Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 02
commercio formate compagnie, le quali offrivano l’embrione d’un governo
a comune, e poteano divenir tali per poco che si ampliassero.
Una lapida sotto al portico della notabilissima cattedrale di Lucca
riferisce come nel 1111 i cambisti e mercanti, che allora stavano
di bottega nella corte di San Martino, ove pure gli alberghi de’
forestieri, giuravano di non far frode[23]; antichissima sistemazione
del commercio in consorzj, con consoli per risolvere i litigi.
Già nel 1046 Enrico III _confermava_ agli abitanti della bergamasca
val di Scalve il diritto di negoziar di ferro per tutto l’impero,
col solo aggravio di mille libbre di ferro _secandum suorum parentum
morem_; nessun duca, marchese, vescovo, conte o altra qualsiasi
persona _hominibus in prædicto monte Scalvi habitantibus audeat aliquam
molestiam aut aliquam superpositam inferre_; e a chi violi l’ordine
commina cento libbre d’oro, metà da darsi alla Camera, _et medietatem
prædictis hominibus_. Poi nel 1091 nella città di Bergamo tenendo
placito il conte Corrado, messo regio _ad justitias singulorum hominum
faciendas ac deliberandas_, con molti giudici e conti e col vescovo,
gli si presentarono alcuni _vicini et consortes de loco Burno_, che è
in val Camonica, e gli chiesero pronunziasse un bando _super nos et
super nostros vicinos vel consortes_ a proposito del monte Negrino,
che era stato ad essi usurpato da quelli di val di Scalve: e il
conte Corrado gli esaudì[24]. Non sono queste evidenti forme comunali
con possessi consorziali? I querelanti nel loro libello citano una
decisione già riportata anteriormente; e come in tali litigi _centum
quinquaginta librarum denariorum mediolanensium veteris monetæ inter
judices et advocatos dispendio in Bergamo perpessi sumus damnum_; e gli
Scalvini usarono ad essi prepotenze molte, onde reclamano giustizia,
_quia dedecus est omnium nostrum_.
Esempj di simili comunanze ricorrono in Toscana, ove nel 1004 Filippo
di Fidante e Benedetto di Martino furono nominati consoli del comune
ed università di Monte Castelli[25]. Chiavenna, borgo della diocesi
comasca, situata allo sbocco di due valli che mettono ai paesi
transalpini del Reno e dell’Inn, faceva una concordia, citata già come
antica nel 1155, tra gli abitanti suoi e quelli del vicino Piuro, per
la quale quattro uomini di ciascuno di essi giuravano di guidare i due
Comuni e le persone e i beni loro con buona fede e senza frode in pace
ed in guerra, non usurparsi roba alcuna, ma d’ogni acquisto ripartire
tre quarti a’ Chiavennaschi, uno a’ Piuriesi, e nell’eguale proporzione
le spese[26].
N’era vantaggiata l’industria; e poichè essa è gran conduttrice di
libertà, si cominciò a levar lamenti delle violenze che turbavano il
commercio; i lamenti procedeano a minaccie; e se queste non trovassero
ascolto, riuscivano in aperta rivolta, cacciando gli esattori e gli
espilatori del barone, assalendone anche il castello, e opponendogli
barricate e mura; e unitisi sulla piazza del mercato o nella chiesa,
gl’interessati giuravano sostenersi contro chiunque pretendesse
sopraffarli. E a noi si fa credibile che uno de’ più efficaci
addirizzi a costituire i Comuni fossero appunto le società mercantili
e artigiane, che trovandosi già ordinate con una gerarchia, con
regolamenti, con statuti[27], con cassa, non aveano a dare che un passo
per chiedere di partecipare coi nobili al Governo.
Talvolta i re medesimi ne’ loro bisogni esibivano di vendere
le regalìe, cioè dogane, zecche, mercati, pedaggi; e i Comuni
s’affrettavano a comperarle, o le ottenevano in premio della fedeltà e
del favore prestato. Tal altra i grandi vassalli insorgevano contro dei
vescovi, e gli uni e gli altri armavano i cittadini, che per tal modo
venivano a conoscere le proprie forze, e invocavan diritti, in prezzo
degli offerti soccorsi. Nella contesa, capitanei e vescovi apprendevano
che ricchezza principale era l’abbondare d’uomini, lo perchè ne
favorivano l’incremento sminuzzando i possessi, e contentandosi d’una
tenue prestazione, purchè vi andasse congiunto l’obbligo di servire
nelle milizie.
Stiamo dunque a gran pezza da chi crede che i Comuni derivassero da
generosità dei re, o da accorgimento loro politico. Erano conseguenza
del risorgimento popolare; ma i diritti che i liberi traevano in
campo, non erano astrazioni costituzionali, e accademici divisamenti
repubblicani, bensì un richiamo alle norme dell’umanità, a quella
libertà d’innocui atti, di cui ciascuno sente mestieri come dell’aria.
L’associazione dirigevasi non a riforme amministrative, ma ad acquistar
forza per diminuire la propria servitù; specie di mutua assicurazione
delle inferme moltitudini contro i pochi armati. Non che fosse
rivoluzione contro il Governo regio, a questo appoggiavansi coloro i
quali scotevano il giogo feudale. E poichè il feudatario, il re ed il
vescovo trovavansi spesso a cozzo, e dividevano tra sè i possessi e le
città, all’uno ricorreva chi fosse malcontento dell’altro, sicuri di
trovarlo favorevole, non per generosità ma per proprio interesse.
Neppure fu una rivoluzione sola che mutasse la forma politica,
giacchè non v’aveva un potere unico da abbattere; e a ciascun Comune
sovrastando un signore particolare, in ciascuno richiedevasi una
particolare rivoluzione. Variissimi dunque erano gl’impulsi, variissimi
i mezzi e i risultamenti, e molto vi poteva il caso, nè sempre
riuscivasi all’intento; ma la libertà, fallisca cento volte, non però
dispera.
Sarebbe peraltro stato difficile strappare ai feudatarj anche sì poco,
quando essi soli e i loro castelli fossero stati muniti, e tutto il
resto inerme; atteso che la forza brutale può a lungo conservare gli
ordini più repugnanti alla ragione. Ma allorchè gli Ungheri avevano
passato le Alpi, non si potè combattere in campagna rasa e con
eserciti ordinati le loro bande scorridore, ma dovette munirsi ciascun
villaggio, ciascuna casa, ciascuna persona; le città rinnovarono le
mura, diroccate dai Barbari o sfasciate dal tempo[28]; ogni monastero,
ogni borgata scavò una fossa, rizzò uno steccato; e le armi, adoperate
soltanto dagli uomini del feudatario e per suo cenno, si affilarono
per l’individuale sicurezza. Qual cosa infonde tanto coraggio, quanto
il conoscere di bastare alla propria difesa? e i nostri padri, che
si erano misurati contro l’Unghero, più non temeano d’affrontare la
masnada del vescovo o del castellano.
Di più, in Italia l’aristocrazia non avea messo così robuste radici
come oltr’Alpi; e nella vasta Lombardia soli forse il marchese di
Monferrato e il conte di Biandrate estendeano tanto i possessi,
da abbracciare borghi e città. La supremazia che i re di Germania
pretendevano qui, era d’opinione più che di forza. Dalla lontananza
o dalle guerre proprie erano impediti di venirvi sovente in persona,
unico modo di farvi valere la propria autorità; se venissero, senza
truppe nè rendite mal si reggevano, e lagnavansi che i vassalli non
gli sovvenissero del necessario, e li riducessero a cascar di fame.
