Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 03

supremazia dei marchesi di Toscana, che pur sussistette fino a che il
marchese Guelfo della casa di Matilde, principe di Sardegna, e duca
di Spoleto, nel 1160 al popolo lucchese cedette ogni diritto, azione,
giurisdizione, che gli competessero sia a titolo del marchesato, sia
per l’eredità della contessa; solo per novant’anni riservandosi il
censo di mille soldi, sebbene non siano pur la metà di quel ch’egli
potrebbe ritrarne[39]. Così que’ cittadini furono riscattati da ogni
servitù particolare, e l’assicurata libertà garantirono col giurar
fedeltà e sommessione all’imperatore.
Benchè Lucca sia così ricca di documenti, il Tommasi, nel _Sommario_
della storia di essa, dice non potersi «fissar con sicurezza quando
v’incominciasse la repubblica, gli storici lucchesi segnando un’epoca
chi più chi meno remota;..... se narrano i primi scrittori fatti
bastantemente provati donde traspirano manifesti segni di libertà
e d’indipendenza, producono i secondi tali carte contemporanee da
smentire appieno gl’indicati segni, perocchè mostrano esse più presto
soggezione gravissima, che la ben menoma franchigia». Quest’incertezza
è di gran lunga maggiore per gli altri Comuni, e deriva dal fatto
dei mal determinati poteri, tanto dominante nel medioevo, che non
deve presumere d’intendere la storia civile chi non l’abbia sempre
sott’occhio.
Ampio privilegio fu concesso il 1129 da re Ruggero, e confermato il
1164 da re Guglielmo alla città di Messina, in benemerenza de’ sussidj
prestati a snidare i Normanni. Portava che i Messinesi, tranne i
casi di Stato, non potessero convenirsi in civile o in criminale se
non da giudici eletti da loro, neppur nelle cause col fisco; il re
non operasse dispotico, ma si attenesse alle leggi, e se contrario
a queste dava alcun decreto, fosse irrito e nullo; non nominasse
uffiziali pubblici che messinesi e benevisi; e fosse reputato cittadino
coronato di Messina. I deputati di questa tenessero il primo luogo
nelle assemblee convocate dal re; solo colà si coniasse la moneta
del regno; nel tribunale suo fosse un consolato per deliberare in
affari marittimi, composto di Messinesi, _nominati dai padroni delle
navi e dai negozianti_. I Messinesi andassero esenti da dogana per
tutto il regno; potessero senza compenso tagliar nelle foreste regie
quanto occorresse a fabbricare e risarcir le navi: nessuno d’essi
fosse forzato al servizio militare; la galera di Messina inalberasse
lo stendardo reale; nelle assemblee dal re convocate per gl’interessi
di quella città non si deliberasse che in presenza dello stratego,
dei giudici e d’altri uffiziali della città; gli ebrei vi godessero
diritti e immunità pari ai cristiani. Tale carta, confermata poi ed
accresciuta, rendeva il comune di Messina quasi sovrano[40].
Al popolo di Ferrara Enrico III nel 1055 concedeva che i _cortensi_
fossero assolti dal dare la terza pel placito; i villani nelle
lor terre abitanti non andassero al placito pubblico, ma per loro
rispondessero i padroni; le navi e i cavalli loro non fossero obbligati
a servizio se non quando esso imperatore venisse in Italia; non
pagassero il ripatico se non a Pavia; e così vien fissato quanto
retribuire pei pesci, pel sale a Cremona, a Venezia, a Ravenna;
tutt’altrove si era immuni d’ogni esazione. Due volte l’anno tengano il
placito generale per tre giorni, in ciascun de’ quali diano tre porci,
cento pani, una libbra di pepe, una di cinnamomo, tre sestieri di
miele, e in tutto una vezza di vino; al quarto giorno diano a colui che
tenne il placito, un majale e cinquanta pani[41].
