Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15) - 01
STORIA
DEGLI ITALIANI
PER
CESARE CANTÙ
EDIZIONE POPOLARE
RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI
TOMO VI.
TORINO
UNIONE TIPOGRAFICA EDITRICE
1875
LIBRO OTTAVO
CAPITOLO LXXXI.
Origine dei Comuni.
Un pregiudizio attaccatoci da moderni scrittori confonde il Comune
colla repubblica, la libertà civile colla libertà politica; onde,
al nominare l’istituzione dei Comuni, immaginiamo una di quelle
formidabili sollevazioni del dolore irritato, ove le plebi insorgessero
contro i governanti, risolute di partecipare ai diritti politici di
questi.
Nulla di ciò. Erano i deboli, che aspiravano ai diritti dell’umanità,
a scuotersi di dosso il giogo feudale divenuto intollerabile, staccarsi
dalla gleba, tornare liberi della persona, degli averi, della volontà,
unendosi coi signori sotto una comune giustizia. In Italia queste
franchigie crebbero fino a costituire gloriose repubbliche; in
Francia, al contrario, diedero fondamento all’autorità monarchica;
in Inghilterra i Comuni si congiunsero coi baroni onde fare a
quella contrappeso; insomma possono associarsi con qual sia forma di
governo, essendo il Comune un’estensione della famiglia, anzichè uno
sminuzzamento del principato.
L’origine de’ Comuni è uno dei punti che più vennero esaminati e
controversi, dopochè le molte carte tratte in luce, e l’esame de’ varj
elementi della vita sociale mostrarono l’importanza di quella oscura
transizione dal vecchio mondo al moderno, donde cominciò il medio
ceto, o, come dicono, il terzo stato, che in sostanza è il popolo
d’oggi. Gli scrittori municipali troppo poco s’avvidero dell’interesse
che ispirerebbe ai loro racconti il tratteggiare la vita interna e il
particolare incremento degli uomini e della società comunale: sicchè
noi non abbiamo, ch’io sappia, la compiuta storia d’alcun Comune. Il
Sismondi saltò di netto la quistione, che pur era capitalissima in una
storia delle repubbliche. Il Muratori adunò preziosi documenti, ma non
ne dedusse un concetto generale e coerente, pur in massima allineandosi
co’ suoi contemporanei nel credere che i Comuni nostri fossero una
continuazione degli antichi. Ciò fu sostenuto incidentemente da molti
e con erudizione dal Savigny e dal Pagnoncelli; il quale avrebbe
avanzato assai questo tema se avesse meglio distinti i tempi. Altri
sentirono col Raynouard, che in Francia, e principalmente nella parte
meridionale, vedea le antiche municipalità sopravivere al naufragio
barbarico, e al lentare dell’oppressione rigalleggiare per formare
il Comune[1]. S’egli in ciò (come in quella sua lingua romanza, alla
quale pur aderirono spensieratamente altri Italiani) abbia recato
un’erudizione di buona lega, se con rettissima coscienza sostenuto
un paradosso, non è qui luogo a discuterlo: basti che in quistioni sì
delicate bisogna stare guardinghi di non attribuire un senso generale a
ciò ch’è particolare, nè applicare ad una nazione quel che in un’altra
si avveri.
V’inciamparono in senso opposto i Tedeschi, sostenendo i Comuni
nostri figliati dalla società germanica; essere in ogni città rimasti
uomini della stirpe conquistatrice, e in conseguenza liberi, sebbene
non possessori di feudi, e dipendenti soltanto dal re; i quali
moltiplicaronsi mediante le emancipazioni ed il commercio, tanto che il
loro Comune esclusivo divenne il nuovo Comune generale[2].
L’eclettismo, riprovevole quando assonni in mezze verità gli spiriti
non bisognosi di profonde convinzioni, merita lode quando, nessuna
escludendone, tutte le pondera senza predilezione, onde raggiungere la
certezza relativa dove l’assoluta è inarrivabile. E in Italia appunto
tutti que’ sistemi hanno alcuna parte di verità, attesa la diversissima
sorte che corsero i paesi nostri, da diversissimi elementi derivando.
