Storia degli Italiani, vol. 05 (di 15) - 31

turbolenze; delle quali infastidito, Urbano II la infeudò ai Pisani
(1091) quando maggior bisogno aveva dell'amicizia e del denaro di essi,
e i vescovi dell'isola dichiarò suffraganei a quello di Pisa, che fin
allora non ne aveva.
Di tutto ciò crebbe la gelosia de' Genovesi, i quali alfine assalsero
Porto Pisano con ottanta galee 1126, quattro grosse navi cariche
di macchine, e ventiduemila uomini da sbarco, fra cui cinquemila
armati di corazza e caschetti di ferro. Tanto poteva una sola città!
I mari furono insanguinati, devastate le coste, finchè Innocenzo II
li riconciliò (1133); e per equipararne i diritti, eresse Genova in
arcivescovado sottraendola al metropolita di Milano, e vi sottopose
i vescovi delle due Riviere e tre della Corsica, mentre al pisano
suffragavano quei della Sardegna. Da quel punto Genova si professò
papale, perchè Pisa stava alla divisa degl'imperatori.


CAPITOLO LXXX.
Crociate. — La Cavalleria.

Le imprese de' Pisani formano quasi il preludio della più segnalata del
medio evo, voglio dire le crociate. Antichissimo è l'uso di visitare le
tombe de' martiri e i santuarj, principalmente San Jacopo di Galizia,
Gerusalemme, ed in Italia il monte Gargano e le soglie degli Apostoli.
I devoti che d'ogni paese ed in ogni tempo venivano a queste, ci
portavano non soltanto denaro, ma ragguagli di contrade inaccesse; e
a vicenda qui attingevano idee d'una civiltà, ben superiore a quella
delle loro patrie.
I pellegrinaggi si volgeano principalmente a luoghi di reliquie famose;
e massime dopo il Mille si estese questa devozione, fondata non solo
su antica tradizione ecclesiastica, ma sulla natural venerazione per
gli avanzi di persone care ed onorate. Se ne abusò, e poichè aveansi
come un tesoro, si cercavano fin colla violenza o la frode. Ne vedemmo
smaniato Sicardo principe di Benevento, che colla guerra obbligò Napoli
a cedergli le ossa di san Gennaro, Amalfi quelle di santa Trifomene,
Lìpari quelle di san Bartolomeo. Queste ultime eccitarono il desiderio
di Ottone III, e i Beneventani non osando disdirgli la domanda, gliele
scambiarono con quelle di san Paolino (pag. 368).
Vuolsi che fino dal 653 i monaci di Fleuriac rubassero da Montecassino
i corpi di san Benedetto e santa Scolastica. Adalberto marchese di
Toscana, osteggiando Narni, ne portò via quelli di san Cassio e santa
Fausta, che depose in San Frediano di Lucca. Famoso involatore di
reliquie Teodoro vescovo di Metz, militando per tre anni in Italia
con Ottone Magno suo cugino, cercò d'averne _quocumque modo potuit_, e
Sigeberto ne fa lunga enumerazione. Trovandosi a Roma mentre Giovanni
VIII benediceva un convulsionario colla catena di san Pietro, esso la
ghermì, giurando non la rilascierebbe, se non gli si tagliassero le
mani: e a fatica fu ottenuto s'accontentasse d'averne un anello[414].
Era morto nel 1074 a Solaniga presso Vicenza san Teodebaldo romito
della stirpe dei conti di Sciampagna, e i Vicentini ne vollero per
forza il cadavere; ma i monaci della Vangadizza presso l'Adigetto
riuscirono a rapirlo, e di grandi miracoli egli fortunò la loro badia.
