Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 24

Quest'assimilazione fu iniziata dai re: la cacciata de' Tarquinj
la sospese, ed assodò l'oligarchia, nella quale la plebe soffriva
orribile pressura; ma non che fiaccarsi alla tirannide, si agitava, e
chiedeva pane e diritti. Come acquietarla? occupandola in incessanti
guerre, donde i patrizj traevano infallibile vantaggio, perocchè
vincendo arricchivansi, vinti trovavano d'aver decimato e punito i loro
tiranneggiati. Delle perdite Roma si rifaceva coll'assorbire il fiore
de' paesi soggiogati: mirabile costituzione, mercè della quale divenne
padrona non istantanea del mondo.
Sottoposta la penisola, Roma si trovò a petto Cartagine; poi la Grecia
e l'Asia, civiltà antiche; poi la Gallia, la Spagna, la Germania,
civiltà esordienti: nella resistenza divenuta gigante, nella vittoria
irresistibile, sulla meschina bilancia dell'altrui politica getta la
sua spada; dà mano al debole, per opprimere con questo il forte, indi
l'uno e l'altro soggiogare.
Guai ai vinti! I trattati portavano in capo la parola di pace, come
testè vedevamo quelle di libertà e fratellanza; ma realmente erano
patti d'un superiore ad inferiori, sottomettendo non solo i vinti ma
gli alleati a più o men diretta dipendenza. Il feroce diritto patrizio
considera nemici i popoli indifferenti, e di buona presa la roba e
gli uomini di chi non sia alleato; con lunga arte cancella i caratteri
nazionali; ovunque tocchi, abbatte le vetuste grandezze e l'industria
di lunghi secoli; l'opulenta Corinto, Cartagine regina dei mari, Rodi
sposa del sole, cadono immolate alla gelosa conquistatrice; pérdono
fiore le mercantili città dell'Egeo, muojono le splendide della Grecia;
il commercio, anima del popolo attorno ai mari interni, è strozzato fra
gli abbracci della padrona.
Ad alcuni paesi vinti d'Italia e di Grecia lasciava essa qualche
ombra di libertà; ma delle popolazioni di Spagna, delle Gallie,
della restante Europa fa quello sterminio che crede necessario alla
sua sicurezza; e sui cadaveri pianta colonie talmente efficaci, che
giunsero fino a mutarne il linguaggio. Delle provincie conquistate
dividevasi il bottino fra i soldati, il terreno fra i cittadini, che
così diventavano barriera contro i nemici, ed estendendo fra i vinti
il timore di Roma e il rispetto per le istituzioni sue, preparavano
nuovi trionfi. Salvo i pochi che in alcuni paesi ottenevano in tutto o
in parte il civile o il politico privilegio di Romani o di Latini, gli
altri restavano esposti alle calunnie de' giudizj, alle estorsioni de'
legulej, alla tirannide de' nobili, alla rapina de' proconsoli, sicchè
il metter pace era un ridurre a deserto[296].
Tutto ciò importava quella necessità che più ripugna alle libere
istituzioni, un grosso esercito. Le lontane conquiste obbligarono a
prolungare i comandi, sicchè i generali si abituarono a potere ogni lor
voglia fra le provincie schiave; gli eserciti, devoti ai capitani che
gli aveano guidati alla vittoria, li seguivano anche contro la patria;
e con essi Mario e Silla si fecero sanguinarj tiranni, con essi Cesare
abbattè l'aristocrazia, Augusto la repubblica.
