Storia degli Italiani, vol. 05 (di 15) - 12

in potere dei Greci, i quali lo obbligarono a dire agli assediati,
non dovessero sperare verun soccorso. Egli promise: ma invece confortò
Romoaldo a durare, giacchè suo padre avvicinava; tenesse raccomandati
la moglie e i figli suoi, ch'egli era certo di non sopravivere. Di
fatto Costante fe mozzarne il capo e balestrarlo in città: poi levò il
campo al sopragiungere di Grimoaldo, il quale rincacciò i nemici sin
presso Formia, e il sconfisse.
I Beneventani conservavano riti superstiziosi; adoravano immagini
di serpenti; ad un albero sacro attaccavano un pezzo di cuojo, poi
correndo a briglia sciolta e scagliando dardi all'indietro, chi così
riuscisse e staccarne alcun pezzo, sel mangiava per devozione. Il
pio Barbato che poi vi fu vescovo, predicava contro tali idolatrie, e
Romoaldo gli promise estirparle se Dio gli desse vittoria. Liberato
Benevento, osservò la promessa, e Barbato di propria mano recise
l'albero sacrilego. Saputo però che Romoaldo teneva ancora nel suo
gabinetto un serpente d'oro, persuase Teodorada moglie di lui a
consegnarglielo, e ne fa fare un calice e una patena. Romoaldo non solo
nol punì, ma gli offerse estesissimi poderi; ed esso li ricusò, sol
cercando aggregasse alla sua diocesi Siponto, dov'era la grotta di San
Michele.
Costante II, giacchè non sapeva vincere nemici, volle spogliare
sudditi inermi, e gettatosi su Roma, derubò quel ch'era avanzato delle
depredazioni anteriori. Non saziato dai doni di papa Vitaliano, si
prese tutto il bronzo del Panteon, perfino il copertume metallico, e
recò le prede in Sicilia. Ma quando veleggiavano per Costantinopoli,
una squadra saracina le assalì e portolle in Alessandria, donde forse
alcune di esse erano un tempo passate a Roma.
Sei anni rimase quell'imperatore in Siracusa, facendola soffrire de'
suoi capricci (668), finchè un Mesenzio lo assassinò, credendo ben
meritare perchè eretico[184]. Costantino Pogonato suo figlio, raccolta
gran gente dall'Istria, dalla Sardegna, dall'Africa, piombò sopra
Siracusa, uccise Mesenzio ch'erasi dichiarato imperatore, e la testa
di lui e degli altri congiurati mandò a Costantinopoli. Ma intanto
Romoaldo avea pensato vendicarsi dell'aggressione, e a capo d'una
ciurma di Bulgari tolse all'Impero le città di Bari, Taranto, Brindisi
e Terra d'Otranto, conquiste che non potè conservare.
I Bulgari erano gente sottoposta un tempo agli Avari, dai quali
riscossasi, devastò l'Impero, e offrivasi a servigio di chi la pagasse.
Alquanti di essi aveano ottenuto i deserti territorj di Supino, Bojano,
Isernia, con giurisdizione signorile, dipendente però dal duca di
Benevento, e vi conservavano la patria lingua. Al modo stesso nell'alta
Lombardia voleano piantarsi gli Avari, chiesti da Grimoaldo contro il
ribellato duca del Friuli; ma il re li respinse.
Morto questo (671), i duchi irrequieti deposero il figlio Garibaldo, e
richiamarono Pertarito dall'esiglio al trono. Con erigere Sant'Agata in
Monte e Santa Maria in Pertica[185] a Pavia, attestò la sua gratitudine
a Dio che l'avea campato da tanti pericoli, e quindici anni regnò,
osservante della giustizia, limosiniero, istruito dalla sventura a
non abusare della prosperità. Ma due fazioni, una contraria, l'altra
seconda a questi re bavaresi, non cessavano di rimescolare il regno.
Mal seppe destreggiare Cuniperto, figlio di Pertarito (686); sicchè i
duchi di Benevento e di Spoleto fin l'ombra cessarono di dipendenza.
