Storia degli Italiani, vol. 05 (di 15) - 14

Romani contro del nuovo pontefice; onde, depostolo come illegalmente
eletto, ne' modi canonici nominarono Stefano III. Un concilio raccolto
in Laterano dichiarò decaduto Costantino, che privato degli occhi, si
presentò ai padri congregati, invocando pietà e confessandosi in colpa;
eppure fu battuto a verghe, cassi gli atti del suo pontificato, messo a
penitenza per tutta la vita; insieme si proibì che verun secolare mai
fosse promosso a vescovo o papa, nè laico o militare assistesse alle
elezioni; anzi, duranti queste, nessuno venisse a Roma dai castelli
di Toscana e di Calabria, nè vi portasse armi o bastoni. Anche a
Valdiperto, convinto traditore, furon cavati gli occhi.
Cristoforo e Sergio, deputati dal pontefice, si presentarono a
Desiderio per ridomandargli i beni e le rendite spettanti alla santa
sede[207]; e Desiderio li pascolò di parole, dicendo verrebbe in
persona a ragguagliare le differenze. Ma mentre così addormentava,
guadagnossi Paolo Assarta camerlengo papale, che insusurrando il
pontefice contro Sergio e Cristoforo, l'indusse a farli mal capitare.
Questi due fratelli appajono agitatori d'una politica irrequieta nel
fine, improvvida nei mezzi, ma in ogni atto avversi alla dominazione
longobarda. Ora avvistisi del pericolo non tanto proprio, quanto della
patria, essi gridarono all'armi ed afforzarono la città per guisa, che
Desiderio, allorquando comparve presso i sette colli sperando esservi
accolto, trovò ferma resistenza. Si volse allora all'inganno, ed invitò
il papa al suo campo, affine di potersi concordare sulle giustizie e le
ragioni da restituire alla Chiesa; e mentre quegli era fuori, Assarta
sommosse Roma contro Cristoforo e Sergio, e già davasi mano ai ferri,
se il papa tornando non avesse sospeso i colpi.
Desiderio, sempre sleale, invitò il pontefice a nuovo colloquio in San
Pietro, posto allora fuor delle mura; e quivi, chiuse le porte della
basilica, lo fece sostenere, ed obbligollo a mandar ordine a Cristoforo
e a Sergio, — Deponete le armi, ed o venite a me o ritiratevi in
un convento». Quelli voleano mantenersi in posto colla forza; ma
abbandonati dai fazionieri, uscirono al papa, che, reso alla libertà,
lasciò nella chiesa i due fuorusciti, acciocchè, fattosi notte,
rientrassero in Roma senza pericolo; ma Desiderio, violando la santità
dell'asilo, ne li strappò, e li fe accecare[208].
Lieto d'essersi vendicato di que' suoi nemici, Desiderio diede volta
senza nulla restituire. Il pontefice trovavasi tanto più scoraggiato,
in quanto non poteva sperare appoggio dal re Franco, genero del
longobardo: se non che poco tardò a mettersi resia fra i due. Carlo,
fra le cui virtù non era la costanza in amore, s'annojò ben presto
della sposata Ermengarda (771), e rinviolla al regio padre, menando
invece Ildegarda principessa sveva. L'affronto toccò nel vivo
Desiderio; e poichè Gerberga, vedova di Carlomanno, era coi figliuoli
rifuggita a lui per cansare le insidie che temeva dal cognato, egli
proclamò i diritti dei due orfani alla paterna eredità, e domandò al
pontefice gli ungesse re de' Franchi, onde poterli opporre al genero
infedele.
