Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 06
Sicilia, la Puglia, la Calabria, avrebbe dettalo la legge a Roma. E
perchè quegli assalì Benevento, città pontifizia, Onorio lo scomunicò,
e mosse contro di esso in armi, dando perfino indulgenza plenaria
a chi perisse in quella guerra. I principali conti assecondarono il
pontefice; ma Ruggero, venuto di Sicilia con buon esercito, prese le
città primarie; e il papa, che vedeva ogni giorno diminuirsi le sue
truppe, s’accontentò d’investirlo della Puglia e Calabria. Non andò
troppo sottigliando sui diritti l’antipapa Anacleto, e bisognoso di
fautori, a Ruggero consentì il titolo di re di Sicilia, l’investitura
della Puglia, Calabria, Salerno, e la supremazia sul ducato di Napoli e
il principato di Capua; in Palermo fu celebrata la pomposa coronazione,
e restò costituito il regno delle Due Sicilie, terminando le antiche
repubbliche nel mezzodì, quando nel settentrione d’Italia sbocciavano
le nuove.
I baroni e conti, fin allora tutti pari di potenza, mal soffersero di
vedersi imposto un superiore; e Roberto dovette star sempre coll’armi
in pugno, e con ferro, fuoco, prigioni soffogando le rinascenti
rivolte, cagionò guasti non minori di quelli de’ Musulmani. Anche
Amalfi fu costretta demolire le fortificazioni e a lui sottoporsi.
Roberto principe di Capua, primo tra i baroni normanni e che
intitolavasi _per la grazia di Dio_, vedendosi rapita l’indipendenza,
si unì coi signori che voleano difenderla e collo straticò di Napoli.
Soccombuto, andò invocare soccorsi dai Pisani, ma Ruggero colla flotta
di Sicilia e della soggiogata Amalfi assalì Napoli, il cui straticò
seppe resistere all’armi e alla fame.
Tanta possa di Ruggero ingelosiva e gl’imperatori d’Oriente, già altre
volte minacciati dai Normanni; e Lotario, a cui esclamavano i tanti
oppressi da Ruggero; e più Innocenzo, che vedea sempre peggio rimossa
la speranza di ricuperare la sua sede. Lotario, spinto dalle preghiere
di Roberto di Capua, ed esortato da san Bernardo a toglier via lo
scisma (1137), mosse contro Ruggero, allargò Napoli, rimise Roberto in
Capua, sicchè Ruggero, perdute tutte le terre di qua del Faro, dovette
ricoverare in Sicilia. I Pisani, vedendo il bel destro di vendicarsi
dell’antica emula, con ben cento navi assalirono Amalfi, e costrettala
a cedere, vi esercitarono fieramente i diritti della vittoria. Da
quel punto (1157) Amalfi più non contò, sebbene le forme repubblicane
conservasse internamente fin quando nel 1350 i re di Napoli le
abolirono. I suoi banchi in Levante restarono deserti, od occupati da
più felici successori; a’ suoi porti non concorsero più se non i devoti
a visitare il corpo di sant’Andrea, che il cardinale Capuano rapì alla
chiesa di Costantinopoli nel 1207, e che stillava manna. Chi oggi,
andando a interrogare i tanti problemi della storia nazionale, visita
la patria di Flavio Gioja e di Masaniello sulla deliziosa riva dove il
mare frange tra Napoli e Salerno, sentesi stringere il cuore ai pochi e
luridi abituri sopravanzati colà dove sorgeva l’antica legislatrice del
Mediterraneo; e sedendo pensoso su qualche barca pescareccia nel porto
a cui affluivano le ricchezze d’Oriente, invece dell’operoso tumulto
di ottantamila abitanti, non vede che l’abbandonata negligenza di pochi
pescatori, non ode che il gemito de’ limosinanti.
Era quello il momento di mettere al nulla il dominio de’ Normanni
se, al solito, non fossero entrate contestazioni tra i federati.
Alla presa di Salerno i Pisani recaronsi a dispetto che l’imperatore
segnasse la capitolazione senza loro intervento: poi il papa pretendeva
quella città appartenesse a lui, e volendo sminuzzare il dominio
coll’eleggere un nuovo duca di Puglia, disputavasi a chi toccasse
dargli l’investitura; alfine conchiusero gliela conferirebbero e il
papa e l’imperatore, tenendo entrambi il gonfalone. Altre controversie
nacquero per Montecassino: ma pure rappattumati, Innocenzo e Lotario
ripresero la via di Roma, ove il papa coll’armi imperiali potè
rientrare. Lotario, devastata l’Italia nell’andata e nel ritorno, se ne
partiva con poca gloria e meno frutto, allorchè morì (5 xbre) vicin di
Trento: uom prode e d’onore, amico del retto, ma non robusto quanto ai
tempi occorreva.
Ruggero, che aveva aspettato il consueto scomporsi dell’esercito
imperiale, tornò bentosto, riprese la città senza dare ascolto a san
Bernardo, venuto consigliatore di pace: anzi pretese erigersi arbitro
fra Innocenzo e l’antipapa Anacleto; e morto questo, ne nominò un altro
(1138) in Vittore IV. Però Bernardo tanto fece, che menò l’antipapa
a’ piedi d’Innocenzo, al quale pure si sottomisero i dissidenti. Ed
egli raccolse in Laterano l’XI concilio ecumenico (1139) con duemila
prelati, ai quali disse: — Voi sapete che Roma è capitale del mondo;
che le dignità ecclesiastiche si ricevono per concessione del sommo
pontefice, siccome feudo; nè senza di ciò possono legittimamente
possedersi».
Ivi scomunicò Ruggero, poi in persona mosse con buone armi, disposto
a guerreggiarlo se non accettasse le proposizioni di pace. Rejette
queste, attaccò il pertinace, ma incontrò sfortuna eguale al suo
predecessore Leone IX, e come lui ne trasse profitto: perocchè, caduto
prigione con molti cardinali, vide il suo vincitore gittarsegli a’
piedi e domandargli perdono dell’averlo vinto; laonde egli conchiuse
pace con Ruggero, rinnovandogli l’investitura già avuta dall’antipapa,
purchè prestasse alla romana Chiesa l’omaggio e seicento schifati
d’oro ogn’anno[102]. Nel titolo restava eccettuato Salerno, sul cui
principato i papi ebbero sempre pretensioni; ma erano comprese Capua,
tolta al perseverante Roberto, e Napoli colle sue dipendenze, la quale,
avendo perduto in battaglia il duca, accettò di sottomettersi al nuovo
re.
Di qui restò confermato l’alto dominio della santa sede, già da
essa acquistato mezzo secolo prima, sopra il Reame. Ruggero da nuove
vittorie, da bandi e confische cercò una legittimazione, che al secolo
nostro garba meglio che non la benedizione papale.
A re Lotario in Germania parea dovesse succedere il guelfo Enrico, ma
prevalse Corrado di Franconia, che, abdicata la corona italica, poco
dopo andò crociato (1147) con settantamila cavalieri e innumerevoli
fanti, pochi de’ quali dopo orribili patimenti lo accompagnarono
al ritorno. Nella sua lunga assenza, i Comuni presero incremento in
Italia; e sotto diverse sembianze ma in ogni parte appariva la libertà,
e manifestavasi nel cozzarsi di Venezia con Ravenna, di Pisa e Firenze
con Lucca, di Vicenza con Treviso, di Fano con Pésaro, Fossombrone,
Sinigaglia, di Verona con Padova perchè avea stornato il letto
dell’Adige; di Modena con Bologna perchè a questa erasi data la badia
di Nonantola; di Cremona e Pavia con Milano, che già non paga della
libertà, voleva anche dominio sulle città del contorno. Mal sostenuti
dal potere imperiale, i baroni soccombevano agli sforzi de’ Comuni,
che venivano estendendo l’eguaglianza popolare; sicchè questa prevalse
anche in Toscana. Firenze, Siena, Pistoja, Arezzo primeggiavano sui
Comuni e sui dinasti limitrofi; e, secondo una lettera di Pietro
abate di Cluny a re Ruggero, «miserabile era l’aspetto della Toscana,
confondendosi le cose umane e le divine; città, castelli, borgate,
ville, strade pubbliche, fin le chiese erano esposte a omicidj,
sacrilegi, rapine; pellegrini, cherici, monaci, abati, preti, vescovi,
patriarchi v’erano presi, spogliati, battuti, uccisi»[103]. I principi
normanni reprimevano a mezzodì il movimento repubblicano; ma non
che favorissero gl’imperatori, stavano in sospetto delle antiche
pretensioni che potessero addurre contro il recente loro dominio.