Altrettanto di propria balìa operavano i duchi del Friuli, posti
come sentinella avanzata contro nuovi invasori d'Italia. Fra quelli
nomineremo Ferdolfo (694), che provocò gli Schiavoni tenendosi certo
di vincerli; ed essi vennero, e cominciarono a rubare le pecore.
Lo scultascio Argaido, nobile e prode uomo, uscì loro incontro, ma
non potè raggiungerli; e il duca lo rimproverò d'averli lasciati
sfuggire, dicendo che ben gli stava il suo nome, derivato da arga, che
in longobardo vale poltrone. Argaido replicò: — Voglia Dio chiarire
qual di noi due sia più poltrone». Pochi giorni dopo, gli Schiavoni
tornarono grossi, ed accamparono s'un'altura. Ferdolfo ronzava a piè
di quella, divisando i modi di assalirla, quando Argaido gli rammentò
l'ingiuria; e — Maledetto da Dio chi di noi sarà l'ultimo ad assalire
gli Schiavoni». Spronato, salì per la montagna, e Ferdolfo altrettanto;
ma gli Schiavoni rotolando sassi uccisero quei due e la nobiltà che li
seguì. Così il puntiglio, come altre volte, recò a rovina il paese.
Anche il poderoso Alachi duca di Brescia (688), ingrato a Cuniperto,
tramò con Aldone e Gransone, primarj cittadini, e usurpò il titolo
regio; ma ben presto disgustò il vescovo di Pavia e altri signori
longobardi. Un giorno, numerando certe monete, gliene cascò una; e al
giovinetto figlio di Aldone ivi presente che gliela raccolse, disse:
— Di queste tuo padre ne ha d'assai, e presto diverranno mie». Il
fanciullo riferì quel motto al padre, che prevenne la minaccia col
richiamare Cuniperto dalla piccola e forte isola del lago di Como.
Venne questi, e scontrato Alachi alla Coronata (Cornate) presso l'Adda,
lo sfidò a duello; ma Alachi riflesse: — Costui è ubbriacone, ma
robustissimo della persona. Vivo suo padre, trovandosi in palazzo certi
montoni di smisurata grossezza, li sollevava col braccio teso; ed io
non potevo altrettanto».
Men codarda ragione addusse quando, di nuovo esortato a duellar
col nemico, rispose che negli stendardi di quello vedeva l'effigie
dell'arcangelo Michele, davanti al quale esso gli avea giurato fedeltà.
Il rifiuto svolse da lui molti de' fedeli, i quali unico merito
riconosceano la forza. Al contrario, Cuniperto era amatissimo da' suoi;
tanto che Zenone diacono della chiesa di Pavia volle assumere la veste
di esso, per trarre contro di sè l'attenzione e le armi del nemico,
e così sviarle dal vero re; e di fatto rimase ucciso. Ma i Longobardi
s'infervorarono alla battaglia, e ucciso Alachi, e tuffatone l'esercito
nell'Adda, assicurarono a Cuniperto la vittoria e il regno.
Cuniperto, diffidando de' bresciani Aldone e Gransone, pensava torli
di vita, e ne divisava i modi col suo cavallerizzo, allorchè sulla
finestra venne a posarsi un moscone, e il re con una coltellata gli
levò una gamba. Intanto i due fratelli, com'erano soliti, s'avviavano
alla reggia, quand'ecco uno privo d'una gamba gli avvisa del pericolo
che correano, sicchè essi rifuggono in una chiesa. Il re, dubitando
che alcuno de' suoi fedeli gli avesse ammoniti, invia a prometter loro
sicurezza se indichino da chi ebbero l'avviso; ed essi confessano
averlo avuto da uno zoppo sconosciuto. Cuniperto, ricordatosi del
moscone, comprese che quello era uno spirito maligno, che avea spiato i
secreti di lui per rapportarli.