Anteriori diritti possedevano le comunità del lago di Como, giacchè
Ottone il Grande nel 962, ad istanza dell’imperatrice Adelaide,
confermava agli abitanti dell’Isola Comacina e di Menaggio i privilegi
che avevano ottenuti dagli antecessori suoi, assolvendoli da molti pesi
e dal venire al placito, se non tre volte l’anno in Milano[42]. Verso
il 1090 troviamo i Comaschi alle prese coi popoli della riva dell’Adda,
quando il beato Alberto, fondatore del famoso convento di Pontida,
s’interpose di pace: i Comaschi lacerarono il suo lodo; mal per loro,
giacchè nel combattimento ebbero la peggio.
Fin dal 990 il popolo di Cremona sosteneva briga con Olderico, suo
vescovo insieme e conte, e cacciatolo, abbattè la città antica, e una
maggiore ne fabbricò contro l’onore imperiale[43]. Il 1114 Enrico V
confermava i privilegi de’ Cremonesi, cioè i beni _ch’essi in loro
lingua chiamano proprietà comunali_[44], e di fabbricare fuor di città
il palazzo imperiale, il che equivaleva a promessa di non entrarvi
coll’esercito.
Del Comune di Brescia trovansi vestigia al 1000: nel 1020 già sono
citate le concioni pubbliche che si tenevano in San Pietro de Dom, e il
banditore comunale, a nome di esso Comune, investiva gli uomini degli
Orzi del castello, delle fosse e degli spaldi di Orzi: essi a vicenda
promettendo difendere quella rôcca contro chi fosse ardito a disputarne
il possesso al Comune di Brescia, presterebbero ogni quindici anni il
giuramento, pagherebbero alla madonna d’agosto cinque soldi milanesi.
Del 1029 si conosce uno statuto che concerne anche i feudi. Nel 1037,
per togliere le contese tra il vescovo e il Comune, più di cencinquanta
uomini liberi di Brescia si radunano, e Odorico vescovo promette non
eriger fortilizj sul colle Cidneo, e cedere al popolo alcuni boschi di
Castenedolo e di Montedegno, pena duemila libbre d’oro se fallisca al
promesso.
I Bresciani nel 1102 avevano promulgato una legge contro gli usuraj: e
due anni appresso Ardizzo Aimone, console di colà, girava per le città
lombarde onde indurle a federarsi in difesa comune, convenendo nel
monastero di Palazzuolo[45].
Dicemmo come a Mantova fosse costituito il Comune degli arimanni.
Ai 27 giugno 1090 la contessa Matilde gittava un bando qualmente _i
fedeli suoi Mantovani cittadini_ ricorsero alla clemenza di essa,
bramando esser rilevati dall’oppressione d’alcuni loro concittadini
e domandando fosser loro restituiti gli arimanni, e le cose tutte
_comuni_, tolte ad essa città dai predecessori della contessa. Al che
annuendo, abolisce e sterpa tutte le esazioni ed angarie non legali,
imponendo che nè essa nè gli eredi suoi od altra persona grande o
piccola di sua podestà possa molestare i cittadini di Mantova per le
persone loro, i servi, le ancelle, i liberi dimoranti in quella terra,
e l’arimannia e le cose comuni ad essa città spettanti sulle rive del
Mincio, o le cose mobili e immobili. Nessuno alloggi in qualsiasi casa
della città, o in quella d’un gentiluomo (_militis_) nel sobborgo, o
nella canova di chicchessia, contra lor voglia. Restituisce loro i beni
occupati, in modo che pascolino, seghino, caccino a voglia; possano
sicuramente andare e venire per acqua e per terra senza pagar pedaggio,
ed avere quella buona e giusta consuetudine che ottiene ogni miglior
città di Lombardia[46]. Nel 1133 Lotario II confermava al popolo di
Mantova i privilegi conceduti già dall’imperatore Enrico II,_ compresa
l’arimannia e le cose comuni di essa città, su ambe le rive del Mincio
e del Tàrtaro_; abbiano facoltà di trasferire il palazzo imperiale dal
borgo San Giovanni al monastero di San Rufino di là dal Mincio; restino
liberi dall’albergaria, e possano andare e venire a tutti i mercati
dell’Impero, senza molestia nè esazione di teloneo. Concede inoltre
l’isola dov’era stato il castello di Ripalta, sicchè altro fabbricarne
non potesse egli nè i successori suoi[47].