Succedeva allora papa Adriano (772), figlio di Teodulo duca di Roma,
lento nel prendere un partito, tenacissimo nel mantenerlo; e conoscendo
che non era di competenza del papa l'eleggere il re di libera gente,
tanto più che ciò attizzerebbe la guerra civile, rispose al Longobardo
che, come pontefice, volea vivere in pace con tutti i Cristiani; del
resto potea ben poco fidarsi d'un principe, che al suo predecessore
aveva fallito tutte le promesse. Desiderio sbuffante si mosse per
ottenere l'intento colla forza, occupò altre città della Pentapoli,
bloccò Ravenna, devastò i contorni di Sinigaglia, Montefeltro, Agobio,
piombò sugli abitanti di Blera intenti alla mietitura, e uccisi i
principali, portò via roba e bestiame; indi occupata Otricoli, difilò
sopra Roma.
Adriano, fatta vana opera di stornare quel nembo, convocò i popoli
della Toscana, della Campania, del Perugino, della Pentapoli, e
li trovò dispostissimi nel voler resistere[209]; ma conoscendo non
varrebbe quella leva tumultuaria contro un esercito ordinato, imitò
Zacaria invitando Carlo Magno: venisse, e proteggesse quella Chiesa
di cui, come patrizio, era uffiziale patrono. Carlo tentò indurre
Desiderio a cedere a denaro le usurpazioni: avutone un niego, mandò
il bando delle armi, ed a' suoi Fedeli radunati in Ginevra espose
l'oppressura del pontefice, e la guerra civile che Desiderio tentava
suscitare in Francia; talchè a comun voce stanziarono l'impresa.
Carlo giganteggia talmente fra' suoi contemporanei, che l'immaginazione
colpita ne formò il tipo delle virtù cristiane ed eroiche, quali le
concepiva il medioevo. Ed un cronista, raccogliendo una tradizione
vulgare, così racconta la calata di esso in Italia: «Oggero il danese,
stato grande nel regno de' Franchi, era rifuggito a re Desiderio.
Quando intesero che il tremendo monarca calavasi in Lombardia, essi due
salirono sopra ecccelsa torre, donde veder lontano e d'ogni parte; ed
ecco da lungi apparir macchine di guerra, quante sarieno bastate agli
eserciti di Dario o di Cesare. Desiderio chiese ad Oggero: _Carlo è
con quel grande stuolo? — No,_ rispose egli. Poi vedendo innumera oste
di gregarj, raccolti da tutte le parti del vasto impero, il Longobardo
disse ad Oggero: _Sicuramente Carlo si avanza trionfante in mezzo a
quella folla. — Non ancora, nè apparirà sì tosto,_ rispose l'altro.
_E che farem dunque_, ripigliò Desiderio inquieto, _s'egli viene con
maggior numero di guerrieri? — Voi vedrete qual è allorchè arriverà_,
ripetè Oggero: _ma che fia di noi l'ignoro_. E mentre discorrevano
mostrossi il corpo delle guardie che mai non conobbe riposo; a tal
vista il Longobardo, preso da terrore, esclamò: _Certo questa volta è
Carlo. — No,_ rispose Oggero, _non ancora_. Poi vengono dietro vescovi,
abati, i cherici della cappella reale e i conti; e Desiderio, non
potendo più nè sopportare la luce del giorno nè affrontar la morte,
grida singhiozzando: _Scendiamo, nascondiamoci nelle viscere della
terra, lungi dal cospetto e dall'ira di sì terribile nemico_. Oggero
tremante, sapendo a prova la potenza e le forze di Carlo, disse:
_Quando vedrete le messi agitarsi d'orrore ne' campi, il Po ed il
Ticino flagellar le mura della città coi fiotti anneriti dal ferro,
allora potrete credere che Carlo arrivi_. Finito non aveva queste
parole, che si cominciò a vedere da ponente come una nube tenebrosa
sollevata da borea, che convertì il fulgido giorno in orride ombre. Ma
accostandosi l'imperatore, il bagliore di sue armi mandò sulla gente
chiusa nella città una luce più spaventevole di qual si fosse notte.
