Storia degli Italiani, vol. 05 (di 15) - 13

l'indusse a cederle e donarle alla santa sede. Restava la nimicizia
coll'esarcato, e Liutprando l'invase. Eutichio non trovò altro scampo
che pregare il papa a interporsi; e questi di fatto mosse a quella
volta, entrò nel dominio longobardo, e a Pavia persuase Liutprando a
sospendere le offese.
Poco poi i Romani respiravano per la morte di Liutprando (744), cui
Paolo Diacono (il quale con esso chiude la sua storia) predica di
gran senno, sagace in consiglio, grandemente pio, amator della pace,
potente in guerra, clemente ai rei, casto, pudico, bel parlatore, largo
limosiniero, ignaro di lettere eppur comparabile a' filosofi. Sappiamo
ch'egli aggiunse un monastero alla basilica pavese di san Pietro in
Ciel d'oro, dove fece trasportare il corpo di sant'Agostino, sottratto
ai Musulmani che aveano invaso l'Africa e la Sardegna; tra le alpi
parmensi fondò il monastero di sant'Abondio e Berceto, a Corteolona
una chiesa di sant'Anastasio, a Pavia nel proprio palazzo una cappella
a san Pietro, con preti che ogni giorno vi cantassero i divini uffizj.
Le leggi da lui pubblicate attestano che i Longobardi aveano profittato
della conoscenza del diritto romano: e al sommar de' conti, egli fu dei
migliori, o forse il migliore fra i re longobardi.
Pemmone, duca del Friuli, avea sposato Ratberga; e sebbene essa,
nata rusticamente e brutta, più volte lo esortasse a lasciarla e
prendersi altra moglie da par suo, la preferì perchè modesta e savia,
e dal loro connubio nacquero Rachi, Racait e Astolfo, che Pemmone
fece educare coi figliuoli di que' nobili che erano periti nel
conflitto cogli Schiavoni. Rachi sì buon nome levò, che alla morte di
Liutprando i Longobardi deposero Ildeprando collega di questo, e lui
fecero re. Ricevuta la lancia del comando, Rachi si trovò in rotta
non solo coi Romani e coi Transalpini, ma anche coi Longobardi del
mezzodì, avvegnachè nel 746 pubblicava divieto di deputare messi a
Roma, Ravenna, Spoleto, Benevento, nonchè in Francia, in Baviera, in
Alemagna, in Avaria, in Grecia[194]. Al contrario Zacaria papa riceveva
omaggio dai nuovi regni che si fondavano in Alemagna e in Inghilterra,
e accolse san Bonifazio apostolo della Germania dandogli conforti a
convertire il Settentrione, che ricevendo la fede da Roma, al pontefice
prestava un omaggio illimitato. Zacaria, istruito che Rachi, rotta una
tregua giurata, tornava sopra la Pentapoli, andò a trovarlo a Perugia,
e non solo il distolse, ma gli toccò il cuore per modo, che poste la
moglie Tasia e la figlia Rotrude (749) in un monastero, egli andò
a chiudersi in quel di Montecassino, ove pur dianzi erasi ritirato
Carlomanno, fratello del maggiordomo di Francia[195].
Astolfo fratello di Rachi, portato al regno dal pubblico voto, ripigliò
le ostilità coi Greci; e sicuro in armi, le menò con tanta fortuna, che
in due anni (752) si rese padrone dell'Esarcato e della Pentapoli; e
per togliere alla conquista il carattere di passeggera, mutò la sede da
Pavia all'imperiale Ravenna. L'esarca Eutichio rifuggì a Napoli, e fu
l'ultimo che governasse l'Italia greca; perciocchè i possessi rimasti
all'Impero furono divisi ne' _temi_ o distretti di Sicilia e Calabria;
i duchi di Napoli, Gaeta, Bari ed altre città operavano omai di balìa
propria, sotto la nominale supremazia dello stratego siciliano.