Rodolfo fratello dell'estinto venne per richiederlo a calde istanze; ma
fu assai se potè ottenerne qualche reliquia. Alcuni mercadanti di Bari,
trafficando a Mira nella Licia, macchinarono di rapire gli avanzi di
san Nicola, e fra scaltrezze e forza gli ebbero, e in mezzo a miracoli
li portarono a Bari, d'allora frequentatissima da devoti. Pure alcun
tempo dopo i Veneziani rubavano da Mira stessa un corpo, che asserivano
esser quello di san Nicola: pretensioni opposte, che recarono serie
emulazioni. Essi Veneziani con lunga astuzia tolsero da Alessandria
le reliquie di san Marco (pag. 523): giunte a Venezia, furono murate
entro un pilastro della cappella ducale, affidandone il secreto al solo
primicerio, al procuradore ed al vescovo: smarritasene poi la memoria,
fu per altri portenti rinnovata nel 1094, quando il corpo venne di
nuovo riposto con tal segretezza, che fino ai dì nostri non fu più
rinvenuto. Attorno al Mille crebbe la smania, l'amore delle reliquie;
molte per rivelazione se ne scopersero, e di preziose in santa Giustina
di Padova; onde parea, dice un contemporaneo, la risurrezione dei
morti.
Neppur frodi mancarono a quella pietà; e i Fiorentini venerarono un
braccio di santa Reparata, ottenuto da Teano, finchè s'avvidero ch'era
legno e gesso, finzione delle monache per serbarsi intera la loro
santa. Più spesso l'ignoranza traeva in errore, e dove si scoprisse
un sepolcro con una palma credeasi chiudesse un martire; le sigle _B.
M._ esprimenti _bonæ memoriæ_, s'interpretavano _beato martire_; il
ruolo d'una legione fu reputato un catalogo di santi; e i dottissimi
e devotissimi Papebrochio e Mabillon fecero espungere dal numero dei
santi una Argiride martire a Ravenna, un Catervio e una Saturnina a
Tolentino, venerati sopra falsa interpretazione d'epigrafi.
In tempi che da una parte predicavasi una morale pura, rigorosa, senza
condiscendenze; dall'altra le inclinazioni, non corrette da riguardi,
da abitudine, da educazione, e fomentate da sciagurati esempj,
portavano ad atti feroci, sentivasi il peccato anche nel commetterlo,
e nasceva presto il bisogno d'espiarlo avanti alla giustizia divina.
Di qui le penitenze pubbliche e rigorosissime. Un penitenziale di
Pisa ci descrive quella che infliggeasi agli omicidi volontarj.
Erano condannati a prigionia, e prima doveano da padrini ricevere la
penitenza di tutti gli altri peccati; poi con essi padrini venir alla
chiesa vescovile, davanti all'arciprete o al canonico penitenziario.
Questo domandava al reo se si fosse redento degli altri trascorsi, e se
per l'omicidio volesse entrare in carcere; e se affermava, venivagli
imposto che tutta la quaresima, eccetto la domenica, digiunasse in
pane e acqua, facesse cento genuflessioni, e recitasse cento _Pater_
ogni giorno, cento ogni notte; a nessuno parlare fin all'ora terza nè
dopo compieta; non si lavare o asciugare le mani; giacere vestito e
sulla paglia, del carcere non uscendo che per le necessità naturali;
il sacerdote gli darebbe a mangiare una volta al dì, e d'un cibo solo,
nè pesci o anguille; del pane datogli deve sempre far tre elemosine,
ma ciascun pane sarà tale che gli avanzi bastino a sostentarlo;
dal penitenziere o dal padrino è condotto al disposto luogo della
prigionia; ivi depone le vesti solite ed ogni pannolino, per mettersi
una tonaca aspra e zoccoli. Seguono le preghiere che si devono recitare
su lui, e quali esortazioni fargli[415].
Quelli che per delitti rifuggivano alle chiese, spesso dopo flagellati
condannavansi a pellegrinare. In espiazione del fratricidio, uno si
strinse al braccio destro la spada micidiale con cerchi di ferro,
sicchè la s'incarnò; quando arrivato al sepolcro di san Bononio
abate di Lucedio nel Vercellese, di subito que' cerchi si spezzarono.
Altrettanto accadde ad altri sulla tomba di sant'Appiano di Pavia in
Comacchio e di san Teodebaldo suddetto nel Vicentino[416].