Non abbandoniamoci a quella sentimentalità, che nelle guerre vede
soltanto capitali sperperati e sangue effuso. Non che speciale a Roma
fosse la crudeltà, vedemmo anzi lodarla di moderazione: che se tal
lode veniva dal concetto che gli antichi si formavano della conquista,
è certo che essa sottometteva e inciviliva; fra società fondate
sull'odio, sospendea la permanente ostilità che ne parea condizione
necessaria; toglieva la libertà, ma dava un governo e i vantaggi della
civiltà e dell'ordine; imponeva il patriotismo e la dignità romana;
un secolo dopo la conquista, la fiera Spagna era trasformata, con
grandi strade, acquedotti, terme, teatri, circhi, tempj, crescente
popolazione, e viva industria, e coltura tale che mandava a Roma i
maestri d'Augusto, d'Ovidio, di Nerone, i poeti Lucano e Marziale,
i due Seneca, gli storici Mela e Floro, l'agronomo Columella;
nella Gallia si spianano strade, si aboliscono con lunghi sforzi i
sagrifizj umani, grandeggiano scuole d'eloquenza; l'Africa sale ad
una floridezza, qual mai non ebbe o prima o poi; in Egitto è portato
il lino, nella Gallia l'ulivo, la vigna sul Danubio e sul Reno, ove
sorsero città, che fin ad oggi sono le meglio fiorenti[297].
E fu Roma la prima che le conquistate nazioni pensasse a governare.
Il diritto pubblico stabilito dalla vittoria la rendea padrona,
ma la civiltà diffusa mediante le colonie facea che assimilasse il
mondo, divenisse centro d'incivilimento, e perpetuasse i risultamenti
dell'invasione armata; sicchè non la violenza solo, ma l'autorità e la
coltura congiungeva a Roma il mondo, la cui immensa varietà era diretta
da spirito d'ordine, di regola, di stabilità. Anzi, al vederla fatta
meta di tutti i desiderj, Roma somiglia un centro che attira, anzichè
un vortice che ingoja; e che non essa ingoji il mondo, ma il mondo
costringa lei a riceverlo nel suo grembo.
Questi miglioramenti eransi cominciati sotto la Repubblica; ma li
perturbava la violenza, divenuta universale quando tanti anelavano a
far propria la cosa pubblica colle ricchezze, coll'eloquenza, colle
vittorie, cogli assassinj, cogli abusi di quella libertà, che è la
parola più frantesa, giacchè valse perfino a scagionare i patiboli
di Robespierre e i pugnali di nostri contemporanei. Il mondo n'era
scagliato in preda alla forza brutale, quando gl'imperatori poterono
sospenderne la caduta; e come la legge internazionale della repubblica
era stata la guerra, così dell'Impero divenne la pace. La costituzione
andò alterata, non tanto perchè il dittatore de' nobili o il tribuno
della plebe avesse assunto il titolo imperiale, quanto pel cessare
delle conquiste, ch'erano state l'alimento di Roma. La politica
dell'accomunare di dentro l'eguaglianza cittadina, fuori i diritti
dell'umanità, prese allora tutta l'ampiezza, avviando ad una grande
unità, nella quale per conseguenza cessava la distinzione di nazioni,
tutti potendo dar voti, tutti aspirare alle cariche, purchè aggregati
all'estesissima cittadinanza.
La innovazione dell'Impero bisogna conchiudere fosse necessaria, poichè
durò sì a lungo, nè mai fu seriamente tentato di ripristinare l'antica
Repubblica. Ma da una parte venne operata colla forza, in aspetto
di usurpazione militare, che imponeva un governo soldatesco senza
freni civili; dall'altra le irruzioni, allora cresciute, de' Barbari
costrinsero a continuar le guerre, non più di conquista ma di difesa.
Sono i due modi per cui si consolida il despotismo.
Sebbene il sistema fosse fondato sulla violenza, già ne veniva
indizio di quella spontanea associazione de' popoli, costituita sulla
pace e sulla libertà, alla quale tende il mondo; intanto le idee si
ampliavano, estendeansi la coltura e i miglioramenti materiali, ed il
concetto d'una grande unità.