Maggiormente si protraevano gl’interregni di qua dell’Alpi, atteso che
non bastava che un re fosse nominato in Germania, ma conveniva venisse
a farsi coronare in Milano e Roma; nè di rado i signori nostri negavano
omaggio all’eletto dai Tedeschi. Tutto ciò fece la contesa men dura, e
più pronto l’effetto.
Questo restituire gli uffizj da signorili a municipali ed elettivi
cominciò attorno al Mille, crebbe mentre Ottone II combatteva gli emuli
in Germania e i Greci in Calabria, e più nei tredici anni che Ottone
III indugiò a scendere in Italia. Allora i Comuni cittadini costrinsero
i baroni ad accasarsi nelle città, che si trovarono popolate non
più da soli artieri ed arimanni, ma anche da potenti, e crebbero di
lustro e considerazione. Alcune gelose ottennero che gli imperatori
non entrassero più nelle loro mura; altre ne demolirono il palazzo,
per edificarlo nei sobborghi; sicchè debole e limitata restava la
giurisdizione dei re, i quali tanto più facilmente cedevano per denaro
o per favore ciò che nè ricusare potevano, nè conservato fruttava.
Pavia nel 1024 distrusse il palazzo regio, e quando Enrico III volle
costringerla a riedificarlo, gli si oppose con un giusto esercito,
avendo alleati molti signori.
Gran destro ne porse la contesa fra il Sacerdozio e l’Impero, giacchè
in quelle reciproche esagerazioni, dove più che le armi poteva
l’opinione, si trovavano messe in bilancia le competenze delle due
autorità, richiamato a discussione quanto la conquista germanica
aveva innestato sul tronco romano, la legittimità del potere nato
dalla forza, il dominio della spada sovra gli spiriti, l’intrusione
delle discipline militari nell’ordine civile e fin nella gerarchia
ecclesiastica; e l’una e l’altra parte si credette obbligata
a dimostrare le proprie ragioni ai popoli, di cui le bisognava
l’appoggio. E i popoli impararono che avevano diritti, che per
argomenti potevano scegliere a quale prestare il sussidio dell’oro, del
brando, delle convinzioni; e di quelli e di queste misurata la potenza,
vollero servirsene ad assicurare e crescere quei diritti, che avevano
appreso a conoscere e stimare. Trattavasi poi di combattere? bisognava
che il conte o il vescovo si servissero del braccio delle plebi: e guaj
pe’ tiranni il giorno che han bisogno de’ loro oppressi!
Contesa tanto vitale non limitavasi a battaglie in campo aperto,
ma penetrava nelle città e nelle case: spesso una chiesa trovavasi
disputata da due vescovi, uno papale ed uno intruso, i quali si
perseguivano in guerra; diuturne le vacanze, perchè o il papa negava
l’investitura, o i cittadini obbedienza al nominato dall’imperatore;
e sempre i vescovi sentivansi sotto ai piedi vacillare il terreno,
perchè o non investiti dal re, o non riconosciuti dal papa; e per
formare e mantenersi partigiani, cedevano particelle de’ loro diritti
ai Comuni. Esse città giuravansi con altre del sentire medesimo, onde
in armi tener testa alle contrarie. Uscita poi vittoriosa la parte
ecclesiastica, ingegnavasi di menomare le prerogative regie, ma con ciò
raccorciava anche la podestà temporale de’ vescovi, fondata sopra regie
concessioni.
Col carroccio (t. V, p. 439) i popolani s’erano avvezzi a considerarsi,
non più guerrieri obbligati d’un signore, ma d’una bandiera
cittadina, del Cristo che allargava le braccia su quell’antenna, del
sant’Ambrogio, del san Zenone, del sant’Alessandro che li benediceva
dal gonfalone. Quel parteggiare per l’imperatore o pel papa avea misto
i varj ordini d’uomini, per modo che non si guardava tanto se uno fosse
capitaneo, nobile o plebeo, ma se imperiale o pontifizio. Le armi e
i campi comuni, e la necessità di usare concordemente le braccia o
l’ingegno nella mischia o nei parlamenti, scemavano le distanze fra
quelli della parzialità medesima; poi la trionfante conseguiva vantaggi
o privilegi sull’altra, sicchè gli ordini fin allora scrupolosamente
distinti venivano ad unirsi nel Comune cittadinesco; e i giudici
della città, che già, duranti le vacanze del vescovado, decidevano in
propria testa senza riguardo al visconte, qualora al conte o al vescovo
strappassero alcuna nuova porzione di autorità, la esercitavano più
piena sovra maggior numero di cittadini, e con restrizioni minori.
Insegnati a discutere dei diritti, prendono in dispetto gravezze
fino allora tollerate di cheto; alla prima taglia troppo pesante si
ammutinano; cominciato che uno abbia, il seguono altri; la torre, da
cui il feudatario o il conte minacciava, diviene spesso il ricovero
degli affrancati; spesso i monumenti dell’antica magnificenza
convertonsi in difese di nuova libertà; e si preparano lotte, risolute
perchè di scopo evidente e semplice, e non per capriccio o per
obbedienza, ma per tutela dei diritti più sacri. Il tentativo fallisce?
sono smantellati i fortilizj, uccisi gl’insorti: riesce? i sollevati
comprendono la necessità di unirsi.
Non poca opportunità vi aggiunsero le crociate; per passare a
terrasanta molti baroni vendettero od impegnarono i dominj, o per
denaro cedettero qualche parte della giurisdizione ai cittadini,
che, durante l’assenza loro, rassodarono i diritti, e di nuovi
ne acquistarono; mentre gli uomini che combattevano in Palestina
s’abituavano alla libera disciplina dei campi, s’accostavano fra
loro ed ai padroni, e ne riportavano più libere idee, men servili
sentimenti. Quelli poi che fossero capaci di riflettere e di ponderare
i civili ordinamenti, dovevano rimanere attoniti allo spettacolo di
Venezia, di Pisa, d’altre città marittime, che già si reggevano a
popolo: poi nelle Assise di Gerusalemme trovavano un governo, baronale
bensì, ma dov’era provveduto anche alla plebe, chiamata pur essa a
parte delle discussioni.
Ecco dunque risalire alla dignità civile quei che l’avevano perduta
fin dall’invasione dei Longobardi: ecco vincitori e vinti ricondotti
sotto una giustizia ed un governo medesimi. E poichè le reliquie degli
antichi Romani, sentendo rivalere l’ingegno sopra la forza, tornavano
su quelle antiche memorie che un popolo perde per ultima cosa, e che
servono spesso di lievito acciocchè l’inerte massa non imputridisca;
e i discendenti medesimi de’ conquistatori rispettavano quelli che
un tempo avevano soggiogati; perciò si ridestarono i nomi e le forme
romane, e i magistrati cittadini non s’intitolarono più scabini alla
tedesca, ma _consoli_.
Adunque in due atti spiegavasi quel movimento: sottrarsi con braccio
forte alla dominazione armata, poi colla prudenza costituirsi. Che se
era difficile quel primo contro conquistatori armati, difficilissimo è
sempre il secondo, e allora viepiù quando di costituzioni non s’aveva
alcuna esperienza.
Ma in che consistevano le pretensioni dei Comuni? Domandavano libertà
materiale di andare e venire senza pagar pedaggi; di vendere, comprare,
possedere il proprio, e lasciarlo ai figli; contrar matrimonj anche
fuori del feudo, e con persone di qualsiasi condizione; sicurezza della
casa e della persona; una misura fissa nei dazj, nelle decime, nelle
prestazioni di corpo dovute al signore, ne’ giorni in cui servirlo
colla marra o colle armi, nella retribuzione pel forno o pel mulino
privilegiato in tutto il feudo; se qualche bestia si svii, non venga
al castellano, ma rendasi al proprietario; possa tagliarsi legna morta
al bosco; nessuno arresti un comunista senza intervenzione di giudici;
siavi un tribunale a cui richiamarsi anche dei torti ricevuti dal
signore, e dove giustificarsi col giuramento o per testimoni, anzichè
col duello.
