Storia degli Italiani, vol. 05 (di 15) - 19

Lodovico II non lasciava figliuoli; e quanto si fossero ingagliarditi
i grandi ecclesiastici e secolari apparve nelle due fazioni che allora
si formarono attorno ai due suoi zii. Una, desiderando un protettore
robusto, chiedeva re Lodovico il Tedesco, al quale nella partigione del
retaggio di Carlo Magno erano tocche la Baviera, la Boemia, la Moravia,
la Pannonia, la Carintia, la Sassonia ed altri paesi d'oltre Reno;
l'altro Carlo il Calvo re della Francia occidentale, perchè, debole
essendo, non avrebbe attenuato i diritti e gli arbitrj signorili. Carlo
passò di subito le Alpi: lo seguì per contrastarlo Carlo il Grosso
figlio di Lodovico, e trovandosi prevenuto, guastò il Bergamasco e
il Bresciano; poi atterrito, o deluso dallo zio che fingeva assalire
la Baviera, diede indietro; e Carlo il Calvo venuto a Roma (875),
_coll'arti di Giugurta_ vi comprò voti e la corona dell'Impero, poi in
Pavia quella de' Longobardi. Come in Francia egli non sapeva impedire
le usurpazioni de' nobili, anzi gli aveva assicurati non sarebbero
rimossi dalle pubbliche funzioni nè essi nè i loro figli, ed obbligato
i liberi a sottoporsi ciascuno a un patrono; altrettanto fece in
Italia.
Già signori e vescovi aveano tratto a sè l'arbitrio di eleggere il re;
e per primo Ansperto arcivescovo di Milano, poi i vescovi d'Arezzo,
Pavia, Cremona, Tortona, Vercelli, Ivrea, Lodi, Asti, Modena, Alba,
Aosta, Acqui, Genova, Como, Verona, Piacenza, uniti con Bosone conte
di Provenza, archimandrita del sacro palazzo e messo imperiale,
e con varj altri conti, come ottimati del regno d'Italia elessero
l'imperatore Carlo il Calvo per patrono, signore, difensore e re,
promettendo obbedirlo in che che ordinasse a vantaggio della Chiesa
e a salute di loro tutti; quanto sapranno e potranno col consiglio e
cogli atti, senza frode nè maltalento, gli saran fedeli e obbedienti;
nè direttamente o per lettera o per messi turberanno la quiete e la
solidità del regno. Di rimpatto Carlo giurava, coll'ajuto di Dio e
con ogni sua possa, onorare e salvare ciascuno, giusta l'ordine e
la persona, mantener la legge e la giustizia che a ciascuno compete,
e usare ragionevole misericordia a chi ne abbia bisogno: che se per
fragilità deviasse, appena lo riconosca procurerà emendare[264].
Quest'atto prezioso ci chiarisce la natura di quel regno, elettivo
e aristocratico: e fra gli elettori prevalgono i vescovi, come si
sente dal fondarsi sui precetti evangelici, anzichè sulle cautele
costituzionali, di cui furono assiepati i re dopo che si cessò di
riverirli come immagini di Dio.
Bosone suddetto ricevè la reggenza di questo regno col titolo di duca
di Pavia, conferitogli col cingergli la corona, che dopo quell'ora
fu adottata negli stemmi ducali. Poco poteva il re, e meno il suo
luogotenente; prevalendo i grandi e massime i vescovi, giacchè i
piccoli vassalli, non trovandosi protetti altrimenti, si mettevano
sotto al loro patronato, salvo le grandi città, le sole dove i liberi
conservassero qualche importanza perchè uniti.
Carlomanno, altro figlio di Lodovico il Tedesco (877), cala in
Italia, pretendendola come eredità paterna; ed essendo fuggito e
morto il Calvo, è salutato re d'Italia: mai però non ottenne la
corona imperiale; e non andò guari, che scontento delle turbolenze o
impauritone, uscì d'Italia (879) lasciandola campo alle ambizioni, e
poco stante morì.
