Storia degli Italiani, vol. 05 (di 15) - 30

soggetti (δουλοι) che all'imperatore romano», e negarono soccorrerlo
nell'impresa di Dalmazia, e ridussero il patriarca di Grado a
trasferire sua sede in Pola. Mosso dunque in armi contro di essi,
Pepino prese le isole di Grado, Eraclea, Malamocco, Equilo; talchè il
doge, per salvare Olivòlo, Caprola e Torcello, promise annuo tributo.
I Veneziani, imputandolo di viltà o tradimento, cacciarono Obelerio
(809), che con tutta la sua famiglia passò in Oriente.
La discordia agevolò a Pepino la conquista di Chioggia e Palestrina;
e gettò un ponte di barche sin a Malamocco, dove allora sedeva
il Governo. Angelo Participazio propose si trasportasse tutta la
popolazione a Rialto; Vittore d'Eraclea ammiraglio lasciò che le navi
nemiche s'inviluppassero fra i bassifondi delle lagune, e quando la
marea bassa le impedì d'ogni movimento, i Veneziani avventarono dardi
e fuoco, sicchè a gran pena, quando il mare ricrebbe, scompigliate e
sdruscite ricoveraronsi nel porto di Ravenna[404].
Con fortuna non migliore la flotta di Pepino campeggiò in Dalmazia,
talchè questa provincia rimase ai Greci. Le ostilità avvicendaronsi
coi negoziati, sinchè il patrizio Arsafio ad Aquisgrana (810) ricevette
di man di Carlo Magno il trattato di pace che cedeva ai Greci le città
di Venezia, Trau, Zara e Spalatro: acquisto di puro nome per l'impero
greco, mentre a quelle risparmiava il tedio delle pretensioni dei
Franchi.
Questo trionfo compensò Venezia dei guasti sofferti; e Angelo
Participazio, messo a capo del popolo che avea salvo, mutò la sede
del governo a Rialto (811), alla quale si congiunsero presto le isole
circostanti di Olivòlo, Luprio, Birri, Dorsoduro, le Gémine. Tosto
si diede opera ad imbonire il terreno e sodarlo, un murazzo schermì
l'entrata della laguna, in cui Chioggia, Malamocco, Palestrina,
Eraclea, risorte dalle ruine, fecero corona al palazzo del doge, con
una sessantina d'isolette congiunte per via di ponti, qual simbolo
dell'unità morale da cui aspettavano la forza. A quelle isole insieme
fu dato il nome dell'antica patria, chiamandole Venezia; unità datale
dall'assalto di Pepino: chè sempre dopo attacchi falliti ingrandisce
l'indipendenza d'un paese.
Un cittadino di Torcello e uno di Malamocco, andati ad Alessandria con
dieci navi (tanto poteano due privati), riuscirono a sottrarre dalla
profanazione dei califfi e portare in patria le reliquie di san Marco,
nascondendole tra carne di majali, acciocchè i gabellieri musulmani
non le rovistassero. Quel santo divenne d'allora il patrono della
repubblica veneta.
Un Comune e un santo; ecco gli elementi di cui gl'italiani componevano
la loro libertà.
Più che agl'imperatori d'Occidente, aderiva Venezia a quelli di
Costantinopoli, che avevano per sè l'opinione d'un'antica primazia,
e che le offrivano agevolezze di commercio; e a questi non isdegnava
prestare un omaggio apparente, spedire ambasciate e doni, ricevere
i titoli di _ipato_ cioè console o di _protospatario_ pel doge,
somministrar flotte, come fece principalmente allorchè di sessanta
navi accrebbe l'armata (837) venuta a salvare le coste d'Italia
dai Saracini. Per richiesta del greco imperatore guerreggiò anche i
Normanni di Calabria[405], e n'ottenne in compenso i diritti sovrani
sulla Dalmazia. Alessio Comneno assolse la Repubblica d'ogni gabella
ne' suoi porti, mentre gli Amalfitani che vi approdassero doveano
retribuire tre perperi a San Marco.