Scossi che si fossero dal giogo, non d’un Tedesco o d’un Franco, ma
d’un tiranno, vinto in unanime concorso il contrasto del vescovo o
del conte, cercavano un titolo ai loro diritti col farseli non dare
ma confermare dal re in quelle che chiamaronsi _carte di Comune_. I
re vi trovavano il proprio conto, perchè, oltre deprimere i feudatari
privandoli della giurisdizione, con esse carte davano regole di diritto
criminale e civile, traendo a sè una parte sì principale della regia
autorità qual è la legislativa, istituendo o convalidando le costumanze
locali.
Le carte che ci rimangono, per quanto variate, importano l’abolizione
delle servitù personali e delle tasse arbitrarie, assicurato agli
abitanti lo scegliersi i magistrati municipali, e data a questi
autorità di movere in armi i comunisti quando il credano necessario
a tutelare i diritti e le libertà del Comune, sia contro i vicini,
sia contro il signore. In quelle medesime ove propriamente veniva
riconosciuta una giurisdizione distinta, non si stabiliva già chiaro e
preciso in qual relazione starebbe d’allora innanzi il Comune col re,
col feudatario, col vescovo, bensì riducevasi in iscritto l’ordinamento
sociale interno, tutto ciò che potesse contribuire alla civile
sicurezza, e massime all’applicazione della giustizia; la parte ove i
popoli sentono più immediatamente la servitù o la libertà.
V’avea però Comuni propriamente stabiliti da baroni o da re,
sulle proprie terre aprendo asilo ai vagabondi e agli avveniticci,
costituendo _città nuove_, _borghi nuovi_, _castel franchi_, _franche
ville_, sotto un preposto del re o dei signori, con una carta,
alla quale davano pubblicità affine di allettare gente forestiera
a stanziarvisi e comprare terreni. Il conte Guido Guerra, suocero
del famoso Bellincion Berti, nel 1208 dava nel suo viscontado di val
d’Ambra il diritto ad uno per ciascuna terra di formare insieme uno
statuto, unirsi per deliberare degli interessi pubblici, e assistere
lui, capo dello Stato; il quale delegava i suoi poteri al podestà,
salvo l’arbitrio di modificarne le sentenze.
Siffatte carte occorrono men frequenti in Italia, forse perchè,
sussistendo alcuni Comuni fin dall’età romana, od essendosene
costituiti durante il reggimento feudale, non si trovava bisogno di
nuovi diplomi per regolare l’amministrazione interna, i diritti de’
magistrati, le relazioni col signore e coi vicini. Pure d’alcune
abbiamo gli apografi, d’altre fondatissima presunzione, tanto da poter
asserire che i Comuni nostri sono i più antichi del mondo moderno,
e fin anche di quello di Leon in Ispagna, conceduto da Alfonso V
coll’assenso delle Cortes entrante l’XI secolo.
Venezia dall’origine sua medesima si trovò stabilita in repubblica; e
a lei somigliare dovevano le altre città marittime di maggior fiore,
Pisa, Amalfi, Napoli, Gaeta. Adria, ancora di qualche conto, nel 1017
menò guerra coi Veneziani, i quali vincitori obbligarono il vescovo
Pietro e i primati a venire al doge, chiedere scusa, e promettere
fedeltà. Dall’alto di tal sommessione esso vescovo appare anche capo
politico del Governo; ma contraeva coll’intervento de’ suoi canonici e
di varj laici, de’ quali il primo è _Anastasius consul_. Le città del
litorale istriano, aggregato talvolta al regno d’Italia, conservarono
le forme comunali all’antica, e nel 991 Capodistria faceva col doge
Pietro Orseolo II una convenzione, stipulata da un conte Sicardo suo
governatore, _e cunctos habitantes civitatis Justinopolitanæ, tam
majores quam minores_[29]. Anche Ragusi, città mista che per tante
ragioni s’annesta alla storia italiana, e che sotto una costituzione
aristocratica gareggiò con Venezia, e fu l’Atene della letteratura
slavo-illirica, degna di storia più che i vasti imperj da cui fu
ingojata, antichissimo esempio ci è di governo municipale, poichè in
un diploma del 1044 Pietro detto Slaba (slavo) priore, _cum omnibus
pariter nobiles, atque ignobiles mei, tam senes, juvenes, adolescentes,
quam etiam pueri_, restituisce alcuni beni all’abate di Santa Maria di
Lacroma, presente il vescovo Vitale[30].
I Genovesi, costretti a schermirsi dai Saracini di Frassineto, buon’ora
si ordinarono a comune sotto il vescovo, dividendo le città nelle
_compagne_ di Castello, Borgo, Piazzalunga, Maccagnana, San Lorenzo,
Portanuova, Sosiglia e Portoria, ciascuna avente consuetudini proprie
e gonfalone, e deliberando per consigli e parlamenti. All’888 si fanno
risalire i suoi primi consoli, il senato, l’assemblea del popolo e le
forme municipali, che ricevettero conferma da un diploma di Berengario
II del 958, il quale assicurava ai Genovesi le proprietà, già _jure_
acquistate[31]. Poi nel 1056 Alberto marchese giurava osservare le
consuetudini di essi, che sono le seguenti:
«Qualora si contenda sopra la sincerità d’una carta tra Genovesi e
forestieri, se il notajo e i testimonj sieno presenti, basta che il
presentatore della carta giuri non l’avere corrotta in veruna parte: se
manchino notajo e testimonj, il presentatore trovi quattro persone che
il giurino con lui. La femmina longobarda può vendere e donare senza
l’assenso dei parenti e l’autorità del principe. Così pure i servi, gli
aldj delle chiese e i servi del re vendano e donino liberamente le cose
di loro proprietà, ed anche le livellarie. I villani de’ Genovesi, che
abitano sui poderi dei padroni, non sono tenuti a dare fodro, fodrello,
albergaria o placito ai marchesi, nè ai visconti, o loro mandati.
I livellarj delle chiese, che per gravi casi non possono soddisfare
l’annuo canone, non perdano un fondo livellato, se prima del decimo
anno paghino i livelli scaduti. Gli abitanti di Genova non devono
stare in giudizio fuori di città, nè obbediscano a sentenza renduta
fuori. I rettori di Sant’Ambrogio possano conceder beni a livello.
I forestieri abitanti in Genova devono fare la guardia coi Genovesi
contro gl’insulti dei Pagani. Chi giura con quattro testimonj di aver
posseduto per trent’anni un podere, sia cheto contro qualunque podestà
ecclesiastica o laica, nè v’abbia luogo a duello. Quando i marchesi
vengano a tener placito a Genova, il bando non duri che quindici
giorni. Un laico a cui un cherico abbia ceduto i beni ecclesiastici, li
posseda tranquillamente finchè il vescovo vive. Se uomo o femmina prese
a livello beni ecclesiastici, o per compra, o per eredità, niun altro
può acquistare livello sui medesimi: e se nasce controversia, chi è in
possesso giuri con quattro testimonj che da dieci anni egli od i suoi
antecessori possedono quei beni a livello. I cherici legittimamente
investiti di beni ecclesiastici li tengano alla sicura quanto vivono,
nè altro cherico acquisti ragioni su quelli. Gli uomini dei Genovesi,
che vogliono risedere sui poderi de’ padroni, sieno franchi da ogni
servizio pubblico».
