Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 26
rimbarcavano. Ricimero, sprovveduto di forze navali, dovette lasciare
che gl'italiani ricorressero alla mediazione dell'imperatore di
Costantinopoli.
Questi spedì ambasciatori a Marcellino, che, pago di vedersi con tal
atto riconosciuto sovrano della Dalmazia, promise restar quieto.
Genserico, al contrario, alzava le pretensioni, e pretendeva che
suo cognato Olibrio fosse elevato augusto; ma in vece sua, dopo
diuturna vacanza, fu gridato Procopio Antemio [Sidenote: 467 — 12
aprile], galata di nazione, uno de' più illustri privati dell'impero
Orientale, e genero dell'imperatore Marciano. Mosso da Costantinopoli
con molti conti e con piccolo esercito, entrò in Roma trionfalmente,
e senato, popolo, federati approvarono la scelta. Ricimero, che
nella vacanza avea continuato da padrone, volle gli sposasse una sua
figlia, e splendidissime celebraronsi le nozze. Antemio, lasciando
Costantinopoli, avea ceduto la sua casa per farne un bagno pubblico,
una chiesa, un ospizio pei vecchi: pure in Roma tollerò sì gli avanzi
del paganesimo, sì gli eretici, e nel fôro Trajano rinnovò l'antica
cerimonia del manomettere i servi colla guanciata, «pronto (diceva
il suo panegirista) a sciogliere gli antichi schiavi e farne di
nuovi»[311].
Leone imperatore d'Oriente adoprò allora le sue forze e centrentamila
libbre d'oro per isbrattare dai Vandali il Mediterraneo; il patrizio
Marcellino, colle sue navi avvezze a corseggiare, li snidò di Sardegna;
Basilisco, fratello dell'imperatrice d'Oriente, comandava la flotta
di mille centredici navi, e più di centomila fra soldati e ciurma: ma
Genserico trovò ancor modo di gettar le fiamme nella flotta, sicchè i
due Imperj videro andar col fumo un armamento che gli avea spossati.
Basilisco, con appena mezze le navi, fuggì a Costantinopoli; Marcellino
si ritrasse in Sicilia, dove cadde assassinato; e Genserico tornò
despoto del mare, aggiunta anche la Sicilia al suo dominio, mentre
l'Impero perdeva tutte le provincie d'oltr'Alpe.
Ricimero, non trovando Antemio abbastanza ligio, si ritirò da Roma
a Milano, e intendendosela coi Barbari, minacciava guerra civile, se
Epifanio vescovo di Pavia non fosse riuscito a conciliare l'imperatore
di nome con quello di fatto. Ma il barbaro patrizio covava l'astio;
e raccolto un grosso di Borgognoni e di Svevi, negò di più obbedire
all'impero greco e all'eletto di quello, e proclamò Anicio Olibrio.
Questo senatore, della più illustre famiglia romana, avendo sposata
Placidia, ultima figlia di Valentiniano III, vantava ragioni al trono;
e come cognato di Genserico, aveva l'appoggio di questo: lasciati gli
ozj di Costantinopoli, dove era fuggito da Roma dopo il saccheggio
di Genserico, sbarcò in Italia, e fu portato da Ricimero verso
l'antica metropoli. Il senato e parte del popolo stavano per Antemio,
e sostenuti da un esercito goto o gallo, tre mesi resistettero; ma
una forte fazione repugnava a quell'imperatore, greco d'origine e
poco zelante della fede; talchè Ricimero prevalse [Sidenote: 472 —
11 luglio], fece trucidar l'imperatore suo suocero, e col saccheggio
satollò le milizie.
Dopo poche settimane Ricimero stesso moriva, cessando di sovvertire
l'Impero, e lasciando l'esercito al nipote Gundibaldo principe
de' Borgognoni. Olibrio anch'esso non sopravisse che sette mesi; e
l'imperiale corona fu usurpata da un Flavio Glicerio (473),
non sappiamo quale; poi da Leone imperatore di Costantinopoli data
a Giulio Nepote, successo allo zio Marcellino nella sovranità della
Dalmazia (474). Condottosi in Italia, e quivi agevolmente
mutato in vescovo il competitore Glicerio, riconfortò di qualche
speranza l'Impero cadente. Ma da lontano Eurico re dei Visigoti lo
costrinse a cedergli l'Alvergna; da vicino i Barbari federati, insorti
sotto Oreste, marciarono da Roma a Ravenna (475 — 28 agosto).
Fuggì al loro avvicinarsi Giulio, e abdicandosi d'un trono che fa
meraviglia come ancora trovasse aspiranti, visse nel suo principato
della Dalmazia, ove quattro anni appresso fu assassinato da due
cortigiani di Glicerio.
Oreste, figlio di Tatullo, avea servito da segretario ad Attila e da
suo ambasciadore a Costantinopoli. Morto il terribile padrone, ricusò
obbedire ai figli di esso nè ai Visigoti; e raccozzato uno sciame
dei Barbari che seguivano il Flagello di Dio, massime Eruli, Scirri,
Alani, Turcilingi e Rugi, li menò al soldo di Roma col nome consueto
di federati. Gl'imperatori per paura e necessità lo contentarono di
regali e di gradi, fin a intitolarlo patrizio e generale. Infido ajuto,
poichè, acquistata autorità su quella sua banda, come uomo sicuro
ch'egli era e loro compatrioto e vivente al modo stesso, gl'indusse a
scuotere l'obbedienza, e gridar imperatore suo figlio Romolo Augusto
(476 — 28 8bre), vezzeggiato in Momillo Augustolo.
Quelle ciurme raccogliticcie, recandosi a vile un imperatore ch'era
loro creato, pretendevano facesse ogni loro talento, aumentasse paghe e
doni; anzi, invidiando i Barbari che aveano già acquistato ferme stanze
nella Gallia, nella Spagna, in Africa, domandarono anch'essi un terzo
delle terre italiane. Oreste negò contentarli della domanda; ma essi
trovarono chi gliela esaudì.
Collega di Oreste nell'ambasceria d'Attila a Costantinopoli era stato
un Edecone, il cui figlio Odoacre, senz'altro retaggio che il proprio
valore, l'adoprò alla rapina e a servire chi lo pagasse, pensando
farsi buona parte fra le tempeste d'allora. Errò qualche tempo nel
Norico; poi calato nel bel paese, e udito i federati mormorare pel
rifiuto d'Oreste, — Io v'accorderò quanto bramate, purchè a me vogliate
sottomettervi». Accorsero a gara sotto le bandiere di esso (476), che
senza contrasto giunse fino all'Adda; preso Oreste in Pavia,
lo mandò a morte; avuta compassione o disprezzo dell'imbelle Augustolo,
sol notevole per giovanile bellezza, gli assegnò seimila monete d'oro
l'anno; e Luculliano, villa sul delizioso promontorio di Miseno,
fabbricata da Mario, abbellita da Lucullo con tutte le arti di Grecia,
poi gradita campagna degl'imperatori, indi nelle invasioni mutata in
fortezza, diveniva asilo dell'ultimo successore d'Ottaviano.
A che serviva omai questa dispendiosa dignità d'imperatore? Adunque,
sotto dettatura del Barbaro, il senato scrisse all'imperatore Zenone a
Costantinopoli: — Non intendiamo continuare più oltre la successione
imperiale in Italia; basta la maestà d'un solo monarca a difendere
l'Oriente e l'Occidente; sia dunque Costantinopoli sede dell'impero
universale; a tutelare la repubblica romana rimarrà Odoacre, cui ti
preghiamo concedere il titolo di patrizio e l'amministrazione della
diocesi italica». Zenone esitò; e nel giovane figlio di Oreste, in cui
per bizzarro caso si univano i nomi del primo re e del primo imperatore
romano, terminò l'impero d'Occidente, 476 anni dopo Cristo, 1229 dopo
la fondazione della città, 507 dopo che la battaglia d'Azio vi stabilì
il dominio d'un solo. Roma aveano governata in prima sette re, poi
quattrocentottantatre coppie di consoli, infine settantatre imperatori.