Allora comparve Carlo stesso, uom di ferro, coperto la testa di morione
di ferro, le mani da guanti di ferro, di ferro la ventriera, di ferro
la corazza sulle spalle di marmo, nella sinistra un lancione di ferro
ch'e' brandiva in aria, protendendo la destra all'invincibile spada;
il disotto delle coscie, che gli altri per agevolezza di montare a
cavallo sguarniscono fin delle coreggie, esso l'aveva circuito di
lamine di ferro. Che dirò degli schinieri? tutto l'esercito li portava
di ferro; non altro che ferro vedevasi sul suo scudo; del ferro avea
la forza e il colore il suo cavallo. Quanti precedevano il monarca,
quanti venivangli a lato, quanti il seguivano, tutto il grosso
dell'esercito aveano armi simili, per quanto a ciascuno era dato; il
ferro copriva campi e strade; punte di ferro sfavillavano al sole; il
ferro, sì saldo, era portato da un popolo di cuore più saldo ancora; il
barbaglio del ferro diffuse lo sgomento nelle vie della città: _Quanto
ferro! deh quanto ferro!_ fu il grido confuso di tutti i cittadini.
La vigoria delle mura e dei giovani si scosse di terrore alla vista
del ferro, e il ferro confuse il senno de' vecchi. Ciò che io, povero
scrittore balbeticante e sdentato, fei prova di dipingere in prolissa
descrizione, Oggero lo vide d'un'occhiata, e disse a Desiderio:
_Ecco quello che voi cercate con tanto affanno;_ e cascò come corpo
morto».[210].
A quel che la fantasia riproduceva in immagini, il raziocinio
accompagna gli argomenti, pei quali Carlo Magno dovea prevalere
facilmente in Italia. Era questa sbranata tra varj possessori: de'
quali i Greci non avevano che pretensioni senza forza nè volontà
di sostenerle; i papi invocavano i Franchi; i Longobardi dovevano
schermirsi dall'odio de' natii, irreconciliabili a questo governo
militare.
In Francia, l'essersi i Barbari collegati ai sacerdoti assodò il poter
regio, intorno al quale il tempo e i casi doveano poi restringere
gli altri sociali elementi per costituire la potenza nazionale:
nell'Italia, al contrario, dissociata la forza dall'opinione, dal
potere ecclesiastico il politico, com'era possibile il fondersi degli
invasori cogli indigeni? I principi Franchi inoltre, più ambiziosi e
robusti, coi maneggi, colla guerra, col delitto, sottoposero i varj
capitani e baroni: mentre fra' Longobardi sempre più s'invigorivano i
duchi, piccoli sovrani ciascuno nel suo distretto, che consideravano il
re niente più che come un primo fra i pari, come un loro creato; e ben
lontani dall'assentirgli quell'assoluta potestà che unica sarebbe valsa
a trascinarli in comuni imprese, non di rado si accordavano col nemico.
I re giuravano e spergiuravano; sempre inferiori nelle guerre,
accettavano il trono a patti da un sovrano straniero; e come fanciulli
testerecci, reluttavano petulanti appena si ritirasse quello, dinanzi
a cui si erano fiaccamente piegati. Carlo, colla preponderante vigoria
dell'indole sua, traeva esercito e duchi a decretare nelle assemblee
ciò ch'era sua volontà, ad operare in campo colla confidenza di chi
non bada che al comando. Come è degli uomini grandi, comprese quel che
il tempo suo richiedesse: e non che cozzare coi sacerdoti e volerli
fiaccare colla gelosia consueta ai deboli, si valse della loro potenza,
e crebbe la propria col trarre a sè tutte le forze vive della società,
e dirigerle al suo intento. Ed ora veniva preparato e deciso, non più,
come Pepino, ad umiliare e restituir in dominio i Longobardi, ma a
sterminarli, giacchè non sapevano rimanersi quieti.
