Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 05
jocatibus, _servis masculis et fœminis, equis et aliis animalibus_.
Probabilmente questi tardi servi erano di gente infedele, e massime
prigionieri musulmani, quando la tolleranza religiosa neppur di nome
si conosceva. Altre volte i soldati per abuso della vittoria vendevano
schiavi i vinti, come i ribaldi dello Sforza fecero nel 1447 coi
Piacentini: alla schiavitù condannavano pure le scomuniche. N’era però
sempre tenuissimo il numero: come eccezione si notavano nel catasto
delle città; e voglionsi intendere piuttosto come dipendenti, giacchè
il famoso Bartolo a’ suoi tempi già dichiarava che servi propriamente
detti non v’erano più.
Nei Comuni adunque non s’ebbero i vantaggi rapidi d’una subitanea
e radicale rivoluzione; ma neppure la terribile responsalità
d’un’insurrezione fallita. Riuniti per la resistenza, ponendo questa
per primo dovere e mezzo e scopo, invece di sistemare aveano a
distruggere, invece di fondare sconnetteano. Nella lotta si vince, ma
l’odio sopravive e diventa seme di discordie; i dinasti mal frenati si
rialzano per soggiogare i Comuni; i re ingrandiscono favorendo questi;
la spada prolunga la guerra contro l’industria e la capacità. Que’
mali passarono, ma restano gli effetti; resta la rivoluzione da loro
operata, perpetua e legittima come quelle che migliorano la sorte delle
classi numerose: lo schiavo non è più cosa, ma uomo, dall’impersonalità
sollevato ad avere nome proprio e responsalità: nè sforzi e sangue
e rovine pajono soverchi a questo fine sacrosanto. Dove a pochi è
data la forza e l’intelligenza, facile è guidar la moltitudine: dove
tanti esercizj s’aprono alle facoltà morali e intellettive, come
avviene nelle fazioni, grandemente sono eccitati gl’ingegni, e ne
esce una gente operosa, accorta, che cerca e trova mille occasioni di
segnalarsi: e l’uomo dall’angustia degl’interessi domestici volgendosi
alle pubbliche cose, mentre cresce di pratica, nobilita le passioni,
dilata l’accorgimento, scopre e pondera i diritti. Che se a noi
Italiani i Comuni non lasciarono una patria, lasciarono la dignità
d’uomini; ed offrono nella storia moderna le prime di quelle pagine,
tanto attraenti, dove si vede un popolo travagliarsi contro i suoi
oppressori, ingrandire col proprio coraggio, rassodarsi con opportune
se non sempre savie istituzioni.
CAPITOLO LXXXIII.
I Comuni lombardi. Lotario II e Corrado III imperatori. Ruggero re di
Sicilia. Arnaldo da Brescia.
Sciolta la servitù della gleba, raccolti sotto un’amministrazione e una
giudicatura sola i tre ordini ridetti cittadini, e da tutti scegliendo
i consoli, e una specie di unità ricevendo dalla supremazia del papa,
l’Italia trovavasi in essere di nazione assai più che non la Francia
o la Germania. Non condensata, è vero, intorno ad una reggia, ma
vigorosamente ripartita attorno ai tre centri d’autorità, il castello,
la chiesa, il palazzo comunale, sarebbe camminata ad altissime fortune
se gl’imperatori non l’avessero scompigliata col crearsi un partito.
Deboli erano questi, in Germania osteggiati dai maggiori feudatarj,
che aspiravano alla sovranità territoriale; e in Italia dai papi
nel lungo certame delle Investiture. Enrico V, ambizioso ed avido
ma operoso, accorto, sprezzatore della pubblica opinione, poco
sopravisse all’accordo di Worms col papa, e in lui si estinse la
stirpe francona, che avea per un secolo dominato la Germania. Lotario
II datogli successore (1125), rassegnò il suo ducato di Sassonia, e
molt’altri possedimenti al genero Enrico di Baviera, della casa Guelfa:
glieli disputò Federico il Losco di Hohenstaufen duca di Svevia, uno
degli aspiranti al trono germanico: sicchè fra le due case cominciò
l’inimicizia, che, dopo mutato natura ed oggetto, sconvolse Germania e
Italia sotto il nome di Guelfi e Ghibellini.
Questi ultimi traevano il nome dal castello di Waiblingen nella
diocesi di Augusta, appartenente agli Hohenstaufen; gli altri dalla
famiglia bavarese dei Guelfi d’Altdorf. Azzo, marchese di Lombardia,
morendo centenario nel 1097, avea lasciato tre figli: Guelfo, che,
come nato da Cunegonda erede dei Guelfi di Baviera, andò a ducare
questo paese, e divenne stipite della casa di Brunswick, salita poi al
trono d’Inghilterra; Ugo si condusse alla peggio, e vendè le proprie
ragioni all’altro fratello Folco figlio di Garsenda principessa del
Maine, e progenitore dei marchesi d’Este in Italia. Signoreggiava
egli il paese dal Mincio fin al mare, cioè Este, Rovigo col Polesine,
Montagnana, Badia, oltre molte terre nella Lunigiana e nella Toscana.
Guelfo ne pretendeva una porzione; e venuto a ripeterla coll’esercito,
collegandosi al duca di Carintia e al patriarca d’Aquileja, di molti
paesi s’impadroni: infine fu stipulato che la linea di Germania tenesse
un terzo della città di Rovigo e la terra d’Este, senza pregiudicare
alle pretensioni che ostentava sull’eredità della contessa Matilde.
Da questa linea proveniva Enrico, che per la cessione di Lotario era
divenuto il più ricco signore d’Europa e il più potente di Germania,
tenendo una serie di paesi dal mar Baltico al Tirreno. Ma dalla parte
ghibellina Corrado duca di Franconia, fratello di Federico il Losco,
aveva redato di qua dell’Alpi i beni allodiali della casa Salica, e
scese in Italia cercandone la corona. Un principe non d’altre forze
provveduto che di quelle somministrategli dal paese, non poteva riuscir
pericoloso alla nascente libertà, onde fu il ben arrivato. A Milano
lo storico Landolfo di San Paolo e il cavaliere Ruggero de’ Crivelli,
deputati dall’arcivescovo Anselmo, discussero le ragioni dei due
principi emuli davanti al popolo, il quale indusse il metropolita a
coronar re Corrado (1128): molte città gli prestarono omaggio e doni;
ma Pavia, Novara, Piacenza, Brescia e Cremona stettero contrarie a
Milano, fin a dichiararne scomunicato l’arcivescovo che aveva unto
l’usurpatore; anche la Toscana repugnò da lui; e Onorio II papa, che
aveva riconosciuto imperatore Lotario, scomunicò questo pretendente.
Il quale tentò invano occupar Roma; sicchè gli stessi che s’erano
chiariti a lui favorevoli per farsene un appoggio, l’abbandonarono
quando il videro incentivo di guerre. Maneggiatosi alcun tempo, egli
si riconciliò con Lotario, e dopo essere stato a carico de’ Milanesi
e Parmigiani, partì dall’Italia covando contro i Comuni lombardi un
dispetto che trasmise al nipote Federico Barbarossa.
Essi Comuni, appena costituitisi, esercitavano nimicizie un
contro l’altro; e particolarmente in quel piano che dalle alpi
Retiche e Leponzie declina sino al Po ed al mare, ricco di nove
città indipendenti, Como, Bergamo, Brescia, Milano, Lodi, Crema,
Cremona, Pavia, Novara, frequenti appigli di risse porgeano i
terreni confinanti, le rivalità di mercato, la comunanza delle
acque irrigatorie. Presosi quel diritto del pugno, cioè della guerra
particolare, che fin là avevano esercitato i feudatarj, i Comuni,
non compressi da superiorità materiale, non da morale ritegno,
abbandonavansi a quella ostilità di vicini a vicini, che sembra
inesorabile maledizione degl’Italiani. Non avevano ancor finito di
abbattere i conti rurali, e già rompevano guerra (1110) Cremona a Crema
e Brescia, Pavia a Tortona, Milano a Novara e Lodi; l’ambizione e la
forza davano ai poderosi il desiderio e l’ardire di opprimere i deboli.
