Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 23

grembo a favoriti, i quali a vicenda acquistavano ed abusavano il
potere. Quando egli morì dopo tredici anni di regno (408),
Onorio fece qualche movimento verso la tutela del nipote Teodosio II,
ma presto lasciolla cascare in mano di favoriti, poi della sorella
Pulcheria, che votatasi alla verginità e a pie pratiche, si mostrava
però degna di governare mezzo l'Impero, più che non lo zio ed il
fratello. Questo fu da lei provveduto di buoni maestri, ma cresceva
inetto; eppure intanto la Persia rinnovava gli attacchi contro
l'Impero, e strappavagli l'Armenia.
Morto Onorio (423), Teodosio si aggiunse anche il titolo
d'imperatore d'Occidente, e mandò a debellare Giovanni segretario
dell'estinto, che n'aveva usurpato il diadema, e che, resistito invano
in Ravenna, ebbe tronca la destra; poi condotto a strapazzo sopra un
asino, fu decapitato nel circo d'Aquileja. Teodosio trovossi allora
padrone di tutto l'Impero; ma, fosse moderazione o negligenza, cesse
l'Occidente al nipote Placido Valentiniano (425), figlio di
Costanzo e di Placidia. Aveva questi appena sei anni, gli diedero sposa
Licinia Eudossia figlia di Teodosio, e fu commesso alla tutela della
madre, che per venti anni lo governò, con molle educazione sviandolo
da occupazioni virili; mentr'essa nè sapeva reggere il freno, nè
commetterlo a buone mani.
Ultimo puntello degl'imperi sfasciantisi sono i guerrieri, e Placidia
trovò due eccellenti generali in Ezio e Bonifazio. Il primo, nato
nella Mesia inferiore da un'Italiana sposata a uno Scita, messosi
giovanissimo alle armi, aveva praticato coi Barbari qual soldato e
quale ostaggio. Bonifazio erasi non meno segnalato nei governi che ne'
campi; riuscito a liberare l'Africa, ne fu posto governatore, e per
giustizia e probità si rese caro e rispettato. L'accordo di questi due
campioni avrebbe potuto rinvigorire alquanto l'Impero, ma gli diè il
tracollo la loro nimistà. Nel passato tumulto Bonifazio avea serbato
fede a Valentiniano, mentre Ezio ajutò all'usurpatore con sessantamila
Unni. Fallita l'impresa, Ezio è accarezzato per paura, e ringrandisce
nel favore dell'imperatrice; e macchinando di elevare se stesso
sulle ruine di Bonifazio, susurra a Placidia, — Bisogna richiamarlo
dall'Africa»; intanto segretamente avvisa Bonifazio, — Bada che
l'obbedire ti costerebbe la testa». Bonifazio gli dà ascolto, e, invece
di deporre il comando, avventasi alle armi; e da Placidia dichiarato
ribelle, manda a Genserico re de' Vandali, eccitandolo ad acquistare
stabili possedimenti in Africa.
Genserico, uomo di meschina statura, azzoppato nel cader da cavallo, ma
riflessivo, sprezzatore del lusso, lento al parlare, facile all'ira,
cupido del possedere e di mischiar litigi[287], aveva condotto i
suoi ad occupare la Spagna; donde allora, sopra vascelli offerti da
Bonifazio che l'invitava e dagli Spagnuoli che bramavano liberarsene,
tragittò in Africa cinquantamila uomini (429), ai quali
s'aggiunsero malcontenti e Mori vagabondi.
Sant'Agostino, vescovo d'Ippona, pose in opera l'autorità di prelato e
d'amico per distogliere Bonifazio dall'insensata vendetta; ma quando
altri amici scopersero le fraudolente lettere di Ezio, Bonifazio
pentito venne ad affidare la sua testa a Placidia, e Cartagine e le
guernigioni romane rientrarono nel dovere. Ma il colpo era dato, e
per quante somme il ravveduto offrisse a Genserico acciò sgombrasse
l'Africa, questi rimase non più come ausiliario, ma come padrone e
devastatore; e sgominato Bonifazio, che combatteva col valore d'un
pentito, scorse liberamente la campagna; sperperò le sette provincie,
che chiamavansi granajo di Roma e del genere umano, mandando a strazio
senza distinzione d'età o di grado, svellendo le vigne e gli ulivi, e
se il terrore non esagerò, scannando i prigionieri davanti alle città
assediate, acciocchè il lezzo ne ammorbasse l'aria.