Di ciò s'avvidero già gli antichi, laonde, col nome di orbe, di
universo, di genere umano intesero il popolo e l'impero romano; e al
decadere di questo, Claudiano glorificava Roma perchè sola ricevette
nel suo grembo anche i vinti, e tutti abbracciò col nome di cittadino,
e, merito di lei, anche lo straniero godeva le pacifiche consuetudini
come nella propria patria, atteso che tutti sono una sola gente[298].
Ma perchè siavi unità, son necessarj l'accordo degli interessi, la
simpatia de' popoli. Qui invece Roma trovavasi fra due civiltà, la
greca e la barbara, essenzialmente diverse, e che divenivano germe
d'una divisione, la quale si pronunziò col distacco dei due Imperi.
L'unità, cioè l'eguaglianza, non era possibile in società costituite
sulla separazione, sulla disparità; nè dagli antichi era concepita se
non come monarchia universale, cioè il sacrifizio di tutti i vinti al
vantaggio del vincitore.
In fatti, dopo che la Repubblica avea cancellate le nazionalità,
annichilò anche gl'individui, valutando il cittadino solamente in
quanto giovava allo Stato, e scompagnando per tal modo l'interesse
personale dal comune. Togli quei pochi che speravano dignità o
impieghi, tutti gli altri non conosceano lo Stato se non per le
oppressioni o le imposte.
In Roma repubblicana la patria era una religione: scopo supremo delle
azioni pubbliche e private l'ingrandirla; per essa sprezzati l'oro, la
vita, la pietà, la virtù; non accettata la pace che dopo la vittoria;
e creati quegli eroi che formano l'ammirazione di chiunque osservi la
grandezza indipendentemente dall'umanità.
Quel vitale sistema di Roma d'aggregarsi i vinti fu guasto dagli
imperatori esagerandolo; e per togliere ogni ostacolo ai proprj arbitrj
e impinguare il tesoro, estesero a sempre maggior numero di sudditi
la cittadinanza, rintuzzando così il sentimento esclusivo dell'amor di
patria. A misura che questa dilatavasi, quello s'indeboliva, e la pena
dell'esiglio, terribile al Romano quando lo spingeva soltanto a Fidene
o ad Ardea, parve sì mite ai tempi di Cesare, che convenne aggiungervi
la confisca dei beni.
In un piccolo Stato libero, ove il diritto di suffragio dipende dalla
proprietà, si comprende come tutti i privilegi e i poteri si devono
concentrare nella città. Ragionevolmente dunque Roma tenne un governo
di municipio, ove patrizj, popolo e cavalieri, senato, consoli e
tribuni si bilanciavano per modo che una mano vigorosa poteva dirigerli
in un bello ordinamento civile. Siffatto ella il mantenne anche
ampliandosi, onde perdeva le proporzioni allorchè la città era estesa
quanto il mondo. Altre Rome ottennero la forma della madre, ma della
prisca non rimaneva che il fantasma; nè coll'aprirla a tutta Italia,
poi all'Impero tutto, si produsse un vero ordine di cittadini, una
nobiltà imperiale, che desse assicurazioni di libertà al popolo, di
durata al governo, d'efficacia all'amministrazione.
Se Cesare, passaggio fra l'antichità conquistatrice e le moderne
età civilizzatrici e vero fondatore dell'autocrazia, avesse potuto
effettuare i grandiosi suoi divisamenti, ridurre ad unità l'Impero
mediante la rappresentanza, accomunare alle provincie la cittadinanza,
abolire il patriziato originario coll'accogliere nel senato il meglio
d'ogni gente, poteva uscirne un governo bilanciato, che le forze
diverse convergesse ad uno scopo, e quella mescolanza di Latini,
Italici, nuovi Latini, municipj, coloni, provinciali, fondesse in un
grand'insieme per la franchigia della nazione e l'incivilimento del
mondo. Ma al piccolo ingegno e al piccolo cuore d'Augusto mancò la
capacità o la generosità d'istituire un freno a se stesso e alla rea
volontà de' successivi imperanti. Questi, all'ombra de' regolamenti con
cui la Repubblica patrizia proteggeva i magistrati, poterono legalmente
ciò che vollero, identificando in sè il popolo, armandosi dell'autorità
tribunizia; e per logica legalità, al cieco amore di patria rimase
sostituita la cieca obbedienza al despoto di essa. Tutto dipendeva
dai capricci d'un solo, e questo dai capricci dell'esercito; laonde la
monarchia arrotando la conquista, regolò l'ammirazione del mondo, ma
riuscì tempestosa poco meno della repubblica.