Desiderio, oltre le forze reluttanti de' Romani, dei sacerdoti, de'
proprj duchi, trovossi incontro la fazione di Rachi, che soffogata
col rigore, spiava occasioni di vendetta. Appena s'intese la mossa di
Carlo, molti Longobardi di Spoleto e di Benevento accorsero a Roma,
facendosi tagliar i capelli alla romana, in segno di sottomettersi
al papa; altri primarj spedirono a Carlo, sollecitando a liberarli
da questo tiranno Desiderio, e promettendo consegnarglielo colle sue
ricchezze[211]. Anche i duchi fedeli sapevano che il vincitore non
torrebbe loro i possessi nè muterebbe la forma del regno, onde l'avere
un re Franco poco differirebbe da quando aveano avuto re bavaresi.
Desiderio ci appare fiacco forse più de' predecessori, e in conseguenza
temerario all'intraprendere e provocare, poi inetto a sostenersi
e compire, vero modo di rovinar un regno; da nessuna legge possono
indovinarsi i suoi intenti; solo ci restano larghissime donazioni a
conventi in ogni parte d'Italia[212], quasi con ciò volesse illudere
coloro che disgustava coll'osteggiar il papa: verso i re Franchi
burbanzoso in parole, codardo in fatti; ai pontefici largo di promesse
e mentitore; negli assalti contro di loro nè tampoco mostrò quella
risolutezza, che tante iniquità giustifica o almeno ricopre. Accoglieva
i malcontenti di Carlo; ma mentre la politica l'avrebbe consigliato
a non aspettar in casa un nemico da lui medesimo provocato, per
iscarsezza di mezzi o per paura di tradimenti si tenne sulle difese,
destreggiando a seconda dell'attacco esterno e delle insidie interiori.
Mentre dunque vedemmo i Goti cadere e rialzarsi, e far quasi compianta
la loro caduta perchè generosa; inetta e vile fu quella de' Longobardi.
Solo il prode figlio e collega Adelchi aveva munito le chiuse delle
Alpi verso Susa di maniera che i signori Franchi cominciavano a
mormorare degli indugi, più disposti, come fu sempre quella nazione,
a perire in attacchi repentini che a superare colla perseveranza,
quando un disertore, e chi dice un diacono Martino, additò un valico
non custodito fra balze impervie (773). Un pugno di Franchi per di
là prese alle schiene i Longobardi, che côlti da panico terrore, o
forse inviluppati dal tradimento, sbrancaronsi lasciando quelle gole
insuperabili, e senza più guardare in faccia al nemico, Adelchi si
chiuse in Verona, Desiderio in Pavia colla moglie Ansa e la propria
figliuola, e colla famiglia e i Fedeli di Carlomanno.
Giubilante dell'inaspettata ventura, Carlo infisse l'asta sul terreno
d'Italia; prima che i nemici rivenissero dalla costernazione, assediò
entrambe quelle città, e ajutato da intelligenze, le ebbe. Adelchi
riuscì a fuggire a Costantinopoli; Desiderio, venuto in podestà del
nemico, fu colla moglie condotto in Francia (774), e, chiuso nel
convento di Corbia, terminò sua vita; della famiglia di Carlomanno non
è più parola.
Mentre Pavia resisteva, Carlo erasi trasferito a Roma, dove ricevette
gli onori che prima si tributavano al rappresentante dell'imperatore.
Magistrati e nobili furongli incontro sino a trenta miglia coi
gonfaloni; giù per la via Flaminia si stendevano le scuole de' Greci,
de' Longobardi, de' Sassoni e d'altri, poichè di ogni gente affluiva
colà tanto numero, da avervi distinto quartiere e formare comunità
nazionali[213], godendo statuti proprj in quella di Roma, che un tempo
ingojava; stuoli di fanciulli con rami d'ulivo e di palme osannavano
quello _che veniva nel nome del Signore_.