Pavia, memore di essere stata sede dei re goti e longobardi, e Milano
superba d’antichità, di vasto territorio, di popolazione maggiore
e della superiorità metropolitica, gareggiavano di preminenza, e
si contrariavano in ogni fatto. Nella lite delle Investiture Pavia
propendeva alla parte imperiale, alla pontifizia Milano, con cui
parteggiarono Lodi, Cremona, Piacenza; e per insinuazione della
contessa Matilde, giurarono lega di vent’anni onde osteggiare re
Enrico, e sostenere Corrado quando al padre si ribellò. Le due
parti erano equilibrate di forze; e poichè nessuno stabile nodo le
congiungeva, era sicura della vittoria quella che arrivasse ad isolar
la rivale. In fatto, secondo preponderasse una parzialità o l’altra,
le città mutavano bandiera; e girati pochi anni, a Milano troviamo
unite Crema, Tortona, Parma, Modena, Brescia (1117); mentre con Pavia
parteggiavano Cremona, Lodi, Novara, Asti, Reggio, Piacenza.
Quella mescolata che allora si faceva delle prerogative secolari colle
ecclesiastiche, portava a nuove scissure. Crema col suo contado, che
chiamavasi Isola di Folcherio, era stata a giurisdizione de’ marchesi
di Toscana, fin quando nel 1098 la contessa Matilde ne fe cessione al
vescovo e alla città di Cremona. Tale dipendenza spiacque ai Cremaschi,
che coll’armi assicurarono la propria libertà: ma di qui cominciarono
nimicizie lunghe e vergognose[93].
Milano pretendeva non solo alla superiorità che il suo metropolita
traeva dal posto gerarchico, e per cui ordinava i vescovi della
provincia e li convocava a concilio; ma che a lui competesse anche
l’eleggerli, mentre le chiese particolari tenevano gelosamente
al diritto antico di nominare i proprj pastori. Da ciò elezioni
tempestose, contrastate, doppie, complicate dall’appoggio del papa
e dell’imperatore, e per le quali il litigio delle Investiture dalle
sommità sociali scendeva fin a contingenze affatto particolari. Per
simili ragioni, e insieme per gelosia del ricco mercato che vi si
teneva, i Milanesi campeggiarono Lodi, rinnovando le ostilità, cioè
lo sperpero della campagna e la rapina delle messi per quattro anni,
in capo ai quali ridottala per fame, la smantellarono (1111); gli
abitanti dissiparono in sei borgate del contorno, sottoposte a rigide
condizioni; sciolsero il ricco mercato, nè Lodi-vecchio risorse più.
Eguale contesa per l’elezione dei vescovi cagionò la guerra di Milano
contro Como, descritta da un rozzo poeta contemporaneo[94], dolente
di pubblicare il duolo anzichè la letizia d’un popolo da molti secoli
fiorente. Aveano i Comaschi eletto canonicamente Guido de’ Grimoldi
di Cavallasca; mentre il milanese Landolfo da Carcano, destinatovi da
Enrico V, si fece ordinare dal patriarca d’Aquileja, parziale d’esso
imperatore; intruso di rapina nella sede, procurava mantenervisi ad
onta del popolo, e fortificatosi nel castello di San Giorgio presso
Maliaso sul lago di Lugano, scialacquava in privilegi e donazioni
il patrimonio della mensa. Risoluti a tor di mezzo lo scisma e lo
sperpero, i consoli comaschi Adamo del Pero e Gaudenzio da Fontanella
coi vassalli di Guido vi assalgono Landolfo, e fattolo prigione, lo
consegnano a Guido. Essendo nella mischia rimasto ucciso Ottone insigne
capitano milanese (1116), Giordano da Clivio arcivescovo di Milano,
invece d’insinuare pace e perdono, espone alla basilica Ambrosiana
le vesti insanguinate e le vedove degli uccisi, le quali strillando
chiedono vendetta; e serrata la chiesa, egli dichiara resteranno
sospesi i sacramenti, finchè non sia vendicato il sangue sparso.
In quelle assemblee tumultuose, dove la passione è unica consigliera,
e l’urlo predomina sulla ragione, fu decretata la guerra; i Milanesi,
mandato un araldo a denunziarla, assalsero Como, e incominciarono una
guerra, paragonata all’assedio di Troja per la durata, e meglio per
l’accordarsi delle forze lombarde contro una sola città.
Il guerreggiare d’allora non conduceva a pronti esiti, come le imprese
comandate e dirette da volontà unica e robusta. Un Comune avea ricevuto
un torto, e nel consiglio erasi decisa la guerra? più giorni rintoccava
la campana, acciocchè gli uomini capaci s’allestissero d’armi; uomini
che mai non s’erano esercitati insieme, che fin allora aveano badato
ai campi o alle arti, e che non usavano nè vestire nè armi uniformi,
unicamente diretti a vincere e far al nemico il peggior male. A buona
stagione traevasi fuori il carroccio, e dietro e attorno a quello
moveva la gente contro il territorio nemico, stramenava le campagne,
sfasciava i casali, rapiva gli armenti che non avessero avuto tempo
di ridursi nel recinto della città, alla quale poi mettevasi assedio,
procurando il più delle volte prenderla per fame, giacchè, prima
de’ cannoni, le terre murate aveano sempre il vantaggio sopra gli
assalitori. Nelle guerre feudali vedemmo i soldati abbandonare il capo
a mezzo dell’impresa, allo scadere dell’obbligato servizio. Qui gli
assalitori erano gente che avevano campi, arti, famiglia, interessi,
onde mal sopportavano i diuturni accampamenti, e alla mietitura o
all’avvicinarsi della vernata tornavano a casa a rifocillarsi, per
ripigliar poi col nuovo anno la campagna.
Di tal guisa fu condotta la guerra contro Como. I Comaschi erano
valorosissimi fra i Lombardi, come montanari e avvezzi in opra di
caccia e battaglie: e chiuso colla Camerlata e col castello Baradello
il passo verso Milano, poterono impedire gli approcci al patrio suolo.
Li secondavano gli abitanti della Vallintelvi, intrepidi petti, e
insieme abilissimi a inventare congegni militari. Maggior numero
di città prese parte con Milano, quali Cremona, Pavia, Brescia,
Bergamo, la Liguria, Vercelli colla mercantile Asti, e colla contessa
di Biandrate recante in braccio il giovane figliuolo: Novara venne
spontanea, invitata la forte Verona, e Bologna dotta nelle leggi,
e Ferrara non meno famosa che Mantova per bravissimi arcadori, e
Guastalla e Parma coi cavalieri della Garfagnana, benchè avesse guerra
con Piacenza[95]. La politica gli avrebbe stornati dal favorire la
poderosa città contro la inoffensiva, ma v’erano costretti dalla
prepotenza. Ch’è peggio, gli abitanti dell’isola Comacina e di
quei contorni si chiarirono ostili a Como, sicchè anche il lago fu
contaminato di battaglie navali. Fin a Varese si allargò la guerra e al
lago di Lugano; ardite le fazioni, alterni i successi; or una parte or
l’altra innalzavano al cielo inni per vittorie fratricide. Se non che
fra tanto ardore poca era l’abilità, pochissima la disciplina, nessuna
autorità preponderante; e come avviene nelle mosse tumultuarie, ognuno
volea comandare, nessuno obbedire. La campagna era una desolazione,
straziati i fecondi oliveti e le vigne della spiaggia, rapite le
mandre.