Gli Arabi, gente trafficante sin dal tempo di Giacobbe, le natìe
abitudini conservarono anche dopo che la conquista li portò fuori di
patria; e dalle coste del Mediterraneo negoziavano di legname, pece,
lana, canapa, pelliccie, schiavi, e si facevano intermediarj del
commercio colle lontane contrade delle spezierie. Con essi teneano
vivi negozj i Veneziani, i quali, dove altri accorreva per devozione,
andavano a piantare mercati; istituirono fiere nelle proprie città,
a Pavia, a Roma, altrove, spacciandovi merci d'Oriente, schiavi,
reliquie, tutto, purchè vi fosse da vantaggiare. Conoscevano il lusso
degli Arabi, e ne compravano le manifatture, ingegnandosi emularle; non
potendo speculare su terreni, compravano armenti che pascolassero nel
Friuli e nell'Istria; prendeano in appalto le gabelle d'altri paesi,
per disvantaggiarne i loro emuli; le saline del litorale o cavavano per
conto proprio, o ne acquistavano il prodotto, come pure il sal minerale
di Germania e Croazia; costrinsero un re d'Ungheria a chiudere le sue,
e guaj a chi usasse sal forestiere.
Le città della costa illirica appartenevano all'impero greco, che,
come soleva ne' paesi lontani, le lasciava armarsi e amministrarsi
da sè. La loro situazione divenne pericolosa al rinforzarsi de'
Croati e delle altre genti slave piantatesi nella Dalmazia, tra le
quali principalmente i Narentini si erano buttati al pirata. Dal
paese ove poi Trieste ingrandì, tribolavano essi il commercio de'
Veneziani, avventurandosi fin tra le loro isole; e tentarono un'impresa
audacissima (935). Il giorno della candelara soleano i Veneziani fare
le nozze di cospicue fanciulle nella maggior chiesa, posta sull'isola
di Castello, con quel corredo d'allegria e di ricchezze che si suole
per siffatte solennità. I pirati si posero in agguato, e come i
festanti furono raccolti, gli assalsero, e rapirono le spose e i doni.
Scoppiò il dolore universale: ma il doge Pier Candiano, il cui padre
era morto osteggiandoli, incoraggiò a far piuttosto vendetta, e armate
alla presta quante navi potè, raggiunse i rapitori nelle lagune di
Caorle, e ricuperò le donne e il bottino.
Il Candiano vendicò l'insulto col portare guerra a morte ai corsari
dell'Istria; anche i Comuni illirici si collegarono per esterminarli,
chiedendo capo la repubblica veneta, alla quale convennero di prestare
omaggio, e di marciare sotto le sue bandiere. La flotta più poderosa
che Venezia avesse ancora armata (997) andò a ricevere l'omaggio della
storica Pola, di Parenzo, Trieste, Capo d'Istria, Pirano e delle altre
città costiere; poi di Zara in Dalmazia e delle terre fin a Ragusi, e
delle isole. Lèsina e Cùrzola preferirono allearsi coi Narentini, onde
contro di esse tolsero l'armi i Veneziani, e sterminarono il ricovero
de' Narentini.
Il fatto delle spose rapite si solennizzò con perpetuo anniversario,
dove la Repubblica dava la dote ad alquante fanciulle, che recavano
le donora entro arselle. I cassellieri, cioè falegnami, che aveano
somministrato il maggior numero di barche, chiesero in guiderdone
che il doge venisse ogni anno alla loro parrochia il giorno della
lor festa. — Ma e se piovesse? — Vi daremo cappelli. — E se avessi
sete? — Vi daremo a bere. — Sia e sarà sempre». Perciò, anche dopo
dismessa la cerimonia degli sposalizj, il piovano andava incontro al
doge, presentandogli due cappelli di paglia, due aranci e due fiaschi
di malvasia. Tradizioni poetiche, che Venezia custodiva gelosamente,
e che fin all'età precedente alla nostra congiungevano il passato al
presente.