E qui si chiude la storia di Roma: storia la più importante del
mondo, non solo per noi, che viviamo sul suolo stesso, e che possiamo
ed affacciarla a chi ci chiama nazione molle, e tenercene obbligati
ad essere grandi noi pure, sebbene in modo diverso; ma anche per le
lezioni, di cui l'incremento, la grandezza, il dechino di essa sono
fecondi a chi guarda l'uomo, e la potenza di lui ammira meno nelle
violenze della forza, che nelle lente conquiste del diritto. Poi quella
storia si mescola a tutte le posteriori, giacchè gli Stati successivi
d'Europa sono romano-germanici, e molti fatti trovano in quella o la
spiegazione o l'esempio. E noi, credenti e speranti che l'uman genere
progredisca imparando e migliorando, noi severi scrutatori delle virtù
romane, noi proclameremo come una delle più belle glorie italiane
l'immensa efficacia che Roma esercitò agli avanzamenti di quello.
Dalla rupe Tarpea i Romani guardavansi come una gente privilegiata
che non si conosce alcun obbligo morale colle altre, tutte barbare,
predestinate al ferro de' guerrieri e all'ingordigia de' proconsoli,
i quali, tra un parco di schiavi, in una miniera di denari qual è il
mondo straniero, procedono come il dio Marte lor progenitore, intimando
— Guai ai vinti». Un popolo che non intendeva la proprietà, non la
libertà; che disciplinato soltanto per la guerra anche nella pace,
lottava onde ripartirsi la preda; che il patriotismo riponeva non tanto
nell'amar la propria, quanto nell'odiare le altre nazioni; che facevasi
gloria dello sterminio; che unico mezzo di sussistenza considerava la
dilapidazione, la rapina, la schiavitù, parve ad alcuni null'altro che
abbominevole, mentre altri ne deducevano falsi concetti di gloria, e il
vanto delle guerre ambiziose e dei colpi robusti, e la giustificazione
dell'esito.
Ma colla smania o piuttosto la necessità delle conquiste, i Romani
arrestavano l'indefinito suddividersi dei popoli, introducevano
qualche ordine nel caos delle genti antiche; per modo che quelle
che prima non si conoscevano che per cozzarsi e distruggersi, si
trovassero strette nell'unità della forza prepotente, poi della legge e
dell'amministrazione.
In tutta la società antica non si erano vedute fin allora che comunità
di pochi, o accidentale aggregazione di molte comunità, dominate da una
sola, e pronte a sconnettersi: Roma sola faticò all'opera eminentemente
italiana di unire; ed organizzatrice anche al tempo di sua decadenza,
colla spada ravvicina elementi disparati; per conservarli introduce
unità di governo, principj di equità, nozioni di diritto; vuole
assimilarsi il mondo, impresa mai più tentata, e formare una patria,
una città; allo sfrazionamento de' Comuni sostituisce l'idea di
nazione; agl'individui surroga un popolo, un popolo re; spezza mille
barriere, frapposte alle genti; innesta civiltà dissomigliantissime,
sicchè l'una all'altra profitti. In quell'espansione il Britanno del
pari e l'Etiope si trovarono concittadini; si estesero la lingua,
l'arte, la legislazione romana; anzi ne' paesi sottoposti quasi d'altra
civiltà non ci fu tramandata memoria che della romana; e i Balbi di
Napoli, i Virj e i Plinj di Como, i Nepoti e i Catulli di Verona, i
Severi di Trieste, i Fabj di Brescia, i Sergj di Pola sono romani; come
sono inglesi tutti i nomi segnalati nell'Unione americana.
Ma fondere non poteva Roma, essa medesima mancando di quell'unità,
superiore alle contingenze umane, nella quale soltanto possono i popoli
affratellarsi, e costituire una dinastia di nazione, non più regnante
per la forza ma per l'intelligenza. La necessità di questo grande
eguagliamento non era predetta dalle Sibille, non l'avvisavano filosofi
nè statisti, irritavansi anzi coi Cristiani che la predicavano; sicchè
Roma moriva persuasa della propria immortale sovranità; moriva per la
forza, essa che di forza era vissuta.
Moriva, ma dopo che, venendo ultima degli antichi popoli, seppe
profittare dell'esperienza di tutti, sistemarla col senso legale,
sublimarla col cristianesimo; moriva, ma un immenso retaggio lasciando
all'avvenire. La sua supremazia assicurò il primato dell'Europa sul
resto del mondo, giacchè, in qualunque parte essa arrivò, stabilì
città donde s'irradiava l'incivilimento, e che dapprima fissarono al
terreno l'onda dei Barbari, più tardi coi vescovi e coi Comuni poterono
frangere la tirannide feudale. I reggimenti municipali dall'impero
istituiti o regolati, restarono, almeno ne' paesi non occupati dai
Longobardi; e sebbene si restringessero a semplice amministrazione,
misti ad elementi settentrionali, e vivificati dalle ecclesiastiche
immunità produssero i Comuni del medioevo e la più gloriosa età
dell'Italia. Già era non solo nata, ma svolta la più parte delle idee
destinate a vivere nella società nuova; il primato pontifizio, la
solitaria operosità de' monaci, il rinnovamento dell'arte, la lingua
vulgare, perfino la scolastica, perfino la filosofia della storia con
sant'Agostino. La letteratura latina, per quanto di fioritura breve,
più di qualsiasi ebbe durata ed estensione, perocchè si collocò accanto
ad ogni altra nazionale, educando i nuovi popoli europei, che tutti
ne desunsero qual più qual meno il carattere: l'Omero dei mezzi tempi
facevasi guidare da Virgilio traverso al miracoloso viaggio, col quale
esordiva al volo delle letterature moderne.
Quell'idioma, universale alla Chiesa universale, depositaria
privilegiata della civiltà e del sapere, viepiù veniva opportuno
nell'ignoranza, e nelle scarse comunicazioni d'allora; e modificando i
prischi dialetti, generò le nuove favelle, che sono un latino corrotto,
rigenerato da spirito analitico e flessibile; più logiche se meno
maestose, più limpide se meno poetiche.
Le leggi di Roma, perchè dirette al mondo intero, aveano meno
dell'arbitrario e del particolare; e in canoni generali dominano i
costumi e le credenze tutte; tutti i fatti sociali, tutte le differenze
riconducono ad unità di principj. In conseguenza si adattano anche
all'avvenire, e mantenute in prima e modificate nella Chiesa, poi
introdotte nelle scuole e nella società secolare a dar norma agli atti,
alle transazioni, ai contratti, offrirono grandiosi modelli d'ordine e
di equità; la legislazione moderna s'affisse al diritto romano come al
suo principio, spesso come a suo testo; man mano che si scioglie dai
vincoli feudali, la proprietà torna a regolarsi alla romana; il nostro
ordinamento amministrativo è istituzione romana acconciata a governi
temperati: sebbene sia vero che talvolta quegl'istituti divennero ceppi
a coloro che non sanno ammirare senza voler imitare.
Il concetto di un potere centrale, che tutto muova e governi, fu
trasmesso da Roma, parte coll'amministrazione sopravissuta, parte nelle
ricordanze: i popoli barbari l'ammiravano, pur senza forza o sapienza
bastante a raggiungerlo; e di esso fu merito se un impero cristiano
rivisse sotto Carlo Magno, se alle sfrantumate giurisdizioni feudali
riuscirono legisti popolani ad opporre la liberale perchè tutrice
preponderanza d'un'autorità suprema.