Moriva intanto il vescovo Guido, causa e fomento della guerra; moriva
esortando a star saldi nella cattolica fede e nella carità e difendere
la patria. I Comaschi aveano perduto molti valorosi; soffrivano da
dieci anni di devastazione sì per terra, sì dal lago, del quale la
sponda orientale apparteneva ai Milanesi, che con tutti i loro alleati
s’accinsero all’estremo sforzo. Tratti legnami da Lecco, ingegneri e
costruttori da Genova e Pisa, strinsero dappresso la città (1127),
i cui abitanti, sprovveduti d’ogni altro riparo, l’abbandonarono
notturni, per ricoverarsi nel munito borgo di Vico; e quivi interposero
di pace Anselmo arcivescovo di Milano. E ne fu condizione, che,
salve le vite, si sfasciassero le mura e le fortificazioni della
città e dei sobborghi; Como riconoscesse Milano con annuo tributo.
Eppure i vincitori sfrenati posero a sacco e fuoco la città, menarono
in cattività agricoltori, servi, cittadini. Non s’aveano allora
guarnigioni per tener in ceppi i vinti, e perciò bisognava disperderli:
in fatto i Comaschi furono costretti abitare all’aperto, pagare
annualmente il viatico e il fodro, e smettere il solito mercato.
Ciò per altro non li privava del governarsi a comune, con leggi e
magistrati proprj.
Di questa guerra narrammo le particolarità, come esempio di tutte
le altre allora agitate. Ne inorgoglì Milano, che poco poi osteggiò
Crema, e tutta Lombardia andava a scompiglio per fazioni interne;
laonde papa Innocenzo II s’argomentò al riparo spedendo san Bernardo,
borgognone, fondatore de’ Cistercensi ed anima della società cristiana
di quel tempo. Ne’ monasteri non voleva egli si cercasse un rifugio
contro il mondo, bensì forza di combatterlo e guidarlo; l’operosità
essere principio di salute, e perciò i monaci addestrava alle lettere e
all’agricoltura. Dottissimo coi teologi, popolarissimo coi campagnuoli,
vigilava sull’intera cristianità, maneggiava gl’interessi delle
nazioni, pur sempre ribramando la sua devota solitudine, alla quale
tornava appena avesse finito di riconciliare i re, di far riconoscere
i papi, o di spingere tutta Europa contro l’Asia; e preparava libri
che il fecero collocare allato ai santi padri, e fra gli ascetici
prediletti alle anime contemplative. Quand’egli calò in Lombardia,
accorreva la gente per udirlo, e il riceveano a ginocchi, e mettendo
fuori argento, oro, arazzi, quanto aveano di meglio; e beato chi
ottenesse un filo della sua tunica. Riuscì egli ad esaltare lo zelo,
sicchè uomini e donne si vedeano in capelli raccorci e vesti dimesse,
e sulle tavole acqua invece dei vini generosi; liberati prigionieri,
emendati i costumi, e ciò che più era difficile, ristabilita
dappertutto la pace. I Milanesi, meravigliati all’unione di tanto
senno con tanta bontà, il voleano arcivescovo (1135); ma egli, per cui
i gradi e le comparse erano una condanna, s’affrettò di tornare alle
maschie voluttà della solitudine penitente, lasciando presso Milano
il monastero di Chiaravalle, dal quale e dagli altri di Morimondo
e di Cerreto i Cistercensi tolsero a sanare le pantanose pianure,
introducendovi i prati irrigatorj, la fabbrica de’ formaggi e la
coltivazione del riso.
Non avea fatto che partire Bernardo, e gli sdegni ribollirono; e
Cremona e Pavia, dove l’eloquenza di lui poco aveva approdato, si
ritorsero contro Milano. Il vescovo pavese guidò le milizie; e i
Milanesi non solo lo sconfissero, ma lui stesso fecero prigioniero
con molti de’ suoi, i quali rimandarono colle mani legate al tergo, e
attaccato un fascetto di fieno acceso tra i fischi plebei. Tornarono
i Pavesi alla riscossa, ma a Maconago furono rotti ancora. I Milanesi
portarono pur guerra a Novara e Cremona, la quale oppose loro il
castello di Pizzighettone sull’Adda. Violenze che partorivano violenze,
e colle violenze doveano finire.
Quel che intitolavasi regno d’Italia era diviso tra molti feudatarj,
quali il marchese di Monferrato tra gli Appennini, il Po e il Tànaro;
il marchese del Vasto, che poi fu detto di Saluzzo, fra il Po e le alpi
Marittime; ai quali due s’interponeva il contado d’Asti, e accanto quel
di Biandrate che dominava il Canavese fra la Dora Riparia e la Baltea.
Gl’imperatori, per assicurarsi il passo in Italia, aveano sottoposto a
duchi tedeschi anche il pendio meridionale dell’Alpi; onde la Baviera
stendeasi fin a Bolzano, cioè di qua dall’alpi Retiche che ci separano
dai Tedeschi; i Guelfi e il ducato d’Alemagna fino a Bellinzona, di
qua dalle Lepontine; quel di Svevia fino a Chiavenna, di qua dalle
Retiche; le alpi Giulie erano a dominio del duca di Carintia, al quale
furono recate la contea di Trento, e le marche di Verona, d’Aquileja,
d’Istria, tenendo in rispetto la Lombardia da un lato, dall’altro
gli Ungheresi. Ma i re tedeschi, intenti ad assicurare la prevalenza
della gente germanica sopra la slava, vollero estenuare la Carintia,
sicchè abbondarono di concessioni col Veronese, che poi da quella restò
separato del tutto quando i patriarchi d’Aquileja ebbero la sovranità
del Friúli, poi dell’intera Istria, succedendo alle famiglie ereditarie
degli Eppenstein, Sponheim, Andechs. Allora Verona, tornata italiana,
maturò pur essa i germi repubblicani, sotto un vescovo cui dava
importanza il custodire gli sbocchi dell’Alpi e il passo del fiume, che
coprono l’Italia dai Tedeschi.
Il marchese Obizzo Malaspina, oltre la Lunigiana, avea possessi nel
confine di Cremona, e da Massa presso il Lucchese fino a Nazzano presso
Pavia: tratto di settanta miglia[96]. La Casa savojarda di Morienna
usciva dalle sue valli allobroghe per allargarsi sempre più di qua
dall’Alpi, occupando i marchesati d’Ivrea e di Susa; e Ulrico Manfredi,
al tempo d’Enrico I, possedeva dall’alpi Cozie fin alla riviera di
Genova, e da Mondovì ad Asti: la qual città era signoreggiata da un
suo fratello vescovo. Ma troppo spesso suddivisa per eredità, la casa
di Savoja non accennava all’importanza che trasse più tardi dalla sua
postura.
Nell’Appennino toscano avanzavano conti e marchesi e molti dominj
immuni di nobili; ovvero monasteri, badie, beni vescovili isolati,
sceveri dal movimento repubblicano. La potenza dei marchesi, poi della
contessa Matilde, avea nell’Etruria frenato le fazioni, e assicurato
il predominio papale, sicchè rado o non mai s’era veduto un vescovado
diviso fra due competitori. I governi liberi vi tardarono dunque
a svolgersi fin quando, disputandosi fra il papa e l’imperatore la
successione a quella signoria, i popoli, incerti a chi obbedire, furono
men soggetti ad entrambi i competitori, e nella negligenza di questi
provvidero da sè al proprio ordinamento.
Roma offriva sempre gran mescolanza d’antichissimo e di novissimo, e
dei tre elementi di popolo, di feudo, di sacerdozio. Prefetto, consoli,
senato offrivano una costituzione repubblicana, i feudatarj e i
castelli rappresentavano il diritto della spada, il papa la sovranità;
e si urtavano e prevaleano a vicenda. Nel X secolo, tutto forza,
sormontarono i feudatarj, oligarchia turbolenta, che quasi assorbì la
ecclesiastica. Colla restaurazione degli Ottoni la nobiltà fu repressa
e il papato rialzossi, appoggiandosi però allo straniero, che riservava
a sè la moneta e la giustizia.