Presso al Mille un conte Ugone dell'Auvergne colla moglie Isengarda
pellegrinò alla soglia degli Apostoli per iscontare le gravissime sue
colpe: ma quando volle entrare in San Pietro nol potè, spasimando
di dolori e rimorsi. Costretto a confessare questi patimenti, ha
l'assoluzione da papa Silvestro, e l'obbligo di edificare un monastero.
Reduce, alloggiò a Susa presso un amico, al quale raccontò i mali e
la penitenza; ed esso l'esortò a dedicare il monastero all'arcangelo
Michele, mostrandogli la chiesa, ivi a dodici miglia, ove tanti
miracoli questo operava. Ed ecco la notte l'arcangelo stesso appare
in sogno, e lo conforta a tal fatto; e così ebbe origine il famoso
monastero di San Michele alla Chiusa, ricco di molta storia, e pietoso
ai tanti che da quella valle scendeano di Francia in Italia[417].
E in pellegrinaggi furono spesso cambiate le pubbliche penitenze:
il che non piaceva a Carlo Magno, perchè incentivo a gabbar gente;
e invece d'andar randagi coi ferri e ignudi, pareagli espierebbero
meglio i peccati stando fermi in un luogo a lavorare, servire, far le
penitenze canoniche[418]. Non valse l'avviso, anzi i pellegrinaggi
crebbero, e si dirigevano massimamente ai luoghi della Palestina,
dov'eransi compiti i grandi misteri dell'aspettanza e della redenzione.
Ivi ogni gleba portava l'orma d'un patriarca o d'un apostolo; i
racconti della prima fanciullezza come gli studj dell'età matura
erano pieni dei nomi di que' luoghi; i cantici di Salomone, i treni di
Geremia, le maledizioni d'Isaia, le istruzioni del vangelo li rendean
noti e cari a ciascuno come una seconda patria. Pertanto v'affluiva
gente a visitarli fin dai primi tempi del cristianesimo, e sempre più
quanto più si convertivano popoli germanici, amanti delle corse lontane
e avventurose e infervorati di zelo recente.
Nell'850 un diacono di Spoleto, involontariamente micidiale del
fratello, andò a Roma a riceverne penitenza, e cerchiate le braccia
e il collo di ferro, fu mandato ai luoghi santi finchè impetrasse
perdono. Dauferio, nobile beneventano, per avere ucciso Grimoaldo
principe di Benevento, passò a Gerusalemme tenendo in bocca un
sasso abbastanza grosso, cui traeva solo per mangiare[419]. Con quel
pellegrinaggio vedemmo puniti i concubinarj di Milano, ed Erlembaldo
andarvi ad attingere il coraggio di combatterli: a Cencio che l'aveva
tratto prigione, Gregorio VII impose di visitare Terrasanta. Ad
esortazione di Sergio IV vuolsi che molti Veneziani andassero a
Gerusalemme verso il 1009, tra i quali Gherardo Sagredo che colà morì
e fu sepolto. Ne ereditò il nome e la pietà il figlio, il quale fatto
monaco e priore di San Giorgio Maggiore, volle visitare il santo
sepolcro: ma una tempesta lo gettò a non so qual riva, dove un monaco
lo persuase andasse piuttosto ad apostolare l'Ungheria. In fatto vi
fruttò grandemente in propagar la fede, e vi ottenne un vescovado, poi
il martirio; onde ancora in Ungheria e a Venezia è venerato col nome di
san Gherardo[420].
Nel Mille, due reduci da Terrasanta, sorpresi da un miracolo, si
fermarono in val del Tevere, e fatto un oratorio, vi deposero reliquie,
dalla cui devozione originò la città di Sansepolcro. Il monastero di
San Vito nel Lodigiano fu fabbricato il 1030 da un Ilderado di Comazzo,
nobilissimo, vivente a legge ripuaria, il quale racconta: — Avendo
commesso grave misfatto, pensai scontarlo pellegrinando oltremare. Ma
il pontefice cui mi confessai, trovando leggera l'ammenda, m'impose di
continuare tre volte la visita al santo sepolcro e a cento santuarj,
scalzo i piedi, senza cavallo nè bastone, nè uso di moglie, nè fare
verun agio alla carne, e mai non passando il giorno ove la notte. Non
reggendo io a tanto, gli caddi a' piedi, supplicandolo ad alleviarmi
questa penitenza: ed egli impietosito mi ordinò di fondar questo
monastero, e offrirgli la decima di tutti i miei possessi»[421].