Così Roma, perduto lo scettro della forza, afferrerà quello del
pensiero; dopochè per cinque secoli fu centro dell'unità materiale e
della forza politica, lo diverrà della forza spirituale e dell'unità
intelligente; papi e imperatori aspireranno alla primazia per memoria
di Roma, mentre il servo invocherà nell'emancipazione d'essere
dichiarato cittadino romano; sicchè quella città per nuova via tornerà
a mettersi a capo dell'incivilimento, in una grande unificazione, che
non abolisca le nazionalità particolari, le provincie, i Comuni, ma
dia vita alla nazione cristiana, la quale sarà la più civile; e fondata
sul dogma dell'eguaglianza delle anime, cioè sull'unità d'origine, di
redenzione, di fine, più non retrocederà, e nella quale la potenza
che regola i corpi non potrà nulla sugli spiriti. Stupendi frutti
della romana sapienza, dacchè fu fecondata dal cristianesimo, che,
cancellando le idee ingiuriose a Dio, cancella pur quelle ingiuriose
all'uomo.
FINE DEL TOMO QUARTO E DEL LIBRO QUINTO
AGGIUNTE
Vol. I, p. 169, alla nota 12 aggiungi:
Sul _Nexum et la contrainte par corps en droit romain_ offrì
un'importante dissertazione all'Istituto di Francia nel 1874 il sig. S.
Vainberg.
Vedasi pure UNTERHOLZER, _Lehre des römischen Rechts von den Schuld
Verhältnissen_, Lipsia 1840; SELL, _De jure romano nexo et mancipio_,
Brunswich 1840, come Vainberg, sostiene che _nexum_ e _mancipium_
fossero una cosa stessa, attuata sempre per _æs et libram_. GIRAUD,
_Des nexi_, distingue il _nexum_ dal _mancipium_; HUSCHKE, _Ueber
das Recht des Nexum, und das altrömische Schuldrecht_, Lipsia 1846;
BACHOFEN, _Das Nexum_, Basilea 1846.
Vol. I, p. 261, alla nota 23 aggiungi:
Il più recente lavoro che conosciamo sopra Selinunte è di Otto Benndorf
(Berlino 1873), _Die Metopen von Selinunt, mit Untersuchungen über
die Geschichte, die Topographie und die Tempel von Selinunt_, con 13
tavole.
INDICE
CAPITOLO
XLIII. Da Comodo a Severo. Despotismo militare _pag._ 1
XLIV. I Trenta Tiranni. Diocleziano. Imperatori
colleghi. Costituzione mutata » 22
XLV. Nemici dell'Impero. I Germani. Costantino » 65
LIBRO QUINTO
XLVI. Il Cristianesimo perseguitato, combattente,
vincitore » 87
XLVII. Traslazione della sede imperiale a
Costantinopoli. Costituzione del Basso
Impero » 125
XLVIII. Figli di Costantino. Sistemazione ecclesiastica.
L'Arianismo » 160
XLIX. Giuliano. Riscossa del Paganesimo » 180
L. Da Gioviano a Teodosio. I santi Padri.
Trionfo del Cattolicismo » 199
LI. La coltura pagana digrada, si amplia la
cristiana » 236
LII. Trasformazione delle arti belle » 269
LIII. Miglioramenti e complesso della legislazione » 286
LIV. Impero diviso. Onorio. Invasione di Alarico » 342
LV. Valentiniano III. Gli Unni » 379
LVI. Sulla caduta dell'Impero romano » 392
LVII. Ultimi imperatori » 422
Aggiunte al volume I » 437
NOTE:
[1] LAMPRIDIO, _Vita di Alessandro_.
[2] _Sororibus suis constupratis, ipsas concubinas suas sub oculis suis
stuprari jubebat, nec irruentium in se juvenum carebat infamia, omni
parte corporis atque ore in sexum utrumque pollutus_. Historia Aug.,
47.
[3] Lampridio, _Vita di Pertinace_.
[4] DIONE, in _Didio Giuliano_.
[5] SUIDA, pag. 257.
[6] In ragione di settantacinquemila moggia l'anno.
[7] _Omnia fui, et nihil expedit_. Historia Aug., 71.
[8] ERODIANO. Bisognerà comprendervi i giardini.
[9]
_Fecisti patriam diversis gentibus unam,_
_Urbem fecisti quæ prius orbis erat._
RUTILIO, Itinerario.
V'è chi ascrive questa legge a Marc'Aurelio (MANNERT, _Commentatio de
Marco Aurelio Antonino, constitutionis de civitate universo orbi data
auctore_. Alla 1772); e forse v'avea posto restrizioni, che Caracalla
levò.
[10] Lampridio trasse dagli archivj della città questo processo verbale
della elezione di lui:
— Il giorno avanti le none di marzo, essendosi in folla raccolto il
senato nella curia, cioè nel tempio sacro alla Concordia, e avendo
pregato Aurelio Alessandro Cesare Augusto a intervenirvi, ed avendo
egli ricusato perchè sapeva trattarsi di onori suoi, poscia essendo
venuto, si acclamò: «O augusto innocente, gli Dei ti conservino.
Alessandro imperatore, gli Dei ti conservino. Gli Dei ti hanno dato
a noi, gli Dei ti conservino. Gli Dei ti tolsero dalle impure mani,
gli Dei ti perpetuino. Tu pure soffristi l'impuro tiranno, tu pure ti
dolesti di vedere quell'impuro ed osceno; gli Dei lo svelsero, gli
Dei ti conservino. Infame imperatore, giustamente dannato! Felici
noi dell'imperio tuo, felice la repubblica! L'infame fu trascinato
coll'uncino ad esempio spaventevole; il lussurioso imperatore fu a
ragione punito. Dei immortali, ad Alessandro vita; di qui appajano i
giudizj degli Dei».
E avendo Alessandro ringraziato, si acclamò: «Antonino Alessandro,
gli Dei ti conservino. Ti preghiamo ad assumere il nome d'Antonino.
Vendica tu l'ingiuria di Marco; vendica tu l'ingiuria di Vero; vendica
tu l'ingiuria di Bassiano. Peggior di Comodo fu il solo Elagabalo,
nè imperatore, nè Antonino, nè cittadino, nè senatore, nè nobile, nè
romano. I tempj degli Antonini un Antonino dedichi; il casto riceva il
sacro nome, il nome di Antonino, il nome degli Antonini».
E dopo le acclamazioni, Aurelio Alessandro Cesare Augusto proferì:
«Vi ringrazio, o padri coscritti, non ora primamente, ma e pel titolo
di Cesare, e per la vita salvata, e per l'aggiunto nome d'Augusto,
pel pontificato massimo, per la podestà tribunizia, pel comando
proconsolare, cose tutte che, con nuovo esempio, in un sol giorno
mi conferiste». E come ebbe parlato, si acclamò: «Queste accettasti;
accetta ora il nome di Antonino». Ed egli: «Non vogliate, vi prego,
o padri coscritti, costringermi ad accettare un nome cui mi sarebbe
difficile soddisfare, già gravi essendo questi insigni nomi. Chi
intitolerebbe Cicerone un muto? chi un ignorante Varrone? Marcello un
empio?»
Di nuovo fu acclamato come sopra, e l'imperatore disse: «Qual sia
stato il nome degli Antonini, ricordi la clemenza vostra. Se pietà,
chi più santo del Pio? se dottrina, chi più prudente di Marco? se
forza, chi più robusto di Bassiano?» Di nuovo si acclamò come sopra,
e l'imperatore soggiunse: «Certo vi ricorda come testè quel più laido
di tutti i bipedi non solo ma e de' quadrupedi, portasse il nome di
Antonino, e in turpitudine e lussuria superasse i Neroni, i Vitellj,
i Comodi, e quali erano i gemiti di tutti: e pei circoli del popolo e
dei nobili una sola voce fosse, che sconvenientemente e' si chiamava
Antonino, e che da tale obbrobrio era violato tanto nome».