I pontefici, mentre aveano assodata l’autorità su tutto il mondo,
pochissima ne godevano nella città di loro residenza. Per le ripetute
donazioni imperiali dominavano l’antico ducato di Roma, l’Esarcato
e la Pentapoli: ma erano cinti da robusti signori, quali il duca di
Spoleto nell’Ombria meridionale, nel Piceno e in parte del Sannio; a
mezzodì il marchesato di Guarnerio fra gli Appennini e l’Adriatico, da
Pésaro ad Osimo; di qui alla Pescàra quel di Camerino e di Fermo; quel
di Teate dalla Pescàra a Trivento: principi indipendenti non appena
l’imperatore avesse vôlto le spalle all’Italia. Le città poi a levante
del Lazio e a maestro della Toscana formavano altrettanti ducati sotto
vescovi e signori. La stessa campagna romana era sparsa di signorotti,
che da Palestrina, da Tùsculo, da Bracciano ne faceano infelice
governo, impedivano la coltura de’ campi, e perfino nei sepolcri di
Cecilia Metella e di Nerone, o nelle terme di Caracalla fortificandosi,
teneano serva ai loro capricci l’antica capitale del mondo: fra le sue
mura stesse, sovente una fazione dal Coliseo, un’altra dalla torre di
Crescenzio, una terza dal Pincio venivano a provocarsi.
_Urbs_, cioè la città per eccellenza, chiamavasi Roma, e senato
il suo consiglio comunale come ai tempi di Cesare e di Scipione.
Dieci elettori di ciascuno dei tredici rioni della città, ogn’anno
sceglievano cinquantasei senatori; è probabile fossero tutti nobili,
e che alcuni formassero per turno il consiglio secreto del patrizio,
rappresentante della repubblica. Geroo, prevosto di Reichersperg, nel
1100, scrive ad Enrico prete cardinale: — I senatori romani giudicano
delle cause civili; le maggiori e universali spettano al pontefice o
al suo vicario, ed all’imperatore o al vicario di lui prefetto della
città; il quale la dignità propria rileva da entrambi, cioè dal papa
a cui fa omaggio, e dall’imperatore da cui riceve le insegne della
dignità, cioè la spada sguainata. E come coloro cui spetta guidar
l’esercito sono investiti col vessillo, così per lungo uso il prefetto
della città è investito colla spada, sguainata contro i malfattori.
Il prefetto della città poi della spada usa legittimamente a sgomento
de’ malvagi e conforto dei buoni, a onor del sacerdozio ed a servizio
dell’Impero»[97].
I nomi pomposi mal mascheravano il decadimento, giacchè i palazzi
si sfasciavano[98]; la liberazione di Roberto Guiscardo avea ridotto
deserti i quartieri fra il Coliseo e il Laterano, che la mal’aria finì
di spopolare; il suo territorio abbracciava angusto circuito, di là
del quale Roma trovava nemici i Comuni di Albano e di Tusculo come ai
tempi di Romolo, ed ogni primavera bisognava uscire a combatterli, e
devastare la già povera campagna. Unica ricchezza della città erano
il denaro e i forestieri che vi traeva la presenza del papa: ma
mentre questo nella restante Italia era venerato come capo del partito
nazionale e tutore della libertà, quivi era esoso come principe; spesso
n’era cacciato dai signori che ricusavano stargli dipendenti; ma il
popolo che, con vezzo non più disimparato, avea gridato _Morte_ e
_Fuori_, ben tosto ne sentiva bisogno e desiderio, e gridava _Viva_ e
_Torna_, con quegli schiamazzi plateali che stoltamente si giudicano
pubblico voto.
Dividevano allora la città due fazioni, guidate l’una da Leone de’
Frangipani, l’altra da Pier di Leone; e con violenze e tranelli
faticarono a dare un successore a Calisto II. I Frangipani portavano
Lamberto vescovo d’Ostia (1124), che prevalse col nome di Onorio II:
ma alla costui morte si rinnovano bucheramenti e tumulti a favore
d’un figliuolo di Pier di Leone: e sebbene i migliori s’accordino ad
eleggere Gregorio cardinal di Sant’Angelo (1130), che volle chiamarsi
Innocenzo II, gli altri vi oppongono il loro creato col nome di
Anacleto II[99], e ne nasce uno scisma scandaloso. Anacleto colle
spoglie della basilica Vaticana compra fautori ed armi; Innocenzo, che
non poteva se non tenersi nei palazzi muniti dei Frangipani, stabilisce
andarsene, e dalle navi pisane portato in Francia, in Inghilterra, in
Germania, ricevette omaggio e riverenza, giovato dall’eloquenza di San
Bernardo. La cella di questo, al concilio di Pisa, vedeasi affollata di
prelati, ansiosi di trattar seco degli affari del mondo e dell’anima.
Per assistere Innocenzo contro l’antipapa e per frenare le città
emancipate, Lotario imperatore (1133) calò dall’Alpi, non accompagnato
da verun cavaliere di Svevia nè di Franconia, ed avendo per
portastendardo quel Corrado, che dianzi aveva accettato la corona
d’Italia. Ma a Milano si vide chiuse le porte in faccia, essendosi
Anacleto amicato quell’arcivescovo Anselmo, scomunicato da Onorio II,
talchè non potè farsi coronare re d’Italia; a Roma Anacleto respinse il
competitore, fortificandosi in Vaticano, mentre Innocenzo doveva munire
il Laterano, ove coronò Lotario.
Messa allora in campo la controversia dell’eredità della contessa
Matilde, fu conciliata con questo patto, che Innocenzo investisse
Lotario vita sua durante, e dopo lui il duca di Baviera genero di
esso imperatore, siccome di feudi della Chiesa, alla quale dovessero
retribuire cento marchi d’argento l’anno, poi al morire dell’ultimo
tornerebbero alla santa sede. Con quest’atto l’imperatore veniva a
riconoscersi vassallo e tributario del pontefice[100].
La fazione d’Anacleto rialzò ben presto il capo, sicchè Innocenzo
invocò Lotario, il quale, riconciliatosi colla casa di Hohenstaufen,
tornò con maggiori forze: ma gli effetti furono poco meglio felici
che la prima volta; perchè, se Milano il favorì, gli si avversarono
Cremona, Parma, Piacenza, che egli dovette per forza ridurre ad
obbedienza.
Restavano sempre avversi all’Impero nelle parti meridionali i Normanni,
che avendo ormai sottratte tutte le città greche ai catapani, e
occupata la nuova Longobardia, eccetto Benevento che rimaneva ai papi,
e Napoli che di nome dipendeva dai Greci, viepiù sentivano il bisogno
dei forti, l’indipendenza. Quantunque sostenitori del pontefice contro
gli stranieri, poca mostravangli condiscendenza nell’interno loro
dominio, nè si tenevano in dovere di ricevere legati papali in paesi
che essi col proprio braccio aveano sottratti agl’Infedeli o ai Greci,
e restituiti alla vera Chiesa. Urbano II erasi guadagnato Ruggero,
nominandolo legato in Sicilia (1098), cosa mai più concessa a verun
regnante, e donde derivò quel che chiamarono poi _tribunale della
monarchia di Sicilia_, cioè che esso e i suoi discendenti godessero il
titolo ed esercitassero i diritti di legati ereditarj e perpetui della
santa sede, per ciò portando nelle solennità mitra, anello, sandali,
dalmatica, pastorale[101]. Morto poi Guglielmo II duca di Puglia, anche
il dominio di qua dal Faro restò a Ruggero (1127), che così possedeva
tutto quel che fu poi regno di Napoli.