E tutta poetica è la storia di Venezia, e de' privilegi che concedeva
alle varie isole. Le mogli dei nobili di Murano, isola prediletta
dalla Repubblica per le manifatture del vetro, poteano sedere pari
alle patrizie della dominante. A quei della torre di Bebbe, presso
Chioggia fra Adige e Brenta, che mostrarono valore in una guerra
per la navigazione di quest'ultimo fiume, fu perdonato il tributo
di tre galline, che in tre termini dovea ciascuna famiglia offrire
ogn'anno al doge. Gli isolani di Poveglia erano iscritti nel ruolo
de' cittadini originarj; esenti da servizio militare, se pur il
doge non ne assumesse il comando; esenti da dazj, tasse d'arti e
mestieri, imposte, neppur se fossero per lo scavo dei canali interni
della città. Giunti a sessant'anni, aveano il privilegio di comprare
a un prezzo determinato il pesce che veniva dall'Istria, e venderlo
al pubblico mercato. Erano in ispeciale protezione del doge e della
magistratura delle _Rason Vecchie_, che trattava le loro quistioni. Il
venerdì santo offrivano al doge ottanta passere del peso d'una libbra:
all'Ascensione regalavano alla dogaressa una borsa con cinque ducati in
rame, perchè la si comprasse un par di pianelle. Quando il doge uscisse
alle funzioni nella barca dorata, lo accompagnava una peota, in cui
stavano i principali dell'isola di Poveglia che sonavano le trombe:
nel giorno dell'Ascensione precedeano il bucintoro che andava a sposar
il mare, faceano ala sulla destra del ponte per cui il doge saliva
al vascello, e poteano prendergli la mano e baciargliela. La domenica
poi seguente a quella festa, i loro capi, guidati dal cappellano che
cernivasi dalle famiglie originarie, entravano nell'appartamento del
doge, professandogli l'antica devozione, e chiedendogli continuasse
a proteggerli e ne mantenesse i privilegi, e gli baciavano la mano
e la guancia: poi erano da esso banchettati con servizio d'argento,
e poteano portarsene i rilievi della mensa, oltre il regalo di molte
confetture e di un garofano.
La feudalità non potea metter radice dove non s'aveva territorio:
l'alto clero sceglievasi sempre tra i nobili, onde questi non
discordavano dagli ecclesiastici. San Marco fu sinonimo dello Stato,
lo che dava a questo un aspetto religioso; il servizio pubblico non
importava soggezione ad altr'uomo, ma un obbligo verso quel santo;
e più d'un doge depose il cornetto per finire in un monastero una
vita logorata a servire san Marco. Pier Candiano III erasi associato
il figlio, il quale congiurò contro di lui; ma il popolo stette pel
padre, e cacciò il figliuolo, che, protetto da re Berengario II, mosse
contro la patria (959), di che il padre morì di crepacuore. Il popolo
dimentico elesse quel figlio, che si mostrò crudele nell'interno,
prode e vigoroso di fuori, destreggiando cogl'imperatori d'Oriente e
d'Occidente; proibì ai Veneziani di trafficare di schiavi coi Saracini,
nè di portar lettere a Costantinopoli se non passando per Venezia.
Repudiata la veneta Giovanna, obbligandola a farsi monaca, e chierico
il figlio, sposò Gualdrada sorella del famoso Ugo marchese di Toscana,
che con corteggio di regina gli portò ricchissima dote di beni sodi e
di servi. Per difender questi assoldò bande straniere; e inorgoglito
del costoro appoggio, cominciò a trattare d'alto in basso la nobiltà
veneta, e attaccar liti coi vicini; prese un castello de' Ferraresi, fe
devastare Oderzo, e via di questo passo. I Veneziani, perduta pazienza,
lo assalsero, e perchè si difendeva co' suoi armigeri, diedero ascolto
a Pietro Orseolo, ed appiccarono fuoco al palazzo ducale. La fiamma
si dilatò alle vicine chiese di san Marco, san Teodoro, santa Maria
Zobenico e a più di trecento case; e il doge fu trucidato con un suo
fanciullo.