In ogni parte la podestà imperiale era dunque in calo: nè prosperava la
pontifizia, alla quale nuovo genere di sfide recò Arnaldo da Brescia.
Educatosi in Francia alla scuola di Abelardo, libero pensatore, più
rinomato per gli amori e le sventure sue che per l’ardimento del
suo eclettismo, Arnaldo fu prima guerriero, poi monaco, e cominciò
a propagare in Italia le dubitanti e negative idee del suo maestro,
e censurare la depravazione del clero. Bel parlatore, e ascoltato
avidamente com’è sempre chi esercita la maldicenza, prese a battere
la potenza ecclesiastica; repugnare al buon diritto che il clero
possedesse beni, e regalie i vescovi, mentre avrebbero dovuto vivere
all’apostolica di decime e di oblazioni, restituendo i possessi al
principe cui appartenevano[104]; e in ciò metteva convinzione ed
entusiasmo maggiore che non que’ novatori, i quali più tardi sull’orme
sue vennero a scassinare col ragionamento il regime cristiano dello
Stato e della Chiesa. Paragonava egli i Governi d’allora colle antiche
repubbliche, sogno o delirio perpetuo degl’Italiani, che allora veniva
infervorato dai rinnovati studj classici de’ giureconsulti. Volentieri
lo ascoltavano i laici, che tenendo feudalmente privilegi dai vescovi,
bramavano rendersene indipendenti; e i _Politici_, come si chiamavano
i suoi fazionieri, crescendo più sempre di numero, scotevansi
risolutamente dall’obbedienza del papa.
Era questo venuto in ira anche ai popolani perchè, essendosi rivoltati
i cittadini di Tivoli e avendo sconfitto in malo modo i Romani, esso
gli assalì da vero, e coll’assedio li costrinse a capitolare, ma non
sterminò le vite e le mura loro. Imprecando dunque a tale benignità
col solito titolo di tradimento, i Romani traggono tumultuosi al
Campidoglio (1141), e come pegno della rinnovata repubblica rintegrano
il senato di cinquantasei membri, e in nome di questo e del popolo
romano intimano guerra ai vicini. Innocenzo morì prima di poterli
domare (1143); e Celestino II, succedutogli per pochi mesi, tolse
a perseguitare Arnaldo, benchè già amico suo, e che, mal sorretto
dalla volubile aura vulgare, fuggì a Zurigo, prevenendo Zuinglio nel
predicare contro la Chiesa, poi in Francia, in Germania, inseguito
dappertutto dall’occhio e dalla voce di san Bernardo.
Le famiglie primarie dei Pierleoni e dei Frangipani, fin allora
nemiche, si mettono d’accordo per umiliare la fazione democratica e
svellere l’ordine repubblicano: ma i popolani, guidati dalla nobiltà
inferiore, invocano l’immediata sovranità dell’imperatore, qual soleva
ai tempi di Roma antica. Lucio II papa (1144), che in processione
armata marciava al Campidoglio per isnidare i nuovi magistrati, è
respinto a sassi, così che ne muore. Imbaldanzì la fazione avversa, e
a fatica si potè nominare Eugenio III discepolo di san Bernardo (1145),
il quale, per non dovere a forza riconoscere il senato, fuggì di Roma.
Arnaldo soldò duemila Svizzeri, e questa forza mercenaria condusse a
raffermare la magistratura repubblicana del Campidoglio. Proponevasi
egli istituire un ordine equestre, medio tra il popolo ed il senato,
ristabilire i consoli e i tribuni, insomma con una pedantesca e
intempestiva restaurazione del passato ingrandire l’autorità imperiale,
mentre il papa restringeva ai soli giudizj ecclesiastici.
Il vulgo è facile a credere che cogli antichi nomi ritornino le antiche
grandezze; e coll’entusiasmo dell’applauso accoppiando al solito
l’entusiasmo del furore, abbatte le torri e i palazzi dei nobili
avversi e de’ cardinali, non senza ferirne alcuni, abolisce la dignità
di prefetto di Roma per nominare patrizio Giordano, fratello d’Anacleto
antipapa, ed obbliga tutti a prestargli giuramento. Eugenio, tentata
invano la riconciliazione, scomunicò costui; poi, unite le sue forze
con quelle di Tivoli, costrinse a tornare all’obbedienza, e fu accolto
con tante feste, con quante n’era stato escluso[105]. Breve trionfo: e
ben tosto costretto uscirne di nuovo, passò in Francia a sollecitar la
crociata; mentre i repubblicani chiamavano Corrado III, vantando non
avere operato ad altro fine che per restituire l’Impero nella grandezza
che aveva sotto Costantino e Giustiniano, e perchè egli ricuperasse
tutti gli onori che gli competevano e gli erano stati usurpati; avere
perciò demolito le fortezze dei prepotenti; venisse in persona a
compier l’opera, collocare sua sede in Roma, e abbattere i Normanni
fautori del papa[106].
L’imperatore, mal fidandosi a quel popolo leggero, provvide di truppe
il pontefice; che con queste e con altre di Francia piantossi a
Tusculo, e da quei terrieri e dai Normanni sostenuto, potè rinnovare
i patti col popolo, lasciandogli il senato, ma nominando egli stesso
un prefetto, giusta la prisca consuetudine. Però se il popolo voleva
conformare lo statuto ai concetti di Arnaldo e della storia, senza
sgomentarsi delle idee classiche sopra l’illimitata autorità del
principe, l’alta nobiltà desiderava mantenere la condizione feudale,
impedendo e ai papi di dominare e al popolo di emanciparsi. Continuò
la repubblica sotto Anastasio IV; ma Adriano IV inglese (1153-54),
avendo la plebe assassinato il cardinale di Santa Pudenziana, diede
lo straordinario esempio di interdire la capitale del cristianesimo
finchè Arnaldo non fosse espulso. Il popolo sgomentato, massime che
s’avvicinava la pasqua, cacciò Arnaldo, che rifuggì presso un conte di
Campania.
Anche Ruggero, che teneva carezzati i pontefici sol in quanto gli
giovavano, poco avea tardato a venire in nuova rotta con essi, ne
devastò le terre, guerreggiò e depredò Montecassino. Guerra più
gloriosa recò ai Barbareschi d’Africa, assalendo Tripoli nido di
corsari, Bona, Tunisi, e menandone schiave le donne in Sicilia.
Gl’imperatori d’Oriente non cessavano di credere usurpati a sè i
possessi de’ Normanni, e li molestavano; onde Ruggero mandò un’armata
verso l’Epiro, prese Corfù, Cefalonia, Corinto, Negroponte, Atene,
asportandone immense ricchezze e persone da ripopolarne la Sicilia, ma
specialmente operaj di seta. L’imperatore bisantino, cognato di Corrado
III, sollecitava questo a venire in Italia e rintuzzare il baldanzoso
Normanno; intanto egli medesimo faceva grosse armi, e col soccorso de’
Veneziani assalse Corfù; ma Ruggero ardì spingersi a Costantinopoli,
gettando razzi incendiarj contro il palazzo imperiale. Pure Corfù gli
venne tolta, e la sua flotta battuta dalla veneta e genovese.