Onorio II vide lesa la sua superiorità nel fare un tanto acquisto
senza sua adesione, ben conoscendo come il gran conte dominando la
Probabilmente questi tardi servi erano di gente infedele, e massime
prigionieri musulmani, quando la tolleranza religiosa neppur di nome
si conosceva. Altre volte i soldati per abuso della vittoria vendevano
schiavi i vinti, come i ribaldi dello Sforza fecero nel 1447 coi
Piacentini: alla schiavitù condannavano pure le scomuniche. N’era però
sempre tenuissimo il numero: come eccezione si notavano nel catasto
delle città; e voglionsi intendere piuttosto come dipendenti, giacchè
il famoso Bartolo a’ suoi tempi già dichiarava che servi propriamente
detti non v’erano più.
Nei Comuni adunque non s’ebbero i vantaggi rapidi d’una subitanea
e radicale rivoluzione; ma neppure la terribile responsalità
d’un’insurrezione fallita. Riuniti per la resistenza, ponendo questa
per primo dovere e mezzo e scopo, invece di sistemare aveano a
distruggere, invece di fondare sconnetteano. Nella lotta si vince, ma
l’odio sopravive e diventa seme di discordie; i dinasti mal frenati si
rialzano per soggiogare i Comuni; i re ingrandiscono favorendo questi;
la spada prolunga la guerra contro l’industria e la capacità. Que’
mali passarono, ma restano gli effetti; resta la rivoluzione da loro
operata, perpetua e legittima come quelle che migliorano la sorte delle
classi numerose: lo schiavo non è più cosa, ma uomo, dall’impersonalità
sollevato ad avere nome proprio e responsalità: nè sforzi e sangue
e rovine pajono soverchi a questo fine sacrosanto. Dove a pochi è
data la forza e l’intelligenza, facile è guidar la moltitudine: dove
tanti esercizj s’aprono alle facoltà morali e intellettive, come
avviene nelle fazioni, grandemente sono eccitati gl’ingegni, e ne
esce una gente operosa, accorta, che cerca e trova mille occasioni di
segnalarsi: e l’uomo dall’angustia degl’interessi domestici volgendosi
alle pubbliche cose, mentre cresce di pratica, nobilita le passioni,
dilata l’accorgimento, scopre e pondera i diritti. Che se a noi
Italiani i Comuni non lasciarono una patria, lasciarono la dignità
d’uomini; ed offrono nella storia moderna le prime di quelle pagine,
tanto attraenti, dove si vede un popolo travagliarsi contro i suoi
oppressori, ingrandire col proprio coraggio, rassodarsi con opportune
se non sempre savie istituzioni.
CAPITOLO LXXXIII.
I Comuni lombardi. Lotario II e Corrado III imperatori. Ruggero re di
Sicilia. Arnaldo da Brescia.
Sciolta la servitù della gleba, raccolti sotto un’amministrazione e una
giudicatura sola i tre ordini ridetti cittadini, e da tutti scegliendo
i consoli, e una specie di unità ricevendo dalla supremazia del papa,
l’Italia trovavasi in essere di nazione assai più che non la Francia
o la Germania. Non condensata, è vero, intorno ad una reggia, ma
vigorosamente ripartita attorno ai tre centri d’autorità, il castello,
la chiesa, il palazzo comunale, sarebbe camminata ad altissime fortune
se gl’imperatori non l’avessero scompigliata col crearsi un partito.
Deboli erano questi, in Germania osteggiati dai maggiori feudatarj,
che aspiravano alla sovranità territoriale; e in Italia dai papi
nel lungo certame delle Investiture. Enrico V, ambizioso ed avido
ma operoso, accorto, sprezzatore della pubblica opinione, poco
sopravisse all’accordo di Worms col papa, e in lui si estinse la
stirpe francona, che avea per un secolo dominato la Germania. Lotario
II datogli successore (1125), rassegnò il suo ducato di Sassonia, e
molt’altri possedimenti al genero Enrico di Baviera, della casa Guelfa:
glieli disputò Federico il Losco di Hohenstaufen duca di Svevia, uno
degli aspiranti al trono germanico: sicchè fra le due case cominciò
l’inimicizia, che, dopo mutato natura ed oggetto, sconvolse Germania e
Italia sotto il nome di Guelfi e Ghibellini.
Questi ultimi traevano il nome dal castello di Waiblingen nella
diocesi di Augusta, appartenente agli Hohenstaufen; gli altri dalla
famiglia bavarese dei Guelfi d’Altdorf. Azzo, marchese di Lombardia,
morendo centenario nel 1097, avea lasciato tre figli: Guelfo, che,
come nato da Cunegonda erede dei Guelfi di Baviera, andò a ducare
questo paese, e divenne stipite della casa di Brunswick, salita poi al
trono d’Inghilterra; Ugo si condusse alla peggio, e vendè le proprie
ragioni all’altro fratello Folco figlio di Garsenda principessa del
Maine, e progenitore dei marchesi d’Este in Italia. Signoreggiava
egli il paese dal Mincio fin al mare, cioè Este, Rovigo col Polesine,
Montagnana, Badia, oltre molte terre nella Lunigiana e nella Toscana.
Guelfo ne pretendeva una porzione; e venuto a ripeterla coll’esercito,
collegandosi al duca di Carintia e al patriarca d’Aquileja, di molti
paesi s’impadroni: infine fu stipulato che la linea di Germania tenesse
un terzo della città di Rovigo e la terra d’Este, senza pregiudicare
alle pretensioni che ostentava sull’eredità della contessa Matilde.
Da questa linea proveniva Enrico, che per la cessione di Lotario era
divenuto il più ricco signore d’Europa e il più potente di Germania,
tenendo una serie di paesi dal mar Baltico al Tirreno. Ma dalla parte
ghibellina Corrado duca di Franconia, fratello di Federico il Losco,
aveva redato di qua dell’Alpi i beni allodiali della casa Salica, e
scese in Italia cercandone la corona. Un principe non d’altre forze
provveduto che di quelle somministrategli dal paese, non poteva riuscir
pericoloso alla nascente libertà, onde fu il ben arrivato. A Milano
lo storico Landolfo di San Paolo e il cavaliere Ruggero de’ Crivelli,
deputati dall’arcivescovo Anselmo, discussero le ragioni dei due
principi emuli davanti al popolo, il quale indusse il metropolita a
coronar re Corrado (1128): molte città gli prestarono omaggio e doni;
ma Pavia, Novara, Piacenza, Brescia e Cremona stettero contrarie a
Milano, fin a dichiararne scomunicato l’arcivescovo che aveva unto
l’usurpatore; anche la Toscana repugnò da lui; e Onorio II papa, che
aveva riconosciuto imperatore Lotario, scomunicò questo pretendente.
Il quale tentò invano occupar Roma; sicchè gli stessi che s’erano
chiariti a lui favorevoli per farsene un appoggio, l’abbandonarono
quando il videro incentivo di guerre. Maneggiatosi alcun tempo, egli
si riconciliò con Lotario, e dopo essere stato a carico de’ Milanesi
e Parmigiani, partì dall’Italia covando contro i Comuni lombardi un
dispetto che trasmise al nipote Federico Barbarossa.
Essi Comuni, appena costituitisi, esercitavano nimicizie un
contro l’altro; e particolarmente in quel piano che dalle alpi
Retiche e Leponzie declina sino al Po ed al mare, ricco di nove
città indipendenti, Como, Bergamo, Brescia, Milano, Lodi, Crema,
Cremona, Pavia, Novara, frequenti appigli di risse porgeano i
terreni confinanti, le rivalità di mercato, la comunanza delle
acque irrigatorie. Presosi quel diritto del pugno, cioè della guerra
particolare, che fin là avevano esercitato i feudatarj, i Comuni,
non compressi da superiorità materiale, non da morale ritegno,
abbandonavansi a quella ostilità di vicini a vicini, che sembra
inesorabile maledizione degl’Italiani. Non avevano ancor finito di
abbattere i conti rurali, e già rompevano guerra (1110) Cremona a Crema
e Brescia, Pavia a Tortona, Milano a Novara e Lodi; l’ambizione e la
forza davano ai poderosi il desiderio e l’ardire di opprimere i deboli.