Gli sottentrò l'Orseolo (976), il tristo consigliatore, eppure uomo di
somma pietà, che tutto s'adoprò a restaurare i danni, rifece il palazzo
e la basilica Marciana, zelò la giustizia. Sentendo però d'aver nemici,
e rimorso della parte presa alla fine del predecessore, raddoppiava
atti di penitenza; da Guarino, abate guascone di famosa santità, si
lasciò persuadere a ritirarsi nella vita monastica; e segretamente
passato in Francia, visse da frate, e dopo morto (978) ebbe onori di
santo. Anche Vitale Candiano suo successore, dopo brevissimo comando,
si chiuse in una badia.
Sotto Tribuno Memmo succedutogli entrò la peste delle fazioni, fin
allora sconosciuta in Venezia, venendo a contesa i Caloprini coi
Morosini; e sorti in armi (979), questi furono cacciati. Ottone II
stava ancora in rotta coi Veneziani per l'uccisione del doge: ora Memmo
gli mandò ambasciadori, coi quali fu concordata la pace, determinando
anzi i limiti[406]; ma i Caloprini, per avere il dogato e per nuocere
ai Morosini, offersero a Ottone quel destro di sminuire l'impero greco,
e a tutte le terre da sè dipendenti proibì di portar vettovaglie a
Venezia, nè ai Veneziani di metter piede nel suo impero. Memmo punì
i mali istigatori col diroccarne le case; ma quel blocco metteva in
gravissima congiuntura la Repubblica, se opportunamente non fosse
morto Ottone. I suoi successori diedero a Venezia il privilegio di
negoziar soli di sale e di pesce marinato. I Caloprini, per mediazione
dell'imperatrice Adelaide, ottennero perdono e giurata sicurezza;
ma poco poi, i tre figliuoli di Stefano Caloprino in gondola furono
trucidati dai Morosini. Il Memmo finì monaco.
Pietro Orseolo II (991) conta fra' più illustri dogi per avere ampliato
la potenza dello Stato; spedì ambascerie ai Saracini, dominanti sulle
coste d'Asia e d'Africa; ottenne nuovi mercati da Ottone III e dal
vescovo di Treviso; compì il palazzo ducale e la basilica; trovò
occasione di sottomettere le città marittime della Dalmazia sottrattesi
ai Croati, e Parenzo, Pola, Ausero, Veglia, Arbe, Trau, Spalatro,
Curzola, Lesina, Ragusi ed altre, che conservando proprj statuti,
riceveano il podestà da Venezia; e il titolo di _duca di Dalmazia per
misericordia di Dio_ fu aggiunto a quello del doge.
Questo godeva terre, decime, pesche, caccie, vestiva riccamente, gran
treno di servi, in chiesa si cantavano le sue lodi; egli intronizzava i
prelati, benediva il popolo, dava l'avocazia delle chiese del dominio,
giudicava liti o spediva messi a giudicarle: ma da un lato lo frenava
l'aristocrazia, dall'altro il popolo, ancora mobile e rivoltoso. Già
dodici dogi erano stati eletti figli di doge ancor vivo; laonde si
temeva non si riducesse ereditaria anche quella dignità, come succedeva
delle feudali sul continente. E però Ottone Orseolo (1009) succeduto a
Pietro fu cacciato dal popolo, e si provvide che nessun doge potesse
associarsi verun congiunto, nè designare il successore. L'autorità
del doge fu ristretta col volere che non deliberasse se non con due
tribuni, poi col togliergli la nomina de' giudici, istituendo il
magistrato _del Proprio_. Il doge era però ancora eletto da tutto il
popolo, donde frequenti sedizioni fra gli aspiranti.