Corrado accingevasi a calare in Italia per la corona, e insieme per
guerreggiare Ruggero (1152), quando morì a Bamberga, si volle dire
avvelenato da medici della famosa scuola di Salerno, ch’erano rifuggiti
a lui fingendo paura di Ruggero.
CAPITOLO LXXXIV.
Federico Barbarossa.
Federico di Buren, feudatario della Svevia, che oggi diciamo Baviera,
Baden, Würtenberg, a poche miglia da Goeppingen fabbricò s’un’altura
un casale, detto perciò Hohenstaufen, donde trasse il titolo la sua
famiglia. Quanto coraggioso, tanto fu leale verso l’imperatore Enrico
IV, che in compenso gli diede il ducato di Svevia e la mano di sua
figlia Agnese. Morendo vecchissimo, lasciò due figli, Federico e
Corrado, il primo de’ quali fu investito da Enrico V de’ feudi paterni,
l’altro della Franconia (1137), e fu anche coronato re d’Italia dai
Milanesi (pag. 90), ed eletto imperatore da alcuni, poi da tutti
alla morte di Lotario di Sassonia. Morendo lasciò un figliuolo, ma
conoscendo non esser tempi da fanciulli, raccomandò un figlio di suo
fratello, Federico di nome, di soprannome Barbarossa. Alla dieta di
Francoforte, dai principi dell’Impero e da molti baroni di Lombardia,
di Toscana e d’altri paesi italici eletto re (1152), coronato in
Aquisgrana, mandò ad Eugenio III e all’Italia notificando la sua
elezione, che fu generalmente aggradita, anche nella speranza ch’egli
riconciliasse Guelfi e Ghibellini, giacchè, capo di questi pel padre,
per madre era nipote di Guelfo di Baviera, capo degli altri.
Sul fiore dei trent’anni, già era famoso nelle battaglie, ne’ tornei,
nelle crociate; saldo d’animo e di corpo, pronto d’ingegno, di memoria
prodigiosa, dolce nel favellare, semplice nei costumi, paragone di
castità, provvido ne’ consigli, valentissimo in opere di guerra, dai
Tedeschi vien noverato fra i principi più insigni; certo fu de’ più
robusti caratteri del medioevo; proteggeva i poeti e verseggiava egli
stesso, sapeva di latino e di storia, e volle che dal cugino Ottone
vescovo di Frisinga fossero scritte le sue geste[107]. Offuscava
tante doti coll’ambizione e l’avarizia, o almeno così qualificarono
gl’italiani il suo desiderio di ristabilire qui la regia prerogativa,
e d’ottenerne i mezzi, cioè il denaro. Certamente a una profonda idea
del dovere come egli lo intendeva, sagrificava interessi, sentimenti,
pietà; e dovere supremo pareagli il rintegrare l’autorità imperiale,
come tipi di questa togliendo Costantino e Giustiniano nell’aspetto
ch’erano presentati dalla risorta giurisprudenza romana; e le idee
sistematiche proseguiva coll’ostinatezza propria della sua nazione. Di
qui le città, acquistato vigore, meno docili si manifestavano; di là
la Chiesa aveva dimostrato la sua indipendenza, almeno in diritto; i
baroni si tenevano in armi per assicurarsi la supremazia territoriale;
e Federico si propose di frangere tutti questi ostacoli col riformare
il sistema ecclesiastico e il feudale, e abolire i Comuni.
Coronato appena, ecco deputati del pontefice a pregarlo di soccorsi
contro i Romani rivoltosi; ecco Roberto di Capua invocare d’essere
rimesso nel principato, toltogli dal re di Sicilia; ecco cittadini
di Como e di Lodi, che, trovandosi colà per traffici, senza missione
delle proprie città se gli buttano ai piedi, cospersi di cenere e con
croci alla mano, implorando riparazione, e vendetta delle loro patrie
soccombute ai Milanesi.
Diedero pel talento a Federico queste occasioni di assumere aspetto
di vindice dei deboli, cui potrebbe poi a sua volta regolare; mentre
alleandosi coi forti, non avrebbe fatto che crescere a questi la
baldanza. I Lodigiani stavano talmente allibiti, che invece di saper
grado a quei loro concittadini, li caricarono d’ingiurie; a Sicherio,
che il Barbarossa spediva con lettere di rimprovero ai Milanesi,
non osarono fare accoglienze: di pessime poi n’ebbe costui allorchè
le presentò ai Milanesi, che le calpestarono urlando; e fu gran che
s’egli potè uscire dalle lor mani e camparsi in Germania. Dello smacco
s’inviperì Federico; e i Lodigiani vollero mansuefarlo collo spedirgli
una chiave d’oro, e raccomandarsegli caldamente; anche Cremona e Pavia
gli inviarono grossi regali; Milano pure ravveduta il donò d’una coppa
d’oro piena di denaro: omaggi di paura, e i re li credono d’amore.
Pubblicato l’eribanno, Federico coll’esercito feudale mosse verso
l’Italia, perocchè la potenza e il primato di questi imperatori
non valeano se non discendendo in persona. Per via raccoglievano
dai feudatarj immediati il donativo, il foraggio e la tangente di
milizie; mandavano ad esigere dalle città le dovute regalie; e poichè
reprimevano coll’armi i contumaci, il loro viaggio era segnato da
devastazioni. All’arrivo del re rimaneva sospesa la giurisdizione
dei magistrati feudali, ed egli in persona rendeva giustizia, e
ascoltava in appello chiunque si credesse gravato dal proprio signore
o inesaudito. Altrettanto avveniva nelle città; le quali pertanto
consideravano come di gran conto il privilegio che non entrassero nelle
loro mura i re, i quali, quanto vi stavano, erano despoti; iti che se
ne fossero, tornava ognuno a fare il proprio talento[108].
A questa forma calossi il Barbarossa, e truppe non minori delle sue
gli menava Enrico il Leone, de’ Guelfi d’Este. A questa famiglia
l’imperatore avea dato l’investitura della marca di Toscana, del
ducato di Spoleto, del principato di Sardegna, e dei beni allodiali
della contessa Matilde; ed Enrico, gran prode, possedendo i ducati di
Sassonia e Baviera, acquistata Lubecca, avuto il diritto di erigere
vescovadi di là dall’Elba, e adopratosi a sottoporre gli Slavi, era
riuscito de’ più potenti di Germania, nè inferiore al Barbarossa se non
perchè gli mancava la corona.
Convocati i baroni nel solito piano di Roncaglia (1154), minacciando
spossessare del feudo chi non intervenisse, Federico vi ricevette pure
i consoli delle varie città che gli giurarono fede. Ottone vescovo,
suo storiografo, tuttochè nemico, ammirava i popoli d’Italia, i
quali nulla ritenevano della barbarica rozzezza longobarda, ma nei
costumi e nel linguaggio mostravano la pulitezza e leggiadria degli
antichi Romani. Gelosi di loro libertà (prosegue egli), non soffrono
il governo di un solo, ma eleggono dei consoli fra i tre ordini de’
capitanei, valvassori e plebei, di modo che nessun ordine soperchii
l’altro, e li mutano ogn’anno. Per popolare le città costringono i
nobili e signorotti di ciascuna diocesi, comunque baroni immediati, a
sottomettersi alle città, e starvi a dimora. Nella milizia poi e ne’
pubblici impieghi ammettono persino i meccanici e i braccianti; per
le quali arti esse città superano in ricchezza e potenza tutte quelle
d’oltr’Alpi. Da ciò derivano la superbia, il poco rispetto ai re, il
vederli malvolentieri in Italia, e non obbedirli se non costretti dalla
forza[109].
Federico incominciò ad unir le sue truppe con quelle del cugino
Guglielmo marchese di Monferrato, uno dei pochi che conservava la
feudale potenza, malgrado le città[110]; e gli diè mano ad assalire e
disfare i liberi Comuni di Asti e Chieri.