Paolo Diacono riferisce ciò in tutta serietà; e sopra storici siffatti
siamo costretti tessere la storia. Agnello, che scrisse le vite degli
arcivescovi di Ravenna, ha racconti dello stesso calibro: e ne basti
uno. Giovanni, abate del monastero di San Giovanni presso Ravenna,
molestato dall'esarca, andò a Costantinopoli e si pose sotto al palazzo
cantando versetti di salmi, finchè l'imperatore il fe chiamare, e
intesone le ragioni, gli diede una commendatizia per l'esarca. Al
domani stesso scadeva il termine da questo prefisso ai monaci per
addurre le loro ragioni; onde l'abate struggevasi di ritornare al più
presto, ma non trovò nave. Dolente passeggiava sul lido, quando gli
si affacciarono tre uomini nerovestiti, e udito il suo rammarico, gli
promisero rimetterlo a casa il domani, se facesse com'essi gli diceano.
E gli diedero una verga, colla quale delineasse sulla sabbia una barca,
colla vela e colla ciurma: poi vollero si collocasse in un letto nella
sentina, e per rumori e turbini che intendesse, non si sgomentasse
nè facesse il segno della croce. Come detto così fatto: il fracasso
fu indescrivibile; ma a mezzanotte egli si trovò sul tetto del suo
monastero. La meraviglia dei monaci e dell'esarca lascio immaginarla:
egli raccontò la cosa all'arcivescovo, che gl'impose una penitenza.
Ciò che risulta da queste baje è che gl'italiani stavano altrettanto
male sotto i Longobardi che sotto i Greci. Cuniperto, tenuto il regno
dodici anni, lo trasmise al giovinetto figlio Liutperto (700), sotto la
tutela del nobile e saggio Ansprando. Ma in breve da Ragimperto duca di
Torino ne fu spodestato, poi ridotto prigioniero e ucciso da Ariperto
II (701), figlio e successore di quello, che dovette continuamente
lottare contro altri duchi: regni brevi, successioni tempestose, che
toglievano d'invigorire la monarchia. Ansprando, tutore di Liutperto,
erasi rifuggito nell'isola Comacina, ma assalito da Ansperto, passò
in Baviera. Ariperto si svelenò contro gli amici di Ansprando, al
figlio di esso fe cavar gli occhi, alla moglie e alla figliuola mozzar
il naso e gli orecchi. Ma Ansprando coi Bavari rivalicò le Alpi, e
vinse Ariperto (712), che guadando il Ticino a Pavia affogò, ultimo
degli Agilulfingi in Italia. Dicono uscisse travestito per intendere
quel che di lui si dicesse: agli ambasciadori stranieri mostravasi in
abito dimesso e con pelliccie volgari e volgari imbandigioni, per non
allettarli alle squisitezze italiane. Ma queste voglionsi difendere con
valorosa concordia, piuttosto che celare con pusillanime astuzia.
I Longobardi unanimemente acclamarono il prudente Ansprando, che regnò
soli tre mesi[186], ma vide eletto a succedergli suo figlio Liutprando,
che in trentadue anni di regno rinnovò lo splendore della signoria
longobarda. Le prime cure applicò a riformare lo Stato, comprimendo
le rinascenti sollevazioni anche col supplizio d'alcuni duchi; molti
castelli tolse ai Bavari, che forse meditavano recuperare il trono;
si tenne buoni i Franchi e gli Avari, e dettò leggi prudenti, in capo
alle quali s'intitola _cristiano e cattolico, re dei Longobardi a Dio
diletti_. Coraggioso fin alla temerità, udito che un Rotari suo parente
avea disposto di ucciderlo in un convito, lo chiamò a sè, e tastato
se veramente portasse il giaco di ferro sotto ai panni, respinse colla
propria la spada che costui trasse, e lo fece uccidere. Saputo che due
gasindi gl'insidiavano i giorni, gl'invita a caccia, ed appartatosi
solo con essi soli, rinfaccia il perverso consiglio; indi gettate le
armi, — Ecco il re vostro; fatene secondo vi piace». Vinti al generoso
e franco atto, gli caddero a' piedi, ed esso li perdonò e beneficò.