Quei possessi eran nullameno di quattromila quattrocensessantaquattro
pertiche, oltre molti diritti lucrosi: e quel monastero contribuiva
ogn'anno un denaro d'oro al santo sepolcro.
Ogn'anno poi da tutta Europa, ma principalmente dall'Italia e da Roma
partivano carovane di devoti, che colla schiavina in dosso, il bordone
alla mano, un cappello di larghe tese, uno zaino sospeso alle reni,
dopo confessi e comunicati, e benedetti colle preci che ancor sono nel
Rituale, andavano oltremare, donde portavano palme e conchiglie, che
reduci deponeano con solennità alla patria chiesa. Volle partire con
una siffatta comitiva Raimondo piacentino dopo perduto ne' traffici
ogni aver suo: ma sua madre non sofferse di staccarsene; e udita
insieme la messa solenne del pellegrinaggio, e ricevuto il bordone e la
bisaccia, si posero in cammino. Visitati i luoghi santi, tornavano per
nave quando Raimondo ammalò agli estremi. I marinaj voleano gettarlo
all'acqua perchè la sua morte non recasse maluria al vascello; ma la
madre li distolse. E guarì, e toccarono terra, ma allora la madre
infermò e morì; e Raimondo tornò soletto a Piacenza, ove depose il
sacro ramo della palma; e fu sempre nominato il Palmiero.
Coloro che da tutta Europa passavano in Terrasanta, soleano
attraversare l'Italia, con guadagno delle nostre città marittime,
le quali, oltre il naulo, vantaggiavano alle fiere che le carovane
de' Musulmani teneano a Gerusalemme, una delle città sacre anche
nella rivelazione di Maometto, e nominatamente sul calvario il giorno
dell'Esaltazione della croce; e nei porti di Siria trovavano occasioni
di utili baratti. La pietà faceasi un dovere di soccorrere ai devoti;
per loro fondavansi ospizj; Bernardo da Mentone ne fabbricò due sul
grande e sul piccolo Sanbernardo; un altro erane sul Cenisio; Venezia
già nel secolo x avea per essi un ospedale alla Giudecca, poi nel
seguente a Sant'Elena, ai Santi Pietro e Paolo di Castello, a San
Clemente.
Non di rado era occorso ai pellegrini di doversi difendere colle armi;
e quando il furibondo califfo d'Egitto Hakem Bamrillah perseguitò i
Cristiani di Siria, papa Silvestro II esortò i nostri a proteggerli
(1001), e in fatto Genovesi e Pisani corsero quelle spiaggie[422]. La
morte di Hakem sospese le minaccie; i nostri stipularono di pagare un
tributo al nuovo califfo (1021) Daher Ledinillah per vivere sicuri in
Palestina; e gli Amalfitani ottennero da lui di fabbricare, presso alla
chiesa di San Giovanni, uno spedale pei viaggiatori d'Occidente, con
ricca dotazione che ogn'anno mandavano d'Europa. Di qui l'origine degli
Spedalieri di San Giovanni, durati poi fin alla nostra età col nome di
cavalieri di Malta.
Ci fu veduto come i Musulmani avessero occupato la costa settentrionale
d'Africa, e di là invaso la Sicilia e l'Italia meridionale, correndo
continuamente il Mediterraneo a danno delle navi e del litorale; e come
contro di loro operassero Giovanni XIV e i Pisani; e finalmente battuti
dai Normanni, non solo rinunziassero a dominare l'Italia, ma anche in
Sicilia fossero ridotti a condizione servile.