I Milanesi, avuto sentore dei mali uffizj fatti dai Pavesi, gli
avevano assaltati senza pietà: e l’imperatore, ben vedendo che, se
avesse parteggiato coi Milanesi, questi monterebbero in tal forza
da più non obbedirlo[111], si chiarì pei Pavesi, nella loro città
prese il diadema regio, mandò guastare il territorio de’ Milanesi,
e quanti ne colse attaccò alle code de’ cavalli; soddisfece all’ira
dei Pavesi col mettere a sterminio Tortona dopo robusta resistenza;
bruciò Rosate, Galliate, Trecate, Momo, colle fiere esecuzioni sperando
incutere spavento e distorre dal resistergli. A tacere la crudeltà, fu
improvvido questo baloccarsi in fazioni parziali, invece di difilare
sopra Milano. Nè per allora fece altro che sgomentare; poi mosse su
Roma[112].
Ivi durava la repubblica proclamata da Arnaldo da Brescia; e i
novatori, ridotto il papa alla Città Leonina, gl’intimarono rinunziasse
ad ogni podestà temporale, accontentandosi del regno che non è di
questo mondo: ma Adriano IV repulsava quelle domande. Al venir dunque
dell’imperatore, tutti gli animi stavano sospesi. Ajuterebbe egli i
repubblicani per umiliare il papa, antico avversario dell’impero?
o vorrebbe reprimere questo slancio della gran città verso la
forma sempre prediletta in Italia, e che annichilava la prerogativa
imperiale? Federico non tardò a chiarirsi: dal conte di Campania, a cui
erasi rifuggito, richiese Arnaldo, e lo consegnò (1155) al prefetto
imperiale della città; e Roma, dalle tre lunghe vie che sboccano in
piazza Popolo, potè vedere il rogo su cui l’eretico e ribelle era
bruciato[113].
Non atterriti dal supplizio di Arnaldo (1155), i cittadini vollero
patteggiare con Federico prima di riceverlo in città; ed i senatori,
scesi dal Campidoglio a prestargli il giuramento, sciorinarongli una
diceria sulle antiche glorie romane, e sull’onore che gli facevano
accettando cittadino lui straniero e cercandolo oltr’Alpi per farlo
imperatore; giurasse osservar le leggi, e mantener la costituzione
della città e difenderla contro i Barbari; per le spese pagherebbe
cinquemila libbre.
Di frasi retoriche i nostri furono sempre vaghi; ma il Tedesco positivo
ai vanti postumi oppose la presente umiliazione; lui esser loro re,
perchè Carlo e Ottone Magni gli avevano colle armi soggiogati, nè
dovere i sudditi imporre legge al sovrano, bensì questo a quelli[114]:
e mandò dietro loro un migliajo di cavalieri, che occuparono Castel
Sant’Angelo e la Città Leonina. Colà fu coronato dal papa (18 giug),
e si piegò alla rituale consuetudine di tenergli la staffa. I Romani,
ch’erano stati esclusi da quella cerimonia e costretti a rimanere
sull’altra riva del Tevere, levano rumore, e dalle grida passando ai
fatti cominciano un’abbaruffata, ove molti cittadini rimangono uccisi,
ma anche non pochi Tedeschi: gli altri al domani, per manco di viveri,
dovettero abbandonare la città.
Tale era omai il solito accompagnamento della tedesca coronazione.
Poi le febbri romane, come spesso, fecero giustizia contro la pioggia
di ferro che la Germania versava sull’Italia[115]; e spirando il
termine prefisso ai vassalli per militare, il Barbarossa dovette
risolversi al ritorno. Non avea dunque abolito la repubblica romana,
non francheggiato le pretensioni sue sovra la Puglia. Il re di
Sicilia, avuto nelle mani Roberto di Capua, lo fe accecare, poi
sepellire in carcere; e prese o battè gli altri baroni che avevano
levato il capo fidando in Federico, il quale si volse indietro, ancora
squarciando città. I Lombardi, rincoraggiati al vederlo in ritirata,
lo bersagliarono con insistenza, e massime i Veronesi con tronchi
abbandonati alla corrente arietarono il ponte di barche, per cui
l’esercito tragittava l’Adige: poi nell’angusta valle di questo fiume
il cavaliere Alberico di Verona lo molestò con pietre, e pretendeva
da esso re ottocento libbre d’argento, e una corazza e un cavallo per
ogni cavaliere tedesco, se volesse liberamente passare; ma il palatino
Ottone di Wittelsbach lo snidò dalle alture. Federico, tornato in
Germania, della sua spedizione diede ragguaglio allo storico con una
lettera che si conserva, dove alla sconfitta trova le solite scuse,
quand’anche non la maschera sotto una sicurezza minacciosa.
Come una molla al cessare della compressione, i Milanesi rialzano la
testa; raddoppiano lamenti i tanti cui egli avea tolto la patria;
per dispetto si vuol disfare ogni fatto di lui. Dugento cavalieri
e dugento fanti di due quartieri di Milano vanno a riporre Tortona,
che per loro amore si era sagrificata, e le consegnano la tromba da
convocare il popolo, la bandiera, e un sigillo collo stemma delle due
città, in segno d’unione. Lanciansi poi contro chi stava al segno
dell’imperatore: ma i Pavesi li sbaragliano, assalgono la città,
e v’entrano anche con due bandiere; alfine son ridotti a umilianti
condizioni, battuta Novara, spianato Vigevano, presi venti castelli del
Luganese e i fortissimi di Chiasso e Stabbio, sfasciata di nuovo Como,
punita Cremona e i marchesi di Monferrato. Anche i Bresciani ruppero
guerra ai Bergamaschi, e nell’infausta giornata di Palusco tolsero
loro, con molti prigionieri, il gonfalone, che poi spiegavano ogni
anno nella chiesa de’ Santi Faustino e Giovita. Devastazioni fraterne
punivano le devastazioni straniere.
Il lamento de’ soccombenti arrivò di là dall’Alpi, e Federico
struggevasi di riparare la vergogna e il danno. Anco assai gli coceva
che il papa, senza sua partecipazione, avesse conferito il titolo di re
della Puglia a Guglielmo figlio di Ruggero: onde moltiplicò querele,
e proibì agli ecclesiastici de’ suoi Stati di volgersi a Roma per
collazione di benefizj nè per qual si fosse motivo.
Federico non fondavasi più soltanto sul brutale diritto delle spade,
ma era circondato di leggisti, i quali, gonfi d’una scienza nuova,
proponevansi d’imitare gli antichi giureconsulti non solo collo zelare
le prerogative imperiali, ma col cavillar le parole e sottigliare
sulle interpretazioni. Avendo i Tedeschi arrestato un vescovo, il papa
diresse all’imperatore un richiamo, ove diceva tra le altre cose: —
Noi ti abbiamo concesso la corona imperiale, nè avremmo esitato ad
accordarti _benefizj_ maggiori, se di maggiori ne poteano essere».
Colla sofisteria di chi vuole azzeccar litigi, i legulej di Federico
pretesero il papa con ciò indicasse che l’Impero fosse benefizio,
vale dire feudo e dipendenza della Chiesa. Se ne levò dunque un rumor
grande, e trattandosene nella dieta di Besanzone, invelenì la contesa
il cardinale legato Rolando Bandinelli esclamando: — Ma se l’imperatore
non tiene l’Impero dal papa, e da chi dunque?»
Pretensione siffatta era tutt’altro che nuova nel diritto pubblico
d’allora; ma Ottone di Wittelsbach, che portava la spada dell’Impero,
lanciolla per trapassare il legato, che a fatica si salvò, e che
ebbe ordine di andarsene senza vedere convento o vescovo per via.