Il posseder Ravenna parve ad Astolfo ragione valevole per attirarsene
tutte le dipendenze e Roma stessa; onde intimò al senato e al popolo
romano prestassero a lui l'obbedienza che soleano al signor di Ravenna;
e sostenne l'intimazione con grosse armi. Il nuovo papa Stefano II con
regali e preghiere lo indusse ad una pace di quarant'anni: ma scorsi
quattro mesi appena, Astolfo la guastò, e impose ai Romani un annuo
tributo, fintanto che non gli piacesse annestare quel ducato al suo
reame. Il papa ricorse dapprima alle devozioni, conducendo per Roma
una processione, dove egli stesso, a piè scalzi, portava una delle
immagini di Cristo non fatte a mano; e il popolo, asperso di cenere e
gemebondo, seguiva una croce, alla quale erasi appeso l'accordo della
pace violato dai Longobardi. Inviò poi l'abate di Montecassino ed altri
sacerdoti che chiamassero il principe a migliori consigli; ma Astolfo
li trattò d'alto in basso, ingiungendo tornassero ai loro conventi
senza tampoco rivedere il papa. L'imperatore Costantino Copronimo,
il quale incaparbito d'abolire le immagini, avea molestato senza posa
il pontefice per cui mercè l'autorità sua erasi conservata in Italia,
allora non fece che spedire con lettere Giovanni Silenziario. Il papa
volle accompagnato dal proprio fratello il messo a Ravenna, unendo
nuove suppliche ad Astolfo perchè restituisse l'Esarcato ai Greci:
ma non che badarvi, costui raddoppiava armamenti e minacce come leon
fremente, asserendo che i Romani tutti passerebbe a fil di spada se
non si sottomettessero al suo dominio[196]. Stefano scrisse da capo
all'imperatore parole da quel bisogno, acciocchè, secondo le iterate
promesse, venisse a difendere l'Italia[197]: ma questo, più che de'
Musulmani, più che de' Longobardi, brigavasi di sillogizzare contro il
culto delle immagini, ed uccidere i monaci che le difendevano.
Che più restava al papa? Memore di Gregorio III, si volse a Pepino
il Piccolo, figlio di Carlo Martello e succedutogli come maggiordomo
de' Franchi; e questi l'ascoltò più volonteroso del padre, e spedì
un duca Autari e un vescovo invitandolo a condursi di là dall'Alpi.
Il papa, coi messi Franchi e col reduce Giovanni Silenziario, fu alla
corte longobarda per un'ultima prova: ma rimanendo Astolfo ostinato al
proposito, Giovanni tornò disconchiuso in Oriente, Stefano prese la via
di Francia.
Come avranno guardato questa gita i contemporanei, e specialmente
gl'Italiani?
Da una parte vedevano essi gl'imperatori di Costantinopoli, che
possedevano l'Italia, non come legittimi successori dei Cesari antichi,
ma per conquista, e da conquista la trattavano, conculcando gli antichi
privilegi; dall'altra, re stranieri armati e sbuffanti, che giurano e
spergiurano, devastano città, sterminano popolazioni, mettono a spada
e fuoco. Rimpetto a costoro, vecchi sacerdoti eletti dal popolo e tra
il popolo, pregano, scrivono, fan processioni, mandano ambasciate,
vanno in persona ad implorare nient'altro che pace e giustizia; al più
mettono insieme un pugno di armati per pura difesa. Fra questi tre,
intenti a conservare o sottomettere il nostro paese, stanno milioni
d'Italiani, la cui sorte si decideva nei coloro dibattimenti, e che col
papa pregavano e piangevano; dal re e dall'imperatore erano spogliati
ed uccisi. Quanto non avevano sofferto sotto quel dominio, greco,
lontano, irresoluto, arrogante, tiranno delle coscienze, peggiorato
dalla ingordigia e prepotenza dei ministri, i quali non isdegnavano
farsi satelliti ed assassini per obbedire! quanto non avrebbero dovuto
soffrire cadendo sotto questi altri Longobardi, che ai loro fratelli
toglievano e leggi e terre e magistrati e la compiacenza del nome
italiano! Perocchè i Longobardi, come avviene di un governo militare,
in tanti anni di dominio non s'erano punto naturati al nostro terreno,
e il nome loro sonava così terribile, che i paesi cui si accostassero
avventavansi alle armi per quanto lungamente disusate, onde respingere
le stragi e l'oppressione serbate ai vinti.