Pavia, memore di essere stata sede dei re goti e longobardi, e Milano
superba d’antichità, di vasto territorio, di popolazione maggiore
e della superiorità metropolitica, gareggiavano di preminenza, e
si contrariavano in ogni fatto. Nella lite delle Investiture Pavia
propendeva alla parte imperiale, alla pontifizia Milano, con cui
parteggiarono Lodi, Cremona, Piacenza; e per insinuazione della
contessa Matilde, giurarono lega di vent’anni onde osteggiare re
Enrico, e sostenere Corrado quando al padre si ribellò. Le due
parti erano equilibrate di forze; e poichè nessuno stabile nodo le
congiungeva, era sicura della vittoria quella che arrivasse ad isolar
la rivale. In fatto, secondo preponderasse una parzialità o l’altra,
le città mutavano bandiera; e girati pochi anni, a Milano troviamo
unite Crema, Tortona, Parma, Modena, Brescia (1117); mentre con Pavia
parteggiavano Cremona, Lodi, Novara, Asti, Reggio, Piacenza.
Quella mescolata che allora si faceva delle prerogative secolari colle
ecclesiastiche, portava a nuove scissure. Crema col suo contado, che
chiamavasi Isola di Folcherio, era stata a giurisdizione de’ marchesi
di Toscana, fin quando nel 1098 la contessa Matilde ne fe cessione al
vescovo e alla città di Cremona. Tale dipendenza spiacque ai Cremaschi,
che coll’armi assicurarono la propria libertà: ma di qui cominciarono
nimicizie lunghe e vergognose[93].
Milano pretendeva non solo alla superiorità che il suo metropolita
traeva dal posto gerarchico, e per cui ordinava i vescovi della
provincia e li convocava a concilio; ma che a lui competesse anche
l’eleggerli, mentre le chiese particolari tenevano gelosamente
al diritto antico di nominare i proprj pastori. Da ciò elezioni
tempestose, contrastate, doppie, complicate dall’appoggio del papa
e dell’imperatore, e per le quali il litigio delle Investiture dalle
sommità sociali scendeva fin a contingenze affatto particolari. Per
simili ragioni, e insieme per gelosia del ricco mercato che vi si
teneva, i Milanesi campeggiarono Lodi, rinnovando le ostilità, cioè
lo sperpero della campagna e la rapina delle messi per quattro anni,
in capo ai quali ridottala per fame, la smantellarono (1111); gli
abitanti dissiparono in sei borgate del contorno, sottoposte a rigide
condizioni; sciolsero il ricco mercato, nè Lodi-vecchio risorse più.
Eguale contesa per l’elezione dei vescovi cagionò la guerra di Milano
contro Como, descritta da un rozzo poeta contemporaneo[94], dolente
di pubblicare il duolo anzichè la letizia d’un popolo da molti secoli
fiorente. Aveano i Comaschi eletto canonicamente Guido de’ Grimoldi
di Cavallasca; mentre il milanese Landolfo da Carcano, destinatovi da
Enrico V, si fece ordinare dal patriarca d’Aquileja, parziale d’esso
imperatore; intruso di rapina nella sede, procurava mantenervisi ad
onta del popolo, e fortificatosi nel castello di San Giorgio presso
Maliaso sul lago di Lugano, scialacquava in privilegi e donazioni
il patrimonio della mensa. Risoluti a tor di mezzo lo scisma e lo
sperpero, i consoli comaschi Adamo del Pero e Gaudenzio da Fontanella
coi vassalli di Guido vi assalgono Landolfo, e fattolo prigione, lo
consegnano a Guido. Essendo nella mischia rimasto ucciso Ottone insigne
capitano milanese (1116), Giordano da Clivio arcivescovo di Milano,
invece d’insinuare pace e perdono, espone alla basilica Ambrosiana
le vesti insanguinate e le vedove degli uccisi, le quali strillando
chiedono vendetta; e serrata la chiesa, egli dichiara resteranno
sospesi i sacramenti, finchè non sia vendicato il sangue sparso.
In quelle assemblee tumultuose, dove la passione è unica consigliera,
e l’urlo predomina sulla ragione, fu decretata la guerra; i Milanesi,
mandato un araldo a denunziarla, assalsero Como, e incominciarono una
guerra, paragonata all’assedio di Troja per la durata, e meglio per
l’accordarsi delle forze lombarde contro una sola città.
Il guerreggiare d’allora non conduceva a pronti esiti, come le imprese
comandate e dirette da volontà unica e robusta. Un Comune avea ricevuto
un torto, e nel consiglio erasi decisa la guerra? più giorni rintoccava
la campana, acciocchè gli uomini capaci s’allestissero d’armi; uomini
che mai non s’erano esercitati insieme, che fin allora aveano badato
ai campi o alle arti, e che non usavano nè vestire nè armi uniformi,
unicamente diretti a vincere e far al nemico il peggior male. A buona
stagione traevasi fuori il carroccio, e dietro e attorno a quello
moveva la gente contro il territorio nemico, stramenava le campagne,
sfasciava i casali, rapiva gli armenti che non avessero avuto tempo
di ridursi nel recinto della città, alla quale poi mettevasi assedio,
procurando il più delle volte prenderla per fame, giacchè, prima
de’ cannoni, le terre murate aveano sempre il vantaggio sopra gli
assalitori. Nelle guerre feudali vedemmo i soldati abbandonare il capo
a mezzo dell’impresa, allo scadere dell’obbligato servizio. Qui gli
assalitori erano gente che avevano campi, arti, famiglia, interessi,
onde mal sopportavano i diuturni accampamenti, e alla mietitura o
all’avvicinarsi della vernata tornavano a casa a rifocillarsi, per
ripigliar poi col nuovo anno la campagna.
Di tal guisa fu condotta la guerra contro Como. I Comaschi erano
valorosissimi fra i Lombardi, come montanari e avvezzi in opra di
caccia e battaglie: e chiuso colla Camerlata e col castello Baradello
il passo verso Milano, poterono impedire gli approcci al patrio suolo.
Li secondavano gli abitanti della Vallintelvi, intrepidi petti, e
insieme abilissimi a inventare congegni militari. Maggior numero
di città prese parte con Milano, quali Cremona, Pavia, Brescia,
Bergamo, la Liguria, Vercelli colla mercantile Asti, e colla contessa
di Biandrate recante in braccio il giovane figliuolo: Novara venne
spontanea, invitata la forte Verona, e Bologna dotta nelle leggi,
e Ferrara non meno famosa che Mantova per bravissimi arcadori, e
Guastalla e Parma coi cavalieri della Garfagnana, benchè avesse guerra
con Piacenza[95]. La politica gli avrebbe stornati dal favorire la
poderosa città contro la inoffensiva, ma v’erano costretti dalla
prepotenza. Ch’è peggio, gli abitanti dell’isola Comacina e di
quei contorni si chiarirono ostili a Como, sicchè anche il lago fu
contaminato di battaglie navali. Fin a Varese si allargò la guerra e al
lago di Lugano; ardite le fazioni, alterni i successi; or una parte or
l’altra innalzavano al cielo inni per vittorie fratricide. Se non che
fra tanto ardore poca era l’abilità, pochissima la disciplina, nessuna
autorità preponderante; e come avviene nelle mosse tumultuarie, ognuno
volea comandare, nessuno obbedire. La campagna era una desolazione,
straziati i fecondi oliveti e le vigne della spiaggia, rapite le
mandre.