Sotto le forme d'una grande unità, internamente nulla era fuso; razze,
lingue, credenze, istituzioni, intenti, tutto rimaneva differente;
un popolo ignorava l'altro; le comunicazioni non aperte che fra
le capitali, cioè fra le varie stanze di cittadini di Roma; del
resto avversione reciproca fra soggiogati e vincitori; le compresse
nazionalità rialzavansi a tratti; le provincie, non che crescessero
forza a Roma, la indebolivano reputandola nemica, e consideravano
come propria libertà il perdersi della loro tiranna; sicchè
quell'antagonismo, nulla avendo di legale, sconvolgeva lo Stato.
I comizj del popolo erano più possibili quando gente da tutto l'orbe
potea prendervi parte? Perchè il senato avrebbe potuto frapporre
qualche barriera, tutti gl'imperatori, buoni o malvagi, fiacchi o
risoluti, accordaronsi nel decimarlo e avvilirlo. E ne restò sbrigliata
la tirannide; tanto più che l'esecutivo non era, come nei moderni,
separato dal potere legislativo; i principi faceano da giudici,
pronunziavano in casi particolari, ed applicavano le pene da loro
stessi decretate.
I buoni imperatori si temperavano nell'esercitare quest'illimitato
e legale rigore: i malvagi ne facevano stromento a passioni, e
coll'infame genìa delle spie spargevano tra il popolo la pessima delle
corruzioni, quella che ti fa sospettare un nemico in ogni fratello.
Ma a quei mostri che si succedettero sul trono d'Augusto, udimmo
mai rinfacciare che trascendessero la legge? Nulla avea questa che
restringesse i loro arbitrj; della religione erano essi i pontefici
sommi; la moralità era una controversia di scuola, sottomessa alla
ferrea parola della legge, per la quale chiamavasi diritto ciò ch'era
comandato (jus jussum). Se l'eventualità della nascita, o il capriccio
dell'esercito, o la venalità d'un'assemblea assidono un mostro sul
trono del mondo, costui diffonderà tanto più la propria corruzione,
quanto più in alto è collocato. Se poi la scarsa fazione de' buoni vi
innalzi principi d'invidiabile virtù, questi allevieranno i mali di chi
sta a loro più vicino, ma dovranno assecondare anch'essi le materiali
inclinazioni che ormai allo spirito tolgono ogni possanza; giacchè le
abitudini d'un potere sfrenato si connaturarono a segno da non lasciar
discernere la giustizia, nè sentire l'umanità; e tutte le classi,
disarmoniche e scoraggiate, sospingonsi a vicenda nell'irreparabile
abisso.
Questo principe è proclamato superiore alla legge, eppure, come un
balocco da fanciulli, è sollevato e abbattuto da frequenti rivoluzioni:
non di quelle rivoluzioni, ove fra il sangue proceda la società, come
la nave nelle tempeste; ma congiure di Corte o di caserma, che non
fruttano nè franchigie nè esperienza, che uccidendo il tiranno assodano
la tirannia.
Da qui, come da tutte le rivoluzioni, la prevalenza della forza armata.