Anche colla Chiesa stette in armonia, e confermò il dono di molti
beni nelle alpi Cozie, fattole da Ariperto II. Rintegrato l'ordine e
l'obbedienza, svelto ogni seme delle guerre civili, ridrizzò l'animo al
disegno de' suoi predecessori, d'unire tutta Italia snidando i Greci. E
la fortuna parve mandargliene il destro.


CAPITOLO LXVII.
Gli Iconoclasti. Origine della dominazione temporale dei papi.

L'imperio romano continuava colle antiche forme a Costantinopoli, ma
sempre più fievole e minacciato da diversi nemici, ai quali vennero ad
aggiungersi i Musulmani. Maometto avea predicato agli Arabi (622) una
religione, di dogmi semplicissimi, ridotti quasi solo alla unità di
Dio; di morale condiscendente e sanguinaria, giacchè ripristinava la
pluralità delle mogli e il diritto della forza, che il cristianesimo
avea sbanditi. Subito i suoi discepoli, armati di scimitarra e
d'intolleranza, uscirono dalla penisola natia gridando, — Non v'è
altro dio che Dio, e Maometto è suo profeta»; e vedendo non potere
dar trionfo alla loro se non soffocando ogni altra civiltà, diressero
le prime offese contro i luoghi dov'era nata la religione cristiana,
occupando Gerusalemme e la Palestina, poi con una spaventevole rapidità
ebbero sottoposto gran parte dell'Asia, il lembo settentrionale e
l'orientale dell'Africa, e minacciavano l'Europa dai due lidi che
più l'avvicinano, dallo stretto di Gibilterra verso la Spagna, e
dall'Ellesponto verso Costantinopoli. L'Impero, spogliato per essi
delle sue più belle provincie, videsi ridotto a difendere la capitale,
che più volte assalita, si sosteneva per la felicissima postura.
A sì gravi frangenti mal bastavano i discendenti d'Eraclio, che
deboli, litigiosi, disumani, peggioravano la condizione de' paesi a
loro soggetti, fra' quali mezza l'Italia. Terminata la loro stirpe,
seguirono imperatori elettivi; e Leone, pastore d'Isauria mutatosi in
guerriero, avea tanto ben meritato col combattere Bulgari e Saracini,
che fu portato imperatore (717). La prodezza di lui prometteva un
difensore valente, l'operosità un egregio amministratore, un buon
fedele l'aver ai vescovi giurato di rispettare i concilj e le decisioni
della Chiesa: ma riuscì troppo lungi dalle speranze, e sul trono già
turbato da tanti eretici, egli volle comparire eresiarca.
Nessuno ignora quanto abborrimento il legislatore degli Ebrei
avesse a questi ispirato contro ogni immagine d'uomini o della
divinità, conoscendoli propensi a confondere la rappresentazione
col rappresentato. I Cristiani, usciti dalla sinagoga, probabilmente
rifuggirono sulle prime dall'effigiare Dio e i Santi: ma oltre esser
naturale nell'uomo il venerare le sembianze delle persone o care
o stimate, già usavano i Romani una specie di culto ai ritratti
degl'imperatori e vivi e morti; onde i Cristiani, intenti a volgere
alla verità gli stromenti della menzogna, è probabile che presto
effigiassero Cristo e gli Apostoli. Può l'ignoranza essere trascorsa a
confondere la copia coll'originale, e prestar adorazione a ciò ch'era
destinato unicamente ad elevare le aspirazioni verso l'Ente supremo;
laonde alcuni Padri e concilj riprovarono le immagini, o per genio
particolare, o per ispeciale pericolo che ne scorgessero: però la
Chiesa, che, immobile nel dogma, piegasi nei riti e nella disciplina
alle opportunità dei paesi e de' tempi, trovò soverchio questo rigore
quando ne fu cessata la ragione, cioè il timore dell'idolatria. Allora
si moltiplicarono le figure dei Santi e del Salvatore, e le storie
dell'Antico e del Nuovo Testamento, opportune a dare alle arti il
pascolo, che fin allora avevano tratto dal gentilesimo, ed allettare
gli occhi dei Barbari, a cui talvolta la curiosità d'intendere il
componimento di quelle pitture serviva d'avviamento a conoscere le
morali verità del Vangelo. Qual cosa umana va esente da abusi? e questi
mossero alcuni a riprovare quel culto, e viepiù quando i Maomettani,
aborrenti dall'effigiare la divinità, lo rinfacciavano ai Cristiani
come idolatria: laonde Leone Isaurico, valendosi dell'autorità che
gl'imperatori si arrogavano sopra le cose ecclesiastiche, lo proibì, e
violentemente distrusse le effigie devote.