Prima di Roma, l’Europa civile era disposta in municipalità sovrane,
mai non essendosi alzato un grande impero che le singole riducesse
ad unità di legge e di amministrazione; e in ciò risiede la capitale
differenza dei popoli nostri dagli asiatici. Roma stessa fu un
municipio, il quale prevalse dapprima agli altri italici, poi a
tutti d’Europa, e quei governi parziali restrinse all’amministrazione
civile. Tali noi gli abbandonammo allo sfasciarsi dell’Impero; tali li
trovarono i Barbari. Questi forse lasciarono sussistere qualche forma
di regime comunale, non già per generosa indulgenza, ma per ignoranza
e per difetto d’ordini surrogabili; ma se permisero alla stirpe vinta
qualche resto di paesano reggimento, non potè essere che ristretto e
precario quanto il portava una militare oppressione. Tassarsi fra loro
per conservare un ponte, una via; eleggere chi riscotesse le taglie
imposte dal vincitore; congregarsi per nominare i parroci e i vescovi;
qualc’altro atto di non maggiore rilievo, erano per avventura i soli
residui di costituzione cittadina. Vero è che ogni memoria quasi ce
ne manca nel IX e X secolo[3]: ma di quant’altre cose non è allora
interrotta la ricordanza fra tanto scompiglio e sì poche scritture?
Nè questa persistenza sotto i Barbari parrà fuori di buona congettura
a chi veda persino i Turchi abbattere amministrazione, istituzioni,
costumi, gerarchia dell’impero orientale; eppure ai tributarj non
imporre nè le loro forme amministrative, nè la legge civile, talchè le
istituzioni adottate dai raja si mantennero indipendenti affatto dal
canone musulmano.
Quel che meno comprendo è come mai il Comune potesse conservarsi sotto
le sbricciolate dominazioni feudali, quando ogni villaggio avea, direi
quasi, un re che immediatamente amministrava, giudicava, provvedeva;
e forse perì del tutto il sistema comunale ove il feudalismo si
assodò. In Italia, per altro, a conservarne almeno la memoria valse
il non esservi mai caduto in totale dimenticanza il diritto romano,
il quale forse si insegnò sempre nelle scuole, certo modificò
le barbare legislazioni, spesso fu applicato nelle decisioni dei
tribunali, massime degli ecclesiastici. Un codice romano del secolo
IX o X nell’archivio di Udine mostrerebbe magistrati municipali, e
che le città avessero decurioni, nominassero giudici per amministrare
la giustizia e per sovrantendere ai beni ed alle entrate loro, con
giurisdizione però dipendente dalla pubblica, e limitata agli affari
civili dei Romani, cioè dei vinti, e ai minori delitti delle classi
basse[4]. Ma, qual l’abbiamo alle stampe, quel documento è rozzo e
incoerente, nè tampoco sappiamo per qual paese venisse compilato.
Alle città che rimasero sottoposte ai Greci era stata, pel codice
Giustinianeo, tolta la scelta de’ proprj magistrati, che costituisce
il privilegio capitale del Comune. Ma molte, inviolate dai Barbari,
dall’impero greco dipendeano di mero nome; onde non v’è ragione che
n’andasse abolita la costituzione comunale. Tali ci pajono Roma, Gaeta,
le isole venete, ove, allo sfasciarsi dell’Impero, le curie presero
le redini, l’amministrazione traducendo in governo. Gl’imperanti di
Costantinopoli, che agio, che forza aveano per provvedere a queste
disgregate provincie? onde anche quelle che stavano a loro obbedienza,
si videro spinte ad amministrarsi e difendersi da sè. A tal uso
applicarono il tributo che riscotevano col metodo antico; come ebbero
erario, così formarono una milizia; regolarono la polizia; fecero
anche decreti quando li sentissero necessarj. Il duce che soleva
essere mandato da Costantinopoli, fu eletto fra cittadini, a nessun
più importando di venire fin qui ad una dignità di molto peso e di
scarso profitto; poi ogni legame andò sciolto in tempi di vacanza o di
anarchia, e definitamente nella guerra che gl’imperatori teologastri
indissero alle sacre immagini; talchè ne uscì un governo affatto a
popolo.
Questi vivi e vicini esempj e le non cancellate reminiscenze poterono
nutrire o ridestare il desiderio della libertà ne’ residui Italiani,
appena l’oppressura si rallentasse a segno, che non dovessero pensare
unicamente alla vita e alla sicurezza.