Nel 1109 il conte Bertrando donava al Comune di Genova la terra di
Gibeletto in Siria: nel 1130 Pavesi e Genovesi stipulavano concordia e
reciproca difesa. Nel 1166 i consoli de’ mercanti e de’ marinaj di Roma
agli uomini del Genovesato da Portovenere fino a Noli concedeano pace e
sicurezza della persona e degli averi per terra e per mare da Terracina
a Corneto, cassando le rappresaglie e qualunque procedura per rapine da
trent’anni in poi; renderanno buona giustizia e riparazione; potranno
condurre a Roma qualsiasi merce, e farvi contratto; obbligheranno a
giurar questa pace i visconti e balii di Terracina, Stura, Ostia,
Porto, Santasevera, Civitavecchia; se alcun Romano rechi danno a
Genovesi, l’obbligheranno a rifarli, e se non possa, li rifaranno
dal Comune; non soffriranno si armino a danno loro legni di corso da
Capodanzo a Terracina, e da Caponaro a Corneto; terranno per nemici i
Pisani, nè gli accoglieranno sul loro territorio; serberanno pace cogli
uomini di Albenga, Portomaurizio, Diano, San Romolo, Ventimiglia, se
i loro consoli la giurino ad essi. Di rimpatto i consoli del Comune di
Genova giuravano pace ai Romani coi patti medesimi[32].
Siena, città primaria sino al tempo de’ Longobardi, e dove il vescovo
appare lungamente anche capo temporale, già avea Comune nel 1151 quando
il conte Paltonieri dava in pegno al sindaco il castello di San Giovan
d’Asso col suo distretto, per dieci anni: anzi nel 1137, _in communi
colloquio_ molti nobili di Staggia e Strove donavano alcuni castelli
a Ranieri vescovo e capo civile di Siena. Poi nel 1186 Enrico di
Svevia, vivo Federico Barbarossa, dava e confermava a questo Comune
la zecca, la libera elezione de’ consoli, del rettore, del podestà,
con giurisdizione sopra tutto il contado, salvo ai giudici imperiali
l’ultimo appello delle cause, e pagando alla Camera imperiale settanta
marche d’argento[33].
Pisa, a comodo anche dei tanti avventicci, raccoglieva, fin dal
1160, gli statuti precedenti, fin allora tenuti per memoria, donde
ricaviamo l’interno suo ordinamento e la persistenza del diritto
romano; aggiungeva regole per le contestazioni marittime, che voglionsi
approvate il 1075 da papa Gregorio VII; poi nel 1085 Enrico IV, oltre
varie esenzioni, le prometteva osservarne le consuetudini di mare,
lasciare che i seniori facessero le leggi e rendessero giustizia, non
mandare in Toscana verun marchese se non approvato da dodici uomini,
eletti nell’assemblea dei cittadini di Pisa, raccolta a suon di
campana[34]. Prometteva inoltre non distruggere le case, non incendiar
la città nè diroccarne le mura, non esigerne alloggi; se rechi offesa
ad alcuno, ne giudicherà per mezzo di dodici sacramentali senza duello,
salvo se si tratti della vita o dell’onore del re; non impedirà i
viaggi, e di mariti che siano in viaggio non arresterà le mogli; non
porrà altro aggravio se non quello che tre seniori per ciascuna villa e
castello giurino essersi praticato al tempo del marchese Ugo; lascerà
che vedove e fanciulle si maritino, senza costringerle a sposarsi a
chi egli voglia, o esigerne prezzo; non torrà nè farà lavorar le terre
a mezzo miglio in giro, che furono paludi o pascoli pubblici o delle
chiese; il pezzo del muro vecchio sin all’Arno lascerà libero a comune
vantaggio, non permettendo vi si eriga casa; se alcuna nave sia fermata
da Gaeta a Luni, nessuno ardisca predarla.
Lucca, prediletta sede dei marchesi di Toscana, in un documento
del 1124 chiamata _gloriosa civitas, multis dignitatibus decorata,
atque super universam Tusciae marchiam caput ab exordio constituta_,
possiede uno de’ più ricchi archivj d’Italia, da cui potrebbe trarsene
la storia comunale. Fra il 965 e il 972 Ottone I conferiva a quella
Chiesa un’immunità, la quale era piuttosto personale ed ecclesiastica,
salvo che cedevasi ad essa Chiesa e al clero la facoltà regia di
eleggere il proprio avvocato, e dispensavasi dal giurare nelle cause
con molti _sacramentarj_. Ottone II nel 981 confermò ed estese questi
privilegi, volendo che tutte le persone dimoranti nelle terre e
castella d’esso vescovado fossero sottoposte unicamente al tribunale
del vescovo, che potesse citarli e giudicarli (_distringere_) a modo
della potestà regia. Nessun duca, marchese, conte, visconte, giudice
pubblico o gastaldo o qualsiasi altro magistrato presuma porvi piede
per udir cause, esigere multe, far foraggio, levare sfatichi; chiunque
possedesse beni del vescovado ingiustamente, li restituisca[35];
seguono altri provvedimenti opportuni al libero esercizio del dominio
e dei diritti vescovili, e comminando ai contravventori mille libbre
d’ottimo oro, da pagare metà al fisco imperiale, e metà alla chiesa di
Lucca _ejusque vicario_. Alessandro II papa attribuì a quel Comune per
sigillo una bolla di piombo[36].
Vedemmo Anselmo vescovo di Lucca zelantissimo per Gregorio VII contro
l’imperatore; onde i cittadini gli si ribellarono, ed Enrico IV,
da Roma il 23 giugno 1081, in premio della fedeltà e de’ servigi
prestatigli, conferiva ai Lucchesi un privilegio, nel quale vieta ai
_vescovi_, duchi, marchesi, conti e qualsiasi persona o autorità di
demolire il recinto delle mura nè i casamenti urbani o suburbani; o
di fabbricare castelli nel circuito di sei miglia, nè di esigervi il
fodro o il ripatico; abolendo le _consuetudini perverse, introdotte
dalla durezza_ del marchese Bonifazio; non vi abbia palazzo imperiale
in città o nel borgo, nè siano tenuti agli alloggi; chi per negozj va a
Lucca sia pel Serchio sia per terra, non venga molestato nè derubato,
nè alcuno lo impedisca o svii; i Lucchesi possano negoziare sopra i
mercati di Parma e San Donnino ad esclusione dei Fiorentini; siano
giudicati solo da chi ha legittima giurisdizione; non venga obbligato
al duello chi adduca il possesso di trent’anni, o altro documento; il
giudice longobardo non possa proferirvi giudizio, se non in presenza
del re o del suo cancelliere[37].
Qui avete sott’occhio una vera carta di Comune; e quantunque v’appajano
come concessioni quelle che oggi si hanno per generale giustizia,
pure alleggeriva la soggezione immediata ai marchesi e conti; la
mediata moderava nell’esigenza delle tasse e ne’ giudizj; dava a Lucca
un’esistenza comunale in faccia ad altri Stati, sicchè l’università e i
singoli cittadini fossero rispettati come tali.
Benchè, col cessare della guerra delle Investiture, rivalesse
l’autorità dei marchesi, questa non tolse al Comune di Lucca di operare
indipendente: dal 1088 al 1144, ebbe guerra coi Pisani; distrusse i
castelli Castagnoli, Vaccole, Vecchiano, Ripafratta, appartenenti a
Cattanei o conti rurali; da Uguccione e Veltro, visconti di Corvara
nella Versilia, comprò questo tenimento e il castello di Vorno che
spianò; e chiamò a giudizio arbitrale i vescovi di Luni e i marchesi
di Malaspina[38]. Non sapremmo dunque definire a che si riducesse la
a comune, e poteano divenir tali per poco che si ampliassero.