Le coscienze si rivoltano sempre contro chi pretende forzarle; e il
popolo che era affezionato a quelle devote e antiche rappresentazioni,
levò d'ogni parte mormorii; quantunque i prelati greci apparissero
troppo spesso ligi all'imperiale volontà, il patriarca Germano
protestò contro l'incompetente decreto, e ne scrisse al papa e ad
altri vescovi, appoggiando il culto delle immagini colle ragioni,
coll'autorità, coi miracoli per esse moltiplicati. La violenza chiama
violenza; e il popolo, sturbato nelle sue devozioni, insorse a furia
contro lo spezza-immagini (_iconoclasta_); dovunque i messi di lui
si presentassero ad abbatterle, il popolo toglieva a difenderle a
pugni, a sassi, a coltelli; e l'imperatore per esser obbedito bandì il
patriarca, moltiplicò i rigori e i supplizj.
L'Italia greca ne toccava la sua parte; e avendo papa Gregorio II
esposta all'imperatore la dottrina della Chiesa su questo punto,
l'Iconoclasta per tutta risposta raddoppiò intimazioni d'obbedire o
guai. I Ravennati non poterono reggere a questo rinforzo di tirannia, e
levato popolo, trucidarono l'esarca e chi per lui; altrettanto fecero i
Napolitani; e il loro duca Esilarato, venuto per assassinare il papa,
fu col figliuolo ucciso dai Romani, che insorti a difendere nella
persona del pontefice la religione e le franchigie loro, espulsero
il greco governatore. Per tutta l'Italia imperiale si propaga la
rivolta; una di quelle che riescono, perchè determinate da sentimento
di giustizia e di religione, non da sottigliezze che il popolo non
intende, e da cui non ha profitto. Armati per propria difesa, ricusando
il peccato e il tributo, non versano altro sangue se non quello che
difficilmente si può risparmiare in un primo e contrastato bollimento
popolare[187]; abbattono le statue dell'augusto; e accordandosi di
più non voler affari con questi Greci, temuti come tiranni, spregiati
come deboli, aborriti come eretici, eleggono magistrati nazionali in
luogo di quei che venivano da Costantinopoli o da Ravenna, e risolvono
nominare un imperatore che sieda a Roma e osteggi Leone.
Tanto l'ambizione dei papi rimase estranea a questo spontaneo moto,
che Gregorio intercesse per Leone[188], sperando si convertirebbe alla
verità; per sue insinuazioni a Roma fu conservata, a Napoli restituita
l'autorità imperiale. Vero è però che, nel fiaccarsi dell'imperiale
arbitrio, ripigliavano vigore gli ordinamenti municipali, e quindi
l'autorità de' pontefici: nobili, consoli e popolo ebbero ricuperato la
rappresentanza loro quando furono raccolti a concilio per condannare
l'opinione, che ad essi l'imperatore comandava. Civitavecchia fu
munita, e in nome del ducato romano conchiusa alleanza coi Longobardi
meridionali, pur conservando l'esteriore soggezione all'Impero.
Gregorio fu dunque il primo di que' pontefici che, ne' tempi nuovi,
rannodarono la federazione italiana; sotto la religiosa sua presidenza
unendo le città che non voleano ricevere il giogo longobardo, nè
sopportare il greco.