Nella vita del beato Lanfranco, sotto il 1030, leggesi che il padre
di questo era di coloro che custodivano le leggi e i diritti della
città di Milano[48]; e lo storico Landolfo di San Paolo nel 1107
chiamasi secretario dei consoli[49]. In quell’anno stesso i Milanesi
erano alle mani colla città di Lodi, e la stringevano d’assedio;
Pavia cavalcava Tortona, la quale chiese l’alleanza dei Milanesi,
mentre Pavia univasi co’ Lodigiani e Cremonesi, e presa la città
nemica, la mandò a fuoco. E di vita propria ci diè sentore Milano sia
nell’antica contesa coll’arcivescovo Landolfo, sia più chiaramente in
quelle delle Investiture e pel matrimonio dei preti; poi i principi
di Germania e Federico arcivescovo di Colonia nel 1118 scrivevano ai
_consoli, capitanei, cavalieri e all’intero popolo milanese_, come
a Comune indipendente, istigandoli contro Enrico V a tutelare le
proprie libertà, fidati nell’ajuto di Cristo[50]. Nel 1117 i Lombardi,
sgomentati da fenomeni straordinarj, pioggie di sangue, nascite
di mostri, tuoni sotterranei, risolsero provvedere alla giustizia,
all’ordine, alla penitenza; onde l’arcivescovo Giordano radunò in
Milano una dieta straordinaria, dove non comparvero più principi e
conti o feudatarj, ma sovra un palco da una parte si posero tutt’i
vescovi, dall’altra i consoli delle varie città, i giurisperiti e
popolo immenso, e trattarono del metter pace[51]: assemblea di liberi,
che da se stessi consultano il proprio meglio, e che forse allora
avvisarono come adempiere al difetto della giurisdizione reale, caduta
così in basso. Sembra difficile che si abbia a intendere qui soltanto
del Comune dei conquistatori, senza partecipazione del popolo.
Di questa distinzione del Comune dei nobili dal popolano ci presentò
insigne documento Mantova; un altro abbiamo in Bergamo, dove i nobili
troviamo più volte convocati insieme col clero a trattare di possessi
ecclesiastici[52]. Poi re Corrado nel 1088 teneva in quella città un
placito, assistenti varj giudici del sacro palazzo, alquanti vescovi,
marchesi, conti, valvassori milanesi e bergamaschi, e _varj cittadini_
di essa città[53].
Quanto alle terre del Piemonte, nel 1090 Ottone Riso e Benedetta sua
moglie vendono una casa e una cascina _omnibus vicinis de Bugella_;
acquisto comune, che indica una comune amministrazione dei Biellesi,
benchè qui pure potrebbe supporsi dei soli conquistatori. Due anni
appresso, gli abitanti di Saorgio maschi e femmine fanno una donazione
a Sant’Onorato di Lerino. Nel seguente trovasi già in Biandrate un
Comune con dodici consoli, e quei conti Guido e Alberto fanno patto di
assistenza coi militi, cioè coi valvassori, per conservare i possessi
e feudi che ottennero, promettendo lasciar che trasmettessero ai
loro figli maschi e femmine i terreni di cui gli abbiano infeudati,
nè proibire che vendano un edifizio che v’abbiano eretto, purchè
non vendano essa terra senza consenso dei conti. I quali conti non
imporranno pena ai militi di Biandrate se non per omicidio, spergiuro,
furto, adulterio con una parente, tradimento, duello giudiziale e
aggressione; gli altri delitti rimetteranno al laudo di dodici consoli.