Mentre parlava si acclamò: «Gli Dei allontanino i mali; te imperante,
di ciò non temiamo; ne siamo sicuri te duce. Vincesti i vizj,
vincesti i disonori, ornasti il nome d'Antonino. Certi siamo, ben
presumiamo; noi te fin dalla puerizia approvammo ed oggi approviamo».
Allora l'imperatore: «Nè io esito ad assumer questo nome a tutti
venerabile, perchè tema che ne' vizj risolvasi la mia vita, o abbia a
vergognarmene; ma mi spiace prima il prendere il nome d'altra famiglia,
poi credo di gravare me stesso».
E di nuovo gli fu acclamato, ed egli proseguì: «Perocchè, se accetto
il nome di Antonino, posso anche quello assumere di Trajano, di Tito,
di Vespasiano». E gli fu gridato: «Come Augusto, così anche Antonino».
Allora l'imperatore: «Vedo che cosa vi spinga a tale aggiunta. Augusto
è il primo fondatore dell'impero, e nel nome di lui tutti succediamo
quasi per adozione e per dritto ereditario: anche gli Antonini furono
detti Augusti. Ma il nome fu ereditario in Comodo, affettato in
Bassiano, ridicolo in Aurelio».
E gli fu acclamato: «Alessandro Augusto, gli Dei ti conservino. Alla
verecondia tua, alla prudenza, all'innocenza, alla tua castità. Di
qui comprendiamo qual diverrai; tu farai che il senato ben elegga i
principi. Sii vincitore! sii sano! regna per molti anni». Alessandro
soggiunse: «Vedo, o padri coscritti, d'aver ottenuto quel che
desideravo, e ve ne ringrazio, e procurerò che questo nome che porto
nell'impero sia tale che da altri si desideri, ed offrasi ai buoni
uffizj della vostra pietà». E avendolo più volte ripetuto, e' disse:
«Più facile mi sarebbe stato accettare il nome degli Antonini; poichè
condiscenderei in parte alla parentela od alla comunanza del titolo
imperiale. Ma il cognome di Magno perchè si adopra? che cosa ho fatto
di grande? e sol dopo belle imprese l'ebbe Alessandro, dopo grandi
trionfi Pompeo. Cheti dunque, e voi stessi, magnifici, contate me per
uno di voi, anzi che darmi il nome di Magno».
Dopo di che fu acclamato: «Aurelio Alessandro Augusto, gli Dei ti
conservino».
Tali erano le discussioni del glorioso senato; in tali atti si sfogava
la manìa delle mozioni, triviale occupazione degli inetti.
[11] Il vescovo Eusebio la chiama religiosissima e di gran pietà (VI.
21), lo che da alcuni la fece credere cristiana. La vita d'Alessandro,
nella _Storia Augusta_, è piuttosto un romanzo sul fare della
_Ciropedia_. Erodiano sembra più attendibile, e s'accorda coi frammenti
di Dione.
[12] Vedi Manso, _I Trenta Tiranni_ (ted.), dietro alla sua _Vita di
Costantino_.
[13] Delle minutezze cui scendeva Aureliano in fatto di disciplina
militare sia argomento questa lettera a un suo luogotenente: — Se
vuoi essere tribuno, anzi se t'è caro di vivere, tieni in freno le
mani dei soldati. Niun d'essi rapisca i polli altrui, niuno tocchi le
altrui pecore. Sia proibito il rubar uve, il far danno ai seminati,
l'esigere dalla gente olio, sale, legna, dovendo ognuno contentarsi
della provvisione del principe. Hanno i soldati a rallegrarsi del
bottino fatto sopra i nemici, non delle lagrime de' sudditi romani.
Ognuno abbia l'armi sue ben terse, le spade ben aguzze ed affilate,
e le scarpe ben cucite. Alle vesti logore succedano le nuove. Mettano
la paga nella tasca, e non nella taverna. Ognuno porti la sua collana,
il suo anello, il suo bracciale, e nol venda o biscazzi. Si governi e
strigli il cavallo e il giumento per le bagaglie, e così ancora il mulo
comune della compagnia, e non si venda la biada lor destinata. L'uno
all'altro presti ajuto, come se fosse un servo. Hanno il medico senza
spesa; non gettino denaro in consultare indovini. Vivano costantemente
negli alloggi; e se attaccheranno lite, non manchi loro una mancia di
buone bastonate».
[14] _Absit ut auro fila pensentur; libra enim auri tunc libra serici
fuit_. VOPISCO, in _Aureliano_.
[15] Se pure va inteso così il _publicavit_ di Vopisco.
[16] Da Claudio II a Diocleziano non si batterono più monete d'argento,
ma di rame argentato. Quelle d'oro continuarono ad essere di titolo
fino, perchè il tributo era pagato in oro.
[17] Vopisco soggiunge che i discendenti di Probo andarono ad abitare
nelle vicinanze dei laghi di Garda e di Como.
[18] _Edda Sæmundar. Rigsmal._
[19] _Reges ex nobilitate, duces ex virtute sumunt_. TACITO, cap. VII.
[20] Il Muratori talvolta scrive: — Gli Sciti, o vogliam dire i Goti»,
al 267, 271 ecc.; e tal altra: — Gli Sciti, cioè i Tartari», al 261.
[21] ZOSIMO, i. 67; _Panegyr. veteres_, V.
[22] Romagnosi (_Dell'indole e dei fattori dell'incivilimento_,
part. II. c. 252) accolse l'opinione d'alcuni, che, per avversione
a Costantino, presentano quella di Massenzio come un'«opposizione
armata in senso nazionale». Io non trovai il minimo appoggio a tale
asserzione.
[23] È bizzarro come la boria municipale sapesse innestare le origini
favolose delle città colle sacre. Il Malvezzi cronista bresciano (_Rer.
It. Script._, tom. XIV. 780) racconta che Ercole fondò a Brescia la
rocca Cidnea (_Brixia Cydneæ supposita speculæ_, cantò Catullo); poi
la cinsero di torri e di spalti i Tirreni, dai quali in dritta linea
derivavano i santi Faustino e Giovita.
Nella cattedrale di Gorizia conservossi il bastone pastorale che
Ermagora avrebbe ricevuto da san Pietro; come in San Carpoforo a Como
quel che usava san Felice primo vescovo. Più famoso è il codice dei
vangeli, che stava nel monastero di San Giovanni del Timavo, distrutto
dagli Ungari nel 615, donde passò al monastero Belinese, e di là al
capitolo d'Aquileja, sotto il patriarcato dei Torriani, di cui porta lo
stemma. Carlo IV nel 1353 passando per Aquileja, ottenne dal patriarca
gli ultimi due quaderni di quella reliquia, che comprendono dal
versetto 20 del cap. XII sino al fine; e li regalò alla metropolitana
di Praga, ordinando di legarli in oro e perle, assegnandovi duemila
ducati; e volle che l'arcivescovo e il clero andassero incontro alla
reliquia, ed ogni pasqua fosse portata in solenne processione. Gli
altri cinque quaderni, rimasti ad Aquileja, furono poi recati a Venezia
per ordine del doge Tommaso Mocenigo nel 1420: ma l'umidità danneggiò
talmente il manoscritto, che più non è leggibile, e si disputò perfino
se fosse latino, e se su papiro o pergamena. I dubbj furono risoluti da
Lorenzo della Torre, nel ii vol., pag. 548 e seg. dell'_Evangeliarium
quadruplex_ del Bianchini (Roma 1749). Che questo brano appartenesse
al manoscritto d'Aquileja raccogliesi anche da ciò, che in esso,
dove finisce il vangelo di san Matteo, si legge, _Explicit evangelium
secundum Matthæum, incipit secundum Marcum_; e nulla segue. Nel 1778
Giuseppe Dobrowsky, sotto il titolo di _Fragmentum pragense evangelii
che gl'italiani ricorressero alla mediazione dell'imperatore di
Costantinopoli.