In altre parti però le minaccie de' Musulmani rinfocarono non solo
contro Terrasanta ma contro tutta Europa, quando una nuova gente
settentrionale rianimò la foga dei seguaci del Profeta, voglio dire i
Turchi Selgiucidi, che avendo invasa la Siria (1078), vi trucidarono i
Cristiani e i Musulmani Alidi, rei del pari al loro cospetto di credere
che un Dio s'incarnasse. Fu sentito allora il bisogno di prevenire il
pericolo coll'assalire i nemici; e Gregorio VII invitò i Cristiani ad
assumere le armi, e passar a combattere per Cristo, proponendo condurli
egli stesso, appena domi i suoi nemici[423].
Spetta dunque a lui la prima idea delle crociate; ed è notevole che
non nomina tampoco il santo sepolcro, titolo d'emozione allora, come
adesso pretesto: bensì ne motiva l'estendere il regno di Cristo,
respingere l'Islam, restituire all'Impero le provincie tolte dai
Selgiucidi, riunirlo alla Chiesa latina siccome prometteva l'imperatore
Michele Parapinace, spingersi fino in Armenia regno di Cristiani, e
ricacciare i Turchi nel deserto Tartaro. Vittore III continuò quelle
esortazioni nel suo breve pontificato, e tenuto coi vescovi e cardinali
un concilio, da tutti i paesi d'Italia adunò un esercito cristiano,
al quale diede il vessillo di san Pietro e indulgenza plenaria[424].
All'impresa pigliarono principal parte Genovesi e Pisani, che invasero
le coste d'Africa (1088), e delle spoglie levatene abbellirono le
patrie chiese.
Non era dunque nuovo il grido della guerra santa in Italia, allorchè
un Pietro, eremita d'Amiens (1093), andato pellegrino a Gerusalemme,
e tocco dalla miseria a cui gl'Infedeli vi riducevano la popolazione
cristiana e i devoti avveniticci, corse l'Italia e l'Europa, in nome di
Dio invitando i popoli a redimere la santa terra dall'obbrobrio della
servitù straniera. In tempo che predominava il sentimento religioso,
efficacissima sonò quella parola; tutta cristianità si scosse gridando
_Dio lo vuole_, e ne cominciarono le spedizioni note sotto il nome
di crociate. Raccolse quel grido popolare papa Urbano II, e convocò
un sinodo a Piacenza (1095), al quale intervennero ducento vescovi
d'ogni paese, da quattromila cherici e più di tremila laici, talchè
le adunanze bisognò tenere all'aperta. Ivi si fecero molti decreti per
restaurare la scarmigliata disciplina ecclesiastica e per garantire la
tregua di Dio; e furono uditi nunzj dell'imperatore Alessio Comneno che
esponeano le desolazioni della Palestina, esortando a dargli soccorso
contro gli Infedeli, che spingeano le correrie fin sotto ai baluardi di
Costantinopoli, e minacciavano tutta cristianità. Papa Urbano esortò
all'impresa, e da molti ne ricevette giuramento: poi nel concilio di
Clermont promise (cosa allora insolita) indulgenza di tutte le meritate
penitenze a chi assumesse la croce e le armi. — Chi non prende la sua
croce e mi segue, non è degno di me» ripeteasi da tutti i pulpiti. — Le
cavallette non hanno re, e vanno insieme per bande. — Maledetto chi in
viaggio porta il sacco o il bastone! Provvederà Iddio, il quale veste i
gigli de' campi. — Dio lo vuole, Dio lo vuole!»