Se speranza di risorgimento, o almen di sollievo restava agl'Italiani,
non potevano appoggiarla se non su quel pontefice, che da lungo tempo
consideravano come loro rappresentante, tutore dei loro diritti,
l'unico che sapesse consolare gli oppressi e intimar giustizia agli
oppressori; pontefice, che pel carattere suo doveva essere più giusto,
più mansueto; che faceva ancora venerato a tutte le nazioni quel nome
romano che, per altrui cagione, era in estremo vilipendio.
In quei tempi ordinati e sonnolenti, nei quali la dotta inerzia non
sapeva aspettar bene se non dai re, gli scrittori serbarono ogni
simpatia e raffinarono ogni sofisma a favorire il concentramento
dei poteri e l'onnipotenza delle corone, e quindi non rifinivano
d'imprecare al pontefice, il quale, col chiamare i Franchi, impedì
che tutta Italia cadesse sotto la dominazione de' Longobardi. Per
noi sussiste un altro criterio, il voto del popolo[198]; e lo storico
imparziale deve guardare qual fosse la causa, il cui trionfo scemasse
le lacrime e le ingiustizie tra la moltitudine.
Dopo undici secoli stando tranquillamente a narrare le vicende
d'allora, si può intrepidamente riprovare i padri nostri perchè non si
siano sottomessi in tutto ai Longobardi, lo che avrebbe dato all'Italia
quell'unità che, fra i patimenti conseguita, rese poi forti e stimate
Francia ed Inghilterra mercè la dominazione di Barbari. E forse
argomentarono così quegli stessi, che non hanno abbastanza lacrime
per deplorare la caduta dell'imperio romano, o abbastanza ira contro
lo straniero che oggi volesse sottomettersi una nuova provincia, anzi
una sola fortezza italiana. Poniamo che costoro conoscano di certa
preveggenza come sarebbero procedute le cose: ma se i re si tengono
in diritto di sagrificare la generazione presente per l'avvenire, se
imprese micidiali riescono a vantaggio, chi potrà pretendere che un
popolo volontariamente si sottometta a crudelissima oppressione in
vista d'un avvenire che non conosce, e della prosperità che possa
derivarne ai nipoti?
Ma sarebbe derivata? Se i Longobardi spegnevano in Italia i resti della
civiltà romana, sarebbe uscita mai di qui la luce che poi irradiò la
restante Europa? Se sulla ragione politica inesperta e feroce di quei
tempi non avesse dominato quel potere moderatore che allora la Chiesa
assunse anche nelle cose temporali, sarebbero, di sotto all'irrefrenato
dominio militare, giunte a ben composta nazionalità la nostra e neppur
le altre genti?
Chiudere gli occhi a ciò che fu, per almanaccare ciò che avrebbe
potuto essere, non è da storico: ma chi deplora le miserie posteriori
della nostra patria, condotte da troppo fieri casi e da infamie e
violenze che sono scritte nel libro dell'ira di Dio qual espiazione
o preparamento, deh voglia avvicinarsi a quei tempi, e vedere come,
col non lasciar cascare tutta Italia sotto i Barbari, e col farla poi
centro del rinnovato Impero, vi si sieno conservate le istituzioni
antiche e le migliori tradizioni dell'intelletto e della vita; le quali
appurate, le fruttarono commercio, dottrina, incivilimento, libertà,
e il vanto di star maestra e modello delle altre nazioni. Ora questo
splendido rinnovamento saria stato possibile sotto il dominio uno,
fiero, avvilente degli stranieri?