I militi a vicenda giuravano stare ligi ad essi conti, conservarne
di buona fede i feudi; e tra loro stessi promettevano garantirsi i
possessi contro chicchessia, nelle discordie rimettersi ai dodici
consoli[54]: i quali pure giureranno risolvere le liti in Biandrate al
miglior vantaggio del Comune e ad onor del luogo[55].
Nel 901 Lodovico IV imperatore al vescovo d’Asti Eilulfo concedeva la
corte e il castello di Bene, Cervere, Niella, Salmour, e la contea
di Bredulo fra il Tanaro e la Stura: ma nella città non aveano que’
vescovi che il castelvecchio, sin quando Ottone III nel 992 a Pietro
concesse anche la città con quattro miglia in giro, e giurisdizione,
il letto del Tanaro e le rive, e tutti i diritti camerali, e le
successioni agli intestati, vietando a qualsiasi conte di pigliarvi
ingerenza[56]. L’anno stesso agli _abitanti_ d’Asti esso Ottone
concedea facoltà di trafficare ove loro paresse; poi Corrado Salico
nel 1037 li faceva esenti da ogni dazio e dogana in qualunque parte
arrivassero mercatando, sempre ad istanza del vescovo. Al quale però
già stavano mal soggetti, talchè due volte la principessa Adelaide
dovette venire ad assisterlo, gettando il fuoco alla città; poi alla
morte di essa, vi si formò il Comune, e li troviamo ben presto sostener
guerra col marchese Bonifazio di Savona, e nel 1098 già stringer lega
con Umberto II di Savoja erede di essa Adelaide. Amedeo III di quella
casa, morto il 1148, dava franchigie comunali a Susa; Tommaso ad Aosta
nel 1188, ricevendola in protezione: attesochè l’esser costituiti in
Comune non repugnava alla dipendenza da un signore.
Chi cercasse, troverebbe in quel torno stabilite a Comune tutte
le città italiane; ma l’accertarne il principio è difficile tra
quell’_agitazione costituzionale_, reggimento indeciso fra la pace e
la guerra, fra la sommessione e la rivolta, fra l’opposizione legale e
l’insurrezione.
D’altro passo erano proceduti i paesi di Romagna. Inviolati da Barbari,
aveano essi conservato l’ordinamento quale sotto l’Impero bisantino,
con consoli sopra il Governo e i giudizj, e con tribuni che comandavano
ai borghesi, distribuiti in scuole militari. Staccati che furono da
quello, la difesa venne commessa ai vassalli, e il loro capo assunse
l’aspetto generale d’allora, cioè di signore feudale ereditario, e
trasse il titolo dalle terre che possedeva. L’ordinamento civile vi si
trasformò quando i varj vescovi, che pretendevano alla superiorità,
dopo Ottone il Grande s’inchinarono al pontefice; sicchè a questo
rimase la primazia sovra la Romagna, e ai vescovi la giurisdizione e
il nominare i magistrati, che, secondo allora solea, retribuivansi con
terre feudali. A capo pertanto d’ogni contado aveasi un visconte, sotto
cui i capitanei vescovili, indi i vassalli e i valvassori, e da ultimo
il Comune dei liberi, i quali formavano il consiglio municipale coi
vassalli del vescovo.
In qualche città, e nominatamente a Ravenna e sue dipendenti come
Bologna, durava traccia delle istituzioni bisantine, essendo i
cittadini distribuiti per scuole d’arti, che erano ad un tempo
divisioni militari, aventi alla testa decurioni finchè durò l’antica
costituzione romana, e con magistrati particolari per definire i loro
affari, detti consoli de’ mercanti, de’ pescatori, de’ calzolaj,
e così via. In ciascheduna corporazione un _capitolario_ vigilava
che fossero mantenuti i capitoli, vale a dire i diritti speciali di
ciascuno, regolava i mercati, e risolveva le controversie. Il popolo di
Bologna nel 1116 ottenne da Enrico V la conferma dei privilegi e delle
consuetudini sue.