Sconfitti interamente i Romani, Bonifazio per disperato fuggì dalla
contrada sopra la quale avea tratto tante sventure, e giunto a Ravenna,
ebbe da Placidia oneste accoglienze e il grado di patrizio e di
generale degli eserciti romani. Questi onori parvero un oltraggio ad
Ezio, a cui l'essere scoperto perfido non avea scemato la confidenza;
onde accorse con uno stuolo di Barbari; e a tal segno era scaduta ogni
autorità imperiale, che assalì armata mano Bonifazio. Questi prevalse,
ma d'una ferita spirò poco dappoi (432), perdonando ad Ezio,
e consigliando alla ricca sua moglie di sposarlo. Ezio, rassicurato
di perdono, torna; e l'imperatrice, baciando la mano che non poteva
recidere, il solleva a patrizio. Fatti inesplicabili nella scarsità
ed inesattezza de' cronisti d'allora. Nè con Ezio si deve parlare del
patriotismo antico: libertà considerava l'affrancare i suoi padroni
dagli stranieri, e se medesimo da chiunque l'impacciasse; combatteva
per quell'onor militare, che oggi pure manda migliaja di soldati a
profondere la vita e farsi eroi per una causa che non esaminarono, che
forse ignorano.
Genserico, domata la risorta Cartagine (439), i migliori
terreni da Tripoli a Tangar distribuì fra' suoi, riducendo a servi
i prischi possessori. Nessun'altra invasione riusciva di tanto
pregiudizio all'Italia, avvegnachè i senatori vi perdevano i lauti
patrimonj ivi collocati, il fisco l'immensa eredità di Gildone, la
plebe le distribuzioni del grano e dell'olio che di là si traevano.
Stava dunque sul cuore agl'imperatori di ricuperarla, ma Genserico,
scaltro quanto prode, intoppò ogni lor passo; e posta in essere
un'armata navale da ricordare i migliori tempi di Cartagine, invase
anche la Sicilia, occupò Palermo, sbarcò più volte sulle coste della
Lucania. Quand'ecco nuovo flagello scaricarsi sull'Impero: gli Unni.
È impossibile confonderli, come gli storici d'un secolo fa[288], coi
Mongoli e Tartari; e meglio si assegnano alla stirpe finnica, cioè
a quella da cui derivano gli odierni Ungheresi. I nostri, sgomentati
dall'apparire di genti estranie alla razza indo-germanica, non trovando
immagini adeguate al loro terrore, ricorsero alle favole, e dissero che
re Filimero avendo trovato fra' suoi Goti alcune maliarde, le cacciò
in paese deserto, lontan lontano dal campo suo: quivi le imbatterono
spiriti maligni, e mescolatisi con esse, generarono gli Unni, orridi
e piccoli, nè somiglianti ad uomini se non perchè favellano[289].
Ammiano Marcellino li descrive di ferocia senza pari; nati appena,
solcavasi loro il viso con un ferro rovente, acciocchè non mettessero
barba; piccoli e tarchiati della persona, con vigorose membra, grosse
teste, spalle tozze, tanto da scambiarli per bestie ritte sulle zampe,
o per le grossolane cariatidi che sorreggono i palchi; portano alta
la fronte, cavalcano a meraviglia, e maneggiano maestrevolmente arco e
freccie.