Come poc'anzi aveano tutti creduto alla fine del mondo, così allora
tutti credettero al riscatto; ognuno lasciava ciò che più avea diletto,
il castello, la sposa, i figliuoli; chi jeri rideva, oggi flagellavasi;
i ladroni sbucavano dalle tane; parricidi, adulteri, sacrileghi
vestivansi di cilizio, e moveano per fare sconto di loro colpe; v'era
chi ferrava i bovi, e sulle benne caricava tutta la famiglia: turbe
incomposte d'uomini, fanciulli, donne, senza guida, senza viveri,
senz'armi s'avviavano a Gerusalemme, non sapendo ove ella fosse nè come
vi giungerebbero, ma fidando nel Dio che aveva pasciuto Israele nel
deserto. Con questo entusiasmo che avrebbe creduto colpa il ragionare,
la turba, sui passi di Piero Eremita, precipitavasi per la via meno
acconcia, cioè per l'Ungheria e la Bulgaria; e per difetto di cibi, o
per assalto de' nemici e per vendetta delle popolazioni su cui arrivava
devastando, perì a centinaja di migliaja. I baroni di Francia e Lorena
mossero con ordine migliore per la Germania: un altro stuolo, con Ugo
fratello del re di Francia, Roberto di Fiandra, Roberto di Normandia,
Eustachio di Boulogne, passarono per Italia. A Lucca trovato il papa,
vollero esserne benedetti; indi rivoltisi su Roma, ne cacciarono
l'antipapa Guilberto, che dovette rinchiudersi in Castel Sant'Angelo.
Giunti in Puglia quando più non era acconcia la stagione al tragitto,
vi attesero la primavera.
Colà Amalfi erasi ribellata a Ruggero duca di Puglia, il quale per
domarla si raccomandò a suo zio Ruggero conte di Sicilia; e questi,
radunato gran numero di Saracini dell'isola[425] e unitili alle sue
truppe e a grossa squadra di navi, assediò la città. Ma ecco in quello
spargersi l'arrivo de' Crociati; subito il grido di Dio lo vuole
risuona fra gli accampati; l'odio rinfervorato contro gl'infedeli fa
parere iniquo l'adoperarlo contro i Cristiani: Boemondo, principe di
Taranto e fratello del duca Ruggero, piglia tosto la croce, nella
speranza di fare alcun acquisto in quell'Asia dove già egli avea
combattuto i Greci; e moltissimi si accingono al passaggio. Così
spegnesi l'ira fratricida, e Amalfi conserva la sua libertà.
I Crociati passarono in Epiro (1096); ma i Greci (che del resto
mostraronsi sempre tepidi, spesso sleali in una guerra da essi
invocata e di loro principale vantaggio) si adombrarono dell'arrivo di
questi Normanni che testè aveano provati nemici, e in fatto non tardò
occasione di venire all'armi. Boemondo li battè, occupò molto paese, e
comparve nella reggia di Costantinopoli con tal fierezza, che Alessio
Comneno non trovò migliore spediente che chiamarlo a sè, lasciargli
scegliere quante ricchezze volesse, e rimandarlo col solo patto che gli
facesse omaggio.
Non è nostro ufficio il divisare quell'impresa, la prima che
s'assumesse a nome dell'intera cristianità, e la più magnifica negli
effetti, giacchè impedì che l'Europa divenisse musulmana. Diremo
solo come i nostri non vi si precipitassero con tanto ardore quanto
gli stranieri, attesochè da un lato (al par degli Spagnuoli) non
aveano bisogno di cercare fuor di casa la guerra contro gl'infedeli,
dall'altro teneano traffici vivi in Siria: pure Folco, poeta di
quegli avvenimenti, canta che dalle rive dell'Adige, dell'Eridano,
del Tevere, della Magra, del Vulturno, del Crustamino partì gran
popolo, Liguri, Italiani (Lombardi?), Toscani, Sabini, Ombri, Lucani,
Calabresi, Sabelli, Aurunci, Volsci, Etruschi, Apuli[426]. V'è chi
scrive l'impresa essere stata consigliata e ispirata dalla contessa
Matilde[427]; ma nessun contemporaneo ne fa motto, benchè all'indole
di lei si convenga il credere vi persuadesse e ajutasse gl'italiani, e
massime i Toscani.
Fra gli ostacoli dei Greci infidi e dei Turchi nemici, l'esercito
procedette fin che prese Nicea ed Antiochia, _occhio della Siria, perla
dell'Oriente_ (1097-98).