Più tardi si riscosse la campagna. La conquista dei Barbari aveva
arrestato lo spopolamento, prodotto dall’affluire della gente nelle
città; poi collo stabilirsi dei feudi la politica prevalenza fu
trasferita dalle città alla campagna[57]. Attorno al castello del
barone o al sagrato della chiesa accoglievasi una gente laboriosa,
manufattrice, mercadante, che presto cresceva in borgate. I signori,
accortisi come potessero vantaggiarne d’entrate e di forza materiale,
concessero alcuni privilegi, che non li facevano indipendenti, ma ne
cresceano le ricchezze e gli abitanti; e quest’incremento rendeva
necessarj nuovi privilegi, per quanto poco garantiti contro la
prepotenza. Alcuni anche per bisogno li vendevano, nè denaro mancava
ai sudditi per tale acquisto, avessero pur dovuto togliersi il pane di
bocca. Altrove non erano concessi ma pretesi, e l’esempio delle città
ispirava ai campagnuoli desiderio di scuotere la dipendenza, e fiducia
di riuscirvi. Rifuggiti in un bosco, sovra un colle, dietro un terrato,
sfidavano di colà lo sdegno del signore finchè egli non calasse a
ragionevole componimento.
Del come si formassero le borgate attorno alle chiese un bel documento
ci resta. Compita nel 1093 la chiesa di Empoli, una delle più antiche
collegiate di Toscana, prete Rolando ne divenne _custode e prevosto_,
al quale nel 1119 la contessa Emilia promise quel che il marito suo
Guido Guerra signore di Empoli già aveva giurato, cioè che a tutti gli
uomini del distretto empolitano, o vivessero sparpagliati o riuniti
in castelli e ville, imporrebbe di stabilirsi attorno alla chiesa
matrice di Sant’Andrea, donando a tutte le famiglie un appezzamento
di terra per costruirvi le abitazioni, oltre uno per erigere il
castello: prometteva pure difendere esse case, di modo che, se mai,
per guerra o per violenza dei ministri regj o per altro, fossero
abbattute, i conjugi Guido le rifarebbero a loro spese[58]. Di poi nel
1182 i Fiorentini obbligarono gli Empolitani a giurar loro obbedienza
e fedeltà contro chicchefosse, eccetto i conti Guido antichi loro
signori, pagar cinquanta lire annue nel giorno del Battista, un cero
più grosso di quel che gli uomini di Pontormo offerivano quand’erano
vassalli del conte Guido Borgognone di Capraja.
Il parabolano frà Jacopo d’Acqui ricorda che, al tempo del Barbarossa,
molte terre grosse si formarono in Piemonte coll’unire ville: e prima
Chivasso, per opera de’ Milanesi: poi alquanti rustici, congregati
in opposizione ai marchesi di Saluzzo, edificarono Savigliano, che
vuol dire savio-villano, per venire dalla servitù di essi marchesi
a libertà: altri coll’ajuto de’ Milanesi fra la Stura e il Gesso
fecero una città detta Cuneo, perchè avea tal forma: così furono
costituiti Fossano, Mondovì, Cherasco, per tenere in freno quei di Asti
e di Alba[59]. Nel 1251 molte famiglie di Marmirolo nel Mantovano,
trovandosi angariate da Guidone Gonzaga, abbandonarono in unanime
concorso la patria, e si mutarono nel paese di Imola: il qual Comune
donò loro molte terre colte e incolte, che essi obbligaronsi di mettere
a frutto, pagandone annuo censo, e abitando uniti in un villaggio che
Imola fabbricherebbe apposta, e che fu Massa Lombarda[60]. Fin dal
1157 il popolo di Marti e quello di Montopoli nel Valdarno inferiore
discutevano de’ proprj confini, e si citarono i consoli a far
dichiarare dai più vecchi e probi quali fossero veramente[61]. Firenze,
l’anno 1300, decretava si facessero tre terre nel Valdarno superiore,
per frenare gli Libertini di Gavelle e quei di Soffena e i Pazzi; le
quali furono Terranova, Castelfranco di Sopra e San Giovanni.