Guido duca di Spoleto, di nazione Franco, e nato da una figlia di
Pepino re d'Italia, ingrandì di mezzo alle guerricciuole interminabili
de' signorotti della bassa Italia, e campeggiando i Saracini che mai
colà non lasciavano pace. Docibile duca di Gaeta, assalito dal principe
di Capua, invocò i Saracini, che vennero, e recarono gravissimi danni
agli amici non meno che ai nemici. Il papa indusse Docibile a torcere
le armi contro di loro, e molti Gaetani perirono in quella guerra; ma
poi si calò ad accordi (882), dando loro stanza presso il Garigliano,
di dove per quarant'anni manomisero i dintorni.
Anche Anastasio, l'ambizioso arcivescovo di Napoli, ora ai Saracini,
ora ai Greci ricorse per ajuti onde nuocere ai Salernitani e ai
Capuani; i quali di rimpatto si dirigeano a Guido di Spoleto.
Costui non facea divario da onesto a ingiusto, e mentre combatteva
gl'infedeli, rapiva continuamente alla Chiesa[265]; anzi, aspirando
alla corona d'Italia, empiva Roma di satelliti, e diceano s'intendesse
coi Saracini di Tàranto per disfare la dominazione pontifizia. Giovanni
VIII, papa di natura irresoluta, corre ad Arles per invocare il re
Lodovico il Balbo; ma questi ricusa s'e' non benedica le sue nozze
con Adelaide, sposata mentre la prima donna ancora viveva: anche
Carlo di Svevia lo respinge perchè gli avea proibito d'invadere la
Borgogna cisgiurana; onde il papa si propizia Bosone suddetto, cognato
di Carlo il Calvo, ajutandolo a formare il regno di Provenza, poi lo
mena seco in Lombardia lusingandolo della corona imperiale. Quivi il
vescovo di Pavia fece omaggio a Bosone come a re; ma appunto per questo
l'arcivescovo di Milano il ricusò: e il papa stesso abbandonollo,
sollecitando Lodovico il Sassone a venire per la corona imperiale. La
prese di fatto a Roma; ma morendo presto di dolore (882), la lasciava
al fratello Carlo il Grosso. Imperatore, re di Germania, di Baviera,
di Sassonia, di Lorena, d'Italia, costui riuniva tutto il retaggio di
Carlo Magno, ma nessuna delle qualità necessarie a sostenerlo[266].
A lui Giovanni VIII mandava querele perchè i baroni si rendessero
ogni giorno più dissoggetti, mentre la metropoli del cristianesimo
era minacciata dagli Infedeli e da figli ingrati, e — per Iddio
soccorreteci, chè le nazioni vicine non abbiano a dire, _Ov'è il
loro imperatore?_» Carlo trovavasi molestato nel proprio regno dalle
correrie de' Normanni e più dall'insubordinazione de' feudatarj, ormai
convertiti in altrettanti re: pure venne, e nella dieta di Pavia i
vescovi, gli abati, i conti e gli altri ottimati del regno lo elessero,
giurandogli omaggio e fedeltà, al solito modo e col solito ricambio.
Ma col titolo regio non acquistò l'autorità; e Guido di Spoleto
continuava le depredazioni, ad onta de' messi imperiali e dei fulmini
della Chiesa; anzi costrinse l'imperatore a rendere a lui ed a' suoi
complici i confiscati onori. Carlo, incapace di reggere la nave fra
tali procelle, s'affidò a Liutwardo vescovo di Vercelli, che eresse
arcicancelliere dell'Impero. Costui se ne valse a soprusare, e le
fanciulle di più ricco retaggio forzava a sposare parenti suoi; e rapì
da Santa Giulia di Brescia una nipote di Berengario duca del Friuli
per darla a un suo nipote. Non comportò l'oltraggio Berengario, e con
un grosso di truppe assalse Vercelli, e pose a sacco il vescovado;
poi andò a scusarsene all'imperatore. Il quale non tardò a disgustarsi
di Liutwardo, massime dacchè lo sospettò di tresche coll'imperatrice
Ricarda. Questa giurò non essere mai stata tocca da nessun uomo, neppur
dall'imperatore, esibendo sostenerlo col duello e colle sbarre roventi;
e così giustificata si ritirò in un convento. Liutwardo esulò, e
ricoveratosi presso re Arnolfo, intrigò a favore di questo[267]. Carlo
medesimo come incapace e mentecatto fu deposto d'imperatore, e morì
miserabile (887); e allora la corona di Carlo Magno andò per sempre a
pezzi, e i varj popoli scelsero re nazionali: Eude prese la Francia,
Arnolfo la Germania, Bosone la Provenza.