Moriva intanto il vescovo Guido, causa e fomento della guerra; moriva
esortando a star saldi nella cattolica fede e nella carità e difendere
la patria. I Comaschi aveano perduto molti valorosi; soffrivano da
dieci anni di devastazione sì per terra, sì dal lago, del quale la
sponda orientale apparteneva ai Milanesi, che con tutti i loro alleati
s’accinsero all’estremo sforzo. Tratti legnami da Lecco, ingegneri e
costruttori da Genova e Pisa, strinsero dappresso la città (1127),
i cui abitanti, sprovveduti d’ogni altro riparo, l’abbandonarono
notturni, per ricoverarsi nel munito borgo di Vico; e quivi interposero
di pace Anselmo arcivescovo di Milano. E ne fu condizione, che,
salve le vite, si sfasciassero le mura e le fortificazioni della
città e dei sobborghi; Como riconoscesse Milano con annuo tributo.
Eppure i vincitori sfrenati posero a sacco e fuoco la città, menarono
in cattività agricoltori, servi, cittadini. Non s’aveano allora
guarnigioni per tener in ceppi i vinti, e perciò bisognava disperderli:
in fatto i Comaschi furono costretti abitare all’aperto, pagare
annualmente il viatico e il fodro, e smettere il solito mercato.
Ciò per altro non li privava del governarsi a comune, con leggi e
magistrati proprj.
Di questa guerra narrammo le particolarità, come esempio di tutte
le altre allora agitate. Ne inorgoglì Milano, che poco poi osteggiò
Crema, e tutta Lombardia andava a scompiglio per fazioni interne;
laonde papa Innocenzo II s’argomentò al riparo spedendo san Bernardo,
borgognone, fondatore de’ Cistercensi ed anima della società cristiana
di quel tempo. Ne’ monasteri non voleva egli si cercasse un rifugio
contro il mondo, bensì forza di combatterlo e guidarlo; l’operosità
essere principio di salute, e perciò i monaci addestrava alle lettere e
all’agricoltura. Dottissimo coi teologi, popolarissimo coi campagnuoli,
vigilava sull’intera cristianità, maneggiava gl’interessi delle
nazioni, pur sempre ribramando la sua devota solitudine, alla quale
tornava appena avesse finito di riconciliare i re, di far riconoscere
i papi, o di spingere tutta Europa contro l’Asia; e preparava libri
che il fecero collocare allato ai santi padri, e fra gli ascetici
prediletti alle anime contemplative. Quand’egli calò in Lombardia,
accorreva la gente per udirlo, e il riceveano a ginocchi, e mettendo
fuori argento, oro, arazzi, quanto aveano di meglio; e beato chi
ottenesse un filo della sua tunica. Riuscì egli ad esaltare lo zelo,
sicchè uomini e donne si vedeano in capelli raccorci e vesti dimesse,
e sulle tavole acqua invece dei vini generosi; liberati prigionieri,
emendati i costumi, e ciò che più era difficile, ristabilita
dappertutto la pace. I Milanesi, meravigliati all’unione di tanto
senno con tanta bontà, il voleano arcivescovo (1135); ma egli, per cui
i gradi e le comparse erano una condanna, s’affrettò di tornare alle
maschie voluttà della solitudine penitente, lasciando presso Milano
il monastero di Chiaravalle, dal quale e dagli altri di Morimondo
e di Cerreto i Cistercensi tolsero a sanare le pantanose pianure,
introducendovi i prati irrigatorj, la fabbrica de’ formaggi e la
coltivazione del riso.
Non avea fatto che partire Bernardo, e gli sdegni ribollirono; e
Cremona e Pavia, dove l’eloquenza di lui poco aveva approdato, si
ritorsero contro Milano. Il vescovo pavese guidò le milizie; e i
Milanesi non solo lo sconfissero, ma lui stesso fecero prigioniero
con molti de’ suoi, i quali rimandarono colle mani legate al tergo, e
attaccato un fascetto di fieno acceso tra i fischi plebei. Tornarono
i Pavesi alla riscossa, ma a Maconago furono rotti ancora. I Milanesi
portarono pur guerra a Novara e Cremona, la quale oppose loro il
castello di Pizzighettone sull’Adda. Violenze che partorivano violenze,
e colle violenze doveano finire.
Quel che intitolavasi regno d’Italia era diviso tra molti feudatarj,
quali il marchese di Monferrato tra gli Appennini, il Po e il Tànaro;
il marchese del Vasto, che poi fu detto di Saluzzo, fra il Po e le alpi
Marittime; ai quali due s’interponeva il contado d’Asti, e accanto quel
di Biandrate che dominava il Canavese fra la Dora Riparia e la Baltea.
Gl’imperatori, per assicurarsi il passo in Italia, aveano sottoposto a
duchi tedeschi anche il pendio meridionale dell’Alpi; onde la Baviera
stendeasi fin a Bolzano, cioè di qua dall’alpi Retiche che ci separano
dai Tedeschi; i Guelfi e il ducato d’Alemagna fino a Bellinzona, di
qua dalle Lepontine; quel di Svevia fino a Chiavenna, di qua dalle
Retiche; le alpi Giulie erano a dominio del duca di Carintia, al quale
furono recate la contea di Trento, e le marche di Verona, d’Aquileja,
d’Istria, tenendo in rispetto la Lombardia da un lato, dall’altro
gli Ungheresi. Ma i re tedeschi, intenti ad assicurare la prevalenza
della gente germanica sopra la slava, vollero estenuare la Carintia,
sicchè abbondarono di concessioni col Veronese, che poi da quella restò
separato del tutto quando i patriarchi d’Aquileja ebbero la sovranità
del Friúli, poi dell’intera Istria, succedendo alle famiglie ereditarie
degli Eppenstein, Sponheim, Andechs. Allora Verona, tornata italiana,
maturò pur essa i germi repubblicani, sotto un vescovo cui dava
importanza il custodire gli sbocchi dell’Alpi e il passo del fiume, che
coprono l’Italia dai Tedeschi.
Il marchese Obizzo Malaspina, oltre la Lunigiana, avea possessi nel
confine di Cremona, e da Massa presso il Lucchese fino a Nazzano presso
Pavia: tratto di settanta miglia[96]. La Casa savojarda di Morienna
usciva dalle sue valli allobroghe per allargarsi sempre più di qua
dall’Alpi, occupando i marchesati d’Ivrea e di Susa; e Ulrico Manfredi,
al tempo d’Enrico I, possedeva dall’alpi Cozie fin alla riviera di
Genova, e da Mondovì ad Asti: la qual città era signoreggiata da un
suo fratello vescovo. Ma troppo spesso suddivisa per eredità, la casa
di Savoja non accennava all’importanza che trasse più tardi dalla sua
postura.
Nell’Appennino toscano avanzavano conti e marchesi e molti dominj
immuni di nobili; ovvero monasteri, badie, beni vescovili isolati,
sceveri dal movimento repubblicano. La potenza dei marchesi, poi della
contessa Matilde, avea nell’Etruria frenato le fazioni, e assicurato
il predominio papale, sicchè rado o non mai s’era veduto un vescovado
diviso fra due competitori. I governi liberi vi tardarono dunque
a svolgersi fin quando, disputandosi fra il papa e l’imperatore la
successione a quella signoria, i popoli, incerti a chi obbedire, furono
men soggetti ad entrambi i competitori, e nella negligenza di questi
provvidero da sè al proprio ordinamento.
Roma offriva sempre gran mescolanza d’antichissimo e di novissimo, e
dei tre elementi di popolo, di feudo, di sacerdozio. Prefetto, consoli,
senato offrivano una costituzione repubblicana, i feudatarj e i
castelli rappresentavano il diritto della spada, il papa la sovranità;
e si urtavano e prevaleano a vicenda. Nel X secolo, tutto forza,
sormontarono i feudatarj, oligarchia turbolenta, che quasi assorbì la
ecclesiastica. Colla restaurazione degli Ottoni la nobiltà fu repressa
e il papato rialzossi, appoggiandosi però allo straniero, che riservava
a sè la moneta e la giustizia.