E se l'Italia non fu una, chi vorrà riportarne la causa fin a quei
tempi e a quel dominio? Non era stata una sotto il goto Teodorico? e
la costui origine e la personale inclinazione agevolavano la mistione
coi vinti: eppure quel dominio fu abbattuto non da nuovi Barbari,
ma dalla pretesa restaurazione romana, da ciò che poi fu pompeggiato
col titolo di nazionalità. Avrebbe ella retto allo sminuzzamento, che
dappertutto recò di poi la feudalità? avrebbe retto ai micidiali amori
degli stranieri, quando nel secolo XVI Francesi, Tedeschi, Spagnuoli,
Ungheresi, Svizzeri, Turchi vennero a saziar l'ambizione e l'avidità
sulla patria nostra, mentre da Roma echeggiava inutile il grido di
Giulio II perchè si cacciassero i Barbari?
Nè i Longobardi si erano messi in via di congiungere tutta Italia.
Sulle prime li vedemmo persecutori del clero; e anche il loro duca
Gumaritt, devastata tutta la maremma volterrana, obbligò san Cerbone
vescovo di Populonia a ricoverare col suo clero nell'isola d'Elba, come
quel di Milano era rifuggito a Genova. Dappoi, quantunque convertiti
alla fede romana, e abbondanti in devozioni e monasteri, tennero il
clero in gelosa tutela, quale appena soffrirebbero i moderni[199];
l'ambizione di estendere sopra nuovi paesi, pel solo diritto della
conquista, il mal governo che facevano della Longobardia, li pose in
urto col pontefice; e poichè questo era dai Romani considerato come il
loro rappresentante, doveva ne' soggiogati crescere l'aborrimento verso
una nazione che con minaccie ed armi rispondeva alle preghiere e ai
consigli di quello. Nella contesa, il clero, diffuso fra gl'italiani
per mitigare i guai che toccano al vinto, riceveva come suoi gli
affronti fatti al suo capo, ed abituava i fedeli a risentirsene, come
le membra patiscono dei colpi dati alla testa.
Se poi i liberatori tutti del nostro paese, da allora fin a jeri,
sempre ricorsero a stranieri, sempre, è una di quelle complicazioni,
che è facile e perciò consueto battezzare col nome di fatalità.
Senza dunque addebitare a un popolo le lontane e incerte conseguenze
del suo procedere, a noi pare che, pel diritto imprescrittibile
della conservazione, lo Stato romano, minacciato di cadere in servitù
straniera, potesse difendere la propria indipendenza, appoggiandosi a
chi glie l'assicurava.
In Francia Pepino il Piccolo, nella saldezza dei trentasett'anni,
vincitore di molte guerre, temuto dai vassalli, caro al popolo e
ai soldati per modi affabili, al clero per averlo rintegrato delle
usurpazioni di suo padre, di re aveva tutto fuorchè il nome; già i
Franchi notavano gli atti cogli anni del suo principato; a lui solo
volgeano le domande e i richiami; a lui ogni onoranza; i grandi del
regno un dopo l'altro erano venuti a sua dipendenza, e dal giuramento
di fedeltà restavano legati ad esso, più che agl'imbelli discendenti
di Clodoveo. La nazione, che, come tutte le germaniche, conservava il
diritto di elegger il capo, voleva ormai che la finzione facesse luogo
alla realtà, e il titolo di re avesse chi di re esercitava l'autorità;
onde Pepino si fece ungere dal più riverito sacerdote d'allora, san
Bonifazio apostolo della Germania.