Venezia nulla risentì della lotta delle Investiture, attesochè il doge
non le conferiva; esso nominava il primicerio e i cappellani di San
Marco; popolo e clero continuavano ad eleggere i vescovi; il patriarca,
più tardi creato, ricevendo il soldo dallo Stato, restava alieno dalle
pretensioni feudali dei prelati del continente. I terribili incendj
di cui patì, diedero modo a Venezia di attestare le sue ricchezze con
fabbriche solide e belle, e che compite quando non aveva nè miniere
nè bestiame nè vino od altra produzione, attestano il prosperare de'
suoi traffici. In fatto, cresciute le navi per tutela e commercio,
Venezia si trovò donna del Mediterraneo, e le costituzioni e le leggi
dirizzava ad alta prosperità mercantile, allettando i forestieri con
privilegi, sicurezza, buona moneta, pronta giustizia. Il doge poteva
essere mercante, e in alcuni trattati si trova stipulata esenzione di
gabelle per le merci di lui; ma poi fu stanziato che, salendo al trono,
liquidasse i suoi conti.
Premeva alle città marittime l'amicizia di Costantinopoli, centro delle
arti, del lusso e dell'eleganza, ed emporio alle merci provenienti
dall'India per la via di Alessandria: ma come gli Arabi ebbero
occupato l'Egitto, la necessità di più lunghi tragitti le rincarì,
sicchè i nostri, invece di comprarle a Costantinopoli, preferirono
andarle a raccorre in Aleppo, a Tripoli e in altri porti di Siria,
dove erano recate dall'India sul golfo Arabico, poi per l'Eufrate e
il Tigri fino a Bagdad, traverso al deserto di Palmira riuscendo al
Mediterraneo. Quando poi il soldano d'Egitto riaperse il golfo Arabico,
via degli antichi, i nostri posero stanza ad Alessandria, rassegnandosi
agli oltraggi e alle gravi esazioni de' Musulmani; e quel che ivi
raccattavano, distribuivano poi in tutti i porti del Mediterraneo e
della Spagna, e fin ne' Paesi Bassi e nell'Inghilterra.
La politica di Venezia si limitava dunque al Levante; e durava
l'uso che i dogi chiedessero la bolla d'oro in segno d'investitura
dagl'imperatori di Costantinopoli. Coi quali ebbero talvolta guerra,
poi ottennero buon accordo e vantaggi di commercio, e la cessione delle
città di Dalmazia e d'Istria, col che ebbero legalizzata la dominazione
che già vi esercitavano.
Poco tardò nuova guerra (1171) coll'imperatore Manuele Comneno, a
cui fu pretesto il non averlo soccorso contro i Siciliani, ragione
i privilegi da esso largiti ai Pisani. Dicono in cento giorni si
allestissero cento galee, ciascuna di cenquaranta remiganti, oltre i
soldati: ma la sconfitta e la peste distrusse il bello armamento, tanto
che sole diciassette tornarono, dopo ottenuta dura pace, e condussero
in patria la peste[407]. Questi mali esacerbarono il popolo (1172), che
uccise il doge Vitale Michiel II, decimonono sopra i quaranta, di cui
il dominio finisse violentemente: ma fu anche l'ultimo.
Venezia non era la sola città prosperante per commercio marittimo. Gli
Amalfitani vantavano discendere da cittadini di Roma, che Costantino
Magno mandava a Bisanzio, e che naufragati stettero alcun tempo a
Ragusi, poi passarono a Melfi, il cui nome applicarono alla nuova
patria che si edificarono sul pendio e in riva al golfo di Salerno
là dove un tempo era fiorita Pesto. Il ducato formatosi abbracciava
le terre del contorno e le isole dei Galli e di Capri, obbedendo ai
Greci, la cui lontananza lasciava quasi intera indipendenza. Sicardo
principe di Benevento sottomise Amalfi, giovato dalle fazioni che
la sovvolgeano, e rubatone il denaro e il corpo di santa Trifomene,
costrinse gli abitanti a migrare a Salerno, e con nozze congiungersi a'
suoi sudditi, de' cui diritti li fe partecipi[408]. Ma appena Sicardo
cadde (840), gli Amalfitani corsero al porto, e le spoglie della
saccheggiata città posero sui legni, coi quali tornarono alla patria
restaurando le munizioni; e omai indipendenti anche dal catapan greco,
si governarono a repubblica con un prefetto o duca, estesero le loro
merci in tutto l'Oriente, e le loro leggi marittime divennero canone
nel Mediterraneo e nel Jonio, come un tempo quelle di Rodi.