L’imperatore diede straordinaria pubblicità all’incidente per eccitare
l’indignazione tedesca contro le tracotanze papali: se non che Adriano
perchè quegli assalì Benevento, città pontifizia, Onorio lo scomunicò,
e mosse contro di esso in armi, dando perfino indulgenza plenaria
a chi perisse in quella guerra. I principali conti assecondarono il
pontefice; ma Ruggero, venuto di Sicilia con buon esercito, prese le
città primarie; e il papa, che vedeva ogni giorno diminuirsi le sue
truppe, s’accontentò d’investirlo della Puglia e Calabria. Non andò
troppo sottigliando sui diritti l’antipapa Anacleto, e bisognoso di
fautori, a Ruggero consentì il titolo di re di Sicilia, l’investitura
della Puglia, Calabria, Salerno, e la supremazia sul ducato di Napoli e
il principato di Capua; in Palermo fu celebrata la pomposa coronazione,
e restò costituito il regno delle Due Sicilie, terminando le antiche
repubbliche nel mezzodì, quando nel settentrione d’Italia sbocciavano
le nuove.
I baroni e conti, fin allora tutti pari di potenza, mal soffersero di
vedersi imposto un superiore; e Roberto dovette star sempre coll’armi
in pugno, e con ferro, fuoco, prigioni soffogando le rinascenti
rivolte, cagionò guasti non minori di quelli de’ Musulmani. Anche
Amalfi fu costretta demolire le fortificazioni e a lui sottoporsi.
Roberto principe di Capua, primo tra i baroni normanni e che
intitolavasi _per la grazia di Dio_, vedendosi rapita l’indipendenza,
si unì coi signori che voleano difenderla e collo straticò di Napoli.
Soccombuto, andò invocare soccorsi dai Pisani, ma Ruggero colla flotta
di Sicilia e della soggiogata Amalfi assalì Napoli, il cui straticò
seppe resistere all’armi e alla fame.
Tanta possa di Ruggero ingelosiva e gl’imperatori d’Oriente, già altre
volte minacciati dai Normanni; e Lotario, a cui esclamavano i tanti
oppressi da Ruggero; e più Innocenzo, che vedea sempre peggio rimossa
la speranza di ricuperare la sua sede. Lotario, spinto dalle preghiere
di Roberto di Capua, ed esortato da san Bernardo a toglier via lo
scisma (1137), mosse contro Ruggero, allargò Napoli, rimise Roberto in
Capua, sicchè Ruggero, perdute tutte le terre di qua del Faro, dovette
ricoverare in Sicilia. I Pisani, vedendo il bel destro di vendicarsi
dell’antica emula, con ben cento navi assalirono Amalfi, e costrettala
a cedere, vi esercitarono fieramente i diritti della vittoria. Da
quel punto (1157) Amalfi più non contò, sebbene le forme repubblicane
conservasse internamente fin quando nel 1350 i re di Napoli le
abolirono. I suoi banchi in Levante restarono deserti, od occupati da
più felici successori; a’ suoi porti non concorsero più se non i devoti
a visitare il corpo di sant’Andrea, che il cardinale Capuano rapì alla
chiesa di Costantinopoli nel 1207, e che stillava manna. Chi oggi,
andando a interrogare i tanti problemi della storia nazionale, visita
la patria di Flavio Gioja e di Masaniello sulla deliziosa riva dove il
mare frange tra Napoli e Salerno, sentesi stringere il cuore ai pochi e
luridi abituri sopravanzati colà dove sorgeva l’antica legislatrice del
Mediterraneo; e sedendo pensoso su qualche barca pescareccia nel porto
a cui affluivano le ricchezze d’Oriente, invece dell’operoso tumulto
di ottantamila abitanti, non vede che l’abbandonata negligenza di pochi
pescatori, non ode che il gemito de’ limosinanti.
Era quello il momento di mettere al nulla il dominio de’ Normanni
se, al solito, non fossero entrate contestazioni tra i federati.
Alla presa di Salerno i Pisani recaronsi a dispetto che l’imperatore
segnasse la capitolazione senza loro intervento: poi il papa pretendeva
quella città appartenesse a lui, e volendo sminuzzare il dominio
coll’eleggere un nuovo duca di Puglia, disputavasi a chi toccasse
dargli l’investitura; alfine conchiusero gliela conferirebbero e il
papa e l’imperatore, tenendo entrambi il gonfalone. Altre controversie
nacquero per Montecassino: ma pure rappattumati, Innocenzo e Lotario
ripresero la via di Roma, ove il papa coll’armi imperiali potè
rientrare. Lotario, devastata l’Italia nell’andata e nel ritorno, se ne
partiva con poca gloria e meno frutto, allorchè morì (5 xbre) vicin di
Trento: uom prode e d’onore, amico del retto, ma non robusto quanto ai
tempi occorreva.
Ruggero, che aveva aspettato il consueto scomporsi dell’esercito
imperiale, tornò bentosto, riprese la città senza dare ascolto a san
Bernardo, venuto consigliatore di pace: anzi pretese erigersi arbitro
fra Innocenzo e l’antipapa Anacleto; e morto questo, ne nominò un altro
(1138) in Vittore IV. Però Bernardo tanto fece, che menò l’antipapa
a’ piedi d’Innocenzo, al quale pure si sottomisero i dissidenti. Ed
egli raccolse in Laterano l’XI concilio ecumenico (1139) con duemila
prelati, ai quali disse: — Voi sapete che Roma è capitale del mondo;
che le dignità ecclesiastiche si ricevono per concessione del sommo
pontefice, siccome feudo; nè senza di ciò possono legittimamente
possedersi».
Ivi scomunicò Ruggero, poi in persona mosse con buone armi, disposto
a guerreggiarlo se non accettasse le proposizioni di pace. Rejette
queste, attaccò il pertinace, ma incontrò sfortuna eguale al suo
predecessore Leone IX, e come lui ne trasse profitto: perocchè, caduto
prigione con molti cardinali, vide il suo vincitore gittarsegli a’
piedi e domandargli perdono dell’averlo vinto; laonde egli conchiuse
pace con Ruggero, rinnovandogli l’investitura già avuta dall’antipapa,
purchè prestasse alla romana Chiesa l’omaggio e seicento schifati
d’oro ogn’anno[102]. Nel titolo restava eccettuato Salerno, sul cui
principato i papi ebbero sempre pretensioni; ma erano comprese Capua,
tolta al perseverante Roberto, e Napoli colle sue dipendenze, la quale,
avendo perduto in battaglia il duca, accettò di sottomettersi al nuovo
re.
Di qui restò confermato l’alto dominio della santa sede, già da
essa acquistato mezzo secolo prima, sopra il Reame. Ruggero da nuove
vittorie, da bandi e confische cercò una legittimazione, che al secolo
nostro garba meglio che non la benedizione papale.
A re Lotario in Germania parea dovesse succedere il guelfo Enrico, ma
prevalse Corrado di Franconia, che, abdicata la corona italica, poco
dopo andò crociato (1147) con settantamila cavalieri e innumerevoli
fanti, pochi de’ quali dopo orribili patimenti lo accompagnarono
al ritorno. Nella sua lunga assenza, i Comuni presero incremento in
Italia; e sotto diverse sembianze ma in ogni parte appariva la libertà,
e manifestavasi nel cozzarsi di Venezia con Ravenna, di Pisa e Firenze
con Lucca, di Vicenza con Treviso, di Fano con Pésaro, Fossombrone,
Sinigaglia, di Verona con Padova perchè avea stornato il letto
dell’Adige; di Modena con Bologna perchè a questa erasi data la badia
di Nonantola; di Cremona e Pavia con Milano, che già non paga della
libertà, voleva anche dominio sulle città del contorno. Mal sostenuti
dal potere imperiale, i baroni soccombevano agli sforzi de’ Comuni,
che venivano estendendo l’eguaglianza popolare; sicchè questa prevalse
anche in Toscana. Firenze, Siena, Pistoja, Arezzo primeggiavano sui
Comuni e sui dinasti limitrofi; e, secondo una lettera di Pietro
abate di Cluny a re Ruggero, «miserabile era l’aspetto della Toscana,
confondendosi le cose umane e le divine; città, castelli, borgate,
ville, strade pubbliche, fin le chiese erano esposte a omicidj,
sacrilegi, rapine; pellegrini, cherici, monaci, abati, preti, vescovi,
patriarchi v’erano presi, spogliati, battuti, uccisi»[103]. I principi
normanni reprimevano a mezzodì il movimento repubblicano; ma non
che favorissero gl’imperatori, stavano in sospetto delle antiche
pretensioni che potessero addurre contro il recente loro dominio.