Ad emanciparsi erano i borghi ajutati dalle medesime città, cui giovava
l’aversi in giro consenso di liberi, anzichè minaccia di tiranni.
Perciò i fuggiaschi s’accoglievano sopra le terre suburbane, che
anticamente erano appartenute al vescovo, o, come allora dicevasi, al
santo patrono, e perciò si chiamavano _corpi santi_ in Lombardia, e
_appodiato_ a Bologna, _camperie_ nella Toscana, sottoposte alle leggi
e al podestà medesimo della città. Se i Comuni cittadini avessero
dichiarato sciolti i feudi, tutti i campagnuoli sarebbero affluiti
nelle città: ma queste non aveano mai avuto mente a costituire un
diritto nuovo demolendo il preesistente, onde non attentavano ai
legami che tenevano l’uomo alla terra ed al padrone, sebbene volentieri
aprissero ricovero a’ fuggiaschi, e sostenessero chi si ribellava ai
conti rurali.
Milano nel 1211 concedeva a tutti i contadini e borghesi di accasarsi
in città, e li faceva esenti da ogni gravezza rurale, e accomunati ai
diritti di cittadini, purchè non lavorassero di propria mano la terra,
abitassero in città trent’anni, eccetto il tempo del ricolto. Imola nel
1221 prometteva la quinta parte degli uffizj a quei di Castello Imolese
che andassero accasarsi in città. L’anno stesso Bologna prometteva
immunità ai forestieri, e il consolato ad ogni venti famiglie che
venissero a formar villa nel territorio bolognese.
I signori si opponevano a che i loro dipendenti _giurassero il
Comune_; ed essendosi i terrazzani di Limonta e Civenna accomandati
al Comune di Bellagio sul lago di Como, l’abate di Sant’Ambrogio, che
n’era feudatario, protestò non averne mai dato concessione, e chiese
sentenza, per la quale furono assolti dalla vicinanza dei Bellagini,
dal contribuire il fodro, e venire al placito e alla giurisdizione[62].
Ad alcuni signori le comunità indissero guerra, poichè il diritto
della personale vendetta, allora universalmente riconosciuto, rendeva
alle città legittimo l’osteggiare i baroni, che fin sotto le loro mura
aveano piantato fortifizj; e bandivasi pace alle capanne e guerra ai
castelli. I conti d’Acquesena dominavano sei popolose terre in val
di Belbo, e sorretti dal marchese di Monferrato e dalle armi, mille
soprusi si permettevano sopra i vassalli, ed esigevano una oscena
primizia. I terrieri soffersero un pezzo come sbigottiti; poi fecero
popolo, e al tocco della campana di Belmonte assalsero determinatissimi
le rôcche dei signori, questi uccisero, quelle diroccarono; e
difesisi dal marchese Bonifazio mediante l’ajuto degli Alessandrini,
trasferirono le proprie abitazioni là dove la Nizza sbocca nel Belbo, e
vi edificarono Nizza della Paglia[63].
Altre volte non colla forza, ma otteneasi cogli accordi: come i conti
Guido cedettero a Firenze i loro castelli per cinquecento fiorini; e
come troveremo spesso nel procedere. Ma gli abitanti di Montegiavello,
scontenti della dominazione d’essi conti Guido, scesero a stormo
dall’altura, e compro un prato sul Bisenzio, vi costituirono il Comune,
che poi fu la cittadina di Prato[64].