La nuova dinastia Franca era così avvicinata al papa, sì per l'antico
titolo di cristianissima, sì perchè recentemente consecrata, e sì
pel missionare che facea le genti idolatre. Quando dunque Stefano II
venne per soccorsi, il nuovo re mandò fin a San Maurizio incontro al
pellegrino apostolico il figlio Carlo, che poi dovea dirsi Magno, il
quale ne precedette il carro a piedi fino alla sua casa di Pontion. Ivi
Pepino scavalcato si umiliò davanti a lui come a capo della Chiesa, coi
figli e i grandi del suo seguito; e condottolo ad alloggio nella badia
di san Dionigi, gli prodigò assistenza durante una malattia cagionata
dai crucci dell'animo e dagli stenti del viaggio. Il papa prostrossi
con tutto il clero coperto di cenere e cilizio davanti a Pepino finchè
n'ebbe promessa di soccorsi: allora per riconoscenza unse di nuovo re
de' Franchi lui e i due figli Carlo e Carlomanno, e li intitolò patrizj
di Roma.
Come tale, Pepino diveniva protettore uffiziale della santa sede, e
obbligato a soccorrerla contro i Longobardi. Ma prima di respingerne
l'armi coll'armi volle esperire le vie amichevoli, e spedì a re
Astolfo, esibendo dodicimila soldi d'oro se rinunziasse alla Pentapoli
ed altre terre[200]; ricusato (753), fece proclamare la guerra. Al
bando accorsero i signori Franchi in grosso numero; forzarono il passo
di Susa che da cencinquant'anni separava i due popoli rappacificati,
e chiusero Astolfo in Pavia, il quale allora si piegò ad un accordo,
obbligandosi di rimettere a Pepino l'Esarcato e la Pentapoli (754). E
Pepino li donò alla repubblica e alla Chiesa romana ed a san Pietro,
cioè a dire al pontefice, il quale fu rimesso in Roma.
Tale principio ebbe la dominazione temporale dei papi, i quali,
sebbene capi della Chiesa, non aveano fin allora veruna sovranità,
essendo il regno loro assiso altrove che in terra. È un sogno di
tarda composizione il dono che Costantino il Grande fece a papa
Silvestro, ma sta che i papi teneano vaste possessioni; al tempo di
Gregorio Magno contavano ventitrè patrimonj in Italia, nelle isole del
Mediterraneo, in Illiria, in Dalmazia, in Germania e nelle Gallie;
e basti nominare quello estesissimo delle alpi Cozie, che alcuno
vorrebbe abbracciasse anche Genova e la Riviera di ponente. In questi
tenimenti, giusta il diritto romano, aveano giurisdizione sopra i
coloni, e per conseguenza magistrati, appelli, prigioni; anche altrove,
nella trascuranza dei lontani imperatori, esercitavano qualche atto
di sovranità; e porzione ne godeano in Roma come primi cittadini. Solo
però la donazione di Pepino collocò i papi fra i principi della terra:
e poichè sopra di essa fondasi il dominio più antico d'Italia, e tanto
ne restò avviluppata la successiva fortuna del nostro paese, dovette
naturalmente fermarvisi l'attenzione degli storici e de' pubblicisti.
L'atto della donazione di Pepino, qual lo abbiamo, olezza d'adulterino;
pure del fatto non lasciano dubbio i cronisti, univoci in attestarlo,
e una serie di conferme fattene poco dappoi. Abbracciava essa Ravenna,
Rimini, Pesaro, Cesena, Fano, Sinigaglia, Jesi, Forlimpopoli, Forlì col
castello Sussubio, Montefeltro, Acceragio, Monlucati, Serra, Castel
San Mariano (forse San Marino), Robbio (diverso da quel di Liguria),
Urbino, Cagli, Luculli, Agobio, Comacchio; aggiungendovi Narni, che da
molti anni i duchi di Spoleto aveano spiccato dal ducato romano. Leone
ostiense[201] vi comprende anche quant'è da Luni al distretto Suriano
colla Corsica, di là fin a Monte Bardone, poi a Berceto, Parma, Reggio,
Mantova, Monselice, la Venezia e l'Istria, e i ducati di Spoleto e
Benevento. Esagerazione destituita di prove: ma in senso opposto taluni
pretesero la donazione importasse unicamente il dominio utile dei beni
compresi in quel tratto, non già la sovranità riservata da Pepino per
sè e successori suoi; o se pure comprendeva anche la sovranità, non si
applicasse però che quanto all'utile dominio. Come ciò, se in appresso
i Longobardi e l'arcivescovo di Ravenna, venendo in rotta col papa, gli
sottrassero la giurisdizione e non i dominj? Inoltre noi vediamo i papi
giudici e funzionari nelle città donate, e dire _la nostra città di
Roma, il nostro popolo romano_[202], conoscendo d'essere sottentrati in
luogo e stato dell'antico esarca. Anzi potrebbe dimostrarsi che, prima
della donazione di Pepino, i papi già esercitavano giurisdizione in
molti di que' paesi per un consenso popolare, al quale Pepino rendeva
omaggio chiamando restituzione il suo dono[203].