Profittò di questi sovvertimenti re Liutprando, e con aspetto di
favorire l'equità e la libertà di coscienza, assalse ed occupò
Ravenna[189]; Bologna e la Pentapoli (728): ma i Veneziani, sollecitati
dal papa contro questi Barbari, mandano il doge Orso Participazio, il
quale piomba sul re longobardo, lo sconfigge, ne fa prigione il nipote,
e sgomberata Ravenna, vi insedia l'eunuco Eutichio, speditovi esarca
da Costantinopoli. Liutprando, il quale avea sperato che nel pontefice
la recente offesa potesse più che il bene generale della penisola, al
trovarsi deluso s'accannisce, conchiude pace con Eutichio, promettendo
dargli mano a sottoporre i riottosi, purchè a vicenda egli il soccorra
contro i duchi di Spoleto e di Benevento, sollevati a favore di Roma.
Riuscita l'impresa, i due eserciti congiunti si difilano sopra Roma,
per punirla entrambi d'opposti torti; i Greci dell'avere disobbedito
all'imperatore, i Longobardi dell'essergli rimasta fedele. Il papa,
venuto al campo nemico, parlò a Liutprando con tale pietà, che questo,
il quale pur confessava legalmente la supremazia del papa[190], se
gli gettò ai piedi promettendo non far male ad alcuno; e seco entrato
nella basilica Vaticana, sul corpo de' santi Apostoli depose in dono il
manto reale, i braccialetti, l'usbergo, il pugnale, la spada dorata, la
corona d'oro, la croce d'argento.
Ma l'imperatore di Costantinopoli continuò a vessare il papa, il quale
gli scrisse risentito, rinfacciandogli l'ignorante sua presunzione,
e minacciando la rivolta di tutta Italia: — Voi imperatore, voi capo
dei Cristiani, perchè non interrogaste uomini addottrinati ed esperti?
ei v'avrebbero insegnato che, se Dio proibì d'adorare le opere degli
uomini, fu in riguardo degli idolatri che abitavano la terra promessa.
Solo l'ignoranza può farvi credere che noi adoriamo pietre, muraglie,
tavole: noi lo facciamo unicamente per rimembrare coloro di cui queste
portano il nome e le sembianze, e per elevare il nostro spirito torpido
e grossolano. Tolga il cielo che le teniamo per Dei, nè poniamo in
esse fiducia; ma a quella di nostro Signore diciamo, _Signor Gesù,
soccorreteci e salvateci_; a quella della sua santa madre, _Santa
Maria, pregate il figliuol vostro che ci salvi le anime; se è d'un
martire, Santo Stefano che spargeste il sangue per Gesù Cristo, e
presso lui tanta grazia avete, pregate per noi_».
Prete Giorgio, che dovea portar questa lettera all'imperatore,
per via fu còlto dai soldati imperiali che lo cacciarono prigione,
dopo toltogli il dispaccio; e l'Isaurico rispose: — Manderò a Roma
a sfrantumare l'immagine di san Pietro, e fare con papa Gregorio
come Costanzo con papa Martino, portandolo via carico di catene».
Ma Gregorio replicava: — I pontefici sono i mediatori e gli arbitri
della pace fra l'Oriente e l'Occidente, nè le minaccie vostre ci
sbigottiscono. A poche miglia da Roma siamo in sicuro. Gli occhi delle
nazioni stanno fissi sopra la nostra umiltà; esse riveriscono quaggiù
come un dio l'apostolo san Pietro, di cui voi minacciate frangere la
figura: i regni più remoti d'Occidente tributano omaggio a Cristo e al
suo vicario; voi solo state sordo alle sue voci. Se persistete, ricadrà
su voi il sangue che potesse versarsi».
Sentiva dunque il pontefice che, contro l'oppressione del mondo antico,
troverebbe schermo nelle genti nuove; e sapendosi insidiato, prese
guardia alla propria persona, e informò gl'Italiani dell'occorrente.
I popoli della Pentapoli e i Veneziani chiarironsi pel culto avito,
scotendosi dalla soggezione agli ordini di Costantinopoli: i Longobardi
si opposero all'esarca di Ravenna che avviava l'esercito verso Roma.