I pontefici, mentre aveano assodata l’autorità su tutto il mondo,
pochissima ne godevano nella città di loro residenza. Per le ripetute
donazioni imperiali dominavano l’antico ducato di Roma, l’Esarcato
e la Pentapoli: ma erano cinti da robusti signori, quali il duca di
Spoleto nell’Ombria meridionale, nel Piceno e in parte del Sannio; a
mezzodì il marchesato di Guarnerio fra gli Appennini e l’Adriatico, da
Pésaro ad Osimo; di qui alla Pescàra quel di Camerino e di Fermo; quel
di Teate dalla Pescàra a Trivento: principi indipendenti non appena
l’imperatore avesse vôlto le spalle all’Italia. Le città poi a levante
del Lazio e a maestro della Toscana formavano altrettanti ducati sotto
vescovi e signori. La stessa campagna romana era sparsa di signorotti,
che da Palestrina, da Tùsculo, da Bracciano ne faceano infelice
governo, impedivano la coltura de’ campi, e perfino nei sepolcri di
Cecilia Metella e di Nerone, o nelle terme di Caracalla fortificandosi,
teneano serva ai loro capricci l’antica capitale del mondo: fra le sue
mura stesse, sovente una fazione dal Coliseo, un’altra dalla torre di
Crescenzio, una terza dal Pincio venivano a provocarsi.
_Urbs_, cioè la città per eccellenza, chiamavasi Roma, e senato
il suo consiglio comunale come ai tempi di Cesare e di Scipione.
Dieci elettori di ciascuno dei tredici rioni della città, ogn’anno
sceglievano cinquantasei senatori; è probabile fossero tutti nobili,
e che alcuni formassero per turno il consiglio secreto del patrizio,
rappresentante della repubblica. Geroo, prevosto di Reichersperg, nel
1100, scrive ad Enrico prete cardinale: — I senatori romani giudicano
delle cause civili; le maggiori e universali spettano al pontefice o
al suo vicario, ed all’imperatore o al vicario di lui prefetto della
città; il quale la dignità propria rileva da entrambi, cioè dal papa
a cui fa omaggio, e dall’imperatore da cui riceve le insegne della
dignità, cioè la spada sguainata. E come coloro cui spetta guidar
l’esercito sono investiti col vessillo, così per lungo uso il prefetto
della città è investito colla spada, sguainata contro i malfattori.
Il prefetto della città poi della spada usa legittimamente a sgomento
de’ malvagi e conforto dei buoni, a onor del sacerdozio ed a servizio
dell’Impero»[97].
I nomi pomposi mal mascheravano il decadimento, giacchè i palazzi
si sfasciavano[98]; la liberazione di Roberto Guiscardo avea ridotto
deserti i quartieri fra il Coliseo e il Laterano, che la mal’aria finì
di spopolare; il suo territorio abbracciava angusto circuito, di là
del quale Roma trovava nemici i Comuni di Albano e di Tusculo come ai
tempi di Romolo, ed ogni primavera bisognava uscire a combatterli, e
devastare la già povera campagna. Unica ricchezza della città erano
il denaro e i forestieri che vi traeva la presenza del papa: ma
mentre questo nella restante Italia era venerato come capo del partito
nazionale e tutore della libertà, quivi era esoso come principe; spesso
n’era cacciato dai signori che ricusavano stargli dipendenti; ma il
popolo che, con vezzo non più disimparato, avea gridato _Morte_ e
_Fuori_, ben tosto ne sentiva bisogno e desiderio, e gridava _Viva_ e
_Torna_, con quegli schiamazzi plateali che stoltamente si giudicano
pubblico voto.
Dividevano allora la città due fazioni, guidate l’una da Leone de’
Frangipani, l’altra da Pier di Leone; e con violenze e tranelli
faticarono a dare un successore a Calisto II. I Frangipani portavano
Lamberto vescovo d’Ostia (1124), che prevalse col nome di Onorio II:
ma alla costui morte si rinnovano bucheramenti e tumulti a favore
d’un figliuolo di Pier di Leone: e sebbene i migliori s’accordino ad
eleggere Gregorio cardinal di Sant’Angelo (1130), che volle chiamarsi
Innocenzo II, gli altri vi oppongono il loro creato col nome di
Anacleto II[99], e ne nasce uno scisma scandaloso. Anacleto colle
spoglie della basilica Vaticana compra fautori ed armi; Innocenzo, che
non poteva se non tenersi nei palazzi muniti dei Frangipani, stabilisce
andarsene, e dalle navi pisane portato in Francia, in Inghilterra, in
Germania, ricevette omaggio e riverenza, giovato dall’eloquenza di San
Bernardo. La cella di questo, al concilio di Pisa, vedeasi affollata di
prelati, ansiosi di trattar seco degli affari del mondo e dell’anima.
Per assistere Innocenzo contro l’antipapa e per frenare le città
emancipate, Lotario imperatore (1133) calò dall’Alpi, non accompagnato
da verun cavaliere di Svevia nè di Franconia, ed avendo per
portastendardo quel Corrado, che dianzi aveva accettato la corona
d’Italia. Ma a Milano si vide chiuse le porte in faccia, essendosi
Anacleto amicato quell’arcivescovo Anselmo, scomunicato da Onorio II,
talchè non potè farsi coronare re d’Italia; a Roma Anacleto respinse il
competitore, fortificandosi in Vaticano, mentre Innocenzo doveva munire
il Laterano, ove coronò Lotario.
Messa allora in campo la controversia dell’eredità della contessa
Matilde, fu conciliata con questo patto, che Innocenzo investisse
Lotario vita sua durante, e dopo lui il duca di Baviera genero di
esso imperatore, siccome di feudi della Chiesa, alla quale dovessero
retribuire cento marchi d’argento l’anno, poi al morire dell’ultimo
tornerebbero alla santa sede. Con quest’atto l’imperatore veniva a
riconoscersi vassallo e tributario del pontefice[100].
La fazione d’Anacleto rialzò ben presto il capo, sicchè Innocenzo
invocò Lotario, il quale, riconciliatosi colla casa di Hohenstaufen,
tornò con maggiori forze: ma gli effetti furono poco meglio felici
che la prima volta; perchè, se Milano il favorì, gli si avversarono
Cremona, Parma, Piacenza, che egli dovette per forza ridurre ad
obbedienza.
Restavano sempre avversi all’Impero nelle parti meridionali i Normanni,
che avendo ormai sottratte tutte le città greche ai catapani, e
occupata la nuova Longobardia, eccetto Benevento che rimaneva ai papi,
e Napoli che di nome dipendeva dai Greci, viepiù sentivano il bisogno
dei forti, l’indipendenza. Quantunque sostenitori del pontefice contro
gli stranieri, poca mostravangli condiscendenza nell’interno loro
dominio, nè si tenevano in dovere di ricevere legati papali in paesi
che essi col proprio braccio aveano sottratti agl’Infedeli o ai Greci,
e restituiti alla vera Chiesa. Urbano II erasi guadagnato Ruggero,
nominandolo legato in Sicilia (1098), cosa mai più concessa a verun
regnante, e donde derivò quel che chiamarono poi _tribunale della
monarchia di Sicilia_, cioè che esso e i suoi discendenti godessero il
titolo ed esercitassero i diritti di legati ereditarj e perpetui della
santa sede, per ciò portando nelle solennità mitra, anello, sandali,
dalmatica, pastorale[101]. Morto poi Guglielmo II duca di Puglia, anche
il dominio di qua dal Faro restò a Ruggero (1127), che così possedeva
tutto quel che fu poi regno di Napoli.
Onorio II vide lesa la sua superiorità nel fare un tanto acquisto
senza sua adesione, ben conoscendo come il gran conte dominando la
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