Bensì a torto argomenta chi, trasportando a quel tempo le idee del
nostro, pretende incontrarvi una precisa distinzione di diritti e di
poteri, di dominio utile e governo politico. Il proprietario, come
tale, compiva ne' suoi possessi alcuni atti di sovranità, mantener
l'ordine, rendere giustizia, menare gli uomini in guerra; intanto che
il signor supremo vi riscoteva imposte, mandava sindacatori; e qual
dei due più fosse per indole robusto, più larga porzione facevasi nel
dominare.
Composte le cose d'Italia, Pepino rivalica le Alpi: ma Astolfo, che al
trattato aveva accondisceso soltanto per forza o per guadagnar tempo,
raccolse fretta fretta i suoi Fedeli, mosse sopra Roma con quei di
Benevento, e l'assediò sbraveggiando: — Apritemi porta Salaria, ch'io
entri in città, e datemi il papa, se volete ch'io usi misericordia
verso di voi; altrimenti diroccherò le mura, ammazzerò voi di spada,
e vedrò chi venga a torvi dalle mie mani». I Romani, bene conoscendo
i proprj interessi e la fede di lui, ripulsarono la proposta; e
mentr'egli a man salva devastava le circostanze di Roma, e dai cimiteri
traeva ossa di santi «con gran detrimento dell'anima sua», i cittadini,
tacciati così leggermente di codardi e imbelli, durarono l'assedio per
cinquantacinque giorni col coraggio ch'era rinato in essi fra le prove
delle ultime resistenze.
Il papa diresse a Pepino una lettera in nome di san Pietro, esortandolo
a liberare il suo sepolcro e il suo successore, sotto minaccia di
castighi temporali ed eterni. E tosto Pepino ripassa le Alpi, e
mentre i nemici l'aspettano alle Chiuse, egli gira alle loro spalle,
ed assalta Pavia. Astolfo, costretto a retrocedere in diligenza per
difendere la sua capitale, compra la pace con un terzo de' proprj
tesori, e col sottoporsi all'annuo tributo di dodicimila soldi d'oro;
oltre obbligarsi di nuovo anche con ostaggi a rilasciare al papa la
possessione dell'Esarcato e della Pentapoli.
Deputati suoi, insieme con Fuldrado abate di San Dionisio di Parigi,
girarono per le città dell'Esarcato e della Pentapoli raccogliendo
gli statici fra i principali paesani; indi passati a Roma, sulla
tomba di san Pietro deposero le chiavi d'esse città e la donazione di
Pepino; il quale poi giuntovi in persona, fu ricevuto come liberatore.
Agli ambasciadori venuti da Costantinopoli per indurlo a restituire
all'Impero le terre già greche, ricevendo le spese della guerra,
replicò non aver combattuto a pro di quello, e potere di esse disporre
a suo grado come di buon conquisto. Poi subito tornò in Francia, o per
non recare maggior ombra ai Greci colla sua vicinanza, o perchè forse
scaduto pe' suoi Fedeli il tempo di restar in campagna. Abbiasi a ciò
riguardo prima di lodare di generosità o censurare di dabbenaggine
Pepino, che lascia sussistere i vinti, e non pianta fra loro le leggi
sue ed il dominio.