Non minor fermezza del predecessore palesò Gregorio III, il quale
non chiese la conferma dell'esarca (731), repudiò gli editti che
proscrivevano le immagini, esortò l'imperatore a cassarli; e non
esaudito, ricorse all'armi sue raccogliendo novantatre vescovi
d'Italia, che dichiararono anatema chi le distruggesse, profanasse
o bestemmiasse. Infellonì Leone a tale annunzio, e non potendo per
allora contro le vite, nocque alle sostanze dei disobbedienti col
crescere d'un terzo il tributo e la capitazione in Sicilia e Calabria,
e staggire i patrimonj che da antichissimo vi teneva la santa sede;
sottrasse al metropolita di Roma e sottopose a quello di Costantinopoli
le chiese di Napoli, Calabria, Sicilia ed Illiria; poi inviò in Italia
un grosso navile: ma sul golfo Adriatico andò disperso da violenta
fortuna. Le reliquie della flotta approdate a Ravenna, tentarono
saccheggiarla; ma il popolo, avutone sentore, diè di piglio alle armi,
e li respinse ed affogò, e per più anni seguì a far festa di un tale
avvenimento.
Salvo da questo frangente, il papa si trovò in un nuovo per
parte di Liutprando. Trasimondo duca di Spoleto, che questi aveva
precedentemente soggiogato, era di nuovo insorto; talchè Liutprando
dovette muovere contro di lui l'esercito. Trasimondo fuggì a Roma, e
avendone il re domandata l'estradizione, Gregorio e Stefano patrizio e
l'esercito romano ricusarono. Il re sdegnato, insieme con Ildeprando
che in occasione di malattia gli era stato dato collega (740), entrò
nel paese[191] e pigliò Amelia, Orte, Bomarzo e Bleda. Per allora
voltossi indietro, ma essendo Trasimondo ritornato a Spoleto coll'ajuto
de' Beneventani e de' Romani, Liutprando invase di nuovo il ducato
romano, e benchè a Rimini fosse messo a fil di spada parte del suo
esercito, e tra Fano e Fossombrone lo assalissero vigorosi i natii,
difilavasi sopra Roma. Gregorio, non vedendo scampo nelle forze
proprie, e nulla avendo a sperare dai Greci, pensò ricorrere a principe
barbaro.
Come nella Gallia Cisalpina i Longobardi, così nella Transalpina si
erano piantati i Franchi, e Clodoveo lor re fu il primo dei Barbari
che, col battesimo, accettasse le credenze cattoliche e la soggezione
ai papi, i quali perciò fregiarono col titolo di _cristianissimo_
lui ed i suoi successori. Vedemmo come essi fossero pericolosi
vicini ai Longobardi, da cui lungamente esigettero un tributo: ma poi
digradarono dalla primitiva robustezza, e i re, datisi al far niente,
abbandonarono l'autorità ai maggiordomi. Tale dignità pertanto fu
ambita, e Pepino d'Héristal (687-714) riuscì a renderla ereditaria in
sua casa, ai re lasciando soltanto il titolo e il fasto. Suo figlio
Carlo acquistò il soprannome di _Martello_ pel valore guerriero, che
spiegò principalmente contro i Musulmani. Questi, occupata la Spagna,
aveano valicato i Pirenei e minacciavano la Francia, ed era pericolo
che Maometto prevalesse a Cristo anche in Europa come in Asia; laonde
il pontefice avea spedito a Carlo tre spugne colle quali ripulivasi
la mensa eucaristica, onde confortarlo a combattere que' nemici della
nostra fede e della nostra civiltà. L'eroe li vinse più volte, poi
(732) decisivamente a Poitiers; il papa gli mandò regali e il titolo
di patrizio romano: il longobardo Liutprando ne chiese l'alleanza; ed
avendogli il Franco inviato suo figlio Pepino acciocchè l'adottasse
come figlio d'onore, il re gli recise i capelli, e lo rimandò con
larghi donativi[192].