Una lapida sotto al portico della notabilissima cattedrale di Lucca
riferisce come nel 1111 i cambisti e mercanti, che allora stavano
di bottega nella corte di San Martino, ove pure gli alberghi de’
forestieri, giuravano di non far frode[23]; antichissima sistemazione
del commercio in consorzj, con consoli per risolvere i litigi.
Già nel 1046 Enrico III _confermava_ agli abitanti della bergamasca
val di Scalve il diritto di negoziar di ferro per tutto l’impero,
col solo aggravio di mille libbre di ferro _secandum suorum parentum
morem_; nessun duca, marchese, vescovo, conte o altra qualsiasi
persona _hominibus in prædicto monte Scalvi habitantibus audeat aliquam
molestiam aut aliquam superpositam inferre_; e a chi violi l’ordine
commina cento libbre d’oro, metà da darsi alla Camera, _et medietatem
prædictis hominibus_. Poi nel 1091 nella città di Bergamo tenendo
placito il conte Corrado, messo regio _ad justitias singulorum hominum
faciendas ac deliberandas_, con molti giudici e conti e col vescovo,
gli si presentarono alcuni _vicini et consortes de loco Burno_, che è
in val Camonica, e gli chiesero pronunziasse un bando _super nos et
super nostros vicinos vel consortes_ a proposito del monte Negrino,
che era stato ad essi usurpato da quelli di val di Scalve: e il
conte Corrado gli esaudì[24]. Non sono queste evidenti forme comunali
con possessi consorziali? I querelanti nel loro libello citano una
decisione già riportata anteriormente; e come in tali litigi _centum
quinquaginta librarum denariorum mediolanensium veteris monetæ inter
judices et advocatos dispendio in Bergamo perpessi sumus damnum_; e gli
Scalvini usarono ad essi prepotenze molte, onde reclamano giustizia,
_quia dedecus est omnium nostrum_.
Esempj di simili comunanze ricorrono in Toscana, ove nel 1004 Filippo
di Fidante e Benedetto di Martino furono nominati consoli del comune
ed università di Monte Castelli[25]. Chiavenna, borgo della diocesi
comasca, situata allo sbocco di due valli che mettono ai paesi
transalpini del Reno e dell’Inn, faceva una concordia, citata già come
antica nel 1155, tra gli abitanti suoi e quelli del vicino Piuro, per
la quale quattro uomini di ciascuno di essi giuravano di guidare i due
Comuni e le persone e i beni loro con buona fede e senza frode in pace
ed in guerra, non usurparsi roba alcuna, ma d’ogni acquisto ripartire
tre quarti a’ Chiavennaschi, uno a’ Piuriesi, e nell’eguale proporzione
le spese[26].
N’era vantaggiata l’industria; e poichè essa è gran conduttrice di
libertà, si cominciò a levar lamenti delle violenze che turbavano il
commercio; i lamenti procedeano a minaccie; e se queste non trovassero
ascolto, riuscivano in aperta rivolta, cacciando gli esattori e gli
espilatori del barone, assalendone anche il castello, e opponendogli
barricate e mura; e unitisi sulla piazza del mercato o nella chiesa,
gl’interessati giuravano sostenersi contro chiunque pretendesse
sopraffarli. E a noi si fa credibile che uno de’ più efficaci
addirizzi a costituire i Comuni fossero appunto le società mercantili
e artigiane, che trovandosi già ordinate con una gerarchia, con
regolamenti, con statuti[27], con cassa, non aveano a dare che un passo
per chiedere di partecipare coi nobili al Governo.
Talvolta i re medesimi ne’ loro bisogni esibivano di vendere
le regalìe, cioè dogane, zecche, mercati, pedaggi; e i Comuni
s’affrettavano a comperarle, o le ottenevano in premio della fedeltà e
del favore prestato. Tal altra i grandi vassalli insorgevano contro dei
vescovi, e gli uni e gli altri armavano i cittadini, che per tal modo
venivano a conoscere le proprie forze, e invocavan diritti, in prezzo
degli offerti soccorsi. Nella contesa, capitanei e vescovi apprendevano
che ricchezza principale era l’abbondare d’uomini, lo perchè ne
favorivano l’incremento sminuzzando i possessi, e contentandosi d’una
tenue prestazione, purchè vi andasse congiunto l’obbligo di servire
nelle milizie.
Stiamo dunque a gran pezza da chi crede che i Comuni derivassero da
generosità dei re, o da accorgimento loro politico. Erano conseguenza
del risorgimento popolare; ma i diritti che i liberi traevano in
campo, non erano astrazioni costituzionali, e accademici divisamenti
repubblicani, bensì un richiamo alle norme dell’umanità, a quella
libertà d’innocui atti, di cui ciascuno sente mestieri come dell’aria.
L’associazione dirigevasi non a riforme amministrative, ma ad acquistar
forza per diminuire la propria servitù; specie di mutua assicurazione
delle inferme moltitudini contro i pochi armati. Non che fosse
rivoluzione contro il Governo regio, a questo appoggiavansi coloro i
quali scotevano il giogo feudale. E poichè il feudatario, il re ed il
vescovo trovavansi spesso a cozzo, e dividevano tra sè i possessi e le
città, all’uno ricorreva chi fosse malcontento dell’altro, sicuri di
trovarlo favorevole, non per generosità ma per proprio interesse.
Neppure fu una rivoluzione sola che mutasse la forma politica,
giacchè non v’aveva un potere unico da abbattere; e a ciascun Comune
sovrastando un signore particolare, in ciascuno richiedevasi una
particolare rivoluzione. Variissimi dunque erano gl’impulsi, variissimi
i mezzi e i risultamenti, e molto vi poteva il caso, nè sempre
riuscivasi all’intento; ma la libertà, fallisca cento volte, non però
dispera.
Sarebbe peraltro stato difficile strappare ai feudatarj anche sì poco,
quando essi soli e i loro castelli fossero stati muniti, e tutto il
resto inerme; atteso che la forza brutale può a lungo conservare gli
ordini più repugnanti alla ragione. Ma allorchè gli Ungheri avevano
passato le Alpi, non si potè combattere in campagna rasa e con
eserciti ordinati le loro bande scorridore, ma dovette munirsi ciascun
villaggio, ciascuna casa, ciascuna persona; le città rinnovarono le
mura, diroccate dai Barbari o sfasciate dal tempo[28]; ogni monastero,
ogni borgata scavò una fossa, rizzò uno steccato; e le armi, adoperate
soltanto dagli uomini del feudatario e per suo cenno, si affilarono
per l’individuale sicurezza. Qual cosa infonde tanto coraggio, quanto
il conoscere di bastare alla propria difesa? e i nostri padri, che
si erano misurati contro l’Unghero, più non temeano d’affrontare la
masnada del vescovo o del castellano.
Di più, in Italia l’aristocrazia non avea messo così robuste radici
come oltr’Alpi; e nella vasta Lombardia soli forse il marchese di
Monferrato e il conte di Biandrate estendeano tanto i possessi,
da abbracciare borghi e città. La supremazia che i re di Germania
pretendevano qui, era d’opinione più che di forza. Dalla lontananza
o dalle guerre proprie erano impediti di venirvi sovente in persona,
unico modo di farvi valere la propria autorità; se venissero, senza
truppe nè rendite mal si reggevano, e lagnavansi che i vassalli non
gli sovvenissero del necessario, e li riducessero a cascar di fame.