Amalfi non era però così gelosa dell'indipendenza che non cercasse
capi stranieri; e nel 1038 si sottopose a Guaimaro principe di Salerno,
sempre facendo riserva delle proprie libertà.
Ivi Siciliani, Arabi, Indi, Africani venivano a vendere e
barattare[409]; il popolo mostrava sua baldanza con frequenti rivolte,
ornava la patria colle spoglie delle terre remote, e a Gerusalemme avea
fondato due monasteri e uno spedale per comodo de' pellegrini, e per
farvi poi mercato alle grandi solennità. I suoi tarì erano la moneta
più diffusa in Levante prima che i Veneti vi portassero i ducati.
Nelle galee usava scafi piccoli, corti remi; sicchè volendo far impresa
contro una terra, si tirava in secco la galea, e le vele servivano ad
accamparsi, i banchi a dare la scalata, i rematori a costruire e movere
i tormenti da guerra.
La superba Genova, appiè di sterili montagne, flagellata da un
mare poco pescoso, e costretta a cercar vita dalla navigazione,
già all'uscire del secolo IX garantiva da sè la propria sicurezza,
con un governo semplice, atto a tutelare le franchigie del popolo e
affezionarlo alla patria ed agli affari. N'aveano privilegio i nobili,
eletti però popolarmente, come era popolare il general parlamento
che deliberava de' comuni interessi, e riceveva i conti resi da'
magistrati uscenti. Il commercio in grande maneggiavasi dai nobili,
forse cadetti delle famiglie che teneano feudi sulla riviera. E poichè
guerra continua doveano menare coi Musulmani, e da questi difendere
od acquistare gli scali di Levante, univano le professioni dell'armi
e della mercatura. Ottenendo considerazione chi potea mettere sulle
banche grossi capitali, cessava la distinzione di razze nobili ed
ignobili, dividendosi piuttosto i cittadini in compagnie, tribù,
maestranze. In queste non si entrava che dato il giuramento; e chi non
v'appartenesse invano aspirava a cariche pubbliche, la cui nomina era
ad esse serbata. La nobiltà non vi si fondava dunque sui terreni, ma su
banchi, sulla navigazione, sul credito, sulle continuate magistrature.
I vivi traffici in Levante faceano Genova emula di Venezia; la postura
sul mare stesso la recò prontamente in lotta con Pisa. Questa, già
nominata per traffici nell'età romana, anche sotto i Longobardi
conservò qualche indipendenza, giacchè Gregorio Magno querelavasi delle
piraterie da' Pisani esercitate contro i sudditi dell'impero, ed essi
e Sovana di Maremma esortava a spalleggiare Maurizio imperatore. Fu
poi sottoposta forse al duca di Lucca, del quale ai tempi di Carlo
Magno era incombenza il difendere la spiaggia dalle correrie de'
Greci. Ottone II, quando voleva osteggiare i Greci di Calabria e di
Sicilia, mandò a chiedere ajuti da' Pisani: e vuolsi che gl'inviati
da lui fossero sette baroni dell'Impero, i quali, morto Ottone, si
fermarono colà, e diedero origine alle sette famiglie de' Visconti,
Godimari, Orlandi, Verchionesi, Gualandi, Lanfranchi, Sismondi; alcuno
aggiunge i Caetani e i Ripafratta; e formarono una nobiltà, distinta
dall'indigena. I marchesi di Toscana vi risedeano alternamente con
Lucca, donde un'invidia, che nel 1003 scoppiò una guerra, che è la
prima che si ricordi di città a città in Italia, e dove all'Acqualunga
Pisa rimaneva superiore.