Repugna all'indole feudale il supporre la spedizione diretta da un
solo capitano, come disacconciamente favolò il Tasso: ciascun barone,
ciascun uomo passava cogli uomini, colle provvigioni, colle armi, coi
consigli che credeva, nulla avendo di comune se non l'intento, ispirati
dall'unica idea allora universale, la religione, e col calore che le
passioni sogliono acquistare in una moltitudine radunata al medesimo
scopo. Fra' baroni andati da Italia si segnalò Tancredi, figlio del
marchese Odone Buono e di Emina sorella di Roberto Guiscardo, tipo
del valor generoso e devoto; mai non invocato indarno dal debole,
fedele a tutta prova, d'un valore che crescea cogli ostacoli e che si
nascondeva, cercando meriti pel cielo non acquisti in terra. Fiero ed
astuto invece Boemondo suo cugino aspirava più ai regni mondani che al
celeste: onde appena fu presa Antiochia, vi si fermò, facendosene un
regno.
Dopo lunghi travagli (1099 — 15 giug.) anche Gerusalemme fu espugnata,
e si trattò di porne re Tancredi: ma egli preferì consacrare la sua
spada a difenderla dai rinascenti Musulmani; e lo scettro fu dato a
Goffredo di Bouillon. Al modo che i Barbari aveano fatto dell'Italia,
la Palestina fu allora partita fra i cavalieri latini, ciascuno
regnandone un brano, difendendolo, estendendolo, governandolo, sotto la
nominale primazia del re di Gerusalemme.
Anche i conti di Biandrate e di Savoja campeggiarono colà. De' minori
combattenti non si parla, giacchè, se le imprese del medio evo son la
più parte anonime, queste ancor più, dove tutti chiedeano ricompense
eterne, anzichè glorie mondane. Bensì le tradizioni posteriori
accennano a fatti e persone non bene accertati. Padova nomina Aicardo
di Montemerlo e Isnardo di Sant'Andrea del Musone, il primo de' quali,
nobilissimo giovane e soldato arditissimo, restò morto all'assedio
di Nicea. Galvano Fiamma vuole che da Milano un mirabile esercito
passasse alla crociata cantando Ultreja: ma il suo genio parabolano,
l'esser vissuto due secoli dopo, e il silenzio dei cronisti coevi o
vicini, come Landolfo Juniore, gli scemano fede; tanto più che l'abate
Uspergese afferma che sin al 1100 i Lombardi aveano sempre mancato
al voto di concorrere alla crociata. Pure i cronisti milanesi sanno
che il loro arcivescovo Anselmo da Bovisio partì a menare soccorsi
ai Crociati, e dinanzi all'immensa turba portava un braccio di
sant'Ambrogio in atto di benedirla[428]: era banderajo Giovanni da
Ro, e capitano Ottone Visconti, il quale, ucciso un gigante infedele,
gli tolse il cimiero, figurante un drago che ingoja un fanciullo, e
ne formò lo stemma de' Visconti. La spedizione riuscì alla peggio,
e l'arcivescovo stesso vi perì, o combattendo, o a Costantinopoli in
conseguenza d'una ferita: e i Crociati che rimpatriarono, istituirono
il luogo pio delle Marie e la chiesa di San Sepolcro, alla quale poi
annualmente dirigeasi e dirigesi[429] dalla metropolitana lombarda
una processione in ricordanza di quel fatto. A Imola i Sassatelli e
i Carradori presero la croce, e Vincenzo Cesare de' Carradori vi menò
cento compatrioti a proprie spese. A Siena in Bicherna è un quadro che
ricorda l'invio di 2000 crociati.
Tarda adulazione inventò un Rinaldo, giovane eroe, dal quale poi
derivasse la casa d'Este; ma nella storia non n'è il minimo vestigio.
I Fiorentini vorrebbero che Pazzino de' Pazzi montasse il primo sulle
mura di Gerusalemme, onde da Goffredo ebbe in dono alcune scaglie del
santo sepolcro, colle quali in patria accese il fuoco benedetto. Ne
derivò a quella famiglia il privilegio di rinnovare il fuoco al sabbato
santo, e correvano a recar la facellina per tutte le vie sopra un
carro, che poi s'ingrandì e ornò; ed oggi ancora va in volta mandando
la colombina fin al coro della cattedrale, poi dando il volo a molti
fuochi artifiziali sul canto dei Pazzi.