Carlo, che v'era accolto non come re straniero, ma come patrizio,
mutò l'abito Franco nella lunga tunica e nella clamide romana. Appena
da un miglio lontano vide la croce, scavalcò, e pedestre si condusse
al Vaticano, baciando ciascun gradino della scalea; in capo alla
quale aspettavalo Adriano papa, che l'abbracciò, e a paro salirono
all'altare, stando il re alla destra. Questi domandò poi d'entrare
anche in Roma; e sebbene sulle prime il pontefice prendesse qualche
ombra di quest'ospite guerriero, raffidato dalle sue assicurazioni lo
introdusse con ogni maniera di solenni onoranze. Carlo seguì colà le
commoventi cerimonie della settimana santa; poi confermò la donazione
di Pepino, e la crebbe coll'aggiungervi il patrimonio di san Pietro:
e l'atto, sottoscritto da lui, da vescovi, abati, duchi e grafioni del
suo seguito, fu posto sulla tomba di san Pietro, e sotto al vangelo che
solevasi baciare.
Terminava dunque il regno longobardo (568-774), che era durato meglio
di due secoli sopra gl'italiani senza acquistarsene l'affetto, e senza
dare un solo uom grande: terminava come quelle dominazioni forestiere,
che per alcun tempo surrogano la forza al diritto, e possono farsi
temere, non amare. Sopraviveva però il nome, giacchè Carlo s'intitolò
re de' Longobardi[214]; presto frenò l'impeto de' suoi guerrieri; e
poichè conduceva una gente che già s'era assicurata un'altra patria,
non gli fu mestieri spogliare gli antichi possessori, come avevano
fatto Eruli, Goti e Longobardi. Pose guarnigione Franca in Pavia;
a molti nobili di sua nazione conferì feudi vacanti, gli altri e
le dignità confermando ai primitivi signori, che non esitarono a
giurarsegli ligi.
Non vogliasi supporre incruenta nè generosa la conquista di Carlo; e se
crediamo a prete Andrea, cronista bergamasco, lodatissimo dal Muratori
e avverso a Carlo Magno, «tanta fu in Italia la tribolazione, che
altri di ferro, altri di fame straziati, e quali uccisi dalle fiere,
ben pochi sopravissero pei vichi e per le città». Un altro cronista
di Brescia racconta che in questa città resistette Potone, nipote di
Desiderio; e il capitano Franco mandato ad assediarlo appiccò attorno
alla città duemila abitanti della campagna per incutere spavento;
poi come i difensori si arresero a patti, egli arrestò Potone e
cinquanta nobili, e li fe decapitare: pari strage usò a Pontevico, e
quali accecò, quali affogò nel fiume; a Brescia altri uccise perchè
mostravano orrore del suo procedere[215].
Avvezzi com'erano alla fiacca sopreminenza degli ultimi re, i signori
longobardi s'indispettirono di questa mano robusta che ne serrava il
freno; e Arigisio duca di Benevento, genero di Desiderio eppure a'
suoi danni collegato col papa, fe trama con Ildebrando duca di Spoleto,
Rotgaudo del Friuli, Reginaldo di Chiusi, sollecitati da Adelchi, che
da Costantinopoli, come ogni principe caduto, sognava il racquisto del
trono. Papa Adriano, vigilante sugli interessi dell'amico e protettor
suo, ne informò Carlo, il quale (776), prima che congiungessero le loro
forze, menò una banda di volontarj (giacchè la stagione era troppo
tarda per convocare a una spedizione l'esercito feudale), invase il
Friuli, e sconfittone e ucciso il duca, vi pose il franco Marquardo,
poi Unrico (Hunrok), i cui discendenti lo tennero sino al 924.
Anche gli altri duchi furono sottomessi; e a prevenire nuove rivolte,
venne mutata l'amministrazione, fondandola sul feudo alla maniera
Franca, e le vastissime giurisdizioni dei duchi dividendo in distretti,
presieduti da conti. Solito delle conquiste, il buono e il meglio
fu assegnato ai signori Franchi, tanto che del regno longobardo
quasi altro non restò che il nome; la legislazione fu modificata dai
_Capitolari_, ordinanze che obbligavano tutti gli abitanti nel regno,
qual che ne fosse la nazione.