Tra essa e il mare estendesi un piano sì poco declive, che vi si
formano acquatrini e canneti: l'Arno poi, che allora la lambiva ed
ora la fende, non è fiume bastevole a servirle di porto, come fanno il
Tamigi per Londra, la Schelda per Anversa, il Tago per Lisbona. Dovette
dunque crearsene uno, che fu detto Porto Pisano, a dodici miglia dalla
città e vicino a Livorno, in vista dello scoglio detto la Meloria,
famoso poi per triste battaglie.
Pisa teneva relazione coi Greci della Calabria, e banco ne'
principali porti di quella, e nel suo riceveva mercadanti di paesi
lontanissimi[410]. Colle ricchezze acquistate trafficando riducea
fruttifero il prosciugato delta dell'Arno, e le rive del Tirreno: i
gentiluomini delle colline dal val di Niévole all'Ombrone chiesero
la cittadinanza; v'accorrevano quelli che sottraevansi ai marchesi di
Toscana; gran signori tenevano palazzi nel suo recinto e castelli ne'
contorni; e la nobiltà esercitava l'ingegno governando la patria o i
paesi conquistati. Generalmente favoriva agl'imperatori; parzialità che
diviene, si può dire, il carattere della sua storia successiva.
Dalla costa, ove possedeva da Lérici a Piombino, salvo alquanti
castelli di signori, vagheggiava la Corsica e la Sardegna. Quest'isola,
anticamente considerata uno de' granaj di Roma, fu poi a vicenda
invasa da Vandali, Goti, Greci; infine Musetto (Mugheid al-Ameri)
re moro vi annidò una banda di corsari; mentre i montanari fra le
balze conservavano le credenze e i costumi antichi, che non dismisero
fino ad oggi. Da quella vicinanza grande sconcio veniva a Pisa, che
perciò eccitata dal papa[411], accordatasi con Genova e ajutata
dai natii, obbligò Musetto a ritirarsi in Africa. Ogni anno egli
rinnovava tentativi di ricuperar l'isola, sicchè i Pisani stabilirono
attaccare le coste de' Barbareschi, e presa Bona, minacciata Cartagine,
costrinsero Musetto a chieder pace. L'indomito vecchiardo, avuto ajuti
dalla Spagna, ritentò l'impresa, e scannate le guarnigioni pisane, ebbe
tutta Sardegna, da Cagliari in fuori. Il popolo pisano si scoraggiava
a fronte del rinascente nemico, ma i nobili s'accinsero all'ultimo
sforzo, e ajutati da Genova, dai Malaspina marchesi di Lunigiana,
dal conte Centilio di Mutica in Spagna, allestirono una flotta, che
capitanata dal plebeo Gualduccio, prese terra, sconfisse i Mori (1050),
fe prigione Musetto, che a Pisa morì in carcere. E l'isola fu tutta de'
Cristiani, i quali se la spartirono: ai Genovesi Alghero, al conte di
Mutica Sassari, ai Malaspina le montagne, il distretto di Cagliari ai
Gherardeschi, di Ogliastra ai Sismondi, di Arboréa ai Sardi, d'Oriserto
ai Cajetani. Poco andò che que' signori cessarono ogni dipendenza dalla
metropoli, e cinque principalmente prevalsero col titolo di giudici o
re di Cagliari, Sassari, Logodoro, Arborea, Ogliastra.
Questi fatti non sono abbastanza accertati, e tanto meno le loro
particolarità; vivono però in tradizioni antiche, fra le quali è pure
che, mentre i Pisani veleggiavano sopra la Sardegna, Musetto tentò
sorprendere la loro città, e già aveva occupato la sinistra dell'Arno,
quando una tal Cinzica de' Sismondi chiamò all'armi il popolo e
rincacciò i nemici. Il fatto diede nome di Cinzica al quartiere
d'oltrarno, e origine alla festa di Ponte, battaglia che si dava sul
ponte dell'Arno, finta nell'intento, ma che spesso riusciva troppo da
vero.