Ma non dal solo elemento romano costituironsi i Comuni; bensì, come
ogni altra cosa del medioevo, dal germanico insieme e dal cristiano.
L’invasione dei Longobardi avea ridotto i natii a condizione quasi
servile; esclusi interamente dal governo perchè esclusi dall’armi,
restavano uomini altrui, mentre i conquistatori formavano la classe
dei liberi, de’ quali soli la legge prendeva cura; e non si disse più
un cittadino milanese o bergamasco, ma soltanto un Longobardo o un
Romano. Altrettanto seguitò sotto i Franchi; ma la prosapia vinta fu
più ravvicinata alla vincitrice, giacchè si prefisse un guidrigildo
anche sulla vita e sulle offese recate ai Romani; e se ciascuna
stirpe conservava le leggi proprie, i capitolari emanati dai Carolingi
obbligavano tutti; allo stesso diritto longobardico faceansi glosse e
commenti di senso romano, alterandoli per modo che, restando longobarda
la legge, romanamente giudicava il fôro.
Spezzatosi l’impero di Carlo Magno, coll’estendere dei feudi si
spegnevano le differenze d’origine, poichè l’uomo non era più
longobardo o franco o romano, ma del tal feudo o del tal signore;
e nell’autonomia, propria di ciascun feudatario, restava assorta la
varietà di diritti. I feudi passo a passo s’intrusero anche nelle terre
dominate dai Greci, massime dopo la conquista dei Normanni; sicchè
per la più parte d’Italia restò mutata la natura delle proprietà, e
ciascuno fu l’uomo del proprio terreno, e corse la fortuna di quello.
Ciò in campagna. Ma delle città le più non dipendevano da un
feudatario, bensì da un conte, magistrato regio. I conti si rendeano
sempre meno dipendenti da imperatori fiacchi e distanti; onde
screditavasi l’autorità regia, mentre invigoriva la feudale. Squarciato
il corpo politico in infiniti brani si può dire indipendenti, e
scomposta l’unità governativa, i grandi vassalli operavano di pieno
arbitrio nella loro giurisdizione, quasi la tenessero non dai re, ma
in patrimonio; negli interregni strascinavano in lungo la nomina del
successore, e lo desideravano debole perchè non pensasse a ricuperare
il ceduto od usurpato dominio. Duranti poi le violenze che descrivemmo
fra l’Impero e la Chiesa, tutto andava in frazioni e sêtte, che
ondeggiavano a seconda dei capi e degli accidenti; nè ben accertandosi
qual fosse il re legittimo, se ne togliea pretesto di non obbedire
a nessuno, o poneasi la docilità a prezzo di crescenti privilegi.
In società d’origine feudale, stante il generale principio che ogni
podestà emana dal re, nessun diritto si trova che non sia privilegio
e concessione; lo saldano, lo garantiscono, lo dilatano, ma sempre
come concessione. Laonde la libertà cui allora si aspirava, non era
un governo fondato sull’assenso di tutti i membri del corpo sociale
adunati, ma un privilegio concesso ad alcuni in particolare.
Sarebbesi allora potuto scomporre affatto la monarchia, ma le città
non sentivano ancora la propria forza; i gentiluomini e la nobiltà
inferiore, discendenti dai primitivi conquistatori, temeano che il
cessare di essa non li riducesse dipendenti da altri nobili, sicchè
preferirono di cercare dal re immunità, cioè d’esercitare giurisdizione
sulle proprie terre o sui proprj dipendenti, senza che il conte regio
vi potesse. Primi a domandarla furono gli arimanni[5], cioè uomini
liberi, residuo dei conquistatori, non legati a verun feudatario, e
protetti dal conte come appartenenza del re; poi i monasteri, i corpi
d’arte, gli ordini cavallereschi. Re e gran signori non rendeansi
malagevoli ad emanciparli, contenti anzi di far con ciò acquisto di
sudditi per sè, e indebolire i vassalli dipendenti. I feudatarj poi
e i vescovi domandavano immunità più estese, cioè che il conte regio
cessasse da ogni giurisdizione anche sovra i liberi, abitanti nel
loro terreno, nel quale ne istituivano una loro propria, dove erano
richiesti alla pari e i liberi discendenti dai conquistatori, ed i
villani e censuali, gente per lo più romana. Eccovi un embrione del
Comune.