Nel 1200 la città d’Asti dai molti consignori comprava il castello e il
territorio di Manzano, obbligando gli uomini a trasferirsi nel nuovo
paese di Cherasco. Nel 1228 Genova comprava dai marchesi di Clavesana
i castelli e le ville di Diano, Portomaurizio, Castellaro, Taggia, San
Giorgio, Dolcedo, per l’annua prestazione di lire ducencinquantadue
genovesi: nel 1233 faceva altrettanto con Laigueglia. Nel 1180 il
Comune di Vercelli comprava in moltissime porzioni il castello di
Casalvolone.
Converrebbe fare la storia di ciascuna borgata chi volesse dire come
le città crescevano dalle ruine della feudalità campagnuola. Alcuni
signori abbracciarono spontanei lo stato civile, fosse per maggior
sicurezza o per godere l’autorità che l’opulenza, il dominio antico,
le aderenze procacciano sempre in una comunità; sicchè discendendo
dalle minacciose rôcche, giuravano il Comune e fedeltà ai magistrati
cittadini, sottoporre i loro terreni alle tasse, servire alla patria
colla persona e coi vassalli, e parte almeno dell’anno fissar dimora
nelle città[65].
I Transalpini, avvezzi ancora a non vedere nei loro paesi che dominio
de’ baroni, meravigliavano allo scorgere che le città di Lombardia
aveano ridotto tutti i signori della diocesi a coabitare; talmente
che a fatica si trovava alcun nobile o grande che non obbedisse alle
leggi della città[66]. Alquanti duravano ancora nei loro castelli,
massime ove li francheggiava la montagna, circondandosi di armigeri e
di donzelli, per conservare l’antico potere: ma sebbene dissoggetti
dai Comuni, non poterono mai costituire una salda aristocrazia,
attraversati com’erano dalle altre classi. Restava dunque che
sfoggiassero in lusso e in finte prodezze, assaltando un pagliajo
od una grancia, o ferendo torneamenti, ovvero empiendo il tempo con
giocare alle palle, agli aliossi, alla quintana, e mettersi attorno
buffoni, nani, cantastorie, sonatori: finchè impararono a vendere ai
pacifici Comuni il valore, cui si erano educati ed esercitati.
A tal modo formaronsi i Comuni; e combinando le idee classiche
colle nuove, definivano la città essere un convegno di popolo,
raccolto a vivere secondo il diritto; e che tutti gli uomini d’una
città, e massimamente delle principali, devono operare civilmente e
onestamente[67].


CAPITOLO LXXXII.
Effetti dei Comuni. Nomi e titoli. Emancipazione dei servi.

Se dunque ricapitoliamo la storia del popolo, dopo Carlo Magno ci
occorre anarchia e scompaginamento universale; città e stirpi discordi;
ogni barone, ogni guerriero animato da interessi diversi; non un
pensiero della povera plebe. La feudalità comincia a collegare duchi e
conti col vincolo di devozione allo stesso capo e di servizj reciproci;
i possessori di allodj, franchi di ogni carico pubblico, indipendenti
fra loro e quindi antisociali, consentono o sono forzati a divenire
vassalli, cioè a prestare ligezza ad un signore, nella cui protezione
trovano un compenso alle servitù, all’omaggio, agli obblighi. L’uomo
preferisce sempre lo stato socievole all’isolamento, e il governo
feudale offriva la combinazione per allora migliore di sforzi materiali
onde organizzare la pace e dirigere la guerra.
Nelle città non v’era modo come uno potesse distinguersi: ignote
le lettere; a soli nobili le ricchezze; dei gregarj le armi.
In conseguenza le plebi rimanevano ancora fuori della società,
e ad insinuarvele s’industriarono i Comuni, dove conquistati e
conquistatori, uomini dipendenti dal re o dal vescovo o dai signori,
venivano fondendosi in una stessa cittadinanza, a giurisdizione dei
vescovi; poi anche da questi si emanciparono, istituendo il Comune
laico. Nè era un tremuoto popolare che diroccasse i castelli: essi non
domandavano la libertà, ma l’eguaglianza sotto un signore, un freno
alla gerarchia feudale, o di potere in questa pigliar posto. Per tal
modo la gente bassa diventa un ordine; la ricchezza mobile si erige
a fianco alla fondiaria; e il feudalismo, che dianzi era la società
intera, si restringe a sola la nobiltà.