La caccia era loro abitudine; ed inseguendo una cerva bianca, alcuni
traversarono la palude Meotide, onde vennero a conoscere il paese
degli Sciti; e giudicando che per guisa soprannaturale fosse loro
indicata quella via, indussero i compatrioti a invadere le contrade
scoperte. Così fecero; e parte vinsero i popoli che scontravano, parte
li fugarono col terrore degli orridi aspetti e d'una ferocia mai più
sperimentata. Condotti dal re Balamiro (376), sottomisero
gli Acatsiri e gli Alani, coi quali saltarono sulle contrade degli
Ostrogoti, e li dispersero e sottomisero. I Visigoti chiesero ricovero
sulle terre dell'Impero, abbandonando agli Unni il paese a settentrione
del Danubio, ove da un secolo e mezzo stanziavano, e che allora divenne
centro d'un nuovo Stato che dovea durare settantasette anni.
Balamiro, inanimato dal buon successo, devastò le provincie romane, e
molte città distrusse, finchè non venne acquietato col promettergli
l'annuo tributo di diciannove libbre d'oro (20,000 lire) (400). Uldino,
che gli succedette nel comando, fu assassinato; i Romani dovettero con
più larghi donativi sviare le minaccie di Caratone; e d'allora gli
Unni si mescolarono volta a volta nelle vicende dell'Impero. Varcato il
Danubio, misero a sacco la Tracia e minacciarono Costantinopoli; se non
che la peste li sterminò (425). Roila riceveva da Teodosio il Giovane
l'annuo tributo di trecencinquanta libbre d'oro (370,000 lire) per
tenersi tranquillo; forse con Ezio menò perfide pratiche; ma appena
ebbe conchiuso nuovi accordi con Valentiniano III, morì (433),
lasciando il principato al nipote Attila.
Deforme figura, carnagione olivigna, testa grossa, capelli brizzolati,
piccoli occhi affossati, naso simo, pochi peli al mento, corporatura
tozza e nerboruta, fiero il portamento e la guardatura, come d'uomo
che si sente vigoria superiore a quanti lo circondano, tale ci è
descritto Attila. Sua vita era la guerra, pure sapea frenarsi: severo
nel pretendere giustizia, considerava per tale la propria volontà;
pure ai supplichevoli mostravasi esorabile, propizio a chi in fede
ricevesse. Nè soltanto nella forza fidando, fece spargere di quelle
ubbie che allettano la plebe. Una vitella tra il pascolare si ferisce
un piede; e il pastore meravigliato cerca fra l'erbe, e vede sporgere
la punta di una spada, che egli trae fuori e reca ad Attila; il quale
mostra accettarla come un dono del dio della guerra, e un segno della
dominazione universale. — La stella cade (diceva), la terra trema, io
sono il martello del mondo, e più non cresce erba dove il mio cavallo
ha posto piede». Avendolo un eremita chiamato _flagello di Dio_, adottò
questo titolo come un augurio, e convinse le genti che lo meritava.
Da principio sgomenta Teodosio il Giovane, che, al prezzo di settecento
libbre d'oro all'anno, compra una pace vergognosa, oltre concedergli
libero mercato in riva al Danubio, e restituirgli quanti sudditi suoi
erano rifuggiti nelle provincie imperiali: avuti i quali, e tra essi
alcuni giovani di regia stirpe, Attila li fa crocifiggere (441). Allora
osteggia i Barbari di varia nazione, stanziati od erranti
nel centro dell'Europa: Gepidi, Ostrogoti, Svevi, Alani, Quadi,
Marcomanni si piegano o sono ridotti all'obbedienza di lui, che stende
dai Franchi agli Scandinavi il dominio, il terrore per tutto il mondo:
una folla di re lo corteggia, settecentomila guerrieri aspettano
dal suo cenno qual paese abbiagli designato la vendetta di Dio. Ed
egli, dal barbaro volgendosi al mondo incivilito, assale la Persia,
ma respinto, ascolta al vandalo Genserico, e si avventa sull'impero
romano; e distesi i suoi Barbari in una terribile linea di cinquecento
miglia dall'Eusino all'Adriatico, manda dire a Valentiniano e Teodosio
— Preparatemi un palazzo».
Tre segnalate vittorie lo recano fino ai sobborghi di Costantinopoli.