Alla prima crociata andarono i Pisani (vuol la tradizione), e Cucco
Ricucchi portava un crocifisso, il quale nell'assalto di Gerusalemme
voltossi verso i combattenti gridando: «Seguite, o Cristiani, che avete
vinto». Quel crocifisso tennero sempre i Pisani in gran venerazione nel
loro duomo, caricandolo di doni e voti: e da qui derivò l'uso a Pisa
e al restante contado, che nelle processioni si porti il crocifisso
rivolto verso i seguaci. Il Trinci fa andare a quella guerra Guido
da Buti, Guido da Ripafratta, Ezelino da Caprona, Alfeo Salvucci da
Biéntina. Ma mentre alcuni fan principale onore ai Pisani della presa
di Gerusalemme, Guglielmo di Tiro li dice arrivati solo alla fine del
1099, condotti dall'arcivescovo Daimberto, che salì patriarca della
santa città, e del quale abbiamo la lettera con cui, a nome anche di
Goffredo, del conte Raimondo e di tutto l'esercito, dava ragguaglio di
quella presa a Pasquale II, che ne scrisse ringraziamenti ai consoli di
Pisa.
Accompagnavali la flotta genovese di ventotto galee e sei vascelli,
sulla quale montava pure lo storico Caffaro, e vuolsi comandata da
Guglielmo Embriaco, il quale avrebbe insegnato l'uso delle torri
mobili. Le due genti di conserva assalirono Cesarea; e ricevuta prima
la comunione, ed esortati da Daimberto e dal console genovese Malio,
la presero d'assalto. Dalle spoglie i Genovesi ottennero il famoso
catino, che credeasi uno smisurato smeraldo e donato dalla regina Saba
a Salomone, e che ancora si venera come reliquia se non come tesoro. Da
Tancredi ottennero un quartiere d'Antiochia dov'egli era principe, e di
Laodicea con mercato franco e il libero uso dei porti[430].
Venezia, per non guastare i suoi traffici coi principi di Levante,
freddamente avea cooperato alla crociata: come però vide Pisani e
Genovesi tornarne carichi di prede, volle partirle, e impedire che
quelli preponderassero; e scontrata la flotta genovese, la battè e
svaligiò, dando agl'infedeli l'abbominevole soddisfazione di veder
Cristiani uccisi da Cristiani.
Durava ancora l'uso che i dogi chiedessero la bolla d'oro in segno
d'investitura dagli imperatori di Costantinopoli. Domenico Michiel,
elevato a quel posto (1117), mandò impetrarla da Giovanni Comneno;
e questo, pretessendo qualche insulto fatto dai Veneziani, non solo
ricusò, ma fe staggire quanti legni ancoravano ne' suoi porti (1123),
finchè la Repubblica desse soddisfazione. La soddisfazione fu che esso
doge menò a Rodi la flotta, dianzi vincitrice dei Turchi, saccheggiò
quell'isola ed altre, sinchè composero pace ad istanza di Baldovino,
secondo re di Gerusalemme. Allora ducento navi veneziane, su cui
Arrigo Contarini vescovo d'Olivolo, veleggiarono verso Levante, e
colata a fondo la flotta egizia di sessanta galee oltre i legni minori,
approdarono in Siria, patteggiando coi Crociati di soccorrerli, purchè
d'ogni città conquistata ottenessero una via franca, una chiesa,
e bagno e forno e tribunale proprio, e immunità da gravezze, oltre
un terzo della città contro cui campeggiassero, e trecento bisanti
sulle rendite di essa. Sopra Tiro si concentrò lo sforzo; e il doge
Vitale Michiel II, come vide che l'esercito di terra esitava nella
paura d'essere abbandonato dalla flotta, depose il sartiame sulla
spiaggia, distribuì centomila ducati fra i combattenti, e mostrò voler
salire la breccia co' suoi marinaj, armati non d'altro che di remi.