Costretti a tenersi in guardia men tosto contro nemici esterni che
contro i sudditi, gl'imperatori crebbero la potenza de' pretoriani,
e questi usurparono la facoltà di eleggerli e mescersi del governo
civile, finchè Comodo strappò le ultime apparenze di franchigia rimaste
al popolo e al senato, col porre accanto al trono il prefetto del
pretorio. Insuperbiti dal sentirsi necessarj, i pretoriani occupavano
i beni altrui senza tampoco mascherare colle formole l'usurpazione;
svilirono il senato coll'aggregarvi ogni feccia, purchè pagasse;
vendettero i decreti; crearono venticinque consoli in un anno; che più?
posero all'asta l'Impero.
Quel che i pretoriani in città, pretesero farlo gli eserciti fuori,
conferendo il diadema a quel qualunque, cui fossero disposti
a sostenere. Dopo Massimino cominciano le gare fra il senato e
l'esercito per l'elezione; e poichè il secondo preponderava, sceglieva
gl'imperatori da nazioni differenti; Roma, invece di dar il padrone
agli stranieri, lo ricevette da essi; e quale patriotismo poteva
attendersi fra capi forestieri e sudditi avviliti? Poi ciascun esercito
pretendendo l'eguale diritto, ne vennero doppie e triplici elezioni,
sostenute da guerre civili, tra cui si logoravano le armi che sarebbero
state necessarie contro i Barbari, e lasciavansi sguarnite le frontiere
quando più era mestieri guardarle.
Nei censessant'anni descritti dalla _Storia Augusta_, settanta persone
portarono il titolo imperiale; e, dove conferivasi a quel modo, manca
ogni criterio per distinguere il legittimo dall'usurpatore, se non sia
l'esito. Effimeri monarchi potevano attenersi ad una politica uniforme?
Ogni nuovo venuto vi mescolava alcun che di personale, compiacevasi
operare a rovescio del predecessore; nessuno proponevasi un gran
disegno, nè aveva il tempo d'effettuarlo.
La divisione dell'Impero fatta da Diocleziano agevolava il pronto
riparare agli invasori, e terminò le sommosse dei soldati: ma ne venne
sterminato aumento alle spese delle Corti, non più semplici come al
tempo d'Augusto, ma emule della vanità persiana; alle forze mancò
l'accordo, e massime l'Italia nostra ne patì, cessando d'essere il capo
e il cuore di quel corpo gigantesco.
Costantino conobbe la necessità d'una monarchia regolare, comunque
irrefrenata, e di separar il potere che dirige da quello che eseguisce;
ma non ebbe arte o volontà di fondere i diversi elementi. Poneva un
termine all'anarchia militare, facendo prevalere l'ordine civile;
fiaccò la guardia pretoriana; ai capi de' soldati non assegnò che
gl'infimi gradi della nuova gerarchia; quattro prefetti del pretorio
e quattro eserciti si tennero l'un l'altro in rispetto; i soldati si
cernirono solo fra proletarj, e perchè non disertassero, marchiavansi
a fuoco sul braccio o sulla gamba. Restavano da ciò prevenute le
turbolenze e le insurrezioni, ma fiaccata la robustezza militare
allora appunto quando il bisogno ne cresceva; e disperse le legioni che
difendevano i passi, lasciavansi a sbaraglio le provincie.
I successori suoi abbandonaronsi alla corruttela d'una Corte asiatica,
e i palazzi dov'essi ricoveravano la minacciata maestà, divennero
officine d'intrighi, d'iniqui giudizj, di basse turpitudini, surrogate
ai macelli dei primi Cesari. Fra cortigiani ed eunuchi, gl'imperatori
non contraevano che avidità di godimenti, non gustavano che la
beatitudine del far nulla; negligendo di vedere le cose coi proprj
occhi, sulla guerra e l'amministrazione, sui lamenti e i bisogni dei
popoli acquetavansi alle relazioni d'un confidente scaltro, brigante
o venale. Che la traslazione della sede fosse opportuna alla durata
dell'Impero, l'attestano i dieci secoli che Costantinopoli sopravisse:
ma fra le due metropoli entrò gelosia; Roma indispettivasi di vedere
diviso il diadema, e le ricchezze e gli ornamenti suoi passar ad
abbellire la figlia rivale; Costantinopoli recavasi a sdegno che Roma
pretendesse ancora il primato: sul Tevere ricoveravansi le reliquie del
paganesimo in grembo all'aristocrazia; sul Bosforo versavasi sangue
per le dispute cristiane: dei reciproci pericoli parevano esultare,
anzi talvolta l'una dirigeva sopra l'altra i nemici o per rancore o per
salvare se stessa.