Come regno elettivo ch'era l'italico, i grandi di qui non si credettero
obbligati ad Arnolfo, ultimo ed illegittimo rampollo carolingio, e si
sentirono forti quanto bastasse per governare il paese senza tutela
di forestieri. Già aveano compreso che gl'imperatori, da patroni,
tendeano a farsi padroni: il vescovo di Brescia scriveva ad un prelato
tedesco i guai degli Italiani, _inquilini o piuttosto affittajuoli
della patria loro, e preda del più forte_; e l'oltramontano rispondeva
compassionando una terra, ch'era unica fonte della ricchezza a
paese arido e povero qual è la Germania[268]. Pertanto voleasi un re
nazionale; ma come accordarsi nella scelta in un'età tutta d'individui,
dove le fazioni signorili si contrastavano spesso senza conoscere il
perchè, mutando parte secondo le inclinazioni e la forza dei loro capi,
servi all'interesse istantaneo e immediato?
Fra i signori italiani quattro primeggiavano. Adalberto marchese di
Toscana, sposo a Berta figlia di Lotario re di Lorena, la quale prima
era stata di Teobaldo conte di Provenza, e n'avea avuti Ugo che poi
fu re d'Italia, e Bosone che fu marchese di Toscana. Adalberto era
cognominato il Ricco, ma non entrò per allora in lizza. Il principe
longobardo di Benevento si era svigorito nelle guerre, e trovavasi
sulle braccia le città di Calabria e i Saracini. Berengario duca
del Friuli, di gente salica, e nato da una figlia di Lodovico il
Pio, avea favorito a' Carolingi, ma con tale circospezione, che al
soccombere di quelli rimase in piedi e potente. Guido di Spoleto, per
la posizione sua appoggiavasi ai Saracini e al papa, potendo in quelli
trovar braccia, a questo ispirar timore come emulo, o gratitudine
come protettore. Stefano V l'adottò per figliuolo; e tanto erasi reso
potente, che la dieta adunata a Langres per dare un successore a Carlo
il Grosso, lui chiamò re di Francia. Abbandonò dunque le speranze del
regno d'Italia a Berengario, il quale lusingava la nazionalità col
farsi chiamare di sangue latino e principe italiano[269]; e in Pavia da
Anselmo arcivescovo di Milano (888) si fe cingere la corona[270].
Ma Guido giunto in Francia si trovò prevenuto, essendo eletto re
Eude conte di Parigi; onde col dispetto ripassò le Alpi, menando un
grosso di guerrieri francesi, già allora sprezzatori dei nostri[271];
e coll'alleanza dei Camerinesi e degli Spoletini assalì Berengario,
sussidiato da altri signori. Si combattè sanguinosamente nelle
vicinanze di Brescia; e Berengario vinto (889) dovette contentarsi del
suo ducato del Friuli, tenendo sede in Verona.
