di autorità qualunque, come soggetti a sè solo; abroga
le occupazioni di terre, borghi, castelli fatte da consoli; obbliga
Lucca a riedificare i castelli che v’avesse demoliti[152]. L’anno
vegnente, Enrico VI rinnovava a questa il privilegio della zecca, delle
giurisdizioni e regalie nella città e nel distretto, non accennando
più all’obbligo d’andare i consoli a giurare fedeltà; però, anche
ne’ trattati con altre potenze, riservino la fedeltà all’Impero, e
gli paghino sessanta marche d’argento l’anno. Nel 1209 Ottone IV,
imperatore disputato, confermava la carta anticamente datale da Enrico
IV, con questo che nessun mai guastasse le mura della città o le
case; non dovessero avere palazzo per l’imperatore, nè dare alloggi;
non paghino alcun pedaggio da Pavia sino a Roma o in Pisa; non abbia
molestia chi vien a commerciare con Lucca pel mare o pel Serchio;
non si fabbrichi castello o fortino a sei miglia di circuito; nessun
giudice di Lombardia eserciti giurisdizione in Lucca, se non presente
l’imperatore o il suo cancelliere[153].
Dall’assicurare il libero governo interno, le esazioni, i mercati,
le caccie, le pesche, i forni, i mulini, le Repubbliche passarono a
pretendere dominio sopra i vicini, e ne chiedeano ancora la ratifica
dagl’imperatori. Pertanto nel 1244 Federico II al Comune di Lucca
concedeva che i castelli di Motrone, Montefegatese e Luliano nella
Garfagnana con tutte le loro pertinenze gli stessero sottoposti;
accettasse come concittadini le persone della Garfagnana che il
vogliano; e i Comuni e le persone di questa possano ricevere i podestà
e rettori di Lucca: vale a dire, li sottraeva alla giurisdizione
imperiale per sottoporli alla comunale[154]. Quando i Lucchesi
parteggiarono col papa, esso Federico cassò quelle concessioni,
investendone invece il figlio e vicario suo Enzo; ma riconciliatosi,
le restituì al Comune di Lucca come feudo, talchè questa città,
internamente repubblicana, riguardo agli esterni avea posto nella
gerarchia feudale[155]. Eppure lo stesso Federico donava in perpetuo a
Pagano Baldovin messinese il territorio di Viareggio.