Stanno dunque a fronte molti poteri. I re, mirando a ridurre in
prerogativa monarchica il primato feudale, desiderano comandare
direttamente al popolo senza l’interposizione dei baroni, e perciò
quello da questi emancipare. I baroni, all’opposto, eransi affaticati
ad assicurarsi l’indipendenza e convertire il politico dominio in
reale e personale privato, e v’erano riusciti col rendere vitalizj
i feudi, poi ereditarj. Da ultimo i vinti, non gravati più dal peso
sproporzionato di un potere centrale, ridestavansi per conservare o
ricuperare i possessi antichi, le leggi non dimentiche, la contrastata
religione, partecipare ai privilegi dei vincitori, ed essere
considerati pari alla gente dominatrice ne’ servigi e nella giustizia.
In Francia si strinsero attorno al re, che venne per tal modo via via
rinforzandosi: in Italia non poteano altrettanto, perchè la regia era
accoppiata all’autorità imperiale, che si mutò da Franchi a Italiani,
poi a Tedeschi, controbilanciati sempre dai papi e dai grandi vassalli.
Mentre a questi dava rinforzo la lontananza del principe, gl’indeboliva
l’aumentarsi dei piccoli feudatarj e il prevalere degli ecclesiastici,
che, come ogni altra cosa d’allora, aveano preso sembianza feudale,
cioè congiunto ai possessi la sovranità. La Chiesa è costituita con
forme a popolo; assemblee, rappresentanza, giurisdizione propria
mantenne anche sotto ai Barbari; unica aveva asili contro la
prepotenza, richiami contro la tirannia. Il popolo dei vinti, privo
d’ogni diritto legale in faccia al conquistatore, più volentieri recava
le sue querele ai sacerdoti che non ai baroni; a chi le giudicasse
per prudenza e per leggi scritte, che non a chi le recideva a colpi
di sciabola; onde l’autorità ecclesiastica erasi ingrandita perchè
popolare. L’innalzarsi dunque del clero importava sollievo del popolo;
e tanto avvenne allorchè, sotto ai Franchi, esso diventò essenziale
elemento della civile società, e i vescovi entrarono nelle assemblee
legislative, e finirono col signoreggiarle. Venuti di tanto peso nelle
pubbliche rivolture, ottennero dai re l’immunità dei proprj possessi,
indi delle città ove sedevano, per modo che al conte più non restasse
giurisdizione, ma fosse trasferita nel vescovo. Così la esercitavano
sopra i liberi borghesi, i quali non godeano rappresentanza nella
costituzione, ma crescevano d’importanza col crescere del commercio e
delle industrie.
Il primo esempio sicuro d’immunità in Italia è di Carlo il Grosso,
che al vescovo di Parma concede di «giudicare, definire, deliberare,
come il conte del nostro palazzo, tutte le cose e le famiglie, sì de’
cherici come di tutti gli abitanti d’essa città». Lamberto imperatore
a Gamenulfo vescovo di Modena nell’898 confermava tutti i possessi, e
che, _secondo il costume delle altre chiese_, gli affari della modenese
siano esaminati da persone idonee e veraci, fin alla piena giustizia;
nè alcun conte pubblico o curatore della repubblica vada a cercar
ragione ne’ monasteri o nelle chiese, o ad esigere fredi e tributi nei
possessi, o farvi mansioni e parate, o levarne statichi, o pignorare od
obbligar uomini, siano servi o liberi, nè condurli in oste o chiederli
d’illeciti servizj; nella città stessa continuino ad esservi chierici
che stendano libelli e citazioni negli affari ecclesiastici; possa la
chiesa, invece del re, esigere il censo dovuto dalle strade, porte,
ponti, e da quanto già pagavasi _anticamente_ alla città e ai curatori
della repubblica; e cavar fossi, costruire mulini, eriger porte e forti
a due miglia in giro, e aprire e chiudere l’acqua senza _pubblica_
opposizione[6].
Nel 904 re Berengario privilegiava il vescovo di Bergamo di riedificar
le mura della sua città a riparo dagli Ungheri, dovunque esso vescovo
e i suoi _concittadini_ credessero necessario; e a lui assicurava la
libera giurisdizione sopra la città e i distretti[7]. Ottone II nel
973 concedeagli di nuovo _omnes districtiones et publicæ functiones
villarum et castellorum, quæ sunt in circuitu ipsius civitatis de eodem
comitatu pertinentes, usque ad spacium et extensionem, per omnes partes
ejusdem civitatis, trium miliarium_, fin ad Aciano e Seriate; inoltre
la val Seriana fino alla Camonica. Enrico III nel 1041 confermava
a quel vescovo tutto il contado bergamasco sino alla Valtellina,
all’Adda, all’Oglio, a Casal Butano, con piena autorità di fare e
disfare, senz’essere impedito da veruna autorità superiore.