Di propria balìa conservavasi il ducato di Benevento, rifugio ai
Longobardi che non sapessero chetarsi alla dominazione Franca: ed
essendo cessata la supremazia dei re nazionali, quel duca Arigiso (774)
si fece ungere dal suo vescovo, e assunse scettro e corona e titolo
di principe sopra la nuova Longobardia, sopravissuta alla madre, e
procurava or l'una or l'altra occupare delle confinanti terre greche e
pontifizie.
Di questo potente irrequieto prendeva noja Carlo, sicchè per la quarta
volta calatosi dalle Alpi, s'inoltrò minaccioso contro Arigiso. Questo
spedì a far atto di sommessione e promettersi ad ogni voglia del re;
ma perchè, non dandogli fede, Carlo procedeva, fuggì a Salerno, dove
poi ottenne pace, ricevendo come feudo il ducato, ma scemo di sei città
attribuite alla Chiesa. D'allora Arigiso si guardò come vassallo ai re
Franchi coll'annuo tributo di settemila soldi d'oro, e consegnò dodici
ostaggi, fra cui il proprio figliuolo Grimoaldo. Pure nè promesse nè
statici il frenarono, e spedì a Costantino V imperatore d'Oriente, o
piuttosto a Irene madre di quello, chiedendo il ducato di Napoli, la
dignità di patrizio della Sicilia, e un esercito per iscuotersi dalla
dipendenza, promettendo riconoscere la sovranità degl'imperatori,
farsi radere la barba e adottare il vestito greco. Ad Irene, disgustata
allora di Carlo perchè avea negato sposar una figlia al figliuolo di
lei, garbò la proposta, e Adelchi, già re de' Longobardi, comparve
sulla frontiera di Benevento per animare e dirigere le mosse. Fra tali
disegni moriva Arigiso (787), e Carlo chiamò Grimoaldo e gli annunziò
come non avesse più padre. — Non è così (rispose il giovane, accorto
fin alla codardia): egli vive e prospera, e spero crescerà per molti
anni; giacchè, da quando venni in poter vostro, voi foste a me padre,
voi madre, voi famiglia e tutto». Lusingato dalla risposta, Carlo gli
conferì il ducato a condizione che smantellasse Salerno e Acarenza;
ponesse il nome di lui in fronte agli editti e sulle monete, e
accorciasse la barba a' suoi Longobardi, eccetto i lunghi mustacchi.
I Longobardi corsero a folla incontro al nuovo duca; e — Ben venuto sia
il padre nostro: salute nostra dopo Dio»; ma come ebbero conoscenza
delle dure condizioni, non sapeano darsene pace. Grimoaldo era
nipote di Adelchi, onde questi sperò trovarlo favorevole, quando con
Teodoro patrizio di Sicilia (788) sbarcò di nuovo su quelle coste;
ma affrontato dal beneventano, in battaglia perì, e con esso l'ultima
speranza de' Longobardi.
Per consolidare il nuovo reggimento, Carlo menò in Italia il figlio
Pepino di sei anni, e investitolo di questo regno, lo fece ungere da
papa Adriano, assegnandogli per residenza Pavia.