Questi spedì ambasciatori a Marcellino, che, pago di vedersi con tal
atto riconosciuto sovrano della Dalmazia, promise restar quieto.
Genserico, al contrario, alzava le pretensioni, e pretendeva che
suo cognato Olibrio fosse elevato augusto; ma in vece sua, dopo
diuturna vacanza, fu gridato Procopio Antemio [Sidenote: 467 — 12
aprile], galata di nazione, uno de' più illustri privati dell'impero
Orientale, e genero dell'imperatore Marciano. Mosso da Costantinopoli
con molti conti e con piccolo esercito, entrò in Roma trionfalmente,
e senato, popolo, federati approvarono la scelta. Ricimero, che
nella vacanza avea continuato da padrone, volle gli sposasse una sua
figlia, e splendidissime celebraronsi le nozze. Antemio, lasciando
Costantinopoli, avea ceduto la sua casa per farne un bagno pubblico,
una chiesa, un ospizio pei vecchi: pure in Roma tollerò sì gli avanzi
del paganesimo, sì gli eretici, e nel fôro Trajano rinnovò l'antica
cerimonia del manomettere i servi colla guanciata, «pronto (diceva
il suo panegirista) a sciogliere gli antichi schiavi e farne di
nuovi»[311].
Leone imperatore d'Oriente adoprò allora le sue forze e centrentamila
libbre d'oro per isbrattare dai Vandali il Mediterraneo; il patrizio
Marcellino, colle sue navi avvezze a corseggiare, li snidò di Sardegna;
Basilisco, fratello dell'imperatrice d'Oriente, comandava la flotta
di mille centredici navi, e più di centomila fra soldati e ciurma: ma
Genserico trovò ancor modo di gettar le fiamme nella flotta, sicchè i
due Imperj videro andar col fumo un armamento che gli avea spossati.
Basilisco, con appena mezze le navi, fuggì a Costantinopoli; Marcellino
si ritrasse in Sicilia, dove cadde assassinato; e Genserico tornò
despoto del mare, aggiunta anche la Sicilia al suo dominio, mentre
l'Impero perdeva tutte le provincie d'oltr'Alpe.
Ricimero, non trovando Antemio abbastanza ligio, si ritirò da Roma
a Milano, e intendendosela coi Barbari, minacciava guerra civile, se
Epifanio vescovo di Pavia non fosse riuscito a conciliare l'imperatore
di nome con quello di fatto. Ma il barbaro patrizio covava l'astio;
e raccolto un grosso di Borgognoni e di Svevi, negò di più obbedire
all'impero greco e all'eletto di quello, e proclamò Anicio Olibrio.
Questo senatore, della più illustre famiglia romana, avendo sposata
Placidia, ultima figlia di Valentiniano III, vantava ragioni al trono;
e come cognato di Genserico, aveva l'appoggio di questo: lasciati gli
ozj di Costantinopoli, dove era fuggito da Roma dopo il saccheggio
di Genserico, sbarcò in Italia, e fu portato da Ricimero verso
l'antica metropoli. Il senato e parte del popolo stavano per Antemio,
e sostenuti da un esercito goto o gallo, tre mesi resistettero; ma
una forte fazione repugnava a quell'imperatore, greco d'origine e
poco zelante della fede; talchè Ricimero prevalse [Sidenote: 472 —
11 luglio], fece trucidar l'imperatore suo suocero, e col saccheggio
satollò le milizie.
Dopo poche settimane Ricimero stesso moriva, cessando di sovvertire
l'Impero, e lasciando l'esercito al nipote Gundibaldo principe
de' Borgognoni. Olibrio anch'esso non sopravisse che sette mesi; e
l'imperiale corona fu usurpata da un Flavio Glicerio (473),
non sappiamo quale; poi da Leone imperatore di Costantinopoli data
a Giulio Nepote, successo allo zio Marcellino nella sovranità della
Dalmazia (474). Condottosi in Italia, e quivi agevolmente
mutato in vescovo il competitore Glicerio, riconfortò di qualche
speranza l'Impero cadente. Ma da lontano Eurico re dei Visigoti lo
costrinse a cedergli l'Alvergna; da vicino i Barbari federati, insorti
sotto Oreste, marciarono da Roma a Ravenna (475 — 28 agosto).
Fuggì al loro avvicinarsi Giulio, e abdicandosi d'un trono che fa
meraviglia come ancora trovasse aspiranti, visse nel suo principato
della Dalmazia, ove quattro anni appresso fu assassinato da due
cortigiani di Glicerio.
Oreste, figlio di Tatullo, avea servito da segretario ad Attila e da
suo ambasciadore a Costantinopoli. Morto il terribile padrone, ricusò
obbedire ai figli di esso nè ai Visigoti; e raccozzato uno sciame
dei Barbari che seguivano il Flagello di Dio, massime Eruli, Scirri,
Alani, Turcilingi e Rugi, li menò al soldo di Roma col nome consueto
di federati. Gl'imperatori per paura e necessità lo contentarono di
regali e di gradi, fin a intitolarlo patrizio e generale. Infido ajuto,
poichè, acquistata autorità su quella sua banda, come uomo sicuro
ch'egli era e loro compatrioto e vivente al modo stesso, gl'indusse a
scuotere l'obbedienza, e gridar imperatore suo figlio Romolo Augusto
(476 — 28 8bre), vezzeggiato in Momillo Augustolo.
Quelle ciurme raccogliticcie, recandosi a vile un imperatore ch'era
loro creato, pretendevano facesse ogni loro talento, aumentasse paghe e
doni; anzi, invidiando i Barbari che aveano già acquistato ferme stanze
nella Gallia, nella Spagna, in Africa, domandarono anch'essi un terzo
delle terre italiane. Oreste negò contentarli della domanda; ma essi
trovarono chi gliela esaudì.
Collega di Oreste nell'ambasceria d'Attila a Costantinopoli era stato
un Edecone, il cui figlio Odoacre, senz'altro retaggio che il proprio
valore, l'adoprò alla rapina e a servire chi lo pagasse, pensando
farsi buona parte fra le tempeste d'allora. Errò qualche tempo nel
Norico; poi calato nel bel paese, e udito i federati mormorare pel
rifiuto d'Oreste, — Io v'accorderò quanto bramate, purchè a me vogliate
sottomettervi». Accorsero a gara sotto le bandiere di esso (476), che
senza contrasto giunse fino all'Adda; preso Oreste in Pavia,
lo mandò a morte; avuta compassione o disprezzo dell'imbelle Augustolo,
sol notevole per giovanile bellezza, gli assegnò seimila monete d'oro
l'anno; e Luculliano, villa sul delizioso promontorio di Miseno,
fabbricata da Mario, abbellita da Lucullo con tutte le arti di Grecia,
poi gradita campagna degl'imperatori, indi nelle invasioni mutata in
fortezza, diveniva asilo dell'ultimo successore d'Ottaviano.
A che serviva omai questa dispendiosa dignità d'imperatore? Adunque,
sotto dettatura del Barbaro, il senato scrisse all'imperatore Zenone a
Costantinopoli: — Non intendiamo continuare più oltre la successione
imperiale in Italia; basta la maestà d'un solo monarca a difendere
l'Oriente e l'Occidente; sia dunque Costantinopoli sede dell'impero
universale; a tutelare la repubblica romana rimarrà Odoacre, cui ti
preghiamo concedere il titolo di patrizio e l'amministrazione della
diocesi italica». Zenone esitò; e nel giovane figlio di Oreste, in cui
per bizzarro caso si univano i nomi del primo re e del primo imperatore
romano, terminò l'impero d'Occidente, 476 anni dopo Cristo, 1229 dopo
la fondazione della città, 507 dopo che la battaglia d'Azio vi stabilì
il dominio d'un solo. Roma aveano governata in prima sette re, poi
quattrocentottantatre coppie di consoli, infine settantatre imperatori.