I Pisani assalsero poi di nuovo gli Arabi in Sicilia (1063), ed
entrati nel porto di Palermo, e trovatovi sei navi di carico, cinque
abbruciarono, l'altra con ricchissime spoglie condussero in patria,
dove se ne valsero per fabbricare il meraviglioso loro duomo[412].
Anche nel 1087 i Pisani strinsero in Mehedia il re Timino, il quale
morì nel 1106 lasciando cento figli e sessanta figliuole.
Quando, alla pasqua del 1113, la devota plebe accorreva a Pisa per
ricevere la benedizione, l'arcivescovo Pietro fe recare una croce,
e con parole di gran forza dipinse le sevizie usate dai Barbareschi
corseggiando, e massime da Nazaradech re di Majorca, il quale dicevasi
tenesse ventimila Cristiani a penare ne' suoi bagni; sorgessero,
vendicassero alla libertà e alla religione quei loro fratelli. Primi
risposero all'esortazione i vecchi, memori degli altri trionfi
riportati sopra i Saracini; i giovani li secondarono, e dodici
cittadini scelti a diriger l'impresa, coi soccorsi di Roma e di Lucca
e col legato pontifizio salparono. Fortuna di mare li trasse fuor di
corso, e credendosi approdati alle Baleari, cominciarono il guasto:
ma chiaritisi ch'erano invece in Catalogna, s'acquetarono e chiesero
compagni all'impresa Raimondo conte di Barcellona, Guglielmo di
Montpellier, Emerico di Narbona, coi quali s'impadronirono d'Ivica e di
Majorca, menandone via gran preda, e re e regina che si battezzarono.
Le cronache di Firenze, esalanti municipale gelosia, raccontano che i
Pisani, temendo non fosse la loro città molestata dai Lucchesi durante
quella spedizione, chiesero ai Fiorentini la prendessero in custodia
(1114). Vincitori, domandarono a questi che premio desiderassero fra
le spoglie recate da Majorca; se le porte di tallo o due colonne
di porfido. I Fiorentini preferirono queste, e i Pisani gliele
mandarono rivestite di scarlatto; ma si volle che prima le guastassero
coll'affocarle[413]. Sono quelle che ancora vediamo alla porta del bel
San Giovanni.
Dello spartimento della Sardegna i Genovesi rimasero scontenti, e
tardarono a ritirarsi finchè i Pisani non li cacciarono coll'armi.
Di qui erano cominciate invidie e rancori, che poi scoppiarono
pel possesso della Corsica: isola importantissima pel legname di
costruzione, la pece, il catrame, e perchè assicurava il commercio del
mare occidentale. Aveva subìto la dominazione de' Vandali, poi dei
Goti, il cui re Teodorico l'avea giovata di provvedimenti, creando
anche espresso per lei un conte, acciocchè non fosse costretta a
portare fin sul continente le querele. I Longobardi, sprovvisti di
flotte, non aveano pensato a sottometterla; sicchè senza contrasto
la tennero gl'imperatori greci, e ne fecero pessimo governo, gli
sconci del dominio lontano crescendo colle persecuzioni religiose. Fu
poi invasa dagli Arabi, della cui dominazione è ancor testimonio il
Moro cogli occhi bendati ch'essa porta nello stemma; e la tradizione
vorrebbe che un Colonna romano la ritogliesse agli Infedeli, e
l'acquistasse in regno. Fatto è ch'essa fu, come ogn'altro paese
d'allora, sminuzzata fra varj signori, sui quali i Pisani ambivano
aver l'alto dominio per rinforzo al loro partito. La ambivano pure
i Genovesi per un compenso o un contrappeso alla Sardegna: ma que'
signorotti, mal soffrendo di dipendere da città mercatanti, preferirono
il papa, il quale, secondo il diritto del medio evo, ritenevasi sovrano
di tutte le isole, e che in effetto ne fu salutato signore, e vi
deputò dei marchesi (1077). Ma l'isola era sovvertita da incessanti