Vedemmo i Romani, sempre mal pratici in fatto di finanze, dapprima
cercare la prosperità col tener basse le fortune, poi non conoscer la
ricchezza che nel cumulo di metalli preziosi; e dopochè col cessar
le conquiste cessò l'affluenza di questi, nessun modo si conobbe
d'agevolare i cambj, e provaronsi tutte le angustie della mancanza di
numerario. Neppure troviamo che in quegli estremi si ricorresse ai
prestiti forzati e ai viglietti di banco, come erasi usato ai tempi
d'Annibale; e l'arte riducevasi a smungere i sudditi col divisare un
raffinato concatenamento di vessazioni. Man mano che l'Impero declina,
cessano gli eventuali ristori che la sua potenza recava; e sempre
più bisognoso d'uomini e di denaro, maggiormente domanda ai sudditi
quanto meno si occupa del loro benessere; anzi, per soddisfare alle sue
necessità, incatena le persone ed i possessi. Qui v'avea servi affissi
ai padroni, là coloni affissi alla gleba, artigiani affissi alla
manifattura, decurioni affissi al municipio colla persona, le sostanze,
i figliuoli, l'eredità, l'amore[299].
L'artigiano non paga le tasse? le dovrà la maestranza cui egli spetta.
Ai sudditi le imposte riescono esorbitanti? ebbene, soddisfino per
essi i decurioni. Abbandonano i terreni? ebbene, siano obbligati
gli altri possessori a comperarli. I decurioni, aborriti perchè
tiranni, aborrenti perchè tiranneggiati, sottraggonsi a quella carica?
ebbene, vi si obblighino a forza; la assumano i bastardi, gli Ebrei,
i sacerdoti indegni, i soldati fuggiaschi, i debitori insolvibili.
Pertanto i municipj non erano che un sistema di più vasta e più
immediata oppressura; le corporazioni d'arti equivalevano ad una
galera; il titolo di cittadino romano, dianzi stimato e compro a gran
valuta, era fuggito come un supplizio, era ripudiato quasi infame[300].
Ne' mali più gravi i rimedj stessi aggravano; perfin la giustizia
diviene un'occasione di danni. L'accomunamento della cittadinanza,
reclamato dall'equità e dalla politica, non fece che spopolare
l'Italia, traendone a Roma tutti i ricchi e gli scioperati: questo
gentame seguì a Costantinopoli il pane e i piaceri, lasciando l'Italia
vuota, deserti i suoi campi, le città senza patrimonio, senza capi.
Allora la patria nostra perdette le esenzioni, fin là godute come terra
sovrana; restò gravata dalle tasse comuni, appunto quando cessavano
d'affluirle quelle di tutto il mondo; la migrazione dei ricchi e le
rapaci correrie dei Barbari desolavano d'abitanti le sue città, di
frutti le campagne, che, da giardini dei grandi com'erano prima, si
conversero in letto di fiumi, in asilo di belve e di ladroni.
Come prendersi cura alla difesa d'uno Stato, a cui non erano
attaccati altrimenti che pel sanguinoso legame del tributo? Quei
Greci, quei Galli che avevano profuso milioni di vite per la propria
indipendenza contro Roma, veruna resistenza opposero agl'invasori.