E qui si chiude la storia di Roma: storia la più importante del
mondo, non solo per noi, che viviamo sul suolo stesso, e che possiamo
ed affacciarla a chi ci chiama nazione molle, e tenercene obbligati
ad essere grandi noi pure, sebbene in modo diverso; ma anche per le
lezioni, di cui l'incremento, la grandezza, il dechino di essa sono
fecondi a chi guarda l'uomo, e la potenza di lui ammira meno nelle
violenze della forza, che nelle lente conquiste del diritto. Poi quella
storia si mescola a tutte le posteriori, giacchè gli Stati successivi
d'Europa sono romano-germanici, e molti fatti trovano in quella o la
spiegazione o l'esempio. E noi, credenti e speranti che l'uman genere
progredisca imparando e migliorando, noi severi scrutatori delle virtù
romane, noi proclameremo come una delle più belle glorie italiane
l'immensa efficacia che Roma esercitò agli avanzamenti di quello.
Dalla rupe Tarpea i Romani guardavansi come una gente privilegiata
che non si conosce alcun obbligo morale colle altre, tutte barbare,
predestinate al ferro de' guerrieri e all'ingordigia de' proconsoli,
i quali, tra un parco di schiavi, in una miniera di denari qual è il
mondo straniero, procedono come il dio Marte lor progenitore, intimando
— Guai ai vinti». Un popolo che non intendeva la proprietà, non la
libertà; che disciplinato soltanto per la guerra anche nella pace,
lottava onde ripartirsi la preda; che il patriotismo riponeva non tanto
nell'amar la propria, quanto nell'odiare le altre nazioni; che facevasi
gloria dello sterminio; che unico mezzo di sussistenza considerava la
dilapidazione, la rapina, la schiavitù, parve ad alcuni null'altro che
abbominevole, mentre altri ne deducevano falsi concetti di gloria, e il
vanto delle guerre ambiziose e dei colpi robusti, e la giustificazione
dell'esito.
Ma colla smania o piuttosto la necessità delle conquiste, i Romani
arrestavano l'indefinito suddividersi dei popoli, introducevano
qualche ordine nel caos delle genti antiche; per modo che quelle
che prima non si conoscevano che per cozzarsi e distruggersi, si
trovassero strette nell'unità della forza prepotente, poi della legge e
dell'amministrazione.
In tutta la società antica non si erano vedute fin allora che comunità
di pochi, o accidentale aggregazione di molte comunità, dominate da una
sola, e pronte a sconnettersi: Roma sola faticò all'opera eminentemente
italiana di unire; ed organizzatrice anche al tempo di sua decadenza,
colla spada ravvicina elementi disparati; per conservarli introduce
unità di governo, principj di equità, nozioni di diritto; vuole
assimilarsi il mondo, impresa mai più tentata, e formare una patria,
una città; allo sfrazionamento de' Comuni sostituisce l'idea di
nazione; agl'individui surroga un popolo, un popolo re; spezza mille
barriere, frapposte alle genti; innesta civiltà dissomigliantissime,
sicchè l'una all'altra profitti. In quell'espansione il Britanno del
pari e l'Etiope si trovarono concittadini; si estesero la lingua,
l'arte, la legislazione romana; anzi ne' paesi sottoposti quasi d'altra
civiltà non ci fu tramandata memoria che della romana; e i Balbi di
Napoli, i Virj e i Plinj di Como, i Nepoti e i Catulli di Verona, i
Severi di Trieste, i Fabj di Brescia, i Sergj di Pola sono romani; come
sono inglesi tutti i nomi segnalati nell'Unione americana.
Ma fondere non poteva Roma, essa medesima mancando di quell'unità,
superiore alle contingenze umane, nella quale soltanto possono i popoli
affratellarsi, e costituire una dinastia di nazione, non più regnante
per la forza ma per l'intelligenza. La necessità di questo grande
eguagliamento non era predetta dalle Sibille, non l'avvisavano filosofi
nè statisti, irritavansi anzi coi Cristiani che la predicavano; sicchè
Roma moriva persuasa della propria immortale sovranità; moriva per la
forza, essa che di forza era vissuta.
Moriva, ma dopo che, venendo ultima degli antichi popoli, seppe
profittare dell'esperienza di tutti, sistemarla col senso legale,
sublimarla col cristianesimo; moriva, ma un immenso retaggio lasciando
all'avvenire. La sua supremazia assicurò il primato dell'Europa sul
resto del mondo, giacchè, in qualunque parte essa arrivò, stabilì
città donde s'irradiava l'incivilimento, e che dapprima fissarono al
terreno l'onda dei Barbari, più tardi coi vescovi e coi Comuni poterono
frangere la tirannide feudale. I reggimenti municipali dall'impero
istituiti o regolati, restarono, almeno ne' paesi non occupati dai
Longobardi; e sebbene si restringessero a semplice amministrazione,
misti ad elementi settentrionali, e vivificati dalle ecclesiastiche
immunità produssero i Comuni del medioevo e la più gloriosa età
dell'Italia. Già era non solo nata, ma svolta la più parte delle idee
destinate a vivere nella società nuova; il primato pontifizio, la
solitaria operosità de' monaci, il rinnovamento dell'arte, la lingua
vulgare, perfino la scolastica, perfino la filosofia della storia con
sant'Agostino. La letteratura latina, per quanto di fioritura breve,
più di qualsiasi ebbe durata ed estensione, perocchè si collocò accanto
ad ogni altra nazionale, educando i nuovi popoli europei, che tutti
ne desunsero qual più qual meno il carattere: l'Omero dei mezzi tempi
facevasi guidare da Virgilio traverso al miracoloso viaggio, col quale
esordiva al volo delle letterature moderne.
Quell'idioma, universale alla Chiesa universale, depositaria
privilegiata della civiltà e del sapere, viepiù veniva opportuno
nell'ignoranza, e nelle scarse comunicazioni d'allora; e modificando i
prischi dialetti, generò le nuove favelle, che sono un latino corrotto,
rigenerato da spirito analitico e flessibile; più logiche se meno
maestose, più limpide se meno poetiche.
Le leggi di Roma, perchè dirette al mondo intero, aveano meno
dell'arbitrario e del particolare; e in canoni generali dominano i
costumi e le credenze tutte; tutti i fatti sociali, tutte le differenze
riconducono ad unità di principj. In conseguenza si adattano anche
all'avvenire, e mantenute in prima e modificate nella Chiesa, poi
introdotte nelle scuole e nella società secolare a dar norma agli atti,
alle transazioni, ai contratti, offrirono grandiosi modelli d'ordine e
di equità; la legislazione moderna s'affisse al diritto romano come al
suo principio, spesso come a suo testo; man mano che si scioglie dai
vincoli feudali, la proprietà torna a regolarsi alla romana; il nostro
ordinamento amministrativo è istituzione romana acconciata a governi
temperati: sebbene sia vero che talvolta quegl'istituti divennero ceppi
a coloro che non sanno ammirare senza voler imitare.
Il concetto di un potere centrale, che tutto muova e governi, fu
trasmesso da Roma, parte coll'amministrazione sopravissuta, parte nelle
ricordanze: i popoli barbari l'ammiravano, pur senza forza o sapienza
bastante a raggiungerlo; e di esso fu merito se un impero cristiano
rivisse sotto Carlo Magno, se alle sfrantumate giurisdizioni feudali
riuscirono legisti popolani ad opporre la liberale perchè tutrice
preponderanza d'un'autorità suprema.