Maggiormente si protraevano gl’interregni di qua dell’Alpi, atteso che
non bastava che un re fosse nominato in Germania, ma conveniva venisse
a farsi coronare in Milano e Roma; nè di rado i signori nostri negavano
omaggio all’eletto dai Tedeschi. Tutto ciò fece la contesa men dura, e
più pronto l’effetto.
Questo restituire gli uffizj da signorili a municipali ed elettivi
cominciò attorno al Mille, crebbe mentre Ottone II combatteva gli emuli
in Germania e i Greci in Calabria, e più nei tredici anni che Ottone
III indugiò a scendere in Italia. Allora i Comuni cittadini costrinsero
i baroni ad accasarsi nelle città, che si trovarono popolate non
più da soli artieri ed arimanni, ma anche da potenti, e crebbero di
lustro e considerazione. Alcune gelose ottennero che gli imperatori
non entrassero più nelle loro mura; altre ne demolirono il palazzo,
per edificarlo nei sobborghi; sicchè debole e limitata restava la
giurisdizione dei re, i quali tanto più facilmente cedevano per denaro
o per favore ciò che nè ricusare potevano, nè conservato fruttava.
Pavia nel 1024 distrusse il palazzo regio, e quando Enrico III volle
costringerla a riedificarlo, gli si oppose con un giusto esercito,
avendo alleati molti signori.
Gran destro ne porse la contesa fra il Sacerdozio e l’Impero, giacchè
in quelle reciproche esagerazioni, dove più che le armi poteva
l’opinione, si trovavano messe in bilancia le competenze delle due
autorità, richiamato a discussione quanto la conquista germanica
aveva innestato sul tronco romano, la legittimità del potere nato
dalla forza, il dominio della spada sovra gli spiriti, l’intrusione
delle discipline militari nell’ordine civile e fin nella gerarchia
ecclesiastica; e l’una e l’altra parte si credette obbligata
a dimostrare le proprie ragioni ai popoli, di cui le bisognava
l’appoggio. E i popoli impararono che avevano diritti, che per
argomenti potevano scegliere a quale prestare il sussidio dell’oro, del
brando, delle convinzioni; e di quelli e di queste misurata la potenza,
vollero servirsene ad assicurare e crescere quei diritti, che avevano
appreso a conoscere e stimare. Trattavasi poi di combattere? bisognava
che il conte o il vescovo si servissero del braccio delle plebi: e guaj
pe’ tiranni il giorno che han bisogno de’ loro oppressi!
Contesa tanto vitale non limitavasi a battaglie in campo aperto,
ma penetrava nelle città e nelle case: spesso una chiesa trovavasi
disputata da due vescovi, uno papale ed uno intruso, i quali si
perseguivano in guerra; diuturne le vacanze, perchè o il papa negava
l’investitura, o i cittadini obbedienza al nominato dall’imperatore;
e sempre i vescovi sentivansi sotto ai piedi vacillare il terreno,
perchè o non investiti dal re, o non riconosciuti dal papa; e per
formare e mantenersi partigiani, cedevano particelle de’ loro diritti
ai Comuni. Esse città giuravansi con altre del sentire medesimo, onde
in armi tener testa alle contrarie. Uscita poi vittoriosa la parte
ecclesiastica, ingegnavasi di menomare le prerogative regie, ma con ciò
raccorciava anche la podestà temporale de’ vescovi, fondata sopra regie
concessioni.
Col carroccio (t. V, p. 439) i popolani s’erano avvezzi a considerarsi,
non più guerrieri obbligati d’un signore, ma d’una bandiera
cittadina, del Cristo che allargava le braccia su quell’antenna, del
sant’Ambrogio, del san Zenone, del sant’Alessandro che li benediceva
dal gonfalone. Quel parteggiare per l’imperatore o pel papa avea misto
i varj ordini d’uomini, per modo che non si guardava tanto se uno fosse
capitaneo, nobile o plebeo, ma se imperiale o pontifizio. Le armi e
i campi comuni, e la necessità di usare concordemente le braccia o
l’ingegno nella mischia o nei parlamenti, scemavano le distanze fra
quelli della parzialità medesima; poi la trionfante conseguiva vantaggi
o privilegi sull’altra, sicchè gli ordini fin allora scrupolosamente
distinti venivano ad unirsi nel Comune cittadinesco; e i giudici
della città, che già, duranti le vacanze del vescovado, decidevano in
propria testa senza riguardo al visconte, qualora al conte o al vescovo
strappassero alcuna nuova porzione di autorità, la esercitavano più
piena sovra maggior numero di cittadini, e con restrizioni minori.
Insegnati a discutere dei diritti, prendono in dispetto gravezze
fino allora tollerate di cheto; alla prima taglia troppo pesante si
ammutinano; cominciato che uno abbia, il seguono altri; la torre, da
cui il feudatario o il conte minacciava, diviene spesso il ricovero
degli affrancati; spesso i monumenti dell’antica magnificenza
convertonsi in difese di nuova libertà; e si preparano lotte, risolute
perchè di scopo evidente e semplice, e non per capriccio o per
obbedienza, ma per tutela dei diritti più sacri. Il tentativo fallisce?
sono smantellati i fortilizj, uccisi gl’insorti: riesce? i sollevati
comprendono la necessità di unirsi.
Non poca opportunità vi aggiunsero le crociate; per passare a
terrasanta molti baroni vendettero od impegnarono i dominj, o per
denaro cedettero qualche parte della giurisdizione ai cittadini,
che, durante l’assenza loro, rassodarono i diritti, e di nuovi
ne acquistarono; mentre gli uomini che combattevano in Palestina
s’abituavano alla libera disciplina dei campi, s’accostavano fra
loro ed ai padroni, e ne riportavano più libere idee, men servili
sentimenti. Quelli poi che fossero capaci di riflettere e di ponderare
i civili ordinamenti, dovevano rimanere attoniti allo spettacolo di
Venezia, di Pisa, d’altre città marittime, che già si reggevano a
popolo: poi nelle Assise di Gerusalemme trovavano un governo, baronale
bensì, ma dov’era provveduto anche alla plebe, chiamata pur essa a
parte delle discussioni.
Ecco dunque risalire alla dignità civile quei che l’avevano perduta
fin dall’invasione dei Longobardi: ecco vincitori e vinti ricondotti
sotto una giustizia ed un governo medesimi. E poichè le reliquie degli
antichi Romani, sentendo rivalere l’ingegno sopra la forza, tornavano
su quelle antiche memorie che un popolo perde per ultima cosa, e che
servono spesso di lievito acciocchè l’inerte massa non imputridisca;
e i discendenti medesimi de’ conquistatori rispettavano quelli che
un tempo avevano soggiogati; perciò si ridestarono i nomi e le forme
romane, e i magistrati cittadini non s’intitolarono più scabini alla
tedesca, ma _consoli_.
Adunque in due atti spiegavasi quel movimento: sottrarsi con braccio
forte alla dominazione armata, poi colla prudenza costituirsi. Che se
era difficile quel primo contro conquistatori armati, difficilissimo è
sempre il secondo, e allora viepiù quando di costituzioni non s’aveva
alcuna esperienza.
Ma in che consistevano le pretensioni dei Comuni? Domandavano libertà
materiale di andare e venire senza pagar pedaggi; di vendere, comprare,
possedere il proprio, e lasciarlo ai figli; contrar matrimonj anche
fuori del feudo, e con persone di qualsiasi condizione; sicurezza della
casa e della persona; una misura fissa nei dazj, nelle decime, nelle
prestazioni di corpo dovute al signore, ne’ giorni in cui servirlo
colla marra o colle armi, nella retribuzione pel forno o pel mulino
privilegiato in tutto il feudo; se qualche bestia si svii, non venga
al castellano, ma rendasi al proprietario; possa tagliarsi legna morta
al bosco; nessuno arresti un comunista senza intervenzione di giudici;
siavi un tribunale a cui richiamarsi anche dei torti ricevuti dal
signore, e dove giustificarsi col giuramento o per testimoni, anzichè
col duello.