Ottone il Grande aveva largheggiato di tali concessioni a segno, che
ne fu tenuto l’autore universale: al vescovo d’Acqui assicurava la
giurisdizione della città e di quattro miglia in giro[8]; a quel di
Lodi, l’esenzione per sette miglia; per tre miglia a quel di Novara[9];
per cinque a quel di Cremona; e così a Reggio, a Bologna, a Como,
il cui vescovo ebbe anche il contado di Bellinzona; quel di Firenze
credeva pure aver da lui ottenuto la giurisdizione di sei miglia.
Al vescovo di Pavia nel 977 Ottone II concedeva e confermava i possessi
e il dominio, e che _castella, ville, eidem episcopo subjecta, ita
sub ditione episcopi maneant, ut residentes in eis ad nullius hominis
placitum eant neque distringantur: sed si quis ab eis legem poposcerit,
presentia ejusdem episcopi vel ejus missi justitiam quam exigent
accipiet_[10]. Anche nel diploma del 1004 di re Enrico, attesi i molti
litigi e scismi, che dalla parte del conte venivano alla chiesa, è
concesso al vescovo il muro di Parma, il distretto, il teloneo e ogni
funzione pubblica nella città e fuori sin a tre miglia in giro[11].
Morto il conte, Corrado Salico nel 1035 estese a tutto il contado la
giurisdizione del vescovo.
Guido vescovo di Volterra sporgeva querele contro il conte e gli altri
ministri pubblici per la fierezza con cui esigevano dal clero e dai
loro servi i diritti regj: laonde Enrico III nel 1052 lui e il clero
esentuava dai conti, autorizzando il vescovo a trarre a sè le cause in
tal materia, e definire le contestazioni mediante il duello. Più tardi
da Federico Barbarossa il vescovo Galgano ebbe titolo di principe, e
il governo della città e di molti luoghi, l’elezione dei consoli e la
zecca, retribuendo al regio erario sei marchi d’argento.
Nel 1055 Eriberto vescovo di Modena, coi _cittadini suoi_, invocò da
Enrico III di poter riedificare, fortificare, ingrandire essa città;
e quegli il permise, concedendone al vescovo tutte le regalie e la
giurisdizione, pure confermando alla chiesa e ai cittadini le buone
consuetudini antiche: ai quali cittadini presenti e futuri concede
di derivar canali dalla Secchia, dalla Scultenna e da qualunque altro
fiume[12].
Enrico IV confermava a Landolfo vescovo di Cremona la giudicatura
della città e di cinque miglia in circuito, già attribuitagli da’
suoi antecessori[13]. A Gregorio vescovo di Vercelli concedeva
Casale, Olceningo, Oldenigo, Momolerio, Scherino, Rodingo, _con
tutti gli arimanni e con quanto spetta al contado_[14], vale a dire
le giurisdizioni che il conte esercitava, fra cui era quella sugli
uomini liberi. Molti abitanti di Treviglio, borgata della Geradadda,
si sottoposero alla badia di San Simpliciano in Milano, e nel 1081
Enrico confermava questo fatto, e che essi e i loro figli o discendenti
rimanessero perpetuamente in podestà di quel monastero, non dovendo più
alcuna funzione pubblica od angaria o altro servizio a chichefosse,
eccettuato il fodero al re quando venga in paese, e la sculdassia ai
conti ogni anno[15].
Talvolta queste concessioni davansi in premio di prestato favore, tal
altra per castigare un conte sleale: e poichè ogni giorno cresceva il
numero de’ semplici cittadini, i quali, invece del magistrato regio,
si mettevano in tutela de’ signori immuni, i re non iscapitavano gran
fatto col cedere ai vescovi i contadi, che ormai non teneano dipendenti
se non di nome.