Il modo d'esazione dei Barbari, semplice per quanto arbitrario,
men rincresceva che non il lento sanguisugio di un governo, che non
pareva essersi raffinato se non a danno de' sudditi: le migliaja di
schiavi sospiravano l'ora di mirare umiliati i burbanzosi padroni, e
lanciar loro in viso i ceppi che aveano sin allora portati: i coloni,
sottoposti all'enorme capitazione e ad opprimenti servigi di corpo,
offrivansi a chiunque promettesse un sollievo, od almeno una mutazione
di mali: il cittadino si divincolava in quella inestricabile rete
di tirannia che avviluppava tutti, dall'imperatore sino all'infimo
schiavo.
Tra siffatti come suscitare il patriotismo? e tolto questo,
qual movente rimaneva nelle antiche società? la legislazione? la
filosofia? la religione? La prima fu il vero vanto degli ultimi secoli
dell'Impero, consolidando ed appurando la famiglia e la proprietà,
sicchè il furore de' tiranni violava quegli ordinamenti, ma non li
cambiava: e questo rispetto alle leggi valse a prolungare l'esistenza
di Roma, il cui decadimento venne lentissimo perchè il sistema era
buono, nè facilmente si cancellava la grandezza del nome suo.
Ma se, vedendo imperatori dispotici, moltitudine adulante,
menzogna perpetua nelle apparenze e nel linguaggio, le anime nobili
s'indignavano, non sorgeano però ad alto scopo, limitandosi a ribramare
il passato; sicchè non mirando a un avvenire, ne seguiva sterilità
d'intelligenza e di cuore. Una religione fondata sopra la credenza
d'un Dio solo, se anche travii, può revocarsi a' suoi principj,
avendo un punto saldo da cui prender le mosse. La latina, senza base
una e solida, senz'intima moralità, contraddicente alla ragione e ai
bisogni spirituali di quel tempo, non poteva restaurarsi, sconnessa
che fosse. Inutili dunque gli sforzi di Augusto per rintegrarla come
elemento d'ordine. Tentarono gli Antonini rinsanichirla innestandovi la
filosofia stoica, e ne sorsero benefici regnanti e vigorosi magistrati:
ma quella scuola, oltre gl'intimi difetti, non potea mai divenir
popolare, come dev'essere una religione. Tanto peggio riuscirono i
tentativi di ringiovanirla colle dottrine neoplatoniche, coi riti
teurgici, colle iniziazioni mitriache.
Rimedj organici portava il cristianesimo, destinato a compier l'opera
di Roma, cioè unificare il mondo nel diritto, ricevere tutti nella
gran città, reggere coll'impero i popoli senza abolirne l'indipendenza
e l'autonomia, e non solo i popoli tra l'Eufrate e il Danubio, ma fin
di là da mari, di cui neppure l'esistenza conoscevano gl'imperatori:
dentro, virtù cittadine e private rifiorivano; un clero che la legge
romana esimeva dai tributi oppressivi e dalle odiose cariche curiali,
mentre la legge cristiana gli toglieva d'imbrutalire nell'ozio e ne'
bagordi. Ma i monaci nel deserto e i sacerdoti nelle città, non che
tutelare l'antico, invocavano il giovane mondo. Perocchè il dire che
una società si discioglie, significa che un'altra cova nel suo seno, il
cui fermentare scompone gli elementi dell'anteriore acciocchè entrino
in nuove combinazioni. Insinuarsi nell'Impero la nuova dottrina non
poteva se non iscomponendo l'ordine, di cui l'apparenza durava.
Se n'accorsero fin dall'origine i giureconsulti e gli imperatori,
laonde bandirono guerra a questi sudditi riottosi; e i Cristiani,
ridotti a considerare per nemico un governo che in guise spietate
voleva inceppare la più libera delle cose, la coscienza, se ne
sceveravano stringendosi fra sè; disobbedivano ed erano puniti per
colpe che non si giudicavano disonoranti, sicchè la disciplina andava
a fasci, mentre fiaccavasi il sentimento morale; ne' magistrati onesti
lottavano la coscienza e la legalità; entro le stesse mura, nella casa
stessa, uno trovavasi nemico dell'altro, e lentavasi ogni legame di
società e di famiglia.