I vescovi del regno, che omai aveano tratto a sè il supremo diritto,
si congregarono a Pavia, e meditando «quanti mali avesse pei proprj
peccati sofferto Italia dopo Carlo Magno, tali che umana lingua non
può spiegarli», risolsero porre un fine alle orribili stragi, ai
sacrilegi, alle rapine, ai misfatti d'ogni genere che attiravano la
collera celeste; e per salvare le chiese loro e tutta cristianità
volgente in desolazione, si adunarono affine di imporre degna penitenza
ai malfattori confessi, e reprimerli in avvenire, al qual uopo
elessero Guido re, piissimo ed eccellentissimo. E fu riverito a patto
rispettasse le immunità e i dominj della Chiesa romana, coi privilegi
e le autorità concedutile dagli imperatori antichi e moderni, troppo
disdicendo che questa chiesa «capo delle altre, rifugio e sollievo
dei soffrenti, salute di tutti» venisse da chicchessia vessata;
piuttosto convenendo che il pontefice da tutti i principi e i fedeli
sia supremamente venerato. Rimangano inoltre libere da ogni vessazione
e diminuzione le chiese vescovili: i rettori di esse liberamente
esercitino la podestà sacerdotale nelle cose ecclesiastiche e nel
reprimere i trasgressori della legge divina: a vescovadi, abazie,
spedali o altri luoghi sacri non s'impongano nuove gravezze: ogni
sacerdote e ministro di Cristo abbia gli onori e la riverenza dovuta al
suo grado, e colle cose ecclesiastiche e le famiglie a lui spettanti
rimanga imperturbato sotto la podestà del proprio vescovo, salva la
ecclesiastica disciplina. A tutti gli uomini plebei e ai figli della
Chiesa si lasci usare liberamente delle proprie leggi, senza esiger da
loro più del dovuto, nè opprimerli: che se ciò avvenisse, il conte del
luogo abbia a ripararli legalmente, per quanto gli preme conservare
la sua dignità; ove manchi, e faccia violenze o vi consenta, sia
scomunicato dal vescovo. E poichè Guido liberamente promise osservare
tali capitoli, unanimamente, a guisa di agnelli rimasti senza pastore,
lo elessero a re e signore.
Qui dunque, siccome avviene col ripetersi delle elezioni, s'allargano
i patti, e ciò ch'è notevole si è la tutela del popolo e delle sue
giustizie, assunta dai vescovi non per distinzione di razze e di
grado, ma a favore di tutti, perchè tutti figli della Chiesa. Se i modi
divisati per effettuarla non erano i più prudenti, è già assai trovare
così proclamata l'egualità civile in nome della religiosa; è bello
trovar costituzioni di diritti reali, mille anni prima che la nostra
accidia ci facesse credere non poterne noi avere se non dall'imitare le
francesi.
Guido, profittando del favore di Stefano V, si fe cingere in Roma anche
la corona d'oro (891); ma il nuovo papa Formoso, preferendo un lontano
imperatore a questi vicini e litigiosi, favorì il tedesco Arnolfo,
che da Berengario era stato invitato a sostenere i proprj diritti
sovra un regno di cui esso gli faceva omaggio. Arnolfo, come unico
carolingio fra tanti nuovi dominatori, pretendeva che la Germania sua
fosse ancora il centro e l'anima degli Stati disgiunti; e comprendeva
che, se Berengario cadesse, e Guido preponderasse co' Franchi e coi
Longobardi, ogni ingerenza germanica di qua dall'Alpi sarebbe perduta.
Adunque per l'Adige calò in Italia, prese Verona e Brescia; Bergamo,
che generosamente si difese, mandò a osceno saccheggio, e Ambrosio,
governatore per Guido, che vi si era eroicamente sostenuto, fece
vilmente appiccare. Tosto Milano e Pavia cedono; i marchesi d'Italia
vengono a prestar omaggio e chiedere nuova investitura, invece della
quale Arnolfo li fe carcerare, sinchè a lui giurassero fedeltà. Allora
l'aborrimento del dominio straniero unì quelli che prima s'erano fra
loro combattuti, e lo costrinsero a dar volta.
Cessato appena il pericolo, la guerra civile rinfocò tra Berengario
e Guido; e morto questo, Lamberto suo figlio e collega, gridato re
(894), strinse novamente Berengario in Verona. Allora Arnolfo, invitato
da papa Formoso, torna; va dritto al cuor d'Italia per abbattere gli
Spoletini, che parea volessero rinnovare la preponderanza longobarda;
conferma a Berengario il regno d'Italia, sottraendogli però le
provincie transpadane, nelle quali pone un Gualfredo (896) col titolo
di duca di Verona, e un Maginfredo con quello di conte di Milano.