Ecco dunque città e borgate dalla giurisdizione del conte passare a
quella del vescovo o d’un monastero; e mentre dapprima la popolazione
restava divisa fra dipendenti dalle chiese e dipendenti dal re, fra
la giurisdizione laica e l’ecclesiastica, vennero a formare un Comune
solo conquistati e conquistatori; nobiltà feudale e semplici liberi si
trovarono chiamati al medesimo tribunale; e gli scabini dei nobili e
quelli dei liberi costituirono un collegio unico, sottomesso al vicario
secolare del vescovo, detto l’avvocato o il visdomino o il visconte
appunto perchè esercitava gli uffizj devoluti una volta al conte.
Il vescovo di Mantova era stato fatto immune da Ottone III nel 997,
col diritto di nominare avvocati e batter monete; e nel 1084 Ubaldo
vescovo, costituendo visdomino un suo nipote, divisava i diritti
attribuitigli. I quali sono di andare per tutta la diocesi di qua e
di là dal Po, tenendo albergaria e placito, esaminando e definendo
discordie, liti, offese personali e reali, infliggendo la pena a
sua volontà. Tutto il denaro percepito in tali operazioni lo lascia
a lui, e un terzo del ricavo della pesca, dell’investitura, degli
approdi, dello sterpatico. Da ciascuna masseria del vescovo abbia due
majali grossi, e così la decima delle giumente e dei porci di tutte le
terre vescovili. Promette che gli uomini di lui non saranno giudicati
dal vescovo nè da’ suoi successori o messi o gastaldi o decani, nè
richiesti al placito, a prestar garanzia o albergo o fodro[16].
Al popolo tornava vantaggio dall’essere i contadi attribuiti ai vescovi
piuttosto che ai conti, crescendo probabilità di vederli affidati al
merito, anzichè distribuiti dal capriccio della nascita o dalla volontà
d’un re straniero; e se la plebe e i manenti restavano ancora senza
diritti nè rappresentanza, ne migliorava la giustizia, che è il bisogno
più immediato de’ popoli.
La decisa predilezione del clero pel diritto antico indurrebbe a
credere che le forme municipali romane, dove ancora sopraviveano, si
sodassero dacchè il vescovo si trovò investito del governo cittadino.
Ma poichè ogni cosa aveva a conformarsi al reggimento che unico allora
si conoscesse, i vescovi, fatti conti delle città, ridussero a feudali
le cariche municipali, alterandone la natura senza forse annichilarle.
Pertanto dal vescovo dipendevano le città e i beni immuni; dal conte il
resto, cioè la campagna, la quale da ciò prese il nome di contado. Ma
que’ beni immuni trovavansi intarsiati ai contadi per modo, che vescovi
e signori s’impacciavano a vicenda nell’esercizio della mal determinata
giurisdizione. Tendevano i primi a dilatare la propria anche sul
contado; i signori vi si opponeano, e cercavano ingrandire a spese de’
vassalli minori: sicchè la lotta intestina discendeva sino agl’infimi
elementi della società. Epperò Corrado Salico emanò la famosa legge dei
feudi (t. V., p. 443), per cui anche i piccoli passassero in eredità, e
non si potessero togliere se non per sentenza degli scabini.
Si trovava allora il dominio feudale partito fra i capitanei o
valvassori maggiori, immediatamente investiti dalla corona; i
valvassori, cioè vassalli de’ capitanei; e i valvassini, che ritraevano
dai predetti. Valvassori e valvassini, assicurati d’esistenza
indipendente, più non furono stromenti agli arbitrj de’ vescovi, i
quali non poterono, come in Germania, riuscire principi ecclesiastici.
Ma altrove i nobili vassalli e i semplici liberi, formato il Comune,
aveano costituito rappresentanti e giudici proprj, che equipollevano
alla curia vescovile, e indipendentemente da questa assumevano aspetto
di civile ordinanza. Altrove ancora la gente raccoltasi sopra terre
di un feudatario, crescendo di ricchezze per l’industria, e a quello
rendendosi necessaria, lo costringeva a concessioni, che non davano la
civile indipendenza, ma favorivano il prosperamento e l’importanza del
Comune.