L’Italia non avea di quei duchi o conti, poderosi quasi piccoli re:
l’autorità regia, annessa all’imperiale, restava lontana e controversa;
sicchè le città trovarono minori ostacoli a costituirsi, tanto più che
avevano sugli occhi l’esempio delle marittime. Perciò, caduta la Casa
Salica, i Comuni lombardi muovono guerra ai capitanei, togliendo loro
le entrate e la giurisdizione di conti, e la esercitano in vece loro. I
Comuni si valgono degli imperatori e dei papi per cacciar le picche più
a fondo nelle viscere de’ nemici; e li strascinano nelle microscopiche
loro inimicizie; laonde queste parziali associazioni, combinate per
salvarsi dalle baronali prepotenze e dal politico scompiglio, vennero
ottenendo o conquistando giurisdizione particolare, diritto di guerra
e di moneta[68], governo proprio, insomma a farsi piccole repubbliche.
Gli uffiziali, non più dai vassalli, ma sono scelti fra’ comunisti;
onde sottentra l’abitudine agli affari, e ne vengono magistrati da far
fronte allo Impero, giuristi che in parlamento potranno pettoreggiare i
capi della feudalità, e dottori alle cattedre, e cherici che saliranno
ai vescovadi e alla tiara.
_Consoli_ era l’antico nome de’ magistrati civili, detti alla tedesca
_scabini_ o giudici perchè principale loro uffizio il giudicare. Altri
consoli erano i capi delle maestranze e delle compagnie mercantili,
la cui efficacia nella istituzione de’ Comuni fu maggiore che non
soglia credersi. Man mano che si affrancassero, le città attribuivano i
poteri a questi magistrati, che allora dalle funzioni giuridiche fecero
tragitto alle amministrative, dalle particolari alle pubbliche. Il
vescovo di Luni avea guerra col marchese di Malaspina, che compose nel
1124 coll’interposto dei consoli di Lucca[69].
I consoli erano due o più: Perugia, che vuolsi già facesse guerra a
Chiusi nel 1012, a Cortona nel 49, a Foligno nell’80 e 90, ad Assisi
nel 94, era governata da dieci consoli nel 1130, quando in piazza San
Lorenzo gli uomini dell’isola Palvese fecero la loro sommessione[70]:
Bergamo n’avea dodici: Milano sei o sette per ciascuno dei tre ordini
di capitanei, valvassori e cittadini[71]: probabilmente anche altrove
erano scelti in questa proporzione, ovvero da cittadini e nobili, dove
questi costituissero un unico stato, o anche da uno stato solo, che
fosse agli altri prevalso. A Firenze furono quattro, poi sei, secondo
la città era divisa per quartieri o sestieri; ma uno godeva maggior
fama e stato, e dal nome di esso qualche cronista notava l’anno.
Nè le sole città, ma anche borghi e castellari ebbero consoli proprj:
e per mille esempj valga Pescia, non ancora città, i cui consoli e
consiglieri nel 1202 concordavano con quelli delle limitrofe comunità
di Uzzano e Vivinaja intorno all’elezione e alle attribuzioni dei
consoli, per evitare le controversie[72].
Niuno confonda i Comuni del medioevo coi municipj che trovammo fra
gli antichi. Questi ultimi erano formati da coloni venuti da Roma,
che, sostenuti dalle armi della metropoli, si piantavano sopra il
territorio conquistato per tenere i vinti in soggezione: nel medioevo
sono i vinti stessi che aspirano ad esser pareggiati ai vincitori,
acquistando i diritti, prima d’uomini, poi di cittadini. Nel Comune