L'acconcio dispiace a Berengario, il quale s'affiata con Lamberto
di Spoleto e con Adalberto di Toscana per chiudere ad Arnolfo il
cammino di Roma. Arnolfo vi arriva per forza; benchè Geltrude vedova
dell'imperatore Guido, difendesse la Città Leonina, egli la prende, ha
Roma per capitolazione (febbr.), fa decollare molti a sè avversi; dal
pontefice ottiene la corona, dal popolo giuramento d'obbedienza, salvo
la fedeltà dovuta a papa Formoso. Ma le malattie che spesso vendicarono
gl'Italiani, colsero Arnolfo, sicchè s'affrettò a ritornare in Baviera,
molestato gravemente dagli Italiani insorti.
Ratoldo suo figlio, lasciato in Lombardia, non bastava a frenare
quel moto d'indipendenza; sicchè pel lago di Como egli pure se
n'andò in Germania; Verona non resistette a Berengario; i Milanesi
trucidarono Maginfredo, che dato interamente al Tedesco, non pensava
che a stringerli in soggezione; da Roma l'odio agli oltramontani si
manifestò in uno scandaloso processo, che il nuovo papa Stefano VI
fece al cadavere di Formoso, la cui vera colpa in faccia al popolo era
d'aver unto lo straniero; poi sedente Giovanni IX, un concilio confermò
imperatore Lamberto, pronunziando surrettizia e _barbara_ l'elezione
d'Arnolfo. I due competitori Lamberto e Berengario, accortisi che dal
ricorrere agli stranieri scapitavano entrambi (898), partirono il regno
fra sè; al secondo la Lombardia fra il Po e l'Adda, il resto a Lamberto
colla corona imperiale. Ma i fiumi non demarcavano le possessioni de'
grandi e degli ecclesiastici, e l'incrociarsi di esse su dominj diversi
moltiplicava i motivi di conflitto. In breve Lamberto venne in rotta
con Adalberto di Toscana, e lo rese prigioniero; ma poco stante egli
stesso fu assassinato nei boschi di Marengo, dicono da Ugo figlio di
Maginfredo già conte di Milano.
Anche ne' paesi transalpini i duchi o conti cincischiavano l'autorità
dei re; ma infine essi erano nazionali. Da noi invece erano forestieri;
e nessuno se ne trovò, il quale sapesse sbrancarsi dalla propria
nazione per farsi capo d'una nuova. In tal guisa l'indipendenza paesana
cadeva, mentre gli altri popoli la acquistavano; atteso che cotesti
signorotti, non v'avendo popolo sul quale farsi forti, ricorreano ai
potentati forestieri. Berengario, rimasto solo re, libera Adalberto; ma
eccogli addosso un nuovo flagello, gli Ungheri.
Dagli Urali e dal Caspio erano venuti costoro nella grande commozione
di Attila; avanzatisi poi nell'VIII secolo, e sottoposti i Valachi e
gli Slavi delle sconfinate pianure di qua dai Carpazj, cominciarono a
rendersi terribili in Europa quali scorridori e predoni. I Carolingi
nelle miserabili gare degli ultimi loro tempi gl'invocarono spesso,
e Arnolfo gl'invitò coi Croati ad osteggiare il potente impero de'
Moravi. Improvvido consiglio[272], perocchè abbattuto questo si
trovarono a contatto coll'impero Franco, contro del quale spinsero i
rapidi loro cavalli e una ferocia da selvaggi.
Ci sono essi descritti come gente oltre ogni dire deforme e barbara;
volto schiacciato; le madri morsicavano i figli in viso per abituarli
al dolore. Nello sgomento ispirato da essi, disputavasi se fossero quel
popolo di Gog e Magog, predetto dall'Apocalissi come precursore della
fine del mondo; e s'introdussero processioni e riti per isviare quel
nembo, e litanie dove pregavasi Dio perchè ci scampasse dal furore
degli Ungheri. Nè mancò la solita messe di prodigi; e molte volte le
ossa turbate de' santi riuscirono loro micidiali: la mano di un Unghero
restò affissa all'altare che tentava spogliare; ad un altro si spezzò
la spada vibrata a decollar un frate.