Astolfo non aveva mandato ancora ad esecuzione il trattato, quando morì
per una caduta da cavallo: lodato fra i migliori re dei Longobardi,
veneratore delle reliquie; delle quali molte trasportò dalla Romagna
a Pavia, fabbricò chiese e oratorj, largheggiò coi monaci, tra le
cui braccia spirò; eppure di sua morte il pontefice esultava, come
di quella d'un persecutore[204]. Suo fratello Rachi uscì dal chiostro
per brigare di nuovo la corona, e si pose a capo d'un esercito; ma il
voto d'altri guerrieri gli preferì Desiderio duca dell'Istria[205],
il quale per toglier via il competitore domandò appoggio dal papa,
promettendogli perpetua fedeltà, e non solo eseguir a puntino le
promesse di Astolfo, ma di aggiungere alle altre terre Faenza, Imola
col castel Tiberiano, Gavello e il ducato di Ferrara. Come l'abate
Fuldrado e il conte Ruperto ebbero di ciò giuramento, fu intimato a
Rachi, in virtù dell'obbedienza monacale, tornasse al devoto ritiro,
e ai Longobardi annunziato che l'esercito romano e franco sosterrebbe
all'uopo i diritti di Desiderio (757), il quale così venne confessato
re.
Moriva quell'anno Stefano II; e Paolo, suo fratello e successore,
promise a Pepino amicizia e fedeltà, e chiese a Desiderio adempisse le
promesse. Invano: costui aveva operato a malizia, e appena assicurato
del regno, ripigliò il perpetuo disegno de' suoi predecessori di
sottomettere tutta Italia. Fatta dunque la maggior levata di gente che
potè, e fidandosi nel sapere Pepino occupato in sanguinosa guerra coi
Sassoni, mandò a sperpero la Pentapoli, surrogò suoi ligi a Liutprando
ed Alboino duchi di Benevento e di Spoleto, che a quello aveano
fatto omaggio; e affiatossi in Napoli con un segretario greco, perchè
l'imperatore mandasse un potente esercito, al quale egli congiungerebbe
le sue forze per recuperare Ravenna, e una flotta per prendere Otranto,
ove Liutprando resisteva.
Il papa non indugiò a dare contezza dei preparativi a Pepino, _nuovo
Mosè, David nuovo_; e questo spedì ambasciadori, i quali rannodarono
la pace colle condizioni già imposte ad Astolfo; sicchè essendo allora
comparsa la flotta greca per ricuperare essa città, Romani e Longobardi
si trovarono congiunti a respingerla. Malgrado l'armonia apparente,
Desiderio non volle mai restituire le città occupate, per lamenti che
il papa levasse; favoriva anzi lo scisma dell'arcivescovo di Ravenna,
contumace alla Chiesa romana: talchè prevedevasi inevitabile la guerra,
che fu indugiata solo dall'esser morti quasi contemporaneamente il
pontefice e Pepino.


CAPITOLO LXVIII.
Fine del regno longobardo. Rinnovasi l'impero d'Occidente.

Pepino morendo spartì il regno fra i due figliuoli (768), già unti re
dal papa. Carlo, maturato nei campi e nel governo, era alto e maestoso
di presenza, robusto a qual fosse fatica, vivace nel conversare,
indomabile dai disastri come dalle venture, perseverante ne' propositi,
rispettoso alla religione, amico delle scienze, insegnato in quanto
si sapeva a' suoi dì; e dal personale suo carattere forse più che da
altro provenne l'efficacia che esercitò sui contemporanei, i quali gli
applicarono il titolo di Magno, che la posterità gli confermò.