Così Roma, perduto lo scettro della forza, afferrerà quello del
pensiero; dopochè per cinque secoli fu centro dell'unità materiale e
della forza politica, lo diverrà della forza spirituale e dell'unità
intelligente; papi e imperatori aspireranno alla primazia per memoria
di Roma, mentre il servo invocherà nell'emancipazione d'essere
dichiarato cittadino romano; sicchè quella città per nuova via tornerà
a mettersi a capo dell'incivilimento, in una grande unificazione, che
non abolisca le nazionalità particolari, le provincie, i Comuni, ma
dia vita alla nazione cristiana, la quale sarà la più civile; e fondata
sul dogma dell'eguaglianza delle anime, cioè sull'unità d'origine, di
redenzione, di fine, più non retrocederà, e nella quale la potenza
che regola i corpi non potrà nulla sugli spiriti. Stupendi frutti
della romana sapienza, dacchè fu fecondata dal cristianesimo, che,
cancellando le idee ingiuriose a Dio, cancella pur quelle ingiuriose
all'uomo.
FINE DEL TOMO QUARTO E DEL LIBRO QUINTO
AGGIUNTE
Vol. I, p. 169, alla nota 12 aggiungi:
Sul _Nexum et la contrainte par corps en droit romain_ offrì
un'importante dissertazione all'Istituto di Francia nel 1874 il sig. S.
Vainberg.
Vedasi pure UNTERHOLZER, _Lehre des römischen Rechts von den Schuld
Verhältnissen_, Lipsia 1840; SELL, _De jure romano nexo et mancipio_,
Brunswich 1840, come Vainberg, sostiene che _nexum_ e _mancipium_
fossero una cosa stessa, attuata sempre per _æs et libram_. GIRAUD,
_Des nexi_, distingue il _nexum_ dal _mancipium_; HUSCHKE, _Ueber
das Recht des Nexum, und das altrömische Schuldrecht_, Lipsia 1846;
BACHOFEN, _Das Nexum_, Basilea 1846.
Vol. I, p. 261, alla nota 23 aggiungi:
Il più recente lavoro che conosciamo sopra Selinunte è di Otto Benndorf
(Berlino 1873), _Die Metopen von Selinunt, mit Untersuchungen über
die Geschichte, die Topographie und die Tempel von Selinunt_, con 13
tavole.
INDICE
CAPITOLO
XLIII. Da Comodo a Severo. Despotismo militare _pag._ 1
XLIV. I Trenta Tiranni. Diocleziano. Imperatori
colleghi. Costituzione mutata » 22
XLV. Nemici dell'Impero. I Germani. Costantino » 65
LIBRO QUINTO
XLVI. Il Cristianesimo perseguitato, combattente,
vincitore » 87
XLVII. Traslazione della sede imperiale a
Costantinopoli. Costituzione del Basso
Impero » 125
XLVIII. Figli di Costantino. Sistemazione ecclesiastica.
L'Arianismo » 160
XLIX. Giuliano. Riscossa del Paganesimo » 180
L. Da Gioviano a Teodosio. I santi Padri.
Trionfo del Cattolicismo » 199
LI. La coltura pagana digrada, si amplia la
cristiana » 236
LII. Trasformazione delle arti belle » 269
LIII. Miglioramenti e complesso della legislazione » 286
LIV. Impero diviso. Onorio. Invasione di Alarico » 342
LV. Valentiniano III. Gli Unni » 379
LVI. Sulla caduta dell'Impero romano » 392
LVII. Ultimi imperatori » 422
Aggiunte al volume I » 437
NOTE:
[1] LAMPRIDIO, _Vita di Alessandro_.
[2] _Sororibus suis constupratis, ipsas concubinas suas sub oculis suis
stuprari jubebat, nec irruentium in se juvenum carebat infamia, omni
parte corporis atque ore in sexum utrumque pollutus_. Historia Aug.,
47.
[3] Lampridio, _Vita di Pertinace_.
[4] DIONE, in _Didio Giuliano_.
[5] SUIDA, pag. 257.
[6] In ragione di settantacinquemila moggia l'anno.
[7] _Omnia fui, et nihil expedit_. Historia Aug., 71.
[8] ERODIANO. Bisognerà comprendervi i giardini.
[9]
_Fecisti patriam diversis gentibus unam,_
_Urbem fecisti quæ prius orbis erat._
RUTILIO, Itinerario.
V'è chi ascrive questa legge a Marc'Aurelio (MANNERT, _Commentatio de
Marco Aurelio Antonino, constitutionis de civitate universo orbi data
auctore_. Alla 1772); e forse v'avea posto restrizioni, che Caracalla
levò.
[10] Lampridio trasse dagli archivj della città questo processo verbale
della elezione di lui:
— Il giorno avanti le none di marzo, essendosi in folla raccolto il
senato nella curia, cioè nel tempio sacro alla Concordia, e avendo
pregato Aurelio Alessandro Cesare Augusto a intervenirvi, ed avendo
egli ricusato perchè sapeva trattarsi di onori suoi, poscia essendo
venuto, si acclamò: «O augusto innocente, gli Dei ti conservino.
Alessandro imperatore, gli Dei ti conservino. Gli Dei ti hanno dato
a noi, gli Dei ti conservino. Gli Dei ti tolsero dalle impure mani,
gli Dei ti perpetuino. Tu pure soffristi l'impuro tiranno, tu pure ti
dolesti di vedere quell'impuro ed osceno; gli Dei lo svelsero, gli
Dei ti conservino. Infame imperatore, giustamente dannato! Felici
noi dell'imperio tuo, felice la repubblica! L'infame fu trascinato
coll'uncino ad esempio spaventevole; il lussurioso imperatore fu a
ragione punito. Dei immortali, ad Alessandro vita; di qui appajano i
giudizj degli Dei».
E avendo Alessandro ringraziato, si acclamò: «Antonino Alessandro,
gli Dei ti conservino. Ti preghiamo ad assumere il nome d'Antonino.
Vendica tu l'ingiuria di Marco; vendica tu l'ingiuria di Vero; vendica
tu l'ingiuria di Bassiano. Peggior di Comodo fu il solo Elagabalo,
nè imperatore, nè Antonino, nè cittadino, nè senatore, nè nobile, nè
romano. I tempj degli Antonini un Antonino dedichi; il casto riceva il
sacro nome, il nome di Antonino, il nome degli Antonini».
E dopo le acclamazioni, Aurelio Alessandro Cesare Augusto proferì:
«Vi ringrazio, o padri coscritti, non ora primamente, ma e pel titolo
di Cesare, e per la vita salvata, e per l'aggiunto nome d'Augusto,
pel pontificato massimo, per la podestà tribunizia, pel comando
proconsolare, cose tutte che, con nuovo esempio, in un sol giorno
mi conferiste». E come ebbe parlato, si acclamò: «Queste accettasti;
accetta ora il nome di Antonino». Ed egli: «Non vogliate, vi prego,
o padri coscritti, costringermi ad accettare un nome cui mi sarebbe
difficile soddisfare, già gravi essendo questi insigni nomi. Chi
intitolerebbe Cicerone un muto? chi un ignorante Varrone? Marcello un
empio?»
Di nuovo fu acclamato come sopra, e l'imperatore disse: «Qual sia
stato il nome degli Antonini, ricordi la clemenza vostra. Se pietà,
chi più santo del Pio? se dottrina, chi più prudente di Marco? se
forza, chi più robusto di Bassiano?» Di nuovo si acclamò come sopra,
e l'imperatore soggiunse: «Certo vi ricorda come testè quel più laido
di tutti i bipedi non solo ma e de' quadrupedi, portasse il nome di
Antonino, e in turpitudine e lussuria superasse i Neroni, i Vitellj,
i Comodi, e quali erano i gemiti di tutti: e pei circoli del popolo e
dei nobili una sola voce fosse, che sconvenientemente e' si chiamava
Antonino, e che da tale obbrobrio era violato tanto nome».