In ogni parte la podestà imperiale era dunque in calo: nè prosperava la
pontifizia, alla quale nuovo genere di sfide recò Arnaldo da Brescia.
Educatosi in Francia alla scuola di Abelardo, libero pensatore, più
rinomato per gli amori e le sventure sue che per l’ardimento del
suo eclettismo, Arnaldo fu prima guerriero, poi monaco, e cominciò
a propagare in Italia le dubitanti e negative idee del suo maestro,
e censurare la depravazione del clero. Bel parlatore, e ascoltato
avidamente com’è sempre chi esercita la maldicenza, prese a battere
la potenza ecclesiastica; repugnare al buon diritto che il clero
possedesse beni, e regalie i vescovi, mentre avrebbero dovuto vivere
all’apostolica di decime e di oblazioni, restituendo i possessi al
principe cui appartenevano[104]; e in ciò metteva convinzione ed
entusiasmo maggiore che non que’ novatori, i quali più tardi sull’orme
sue vennero a scassinare col ragionamento il regime cristiano dello
Stato e della Chiesa. Paragonava egli i Governi d’allora colle antiche
repubbliche, sogno o delirio perpetuo degl’Italiani, che allora veniva
infervorato dai rinnovati studj classici de’ giureconsulti. Volentieri
lo ascoltavano i laici, che tenendo feudalmente privilegi dai vescovi,
bramavano rendersene indipendenti; e i _Politici_, come si chiamavano
i suoi fazionieri, crescendo più sempre di numero, scotevansi
risolutamente dall’obbedienza del papa.
Era questo venuto in ira anche ai popolani perchè, essendosi rivoltati
i cittadini di Tivoli e avendo sconfitto in malo modo i Romani, esso
gli assalì da vero, e coll’assedio li costrinse a capitolare, ma non
sterminò le vite e le mura loro. Imprecando dunque a tale benignità
col solito titolo di tradimento, i Romani traggono tumultuosi al
Campidoglio (1141), e come pegno della rinnovata repubblica rintegrano
il senato di cinquantasei membri, e in nome di questo e del popolo
romano intimano guerra ai vicini. Innocenzo morì prima di poterli
domare (1143); e Celestino II, succedutogli per pochi mesi, tolse
a perseguitare Arnaldo, benchè già amico suo, e che, mal sorretto
dalla volubile aura vulgare, fuggì a Zurigo, prevenendo Zuinglio nel
predicare contro la Chiesa, poi in Francia, in Germania, inseguito
dappertutto dall’occhio e dalla voce di san Bernardo.
Le famiglie primarie dei Pierleoni e dei Frangipani, fin allora
nemiche, si mettono d’accordo per umiliare la fazione democratica e
svellere l’ordine repubblicano: ma i popolani, guidati dalla nobiltà
inferiore, invocano l’immediata sovranità dell’imperatore, qual soleva
ai tempi di Roma antica. Lucio II papa (1144), che in processione
armata marciava al Campidoglio per isnidare i nuovi magistrati, è
respinto a sassi, così che ne muore. Imbaldanzì la fazione avversa, e
a fatica si potè nominare Eugenio III discepolo di san Bernardo (1145),
il quale, per non dovere a forza riconoscere il senato, fuggì di Roma.
Arnaldo soldò duemila Svizzeri, e questa forza mercenaria condusse a
raffermare la magistratura repubblicana del Campidoglio. Proponevasi
egli istituire un ordine equestre, medio tra il popolo ed il senato,
ristabilire i consoli e i tribuni, insomma con una pedantesca e
intempestiva restaurazione del passato ingrandire l’autorità imperiale,
mentre il papa restringeva ai soli giudizj ecclesiastici.
Il vulgo è facile a credere che cogli antichi nomi ritornino le antiche
grandezze; e coll’entusiasmo dell’applauso accoppiando al solito
l’entusiasmo del furore, abbatte le torri e i palazzi dei nobili
avversi e de’ cardinali, non senza ferirne alcuni, abolisce la dignità
di prefetto di Roma per nominare patrizio Giordano, fratello d’Anacleto
antipapa, ed obbliga tutti a prestargli giuramento. Eugenio, tentata
invano la riconciliazione, scomunicò costui; poi, unite le sue forze
con quelle di Tivoli, costrinse a tornare all’obbedienza, e fu accolto
con tante feste, con quante n’era stato escluso[105]. Breve trionfo: e
ben tosto costretto uscirne di nuovo, passò in Francia a sollecitar la
crociata; mentre i repubblicani chiamavano Corrado III, vantando non
avere operato ad altro fine che per restituire l’Impero nella grandezza
che aveva sotto Costantino e Giustiniano, e perchè egli ricuperasse
tutti gli onori che gli competevano e gli erano stati usurpati; avere
perciò demolito le fortezze dei prepotenti; venisse in persona a
compier l’opera, collocare sua sede in Roma, e abbattere i Normanni
fautori del papa[106].
L’imperatore, mal fidandosi a quel popolo leggero, provvide di truppe
il pontefice; che con queste e con altre di Francia piantossi a
Tusculo, e da quei terrieri e dai Normanni sostenuto, potè rinnovare
i patti col popolo, lasciandogli il senato, ma nominando egli stesso
un prefetto, giusta la prisca consuetudine. Però se il popolo voleva
conformare lo statuto ai concetti di Arnaldo e della storia, senza
sgomentarsi delle idee classiche sopra l’illimitata autorità del
principe, l’alta nobiltà desiderava mantenere la condizione feudale,
impedendo e ai papi di dominare e al popolo di emanciparsi. Continuò
la repubblica sotto Anastasio IV; ma Adriano IV inglese (1153-54),
avendo la plebe assassinato il cardinale di Santa Pudenziana, diede
lo straordinario esempio di interdire la capitale del cristianesimo
finchè Arnaldo non fosse espulso. Il popolo sgomentato, massime che
s’avvicinava la pasqua, cacciò Arnaldo, che rifuggì presso un conte di
Campania.
Anche Ruggero, che teneva carezzati i pontefici sol in quanto gli
giovavano, poco avea tardato a venire in nuova rotta con essi, ne
devastò le terre, guerreggiò e depredò Montecassino. Guerra più
gloriosa recò ai Barbareschi d’Africa, assalendo Tripoli nido di
corsari, Bona, Tunisi, e menandone schiave le donne in Sicilia.
Gl’imperatori d’Oriente non cessavano di credere usurpati a sè i
possessi de’ Normanni, e li molestavano; onde Ruggero mandò un’armata
verso l’Epiro, prese Corfù, Cefalonia, Corinto, Negroponte, Atene,
asportandone immense ricchezze e persone da ripopolarne la Sicilia, ma
specialmente operaj di seta. L’imperatore bisantino, cognato di Corrado
III, sollecitava questo a venire in Italia e rintuzzare il baldanzoso
Normanno; intanto egli medesimo faceva grosse armi, e col soccorso de’
Veneziani assalse Corfù; ma Ruggero ardì spingersi a Costantinopoli,
gettando razzi incendiarj contro il palazzo imperiale. Pure Corfù gli
venne tolta, e la sua flotta battuta dalla veneta e genovese.