Non tocca a noi raccontare i guasti che recarono alla Germania e alla
Francia: ma l'Italia ben presto lusingò la loro cupidigia, bella e
ricca qual è anche dopo spogliata e vilipesa da stranieri e da suoi,
ed aperta a loro dal lato ove s'abbassano le alpi Friulane. Entrati
per queste in numero che parve immenso agli atterriti, non arrestati
dalle munitissime città di Aquileja[273] e Verona devastarono sino a
Pavia. Re Berengario che, allor allora domi i rivali, trovavasi solo
in dominio del bel paese, mandò il bando dell'armi per la Lombardia,
la Toscana, Camerino, Spoleto, e raccolto un esercito _tre volte più
numeroso_ di quel de' nemici mosse contro di loro, li sconfisse,
e talmente gli avviluppò fra l'Adda, il Brenta e gli altri fiumi
dell'alta Lombardia, che non trovando scampo, mandarono offrendo
di abbandonare il bottino e i prigionieri, purchè fossero lasciati
partire. Berengario, confidando sterminarli, negò: ond'essi da
disperati combatterono, vinsero, e dispersi i mal uniti Italiani, senza
ostacolo desolarono il paese.
Non combattevano in regolate schiere, ma da scorridori sui rapidissimi
cavalli, cui schiomavano acciocchè i nemici non avessero dove
ghermirli. Non sarebbe dunque stato possibile ad ordinato esercito il
raggiungerli; sicchè ciascuno era costretto provvedere alla propria
difesa. Dalla campagna al loro accostarsi fuggiva la gente sulle
alture fortificate, e mura alzaronsi allora attorno alle borgate e
ai conventi[274]. Così gli uomini, rialzate le teste dalla servitù
regolare dei Romani e dalla violenta dei Barbari, imparavano di nuovo
a maneggiar le armi, e valersene a tutela della casa, del podere, del
convento, delle città; il che tornò poi a vantaggio della libertà,
poichè i padri nostri compresero la potenza dell'unione, e trovandosi
in mano le armi, le usarono ad acquistarsi od assicurarsi franchigie.
Berengario gli affrontò più volte; ma dall'infelice riuscita
disgustati, o seguendo già la politica imputata loro di voler sempre
due padroni affinchè l'uno tenesse l'altro in rispetto[275], una
partita di signori nostri, e nominatamente Adalberto di Toscana,
offerse la corona d'Italia a Lodovico re di Provenza. Adalberto
da principio era sì buono, che quando non si trovasse altro, dava
ai poveri il proprio corno da caccia colla catena d'oro, che poi
riscattava a denaro: in appresso s'abbandonò all'ambizione e alla
crudeltà, e perpetuamente avversò Berengario. Lodovico venne, e fu
coronato re in un concilio a Pavia, poi imperatore a Roma (901) col
nome di Lodovico III. Avendo soggetta tutta l'Italia volle vedere anche
la Toscana, e a Lucca fu ricevuto da Adalberto con tanta magnificenza,
ch'ebbe ad esclamare: — Questo marchese avrebbe piuttosto a chiamarsi
re, in nulla essendomi inferiore che nel nome». Adalberto, e più
l'ambiziosa sua moglie Berta, videro in queste parole un'espressione
d'invidia, onde se ne alienarono, e svolsero da lui anche gli altri
principi. Lodovico, venuto a Verona, congedò l'esercito, distribuì
a' suoi molti possessi, e stavasene in improvvida sicurezza: sicchè
Berengario, che non gli si era opposto, lo colse, gli rinfacciò
d'avergli altra volta giurato non molestare l'Italia, e fattigli cavar
gli occhi, il rimandò in Provenza (903?). I suoi soldati restarono
dispersi, e al passo dell'Alpi ne fe molti capitar male il marchese
d'Ivrea genero di Berengario.