Mentre parlava si acclamò: «Gli Dei allontanino i mali; te imperante,
di ciò non temiamo; ne siamo sicuri te duce. Vincesti i vizj,
vincesti i disonori, ornasti il nome d'Antonino. Certi siamo, ben
presumiamo; noi te fin dalla puerizia approvammo ed oggi approviamo».
Allora l'imperatore: «Nè io esito ad assumer questo nome a tutti
venerabile, perchè tema che ne' vizj risolvasi la mia vita, o abbia a
vergognarmene; ma mi spiace prima il prendere il nome d'altra famiglia,
poi credo di gravare me stesso».
E di nuovo gli fu acclamato, ed egli proseguì: «Perocchè, se accetto
il nome di Antonino, posso anche quello assumere di Trajano, di Tito,
di Vespasiano». E gli fu gridato: «Come Augusto, così anche Antonino».
Allora l'imperatore: «Vedo che cosa vi spinga a tale aggiunta. Augusto
è il primo fondatore dell'impero, e nel nome di lui tutti succediamo
quasi per adozione e per dritto ereditario: anche gli Antonini furono
detti Augusti. Ma il nome fu ereditario in Comodo, affettato in
Bassiano, ridicolo in Aurelio».
E gli fu acclamato: «Alessandro Augusto, gli Dei ti conservino. Alla
verecondia tua, alla prudenza, all'innocenza, alla tua castità. Di
qui comprendiamo qual diverrai; tu farai che il senato ben elegga i
principi. Sii vincitore! sii sano! regna per molti anni». Alessandro
soggiunse: «Vedo, o padri coscritti, d'aver ottenuto quel che
desideravo, e ve ne ringrazio, e procurerò che questo nome che porto
nell'impero sia tale che da altri si desideri, ed offrasi ai buoni
uffizj della vostra pietà». E avendolo più volte ripetuto, e' disse:
«Più facile mi sarebbe stato accettare il nome degli Antonini; poichè
condiscenderei in parte alla parentela od alla comunanza del titolo
imperiale. Ma il cognome di Magno perchè si adopra? che cosa ho fatto
di grande? e sol dopo belle imprese l'ebbe Alessandro, dopo grandi
trionfi Pompeo. Cheti dunque, e voi stessi, magnifici, contate me per
uno di voi, anzi che darmi il nome di Magno».
Dopo di che fu acclamato: «Aurelio Alessandro Augusto, gli Dei ti
conservino».
Tali erano le discussioni del glorioso senato; in tali atti si sfogava
la manìa delle mozioni, triviale occupazione degli inetti.
[11] Il vescovo Eusebio la chiama religiosissima e di gran pietà (VI.
21), lo che da alcuni la fece credere cristiana. La vita d'Alessandro,
nella _Storia Augusta_, è piuttosto un romanzo sul fare della
_Ciropedia_. Erodiano sembra più attendibile, e s'accorda coi frammenti
di Dione.
[12] Vedi Manso, _I Trenta Tiranni_ (ted.), dietro alla sua _Vita di
Costantino_.
[13] Delle minutezze cui scendeva Aureliano in fatto di disciplina
militare sia argomento questa lettera a un suo luogotenente: — Se
vuoi essere tribuno, anzi se t'è caro di vivere, tieni in freno le
mani dei soldati. Niun d'essi rapisca i polli altrui, niuno tocchi le
altrui pecore. Sia proibito il rubar uve, il far danno ai seminati,
l'esigere dalla gente olio, sale, legna, dovendo ognuno contentarsi
della provvisione del principe. Hanno i soldati a rallegrarsi del
bottino fatto sopra i nemici, non delle lagrime de' sudditi romani.
Ognuno abbia l'armi sue ben terse, le spade ben aguzze ed affilate,
e le scarpe ben cucite. Alle vesti logore succedano le nuove. Mettano
la paga nella tasca, e non nella taverna. Ognuno porti la sua collana,
il suo anello, il suo bracciale, e nol venda o biscazzi. Si governi e
strigli il cavallo e il giumento per le bagaglie, e così ancora il mulo
comune della compagnia, e non si venda la biada lor destinata. L'uno
all'altro presti ajuto, come se fosse un servo. Hanno il medico senza
spesa; non gettino denaro in consultare indovini. Vivano costantemente
negli alloggi; e se attaccheranno lite, non manchi loro una mancia di
buone bastonate».
[14] _Absit ut auro fila pensentur; libra enim auri tunc libra serici
fuit_. VOPISCO, in _Aureliano_.
[15] Se pure va inteso così il _publicavit_ di Vopisco.
[16] Da Claudio II a Diocleziano non si batterono più monete d'argento,
ma di rame argentato. Quelle d'oro continuarono ad essere di titolo
fino, perchè il tributo era pagato in oro.
[17] Vopisco soggiunge che i discendenti di Probo andarono ad abitare
nelle vicinanze dei laghi di Garda e di Como.
[18] _Edda Sæmundar. Rigsmal._
[19] _Reges ex nobilitate, duces ex virtute sumunt_. TACITO, cap. VII.
[20] Il Muratori talvolta scrive: — Gli Sciti, o vogliam dire i Goti»,
al 267, 271 ecc.; e tal altra: — Gli Sciti, cioè i Tartari», al 261.
[21] ZOSIMO, i. 67; _Panegyr. veteres_, V.
[22] Romagnosi (_Dell'indole e dei fattori dell'incivilimento_,
part. II. c. 252) accolse l'opinione d'alcuni, che, per avversione
a Costantino, presentano quella di Massenzio come un'«opposizione
armata in senso nazionale». Io non trovai il minimo appoggio a tale
asserzione.
[23] È bizzarro come la boria municipale sapesse innestare le origini
favolose delle città colle sacre. Il Malvezzi cronista bresciano (_Rer.
It. Script._, tom. XIV. 780) racconta che Ercole fondò a Brescia la
rocca Cidnea (_Brixia Cydneæ supposita speculæ_, cantò Catullo); poi
la cinsero di torri e di spalti i Tirreni, dai quali in dritta linea
derivavano i santi Faustino e Giovita.
Nella cattedrale di Gorizia conservossi il bastone pastorale che
Ermagora avrebbe ricevuto da san Pietro; come in San Carpoforo a Como
quel che usava san Felice primo vescovo. Più famoso è il codice dei
vangeli, che stava nel monastero di San Giovanni del Timavo, distrutto
dagli Ungari nel 615, donde passò al monastero Belinese, e di là al
capitolo d'Aquileja, sotto il patriarcato dei Torriani, di cui porta lo
stemma. Carlo IV nel 1353 passando per Aquileja, ottenne dal patriarca
gli ultimi due quaderni di quella reliquia, che comprendono dal
versetto 20 del cap. XII sino al fine; e li regalò alla metropolitana
di Praga, ordinando di legarli in oro e perle, assegnandovi duemila
ducati; e volle che l'arcivescovo e il clero andassero incontro alla
reliquia, ed ogni pasqua fosse portata in solenne processione. Gli
altri cinque quaderni, rimasti ad Aquileja, furono poi recati a Venezia
per ordine del doge Tommaso Mocenigo nel 1420: ma l'umidità danneggiò
talmente il manoscritto, che più non è leggibile, e si disputò perfino
se fosse latino, e se su papiro o pergamena. I dubbj furono risoluti da
Lorenzo della Torre, nel ii vol., pag. 548 e seg. dell'_Evangeliarium
quadruplex_ del Bianchini (Roma 1749). Che questo brano appartenesse
al manoscritto d'Aquileja raccogliesi anche da ciò, che in esso,
dove finisce il vangelo di san Matteo, si legge, _Explicit evangelium
secundum Matthæum, incipit secundum Marcum_; e nulla segue. Nel 1778
Giuseppe Dobrowsky, sotto il titolo di _Fragmentum pragense evangelii
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