Carlomanno all'incontro, tentennante e sospettoso come i mediocri,
lasciavasi raggirare; e alcuni, pagati a tal uopo dal re de'
Longobardi, lo subillavano contro il fratello, al quale insidiò perfino
la vita. Poco tardò a morire (771), lasciando due bambini; e poichè
il diritto germanico non considerava i popoli come una proprietà da
ereditarsi, bensì la dignità regia come una magistratura liberamente
affidata dal voto comune, i vassalli dell'estinto elessero re
Carlo[206], che per tal modo si trovò a capo del più poderoso Stato
d'Europa. E cominciò una serie di guerre e di ordinamenti, che lo
elevarono al posto più sublime nella storia del medioevo.
Desiderio re de' Longobardi, al morire di Pepino avea sperato rifarsi
dei danni patiti sotto di questo: ma come le prime imprese di Carlo
Magno lo chiarirono che costui non iscattava dal vigore e dall'abilità
paterna, pensò avvicinarsegli. Fe dunque esibirgli in isposa sua
figlia Desiderata o Ermengarda, e chiederne la sorella Gisela pel
proprio figlio e collega Adelchi: ma un accordo che poteva mettere
a repentaglio i temporali interessi della santa sede e dell'Italia,
spiaceva a papa Stefano II, il quale scrisse a Carlo violente
parole perchè non desse ai sudditi e al mondo lo scandalo di contrar
doppie nozze, e ripudiare Imiltrude, nobile Franca, onde unirsi con
quest'altra di una rea progenie, da Dio esecrata e infetta di lebbra;
nè ad uno, cui soltanto per sua mercede era conservato il regno volesse
concedere quella suora sua che aveva negata al greco imperatore.
Berta, madre di Carlo, che non secondo la politica ma secondo il cuore
giudicava di queste nozze, venne ella medesima in Italia per ridurle
a compimento; a Roma forse favellò col papa, promettendo fargli da
Desiderio cedere alcune delle terre occupategli (770); e se il legame
fra Gisela e Adelchi non si effettuò, Berta menò Ermengarda di là
dall'Alpi. Sventurata fanciulla, che coi dolori e coll'umiliazione
dovea scontare il breve gaudio d'essersi seduta accanto al maggior re.
In Romagna essendo cessati il dominio degl'imperatori e le magistrature
greche, sempre più rivaleva il sistema municipale; e le primarie
famiglie aveano colle cariche, le ricchezze, la forza, acquistato
predominio sopra le altri classi, e concentrata in sè l'elezione
dei consoli, succeduti ai decurioni, e spesso quella dei prelati.
Singolarmente pretendeano aver mano alla nomina dei papi; e massime da
che questi erano divenuti principi, la cattedra di San Pietro eccitava
l'ambizione, sicchè esse famiglie fin alla violenza ricorrevano per
occuparla.
Morto Paolo (767), Totone duca di Nepi e tre suoi fratelli congiunsero
le loro masnade (_scholæ_), e a forza fecero proclamar papa uno di
loro, per nome Costantino, laico ancora; e costretto Giorgio vescovo
di Palestrina ad ordinarlo, e collocatolo in Vaticano, giurargli
fedeltà dal popolo romano. L'intruso cercò l'amicizia di Pepino
che ancora viveva, e che impegnato in guerre, non poteva prendersi
pensiero dell'Italia. I Romani mal soffrivano la carpita elezione; e il
primicerio Cristoforo con suo figlio Sergio, dignitario della Chiesa,
sotto colore di rendersi monaci, fuggirono ai Longobardi della bassa
Italia, chiedendone il braccio per isbalzare Costantino.
Afferrò l'occasione Teodicio duca di Spoleto; e consenziente re
Desiderio, diede una schiera de' suoi, comandati da un Valdiperto, il
quale erasi assunto di tradire la città a' suoi nazionali. In effetto
Roma è presa; ucciso il duca Totone accorso al riparo; Passivo, altro
fratello, è col papa fatto prigioniero; e fra lo scompiglio della
straniera invasione, Valdiperto trae un prete da un monastero, e grida:
— Abbiamo pontefice Filippo; san Pietro lo elesse».
Però quel primicerio Cristoforo, insospettitosi delle intenzioni de'
Longobardi, che sì improvvidamente egli aveva invocati, subillò molti