Corrado accingevasi a calare in Italia per la corona, e insieme per
guerreggiare Ruggero (1152), quando morì a Bamberga, si volle dire
avvelenato da medici della famosa scuola di Salerno, ch’erano rifuggiti
a lui fingendo paura di Ruggero.
CAPITOLO LXXXIV.
Federico Barbarossa.
Federico di Buren, feudatario della Svevia, che oggi diciamo Baviera,
Baden, Würtenberg, a poche miglia da Goeppingen fabbricò s’un’altura
un casale, detto perciò Hohenstaufen, donde trasse il titolo la sua
famiglia. Quanto coraggioso, tanto fu leale verso l’imperatore Enrico
IV, che in compenso gli diede il ducato di Svevia e la mano di sua
figlia Agnese. Morendo vecchissimo, lasciò due figli, Federico e
Corrado, il primo de’ quali fu investito da Enrico V de’ feudi paterni,
l’altro della Franconia (1137), e fu anche coronato re d’Italia dai
Milanesi (pag. 90), ed eletto imperatore da alcuni, poi da tutti
alla morte di Lotario di Sassonia. Morendo lasciò un figliuolo, ma
conoscendo non esser tempi da fanciulli, raccomandò un figlio di suo
fratello, Federico di nome, di soprannome Barbarossa. Alla dieta di
Francoforte, dai principi dell’Impero e da molti baroni di Lombardia,
di Toscana e d’altri paesi italici eletto re (1152), coronato in
Aquisgrana, mandò ad Eugenio III e all’Italia notificando la sua
elezione, che fu generalmente aggradita, anche nella speranza ch’egli
riconciliasse Guelfi e Ghibellini, giacchè, capo di questi pel padre,
per madre era nipote di Guelfo di Baviera, capo degli altri.
Sul fiore dei trent’anni, già era famoso nelle battaglie, ne’ tornei,
nelle crociate; saldo d’animo e di corpo, pronto d’ingegno, di memoria
prodigiosa, dolce nel favellare, semplice nei costumi, paragone di
castità, provvido ne’ consigli, valentissimo in opere di guerra, dai
Tedeschi vien noverato fra i principi più insigni; certo fu de’ più
robusti caratteri del medioevo; proteggeva i poeti e verseggiava egli
stesso, sapeva di latino e di storia, e volle che dal cugino Ottone
vescovo di Frisinga fossero scritte le sue geste[107]. Offuscava
tante doti coll’ambizione e l’avarizia, o almeno così qualificarono
gl’italiani il suo desiderio di ristabilire qui la regia prerogativa,
e d’ottenerne i mezzi, cioè il denaro. Certamente a una profonda idea
del dovere come egli lo intendeva, sagrificava interessi, sentimenti,
pietà; e dovere supremo pareagli il rintegrare l’autorità imperiale,
come tipi di questa togliendo Costantino e Giustiniano nell’aspetto
ch’erano presentati dalla risorta giurisprudenza romana; e le idee
sistematiche proseguiva coll’ostinatezza propria della sua nazione. Di
qui le città, acquistato vigore, meno docili si manifestavano; di là
la Chiesa aveva dimostrato la sua indipendenza, almeno in diritto; i
baroni si tenevano in armi per assicurarsi la supremazia territoriale;
e Federico si propose di frangere tutti questi ostacoli col riformare
il sistema ecclesiastico e il feudale, e abolire i Comuni.
Coronato appena, ecco deputati del pontefice a pregarlo di soccorsi
contro i Romani rivoltosi; ecco Roberto di Capua invocare d’essere
rimesso nel principato, toltogli dal re di Sicilia; ecco cittadini
di Como e di Lodi, che, trovandosi colà per traffici, senza missione
delle proprie città se gli buttano ai piedi, cospersi di cenere e con
croci alla mano, implorando riparazione, e vendetta delle loro patrie
soccombute ai Milanesi.
Diedero pel talento a Federico queste occasioni di assumere aspetto
di vindice dei deboli, cui potrebbe poi a sua volta regolare; mentre
alleandosi coi forti, non avrebbe fatto che crescere a questi la
baldanza. I Lodigiani stavano talmente allibiti, che invece di saper
grado a quei loro concittadini, li caricarono d’ingiurie; a Sicherio,
che il Barbarossa spediva con lettere di rimprovero ai Milanesi,
non osarono fare accoglienze: di pessime poi n’ebbe costui allorchè
le presentò ai Milanesi, che le calpestarono urlando; e fu gran che
s’egli potè uscire dalle lor mani e camparsi in Germania. Dello smacco
s’inviperì Federico; e i Lodigiani vollero mansuefarlo collo spedirgli
una chiave d’oro, e raccomandarsegli caldamente; anche Cremona e Pavia
gli inviarono grossi regali; Milano pure ravveduta il donò d’una coppa
d’oro piena di denaro: omaggi di paura, e i re li credono d’amore.
Pubblicato l’eribanno, Federico coll’esercito feudale mosse verso
l’Italia, perocchè la potenza e il primato di questi imperatori
non valeano se non discendendo in persona. Per via raccoglievano
dai feudatarj immediati il donativo, il foraggio e la tangente di
milizie; mandavano ad esigere dalle città le dovute regalie; e poichè
reprimevano coll’armi i contumaci, il loro viaggio era segnato da
devastazioni. All’arrivo del re rimaneva sospesa la giurisdizione
dei magistrati feudali, ed egli in persona rendeva giustizia, e
ascoltava in appello chiunque si credesse gravato dal proprio signore
o inesaudito. Altrettanto avveniva nelle città; le quali pertanto
consideravano come di gran conto il privilegio che non entrassero nelle
loro mura i re, i quali, quanto vi stavano, erano despoti; iti che se
ne fossero, tornava ognuno a fare il proprio talento[108].
A questa forma calossi il Barbarossa, e truppe non minori delle sue
gli menava Enrico il Leone, de’ Guelfi d’Este. A questa famiglia
l’imperatore avea dato l’investitura della marca di Toscana, del
ducato di Spoleto, del principato di Sardegna, e dei beni allodiali
della contessa Matilde; ed Enrico, gran prode, possedendo i ducati di
Sassonia e Baviera, acquistata Lubecca, avuto il diritto di erigere
vescovadi di là dall’Elba, e adopratosi a sottoporre gli Slavi, era
riuscito de’ più potenti di Germania, nè inferiore al Barbarossa se non
perchè gli mancava la corona.
Convocati i baroni nel solito piano di Roncaglia (1154), minacciando
spossessare del feudo chi non intervenisse, Federico vi ricevette pure
i consoli delle varie città che gli giurarono fede. Ottone vescovo,
suo storiografo, tuttochè nemico, ammirava i popoli d’Italia, i
quali nulla ritenevano della barbarica rozzezza longobarda, ma nei
costumi e nel linguaggio mostravano la pulitezza e leggiadria degli
antichi Romani. Gelosi di loro libertà (prosegue egli), non soffrono
il governo di un solo, ma eleggono dei consoli fra i tre ordini de’
capitanei, valvassori e plebei, di modo che nessun ordine soperchii
l’altro, e li mutano ogn’anno. Per popolare le città costringono i
nobili e signorotti di ciascuna diocesi, comunque baroni immediati, a
sottomettersi alle città, e starvi a dimora. Nella milizia poi e ne’
pubblici impieghi ammettono persino i meccanici e i braccianti; per
le quali arti esse città superano in ricchezza e potenza tutte quelle
d’oltr’Alpi. Da ciò derivano la superbia, il poco rispetto ai re, il
vederli malvolentieri in Italia, e non obbedirli se non costretti dalla
forza[109].
Federico incominciò ad unir le sue truppe con quelle del cugino
Guglielmo marchese di Monferrato, uno dei pochi che conservava la
feudale potenza, malgrado le città[110]; e gli diè mano ad assalire e
disfare i liberi Comuni di Asti e Chieri.