Scomposta ogni centrale potestà per lasciar solo associazioni
limitatissime e poteri meramente locali, più facilmente poterono
costituirsi da sè le città, nelle quali gli uomini trovavano maggior
numero d’interessi comuni. Queste allora ebbero giurisdizione propria,
e l’affidarono agli scabini, del che ricrebbe il terzo stato; e nobili
e liberi venendo abbracciati nel Comune medesimo, cioè sotto comune
giustizia, mozzavasi la prerogativa feudale, atteso che, chi bisognava
di sicurezza, non andavala a chiedere sotto la rôcca d’un barone, ma
tra le mura d’una città.
Benchè il feudalismo togliesse importanza alle città, le nostre non
la perdettero mai, ed erano abitate da ricchi e nobili col nome di
arimanni[17], i quali anzi costituivano un’università o corporazione,
e avevano possessi e ragioni comuni. Nel 1014 Enrico II agli arimanni
della città di Mantova e d’altri luoghi confermava i possedimenti con
tutte le loro eredità paterne o materne, e i beni comunali e il teloneo
e ripatico a Garda e Lazise e Riva, e che niun magistrato li turbasse.
I cittadini di Mantova, cioè gli arimanni abitanti in essa città,
ricorsero a Enrico III contro le eccedenti esazioni e gl’importuni
aggravj (_superstitiosas exactiones et importunas violentias_); ed esso
decretò che queste cessassero e s’abolissero radicalmente, e nessuna
autorità grande o piccola si mescolasse dei costoro beni comuni, de’
benefizj precarj o livelli, de’ servi, delle ancelle, o d’altro qual
fosse loro possesso mobile o immobile. Tanto confermava Enrico IV il
1091, volendo avessero «la buona e giusta consuetudine che ottiene
qualunque città del nostro impero». Donde parrebbe che gli arimanni
avessero una tal quale signoria di Mantova[18].
Il Gennari, negli _Annali della città di Padova_, sotto il 1077 adduce
un placito ivi tenuto avanti a due messi regj, al conte della città
Ogerio avvocato, e a varj giudici e buoni uomini. Ai quali Giovanni
abate di Santa Giustina dichiarò come i cittadini dentro e fuori
della città gli avevano intentato lite (_cives vel intra civitatem
vel extra nobis intentionem mittunt_) circa al possesso della val del
Mercato e del prato col Zairo, dell’acqua del fiume Rodolone, e degli
altri possessi del monastero. Fu dato torto ai cittadini, ed obbligati
all’intera cessione; la quale fecero col prendere una lunga verga, e
trasmetterla al vescovo, che la consegnò all’abate.
Anche nel peggior tempo del dominio militare questi arimanni formavano
tra loro delle _gilde_, le quali non m’hanno aria di fraternite
religiose, bensì di quelle associazioni, di cui maggiore si sente
il bisogno quanto più lentato è il legame sociale. In effetto esse
fecero paura ai forti; e Carlo Magno decretava che «nessuno presuma
far giuramento per gildonia; se vogliono disporre delle limosine per
incendj o naufragi, il facciano in altro modo che giurando». E più
rigorosamente Lotario I: — Non vogliamo che alcuno per giuramento nè
per obbligazione faccia gildonia; e se l’oserà, chi primo ne diede
consiglio venga dal conte mandato a confine in Corsica, e gli altri
paghino multa»[19].
Ripetiamo che qualche rappresentanza il popolo aveva sempre goduta
in faccia alla Chiesa; e a tacere le lettere di Gregorio Magno già
indicate (t. V, p. 133), il Diurno Romano offre la formola, con cui il
clero e il popolo invocano dal papa e dal metropolita che confermi il
vescovo da essi eletto: all’elezione di Guido vescovo di Piacenza il
904, sono sottoscritti preti, diaconi, suddiaconi, acoliti, e infine
ventisei _e populo_[20]: Giovanni vescovo di Modena nel 998 faceva
al monastero di San Pietro una donazione con notizia e consenso dei
canonici, de’ militi e del popolo: l’anno stesso in Ravenna si tenne
un placito, _assistentibus in judicio pollentibus et bonæ opinionis
et laudabilis famæ viris de civitate Ravennæ_[21]; e nel 1004 Turbino
giudice di Cagliari, _col consenso de’ suoi parenti e di tutto il
suo popolo_, donava alcuni dazj ai Pisani amici suoi, affinchè _quel
popolo_ gli fosse amico[22].
Ecco qui pure una rappresentanza e un esercizio di diritti comuni, che
avviava all’emancipazione. Viepiù vi condusse l’essersi nella città pel
- Parts
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