Quel che gli Ungheri all'alta Italia, il faceano alla bassa i Saracini,
devastando, uccidendo; e massime la banda postatasi al Garigliano
interrompeva le comunicazioni, e dilapidava i beni della Chiesa.
Quando poi Ibraim re di Cairoan dall'Africa sbarcò in Sicilia per
tornar al dovere gli emiri rivoltosi, si lagnò che a questi avessero
dato soccorso le città di Calabria; e benchè esse venissero a dargli
scuse, intimò si preparassero alla servitù, ed annunziassero il suo
arrivo nella _città del vecchio Pietro_ (908). Ma a Cosenza trovò forte
ostacolo, «e una notte per giudizio di Dio morì»[276].
A questi nemici del paese e della fede opponevansi i papi; e Giovanni
X, desiderando i signori italiani si concordassero a riscattare la
patria, pensò rassodare l'unità cristiana col porvi a capo Berengario,
e il coronò imperatore nel Natale 915, a patto osteggiasse i Musulmani.
La coronazione fu solennissima; profusi doni alle chiese, al clero, al
popolo. Il papa aveva invitato la Corte di Costantinopoli a mandar una
flotta che intercettasse il mare ai Saracini; trasse in lega Landolfo
principe di Benevento, Gregorio duca di Napoli, Giovanni duca di Gaeta:
il papa stesso menò l'impresa con Berengario e col marchese Alberico di
Camerino; e bloccata la colonia de' Barbari, gli affamarono di maniera
che messo fuoco alle case e alle robe, sbucarono impetuosi a salva chi
può, e la più parte furono uccisi o presi e fatti schiavi.
Non per questo le fazioni quietarono. Il marchese di Toscana e Berta
sua moglie furono in Mantova imprigionati da Berengario, ma senza
poter farsene cedere i castelli. Lamberto arcivescovo di Milano, che
da esso imperatore avea dovuto comprar a denaro la dignità; Adalberto
marchese d'Ivrea, genero di Berengario; Odelrico marchese e conte del
sacro palazzo, congiurarono a danni dell'imperatore. Saputo che costoro
aveano un convegno sulla montagna di Brescia, egli soldò due capi di
Ungheri, i quali di fatto li colsero: Odelrico restò ucciso; Adalberto,
fintosi un povero fantaccino di Calcinate, scampò; altri, avuto
salvezza dalla clemenza di Berengario, invitarono in Italia Rodolfo
II, re della Borgogna transgiurana. Soccorso dal suocero Burcardo duca
di Svevia, egli venne; ma in sanguinosa battaglia a Firenzuola era
sconfitto, quando la riserva del suocero mutò la fortuna, e Rodolfo
vincitore fece coronarsi re in Pavia (922).
In questo mezzo erano tornati gli Ungheri, e tagliati a pezzi ventimila
guerrieri di Berengario, eransi sveleniti contro Padova, Treviso,
Brescia. L'imperatore mal obbedito non potè frenare quella furia che
pagando dieci moggia di denari d'argento[277]; al qual fine tolse
molti beni alle chiese, e il popolo tutto obbligò, fino i lattanti,
a contribuire un denaro per testa. Ma vinto e scoronato, e ridotto
a Verona e al ducato del Friuli, invitò essi Ungheri contro l'emulo
Rodolfo. Voltisi dunque sopra Milano, assalsero Pavia (924), città
florida e popolatissima[278] dove si tenevano le diete del regno, e
vi soffocarono il vescovo e quel di Vercelli, distrussero quarantatre
chiese; di tanta gente soli dugento lasciarono vivi, i quali raccolsero
fra le ceneri otto moggia di denari per ricomprare dai Barbari il luogo
dov'era sorta la patria.
Modena fu difesa a lungo dai proprj cittadini, che dall'alto delle mura
si incoravano a vigilare con una cantilena guerresca rimastaci[279].
Malmenate anche le estreme terre del Piemonte, osarono imbarcarsi
sulla marina Adriatica, ed arsero Cittanova, Equilo, Fine, Chioggia,
Capodarzere, e predato tutto il littorale, tentarono Malamocco e
Rialto; ma i legni mercantili di Venezia li respinsero[280].