I Milanesi, avuto sentore dei mali uffizj fatti dai Pavesi, gli
avevano assaltati senza pietà: e l’imperatore, ben vedendo che, se
avesse parteggiato coi Milanesi, questi monterebbero in tal forza
da più non obbedirlo[111], si chiarì pei Pavesi, nella loro città
prese il diadema regio, mandò guastare il territorio de’ Milanesi,
e quanti ne colse attaccò alle code de’ cavalli; soddisfece all’ira
dei Pavesi col mettere a sterminio Tortona dopo robusta resistenza;
bruciò Rosate, Galliate, Trecate, Momo, colle fiere esecuzioni sperando
incutere spavento e distorre dal resistergli. A tacere la crudeltà, fu
improvvido questo baloccarsi in fazioni parziali, invece di difilare
sopra Milano. Nè per allora fece altro che sgomentare; poi mosse su
Roma[112].
Ivi durava la repubblica proclamata da Arnaldo da Brescia; e i
novatori, ridotto il papa alla Città Leonina, gl’intimarono rinunziasse
ad ogni podestà temporale, accontentandosi del regno che non è di
questo mondo: ma Adriano IV repulsava quelle domande. Al venir dunque
dell’imperatore, tutti gli animi stavano sospesi. Ajuterebbe egli i
repubblicani per umiliare il papa, antico avversario dell’impero?
o vorrebbe reprimere questo slancio della gran città verso la
forma sempre prediletta in Italia, e che annichilava la prerogativa
imperiale? Federico non tardò a chiarirsi: dal conte di Campania, a cui
erasi rifuggito, richiese Arnaldo, e lo consegnò (1155) al prefetto
imperiale della città; e Roma, dalle tre lunghe vie che sboccano in
piazza Popolo, potè vedere il rogo su cui l’eretico e ribelle era
bruciato[113].
Non atterriti dal supplizio di Arnaldo (1155), i cittadini vollero
patteggiare con Federico prima di riceverlo in città; ed i senatori,
scesi dal Campidoglio a prestargli il giuramento, sciorinarongli una
diceria sulle antiche glorie romane, e sull’onore che gli facevano
accettando cittadino lui straniero e cercandolo oltr’Alpi per farlo
imperatore; giurasse osservar le leggi, e mantener la costituzione
della città e difenderla contro i Barbari; per le spese pagherebbe
cinquemila libbre.
Di frasi retoriche i nostri furono sempre vaghi; ma il Tedesco positivo
ai vanti postumi oppose la presente umiliazione; lui esser loro re,
perchè Carlo e Ottone Magni gli avevano colle armi soggiogati, nè
dovere i sudditi imporre legge al sovrano, bensì questo a quelli[114]:
e mandò dietro loro un migliajo di cavalieri, che occuparono Castel
Sant’Angelo e la Città Leonina. Colà fu coronato dal papa (18 giug),
e si piegò alla rituale consuetudine di tenergli la staffa. I Romani,
ch’erano stati esclusi da quella cerimonia e costretti a rimanere
sull’altra riva del Tevere, levano rumore, e dalle grida passando ai
fatti cominciano un’abbaruffata, ove molti cittadini rimangono uccisi,
ma anche non pochi Tedeschi: gli altri al domani, per manco di viveri,
dovettero abbandonare la città.
Tale era omai il solito accompagnamento della tedesca coronazione.
Poi le febbri romane, come spesso, fecero giustizia contro la pioggia
di ferro che la Germania versava sull’Italia[115]; e spirando il
termine prefisso ai vassalli per militare, il Barbarossa dovette
risolversi al ritorno. Non avea dunque abolito la repubblica romana,
non francheggiato le pretensioni sue sovra la Puglia. Il re di
Sicilia, avuto nelle mani Roberto di Capua, lo fe accecare, poi
sepellire in carcere; e prese o battè gli altri baroni che avevano
levato il capo fidando in Federico, il quale si volse indietro, ancora
squarciando città. I Lombardi, rincoraggiati al vederlo in ritirata,
lo bersagliarono con insistenza, e massime i Veronesi con tronchi
abbandonati alla corrente arietarono il ponte di barche, per cui
l’esercito tragittava l’Adige: poi nell’angusta valle di questo fiume
il cavaliere Alberico di Verona lo molestò con pietre, e pretendeva
da esso re ottocento libbre d’argento, e una corazza e un cavallo per
ogni cavaliere tedesco, se volesse liberamente passare; ma il palatino
Ottone di Wittelsbach lo snidò dalle alture. Federico, tornato in
Germania, della sua spedizione diede ragguaglio allo storico con una
lettera che si conserva, dove alla sconfitta trova le solite scuse,
quand’anche non la maschera sotto una sicurezza minacciosa.
Come una molla al cessare della compressione, i Milanesi rialzano la
testa; raddoppiano lamenti i tanti cui egli avea tolto la patria;
per dispetto si vuol disfare ogni fatto di lui. Dugento cavalieri
e dugento fanti di due quartieri di Milano vanno a riporre Tortona,
che per loro amore si era sagrificata, e le consegnano la tromba da
convocare il popolo, la bandiera, e un sigillo collo stemma delle due
città, in segno d’unione. Lanciansi poi contro chi stava al segno
dell’imperatore: ma i Pavesi li sbaragliano, assalgono la città,
e v’entrano anche con due bandiere; alfine son ridotti a umilianti
condizioni, battuta Novara, spianato Vigevano, presi venti castelli del
Luganese e i fortissimi di Chiasso e Stabbio, sfasciata di nuovo Como,
punita Cremona e i marchesi di Monferrato. Anche i Bresciani ruppero
guerra ai Bergamaschi, e nell’infausta giornata di Palusco tolsero
loro, con molti prigionieri, il gonfalone, che poi spiegavano ogni
anno nella chiesa de’ Santi Faustino e Giovita. Devastazioni fraterne
punivano le devastazioni straniere.
Il lamento de’ soccombenti arrivò di là dall’Alpi, e Federico
struggevasi di riparare la vergogna e il danno. Anco assai gli coceva
che il papa, senza sua partecipazione, avesse conferito il titolo di re
della Puglia a Guglielmo figlio di Ruggero: onde moltiplicò querele,
e proibì agli ecclesiastici de’ suoi Stati di volgersi a Roma per
collazione di benefizj nè per qual si fosse motivo.
Federico non fondavasi più soltanto sul brutale diritto delle spade,
ma era circondato di leggisti, i quali, gonfi d’una scienza nuova,
proponevansi d’imitare gli antichi giureconsulti non solo collo zelare
le prerogative imperiali, ma col cavillar le parole e sottigliare
sulle interpretazioni. Avendo i Tedeschi arrestato un vescovo, il papa
diresse all’imperatore un richiamo, ove diceva tra le altre cose: —
Noi ti abbiamo concesso la corona imperiale, nè avremmo esitato ad
accordarti _benefizj_ maggiori, se di maggiori ne poteano essere».
Colla sofisteria di chi vuole azzeccar litigi, i legulej di Federico
pretesero il papa con ciò indicasse che l’Impero fosse benefizio,
vale dire feudo e dipendenza della Chiesa. Se ne levò dunque un rumor
grande, e trattandosene nella dieta di Besanzone, invelenì la contesa
il cardinale legato Rolando Bandinelli esclamando: — Ma se l’imperatore
non tiene l’Impero dal papa, e da chi dunque?»
Pretensione siffatta era tutt’altro che nuova nel diritto pubblico
d’allora; ma Ottone di Wittelsbach, che portava la spada dell’Impero,
lanciolla per trapassare il legato, che a fatica si salvò, e che
ebbe ordine di andarsene senza vedere convento o vescovo per via.
L’imperatore diede straordinaria pubblicità all’incidente per eccitare
l’indignazione tedesca contro le tracotanze papali: se non che Adriano
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