Scossi che si fossero dal giogo, non d’un Tedesco o d’un Franco, ma
d’un tiranno, vinto in unanime concorso il contrasto del vescovo o
del conte, cercavano un titolo ai loro diritti col farseli non dare
ma confermare dal re in quelle che chiamaronsi _carte di Comune_. I
re vi trovavano il proprio conto, perchè, oltre deprimere i feudatari
privandoli della giurisdizione, con esse carte davano regole di diritto
criminale e civile, traendo a sè una parte sì principale della regia
autorità qual è la legislativa, istituendo o convalidando le costumanze
locali.
Le carte che ci rimangono, per quanto variate, importano l’abolizione
delle servitù personali e delle tasse arbitrarie, assicurato agli
abitanti lo scegliersi i magistrati municipali, e data a questi
autorità di movere in armi i comunisti quando il credano necessario
a tutelare i diritti e le libertà del Comune, sia contro i vicini,
sia contro il signore. In quelle medesime ove propriamente veniva
riconosciuta una giurisdizione distinta, non si stabiliva già chiaro e
preciso in qual relazione starebbe d’allora innanzi il Comune col re,
col feudatario, col vescovo, bensì riducevasi in iscritto l’ordinamento
sociale interno, tutto ciò che potesse contribuire alla civile
sicurezza, e massime all’applicazione della giustizia; la parte ove i
popoli sentono più immediatamente la servitù o la libertà.
V’avea però Comuni propriamente stabiliti da baroni o da re,
sulle proprie terre aprendo asilo ai vagabondi e agli avveniticci,
costituendo _città nuove_, _borghi nuovi_, _castel franchi_, _franche
ville_, sotto un preposto del re o dei signori, con una carta,
alla quale davano pubblicità affine di allettare gente forestiera
a stanziarvisi e comprare terreni. Il conte Guido Guerra, suocero
del famoso Bellincion Berti, nel 1208 dava nel suo viscontado di val
d’Ambra il diritto ad uno per ciascuna terra di formare insieme uno
statuto, unirsi per deliberare degli interessi pubblici, e assistere
lui, capo dello Stato; il quale delegava i suoi poteri al podestà,
salvo l’arbitrio di modificarne le sentenze.
Siffatte carte occorrono men frequenti in Italia, forse perchè,
sussistendo alcuni Comuni fin dall’età romana, od essendosene
costituiti durante il reggimento feudale, non si trovava bisogno di
nuovi diplomi per regolare l’amministrazione interna, i diritti de’
magistrati, le relazioni col signore e coi vicini. Pure d’alcune
abbiamo gli apografi, d’altre fondatissima presunzione, tanto da poter
asserire che i Comuni nostri sono i più antichi del mondo moderno,
e fin anche di quello di Leon in Ispagna, conceduto da Alfonso V
coll’assenso delle Cortes entrante l’XI secolo.
Venezia dall’origine sua medesima si trovò stabilita in repubblica; e
a lei somigliare dovevano le altre città marittime di maggior fiore,
Pisa, Amalfi, Napoli, Gaeta. Adria, ancora di qualche conto, nel 1017
menò guerra coi Veneziani, i quali vincitori obbligarono il vescovo
Pietro e i primati a venire al doge, chiedere scusa, e promettere
fedeltà. Dall’alto di tal sommessione esso vescovo appare anche capo
politico del Governo; ma contraeva coll’intervento de’ suoi canonici e
di varj laici, de’ quali il primo è _Anastasius consul_. Le città del
litorale istriano, aggregato talvolta al regno d’Italia, conservarono
le forme comunali all’antica, e nel 991 Capodistria faceva col doge
Pietro Orseolo II una convenzione, stipulata da un conte Sicardo suo
governatore, _e cunctos habitantes civitatis Justinopolitanæ, tam
majores quam minores_[29]. Anche Ragusi, città mista che per tante
ragioni s’annesta alla storia italiana, e che sotto una costituzione
aristocratica gareggiò con Venezia, e fu l’Atene della letteratura
slavo-illirica, degna di storia più che i vasti imperj da cui fu
ingojata, antichissimo esempio ci è di governo municipale, poichè in
un diploma del 1044 Pietro detto Slaba (slavo) priore, _cum omnibus
pariter nobiles, atque ignobiles mei, tam senes, juvenes, adolescentes,
quam etiam pueri_, restituisce alcuni beni all’abate di Santa Maria di
Lacroma, presente il vescovo Vitale[30].
I Genovesi, costretti a schermirsi dai Saracini di Frassineto, buon’ora
si ordinarono a comune sotto il vescovo, dividendo le città nelle
_compagne_ di Castello, Borgo, Piazzalunga, Maccagnana, San Lorenzo,
Portanuova, Sosiglia e Portoria, ciascuna avente consuetudini proprie
e gonfalone, e deliberando per consigli e parlamenti. All’888 si fanno
risalire i suoi primi consoli, il senato, l’assemblea del popolo e le
forme municipali, che ricevettero conferma da un diploma di Berengario
II del 958, il quale assicurava ai Genovesi le proprietà, già _jure_
acquistate[31]. Poi nel 1056 Alberto marchese giurava osservare le
consuetudini di essi, che sono le seguenti:
«Qualora si contenda sopra la sincerità d’una carta tra Genovesi e
forestieri, se il notajo e i testimonj sieno presenti, basta che il
presentatore della carta giuri non l’avere corrotta in veruna parte: se
manchino notajo e testimonj, il presentatore trovi quattro persone che
il giurino con lui. La femmina longobarda può vendere e donare senza
l’assenso dei parenti e l’autorità del principe. Così pure i servi, gli
aldj delle chiese e i servi del re vendano e donino liberamente le cose
di loro proprietà, ed anche le livellarie. I villani de’ Genovesi, che
abitano sui poderi dei padroni, non sono tenuti a dare fodro, fodrello,
albergaria o placito ai marchesi, nè ai visconti, o loro mandati.
I livellarj delle chiese, che per gravi casi non possono soddisfare
l’annuo canone, non perdano un fondo livellato, se prima del decimo
anno paghino i livelli scaduti. Gli abitanti di Genova non devono
stare in giudizio fuori di città, nè obbediscano a sentenza renduta
fuori. I rettori di Sant’Ambrogio possano conceder beni a livello.
I forestieri abitanti in Genova devono fare la guardia coi Genovesi
contro gl’insulti dei Pagani. Chi giura con quattro testimonj di aver
posseduto per trent’anni un podere, sia cheto contro qualunque podestà
ecclesiastica o laica, nè v’abbia luogo a duello. Quando i marchesi
vengano a tener placito a Genova, il bando non duri che quindici
giorni. Un laico a cui un cherico abbia ceduto i beni ecclesiastici, li
posseda tranquillamente finchè il vescovo vive. Se uomo o femmina prese
a livello beni ecclesiastici, o per compra, o per eredità, niun altro
può acquistare livello sui medesimi: e se nasce controversia, chi è in
possesso giuri con quattro testimonj che da dieci anni egli od i suoi
antecessori possedono quei beni a livello. I cherici legittimamente
investiti di beni ecclesiastici li tengano alla sicura quanto vivono,
nè altro cherico acquisti ragioni su quelli. Gli uomini dei Genovesi,
che vogliono risedere sui poderi de’ padroni, sieno franchi da ogni
servizio pubblico».