Le spedizioni de' Franchi contro i Longobardi non erano più correrie,
come quelle dei Barbari, per devastare; neppur nimicizie da tribù a
tribù, ma guerre consigliate da politico intendimento e da un sistema
prestabilito. O l'avesse Carlo veramente dedotto dall'esame della
sua età, o vi fosse spinto senza avvedersene dai casi d'allora, e
da quell'istinto che ai grandi uomini indica l'opportunità de' loro
tempi, da cinquantatre spedizioni che condusse dal 769 all'813[216],
perpetua trapela l'intenzione di congiungere in robusta unità le
popolazioni stabilite su quel che un tempo formava l'impero romano,
onde opporle alla doppia invasione minacciata dagli Arabi a mezzodì,
a settentrione dai popoli ch'erano rimasti nella Germania allorchè gli
altri n'uscirono. Tali erano i Sassoni, ai quali esso portò lunghissima
guerra di sterminio. Vinti quelli, diventavano minacciosi confinanti
al regno di Carlo i popoli stanziati dietro di loro, cioè gli Slavi fra
i Carpazj e il Baltico; gli Avari fra i monti stessi e le alpi Giulie,
separati dalla Baviera soltanto pel fiume Ens. Avendo questi minacciato
l'Italia, fu preso il partito di munire Verona, forse smantellata
dopo l'assedio sostenutovi da Adelchi: e poichè nacque disputa se
agli ecclesiastici toccasse fare la terza o la quarta parte di esse
mura, fu rimessa la decisione al giudizio della croce. Aregao per la
parte pubblica, Pacifico per quella del vescovo, giovani forzosi, si
collocarono in ginocchio colle braccia elevate mentre si recitava la
messa col Passio di san Matteo; alla metà del quale, Aregao più non
seppe sostenerle, l'altro resse sin al fine; talchè agli ecclesiastici
non fu accollato che il quarto della spesa. Dapoi Pepino col duca del
Friuli sconfisse affatto gli Avari, e Carlo gli inseguì nel loro paese,
e per frenarli fondò un marchesato sul loro confine, detto Austria,
cioè orientale (793), che doveva poi tanta ingerenza avere nelle
vicende italiane.
Dei tesori riportati da quella spedizione Carlo Magno offrì le primizie
al pontefice, il resto all'esercito ed ai paladini suoi, e al duca del
Friuli che avea avuto principal merito in quelle vittorie.
Era pertanto l'autorità di Carlo assodata su tutta la Francia e stesa
sulla miglior parte dei popoli occidentali: stavangli tributarie le
genti slave, dal Baltico a Venezia, onde la signoria di lui dilatavasi
a mezzodì fino all'Ebro, al Mediterraneo e a Napoli, a occidente
fino all'Atlantico, a settentrione fino al mare germanico, all'Oder
e al Baltico, a levante fino al Theiss, alle montagne boeme, al Raab
e all'Adriatico. Non a torto dunque il poeta Alcuino lo cantava re
dell'Europa: e risorta la grandezza romana qual sotto i successori di
Costantino, non tardò guari a rinnovarsene anche il nome, però con un
carattere nuovo, quello di capo supremo della cristianità nell'ordine
temporale, come nello spirituale era il pontefice.
Il titolo di patrizio che già Carlo portava, esprimeva il patrono della
Chiesa, dei poveri e degli oppressi. Il papa, rivestendolo del manto
e ponendogli in dito l'anello, gli diceva: — Tale onore ti concediamo
acciocchè tu faccia giustizia alle chiese di Dio ed ai poveri, e renda
conto al Giudice supremo»; consegnandogli poi il diploma scritto di
suo pugno, soggiungeva: — Sii patrizio misericordioso e giusto», e gli
metteva in capo il cerchio d'oro. Non implicava dunque sovranità, e
il popolo gli giurava non vassallaggio, ma clientela, subordinata alla
fedeltà promessa al pontefice[217].
Come tale, Carlo trovavasi tutore della Chiesa, onde fra lui e i papi
era vicendevole interesse di sostenersi. Adriano poi era speciale amico
di Carlo, consolazione raramente conceduta ai grandi; e fu tutt'occhi
perchè il nuovo dominio dei Franchi mettesse radice in Italia. Carlo
venerò il pontefice, e morto lo pianse come un padre, largheggiò
limosine a suo suffragio, e ne compose l'epitafio da scolpire a lettere
d'oro[218].
Il succedutogli Leone III (795), al re de' Franchi, come a patrizio,
inviò le chiavi del sepolcro di san Pietro e lo stendardo della chiesa
romana con parole d'affetto e sommessione; Carlo mandò a Roma il
dotto Angilberto perchè assistesse alla consacrazione del pontefice,
seco rinnovasse il patto come già con Adriano, e prendesse accordi
«su quanto sembrasse spediente a confermare il suo patriziato, e
renderlo efficace alla tutela della Chiesa. Perciocchè (soggiungeva
Carlo) missione mia è difendere, ajutante la divina misericordia,
all'esterno colle armi la santa Chiesa di Cristo contro ogni assalto
de' Pagani ed ogni guasto degl'Infedeli, e nell'interno consolidarla
colla professione della fede cattolica; obbligo vostro è d'elevar le
mani a Dio come Mosè, e sostenere colle vostre preci il mio servizio
militare»[219].