A costui, che l'Europa acclamava vincitore dei figli d'Agar,
salvatore della cristianità, è naturale che il papa, minacciato
dai Longobardi, volgesse gli occhi, e gli diresse una lettera così
compilata: — Gregorio all'eccellentissimo figlio signor Carlo, vicerè
(_subregulus_) di Francia. In estrema afflizione noi gemiamo, vedendo
la Chiesa abbandonata da que' suoi figli stessi che dovrebbero a sua
difesa consacrarsi. Lo scarso territorio di Ravenna, che unico ci
rimaneva l'anno scorso per sostentamento dei poveri e illuminazione
della Chiesa, fu posto a ruba e fuoco da Liutprando e Ildeprando
re longobardi; hanno distrutto i poderi di san Pietro, tolto il
bestiame che rimaneva, desolato fin i contorni di Roma. Neppure da te,
eccellentissimo figlio, abbiamo fin a quest'ora ricevuto consolazione
di sorta, e conosciamo che, invece di riparare questi mali, presti
maggior fede ai principj da cui derivano, che non alla verità da noi
esposta. Preghiamo l'Altissimo che di tale peccato non ti punisca,
ma potessi tu udire i rimproveri di costoro che ci dicono, Ov'è
questo Carlo, di cui implorasti la protezione? venga egli, e con quei
formidabili suoi Franchi ti salvi dalle nostre mani. Qual dolore ci
cuoce all'udire questi rimbrotti! al veder così possenti figli della
Chiesa non mover dito per difenderla e vendicarla de' nemici! Il
principe degli Apostoli, accinto di sua potenza ben potrebbe farle
schermo: ma egli vuol provare in questi tempi disastrosi il cuore de'
suoi figliuoli. Non prestar dunque fede a quei re quando accusano i
duchi di Spoleto e di Benevento: unica loro colpa è di non avere voluto
l'anno scorso assalirci contro la santa fede; del resto obbediscono
affatto ai re, eppure si vuole privarli del grado, metterli in esiglio
per non aver ostacoli a soggiogare la Chiesa e farla schiava. Mandaci
uno de' tuoi fidati, incorruttibile a doni, a minaccie, a promesse,
che coi proprj occhi veda le nostre persecuzioni, l'avvilimento della
Chiesa, le lagrime dei pellegrini, la ruina del nostro popolo, e te
esattamente ragguagli. Pel giudizio di Dio e per la salvezza dell'anima
tua t'esortiamo a soccorrere alla Chiesa di san Pietro e al popol suo,
ed allontanare questi perfidi re. Pel Dio vivente e per le chiavi della
confessione di san Pietro, che a te spedisco in segno di dominio[193],
t'affretta al nostro sussidio, chiarisci la tua fede, e accresci in tal
guisa la fama che di te va pel mondo; acciocchè il Signore ascolti te
pure nell'afflizione, e il nome del Dio di Giacobbe ti protegga, e noi
possiamo sulla tomba dei santi Pietro e Paolo pregar contenti giorno e
notte l'Eterno per te e pel tuo popolo».
Che il portatore di questa lettera tenesse istruzioni a voce per
accordarsi con Carlo onde mutare dall'Impero a lui la signoria di
Roma, nessun argomento n'abbiamo; anzi il papa dovette con istanze
nuove sollecitare Carlo, che alla perfine spedì messi a Liutprando. Ma
mentre si menavano trattati, e il maggiordomo e l'imperatore e il papa
morirono (741); e Zacaria succeduto a questo, venne in persona a Terni,
e a forza di bontà e di dolcezza indusse il re longobardo a restituire
le città romane occupate. Trasimondo di Spoleto, vistosi abbandonare
dai Romani, si consegnò a Liutprando, che si contentò di farlo chiudere
in un convento: Gregorio duca di Benevento, mentre voleva camparsi
in Grecia, fu trucidato a furor di popolo. Liutprando conferì i due
ducati a parenti suoi, indi, perfidiando le promesse, ritenne quante
città di Romagna aveva occupate, sinchè il papa, trovatolo novamente,