La chiamata di que' Barbari indignò gl'italiani contro Berengario,
onde tra i Veronesi fu congiurato di ucciderlo, e capo della trama era
Flamberto. L'imperatore n'ebbe fumo, e chiamatolo a sè gli ricordò come
lo avesse colmo di benefizj, sin a tenergli un figliuolo a battesimo,
e più gliene compartirebbe ove restasse fedele; e donatagli una coppa
d'oro, il lasciò andare. L'ingrato non ne divenne che più accanito.
Berengario quella notte non dormì in palazzo, ma in una cameretta
attigua alla chiesa, per esser pronto a sorgere la mezzanotte ed
assistere all'uffiziatura. Ma come fu in chiesa, Flamberto lo fe
trucidare. Milone, suo fedele, fece appiccare Flamberto e i complici.
Come avvenne ad altri infelici autori di conati nazionali, Berengario,
bersagliato miserabilmente tutta la vita, ebbe esagerate lodi dopo
morto qual valoroso, clemente, pio, e sin a riverirlo per santo, e
mostrar lungamente una pietra chiazzata del suo sangue, che mai per
lavarla non aveva perduto le macchie[281].
Tolto l'emulo, e scomparsi gli Ungheri, venne a regnare Rodolfo, ma non
con pace, giacchè lo contrastarono tre vedove che allora aggiravano
l'Italia cogli intrighi e coi vezzi: Berta, vedova di Adalberto il
Ricco, sua figlia Ermengarda, marchesa d'Ivrea: e sua nuora Marozia,
di disonesta memoria, vedova di Alberico marchese di Camerino. Il voto
di coteste e di Guido duca di Toscana e Lamberto fratelli d'Ermengarda
si accordò sopra Ugo, duca di Provenza loro fratello uterino, che
cogl'inganni più che colla forza vinse Rodolfo (926). Questo si ritira
in Borgogna, ma quivi unitosi ancora col suocero Burcardo, cala con
grosso esercito in Italia. Burcardo piglia l'assunto d'esplorare le
forze de' nemici, e in veste d'ambasciadore viene a Milano. Giunto alle
colonne di San Lorenzo, allora fuor di città, disse a' suoi compagni:
— Questo luogo pare fatto apposta per erigervi una fortezza che tenga
in briglia, non solo i Milanesi, ma tutti i principi d'Italia»; e
soggiunse: — Non sono Burcardo se non riduco gli Italiani a contentarsi
d'un solo sprone e cavalcare giumenti». Disse ciò in tedesco, ma i
nostri lo capirono, e tutto riportarono all'arcivescovo Lamberto: il
quale dissimulando prodigò carezze al finto ambasciadore, e gli diede
licenza di rincorrere un cervo nel proprio parco; favore che a nessuno
egli consentiva. Ma intanto mandava avviso agli Italiani; sicchè,
mentre tornava, Burcardo fu côlto in un agguato a Novara, e fuggendo
restò trafitto dai duchi di Toscana; a' suoi non valse il ricoverarsi
in San Gaudenzio, chè furono trucidati, e Rodolfo voltò indietro.
Ugo, che spertissimo di maneggi, s'era già compri molti signori
italiani, allora venne promettendo un secol d'oro; sbarcato a Pisa ebbe
universali accoglienze; a Pavia eletto re, a Milano coronato, regnò
più robusto che nol desiderassero i signori italiani, proponendosi di
restaurare l'unità della signoria col solo modo che par possibile, dopo
gravi disordini, cioè la tirannia.
La voluttuosa e intrigante Marozia, sposa a Guido di Toscana, formatosi
un grosso partito in Roma e disdicendo ogni obbedienza al papa, aveva
occupato Castel Sant'Angelo, e disponeva a sua voglia della città e
del papato: entrata col marito e con un pugno di sgherri in Laterano,
trucidarono Pietro fratello di papa Giovanni X e questo cacciarono