Nè però i papi avevano dismesso ogni onoranza verso i Cesari di
Costantinopoli; anzi, per ordine d'esso Leone, fu nel palazzo Laterano
a musaico rappresentato l'imperatore che riceve lo stendardo dalla
mano di Cristo, e Carlo da quella del papa[220]. Se però a quei deboli
lontani il papa professava un resto di riverenza, qual conveniva
al capo di tutta cristianità ed autore della pace, nessun appoggio
poteva sperarne, e ne' bisogni ricorreva al re Franco. Nè gliene tardò
occasione.
Campulo e Pasquale, nipoti di papa Adriano, l'uno sacristano, l'altro
primicerio della Chiesa, disgustati di vedersi tolta la potenza che
esercitavano vivente lo zio, fecero con altre famiglie primarie di Roma
una di quelle intelligenze che spesso minacciavano la podestà papale
dacchè era divenuta principato terreno. Mentre, per la supplichevole
festa delle Rogazioni (799), il pontefice traeva processionalmente dal
Laterano a San Lorenzo, fu assalito da una masnada, che maltrattatolo
sino a volergli strappar gli occhi[221], lo gettò nel convento di San
Silvestro. Vinigiso duca di Spoleto accorse a campar Leone, il quale,
appena ricuperata la libertà, istruì Carlo dell'attentato, e passò
le Alpi, dirizzandosi a Paderborn, ove Carlo aveva raccolti i Fedeli
del suo dominio all'annuale adunanza che dicevasi campo di maggio.
I signori germani, di fresco convertiti, gareggiarono a chi meglio
onorasse il capo della Chiesa, il quale per la prima volta compariva
in una loro assemblea; sicchè quel viaggio tornò di non piccolo
incremento alla pontifizia autorità. Carlo ne ascoltò le querele,
promise ripararvi, e il rimandò accompagnato da signori, da vescovi,
dagli arcivescovi di Colonia e Salisburgo, e da otto commissarj che
formassero processo sul tentato assassinio, e provvedessero alla
sicurezza del santo padre.
Trionfalmente entrò Leone in Roma fra il poco pontificale
accompagnamento di labarde sassoni, franche, longobarde, frisone.
Fin a Pontemolle gli vennero incontro le bandiere e insegne della
città, il senato, il clero, la milizia, le monache e diaconesse, le
nobili matrone, le scuole di forestieri; e fra inni e giubilazioni
condotto nella basilica Vaticana, vi cantò messa, a tutti partecipò la
comunione; indi riprese la primitiva autorità.
Carlo stesso si dispose al viaggio di Roma, e giuntovi al mettersi
della vernata, prima d'ogni altro affare assunse la contesa fra papa
Leone e i suoi nemici. Convocato un concilio misto di laici e di
vescovi (799 — 21 9bre), Franchi e Romani, fe mettere a scandaglio
le accuse recate contro il pontefice: ma come al tempo di Costantino
Magno un sinodo raccolto per dare sentenza di papa Marcellino erasi
dichiarato incompetente a richieder in giudizio il capo della Chiesa,
e l'aveva invitato a semplicemente attestare di propria bocca la sua
innocenza, altrettanto si usò questa volta. Leone, salito in pulpito,
mettendosi il vangelo e la croce sopra la testa, giurossi mondo delle
colpe imputategli; dopo di che si cantò il Tedeum; i suoi accusatori,
secondo le leggi romane, come rei d'omicidio e di calunnia, furono
condannati alla morte, a preghiera del pontefice commutata in esiglio
perpetuo.