Nel 1109 il conte Bertrando donava al Comune di Genova la terra di
Gibeletto in Siria: nel 1130 Pavesi e Genovesi stipulavano concordia e
reciproca difesa. Nel 1166 i consoli de’ mercanti e de’ marinaj di Roma
agli uomini del Genovesato da Portovenere fino a Noli concedeano pace e
sicurezza della persona e degli averi per terra e per mare da Terracina
a Corneto, cassando le rappresaglie e qualunque procedura per rapine da
trent’anni in poi; renderanno buona giustizia e riparazione; potranno
condurre a Roma qualsiasi merce, e farvi contratto; obbligheranno a
giurar questa pace i visconti e balii di Terracina, Stura, Ostia,
Porto, Santasevera, Civitavecchia; se alcun Romano rechi danno a
Genovesi, l’obbligheranno a rifarli, e se non possa, li rifaranno
dal Comune; non soffriranno si armino a danno loro legni di corso da
Capodanzo a Terracina, e da Caponaro a Corneto; terranno per nemici i
Pisani, nè gli accoglieranno sul loro territorio; serberanno pace cogli
uomini di Albenga, Portomaurizio, Diano, San Romolo, Ventimiglia, se
i loro consoli la giurino ad essi. Di rimpatto i consoli del Comune di
Genova giuravano pace ai Romani coi patti medesimi[32].
Siena, città primaria sino al tempo de’ Longobardi, e dove il vescovo
appare lungamente anche capo temporale, già avea Comune nel 1151 quando
il conte Paltonieri dava in pegno al sindaco il castello di San Giovan
d’Asso col suo distretto, per dieci anni: anzi nel 1137, _in communi
colloquio_ molti nobili di Staggia e Strove donavano alcuni castelli
a Ranieri vescovo e capo civile di Siena. Poi nel 1186 Enrico di
Svevia, vivo Federico Barbarossa, dava e confermava a questo Comune
la zecca, la libera elezione de’ consoli, del rettore, del podestà,
con giurisdizione sopra tutto il contado, salvo ai giudici imperiali
l’ultimo appello delle cause, e pagando alla Camera imperiale settanta
marche d’argento[33].
Pisa, a comodo anche dei tanti avventicci, raccoglieva, fin dal
1160, gli statuti precedenti, fin allora tenuti per memoria, donde
ricaviamo l’interno suo ordinamento e la persistenza del diritto
romano; aggiungeva regole per le contestazioni marittime, che voglionsi
approvate il 1075 da papa Gregorio VII; poi nel 1085 Enrico IV, oltre
varie esenzioni, le prometteva osservarne le consuetudini di mare,
lasciare che i seniori facessero le leggi e rendessero giustizia, non
mandare in Toscana verun marchese se non approvato da dodici uomini,
eletti nell’assemblea dei cittadini di Pisa, raccolta a suon di
campana[34]. Prometteva inoltre non distruggere le case, non incendiar
la città nè diroccarne le mura, non esigerne alloggi; se rechi offesa
ad alcuno, ne giudicherà per mezzo di dodici sacramentali senza duello,
salvo se si tratti della vita o dell’onore del re; non impedirà i
viaggi, e di mariti che siano in viaggio non arresterà le mogli; non
porrà altro aggravio se non quello che tre seniori per ciascuna villa e
castello giurino essersi praticato al tempo del marchese Ugo; lascerà
che vedove e fanciulle si maritino, senza costringerle a sposarsi a
chi egli voglia, o esigerne prezzo; non torrà nè farà lavorar le terre
a mezzo miglio in giro, che furono paludi o pascoli pubblici o delle
chiese; il pezzo del muro vecchio sin all’Arno lascerà libero a comune
vantaggio, non permettendo vi si eriga casa; se alcuna nave sia fermata
da Gaeta a Luni, nessuno ardisca predarla.
Lucca, prediletta sede dei marchesi di Toscana, in un documento
del 1124 chiamata _gloriosa civitas, multis dignitatibus decorata,
atque super universam Tusciae marchiam caput ab exordio constituta_,
possiede uno de’ più ricchi archivj d’Italia, da cui potrebbe trarsene
la storia comunale. Fra il 965 e il 972 Ottone I conferiva a quella
Chiesa un’immunità, la quale era piuttosto personale ed ecclesiastica,
salvo che cedevasi ad essa Chiesa e al clero la facoltà regia di
eleggere il proprio avvocato, e dispensavasi dal giurare nelle cause
con molti _sacramentarj_. Ottone II nel 981 confermò ed estese questi
privilegi, volendo che tutte le persone dimoranti nelle terre e
castella d’esso vescovado fossero sottoposte unicamente al tribunale
del vescovo, che potesse citarli e giudicarli (_distringere_) a modo
della potestà regia. Nessun duca, marchese, conte, visconte, giudice
pubblico o gastaldo o qualsiasi altro magistrato presuma porvi piede
per udir cause, esigere multe, far foraggio, levare sfatichi; chiunque
possedesse beni del vescovado ingiustamente, li restituisca[35];
seguono altri provvedimenti opportuni al libero esercizio del dominio
e dei diritti vescovili, e comminando ai contravventori mille libbre
d’ottimo oro, da pagare metà al fisco imperiale, e metà alla chiesa di
Lucca _ejusque vicario_. Alessandro II papa attribuì a quel Comune per
sigillo una bolla di piombo[36].
Vedemmo Anselmo vescovo di Lucca zelantissimo per Gregorio VII contro
l’imperatore; onde i cittadini gli si ribellarono, ed Enrico IV,
da Roma il 23 giugno 1081, in premio della fedeltà e de’ servigi
prestatigli, conferiva ai Lucchesi un privilegio, nel quale vieta ai
_vescovi_, duchi, marchesi, conti e qualsiasi persona o autorità di
demolire il recinto delle mura nè i casamenti urbani o suburbani; o
di fabbricare castelli nel circuito di sei miglia, nè di esigervi il
fodro o il ripatico; abolendo le _consuetudini perverse, introdotte
dalla durezza_ del marchese Bonifazio; non vi abbia palazzo imperiale
in città o nel borgo, nè siano tenuti agli alloggi; chi per negozj va a
Lucca sia pel Serchio sia per terra, non venga molestato nè derubato,
nè alcuno lo impedisca o svii; i Lucchesi possano negoziare sopra i
mercati di Parma e San Donnino ad esclusione dei Fiorentini; siano
giudicati solo da chi ha legittima giurisdizione; non venga obbligato
al duello chi adduca il possesso di trent’anni, o altro documento; il
giudice longobardo non possa proferirvi giudizio, se non in presenza
del re o del suo cancelliere[37].
Qui avete sott’occhio una vera carta di Comune; e quantunque v’appajano
come concessioni quelle che oggi si hanno per generale giustizia,
pure alleggeriva la soggezione immediata ai marchesi e conti; la
mediata moderava nell’esigenza delle tasse e ne’ giudizj; dava a Lucca
un’esistenza comunale in faccia ad altri Stati, sicchè l’università e i
singoli cittadini fossero rispettati come tali.
Benchè, col cessare della guerra delle Investiture, rivalesse
l’autorità dei marchesi, questa non tolse al Comune di Lucca di operare
indipendente: dal 1088 al 1144, ebbe guerra coi Pisani; distrusse i
castelli Castagnoli, Vaccole, Vecchiano, Ripafratta, appartenenti a
Cattanei o conti rurali; da Uguccione e Veltro, visconti di Corvara
nella Versilia, comprò questo tenimento e il castello di Vorno che
spianò; e chiamò a giudizio arbitrale i vescovi di Luni e i marchesi
di Malaspina[38]. Non sapremmo dunque definire a che si riducesse la
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