Il cristianesimo, sapendo che la resistenza è colpa quando cessa
d'essere un dovere, per non provocare i tiranni, aveva dapprima
offerto il collo tacendo e perdonando: invigorito poi ne' tormenti
e nelle maschie voluttà dell'astinenza e della solitudine, alza la
voce di mezzo al fragore dell'armi; da credenza personale e interiore
s'è mutato in istituzione, con governo e rendite, rappresentanza ed
assemblee, talchè può svincolarsi dagl'impacci della società civile.
L'unità, scopo della politica romana, perì allorchè questa a doppio
interesse si dirizzò, alla patria cioè ed al cristianesimo; e la
società che finiva non avendo più l'autorità, la nuova non avendo
ancora la potenza, venne ad accelerarsi lo sfacelo.
Ogni nuova rivoluzione religiosa noceva allo Stato; poichè o Costantino
alzasse il làbaro, o Giuliano riaprisse i delúbri, o Gioviano tornasse
alla croce, sottraevansi all'Impero le braccia o il senno di alcuni,
che faceansi coscienza di coadjuvare a chi adorava altrimenti, o
non v'erano sofferti dall'intolleranza: le istituzioni introdotte
e quelle abolite dal cristianesimo traevano il crollo di altre, su
cui la vecchia società era sistemata: ai municipj non restò più che
miseria quando Costantino applicò i loro possessi alle chiese: dalla
milizia e dalle magistrature molti forti e pensatori si stornavano per
darsi all'eremo o al sacerdozio, e tornavano di aggravio ai laici le
esenzioni concedute al clero.
Nella teologia antica il perire degli Dei faceva perire la nazione:
sicchè Roma dovea cadere perchè caduti i suoi numi, finir l'Impero
perchè era finita quella teologia. La nuova avrebbe potuto rivolgersi
tutta a riformare i costumi mediante i precetti morali e le leggi
civili: ma ne fu sviata per l'inciampo delle eresie. Perocchè, se la
morale era la conseguenza, la premessa era il dogma: e quella senza
di questo sarebbe soccombuta nell'urto della barbarie, non potendo
dalla sola filosofia cominciarsi una civiltà duratura. Bisognò dunque
chiarire, precisare, mettere in sodo il dogma: ma che la morale e
l'attuamento di essa nelle leggi non fossero neglette, il palesano
la motivazione delle migliori costituzioni imperiali, tutti gli
scritti dei santi Padri, e quella folla di sacerdoti e di monaci che
coll'esempio e colla parola proclamavano la virtù, pur lamentando che
tanto restasse annebbiata dalle antiche abitudini.
Efficacia pubblica scemò alla religione l'essere la società civile
rimasta ancora pagana di fondo, d'istituti, di leggi, di costumi, qual
era sorta e cresciuta. Essa possedeva tutte le istituzioni opportune
al progresso delle idee e all'ammiglioramento degl'intelletti; mentre
la religione nuova ne mancava: e tutto dovea dedurre dalla propria
volontà, dalle credenze, dall'impero di queste sugli animi, dal bisogno
che aveano di propagarsi e d'occupare il mondo.
L'esito del conflitto non restò a lungo dubbioso, e la società antica
fu trafitta nel cuore: ma siccome certi paladini del medioevo si
favoleggiò che persistessero a combattere tre giorni dopo morti,
così quella si reggea per la propria mole, e pagana nelle midolle
anche dopo fatta cristiana nell'esteriore, prolungò una vita affatto
artifiziale; posto il dogma della Trinità e della Redenzione in
fronte alle leggi, pure l'impero progrediva in un ordine diverso,
se non anche opposto al Vangelo. Nè il cristianesimo proponevasi