Devastate settanta città, ridotto in servitù chi campava dal ferro,
pretese che Teodosio cessasse d'intitolarsi signore della contrada che
si estende dal Danubio fino a Naisso e alla Nava in Tracia; poi qualora
volesse premiare qualche suo benemerito, lo spediva alla corte di
Costantinopoli ad insultar l'imperatore nel suo palazzo, col pretesto
di chiedere l'adempimento de' patti, ma in realtà per farsi impinguare
di doni dallo sbigottito augusto.
Satollo di vittorie e di sangue, Attila ricoveravasi a riposo, non
in alcuna città, ma nel proprio accampamento fra il Danubio, il Teiss
ed i Carpazj, in quei campi d'Austerlitz, che divennero modernamente
famosi per segnalata vittoria. Colà i vincitori del mondo e le loro
donne compiacevansi attestare i loro trionfi coll'oro e le gemme onde
fregiavano la persona fin alle scarpe, le spade, le bardature, e col
vasellame d'oro e d'argento cesellato onde caricavano le mense. Attila
solo, che sembra gigante perchè montato su tante ruine, e innanzi al
quale tremava ognuno dal Baltico all'Atlante e al Tigri, ostentava non
portare altro ornamento che d'armi; a tavola usava coppe e taglieri di
legno, nè mangiava che carne e pane. Ivi accolse le umili e pompose
ambasciate degli imperatori romani, ai quali a prezzo concedette di
sopravivere ancora alquanto.
Poco dipoi Teodosio II, cascando di cavallo, morì di cinquant'anni
(450 — 28 luglio), dopo quarantatre d'un regno disonestato
dall'avvilimento dell'impero, illustrato dal Codice ch'egli fece
pubblicare: Pulcheria ottenne anche in titolo il comando sull'Oriente,
che di fatto già esercitava; e per la prima volta una donna stette in
proprio nome a capo dell'impero romano. Non un marito essa volendo ma
un collega, fermò sua scelta sopra Marciano senatore sessagenario, il
quale alla scuola dell'armi e della sventura aveva appreso virtù ignote
ai cesari ch'erano stati cullati nella porpora.
Quanto importasse il conservar la pace egli lo sentiva, ma non a prezzo
di viltà; onde ad Attila, che mandava arrogantemente a chiedere il
tributo, rispose: — Oro ho per gli amici, pei nemici ferro». Ultima
voce romana. Attila si risolve alla guerra, e move dal fondo dei
pascoli pannonj esitando, — Mi drizzerò all'oriente o all'occidente?
cancellerò dal mondo Costantinopoli o Roma?» Una serie d'accidenti il
determinò verso questa.
Ezio, dopo ch'ebbe costretto Placidia a rimetterlo in grande stato,
e sacrificare i nemici alla sua vendetta, baldanzeggiava di potere
e di fasto, mentre l'imperatore vero marciva in un vile riposo,
assicuratogli dalla valentìa di questo capitano. Il quale veramente
ritardò d'alquanti anni l'ultimo crollo dell'Impero; frenò i Vandali
con trattati, mantenne l'autorità imperiale nella Gallia e nella
Spagna, e strinse federazione coi Franchi e cogli Svevi. Non aveva
mai interrotto le relazioni cogli Unni d'Attila, nel cui campo pose
ad educare il proprio figlio Carpiglione: la sua intromessa manteneva
pace fra l'imperatore e quel formidabile, al costo però di frequenti
umiliazioni: anzi ebbe Unni ed Alani agli stipendj allorchè volle
combattere i Burgundi e Visigoti, già accasati nelle Gallie. Ma come
Genserico mandò invitare gli Unni, Attila si difilò sopra le Gallie,
dove lo chiamava anche l'alleanza dei Franchi, che colà avevano preso
stanza dal Reno fin alla Somma.
Se occorrevagli un'ombra di diritto, gliel'offerse Onoria, sorella di
Valentiniano III, che relegata per aver amato il ciambellano Eugenio,
spedì un eunuco ad Attila, esibendogli l'anello e le ragioni ch'essa
poteva offrirgli come moglie. L'Unno mandò a chiedere formalmente la
mano d'Onoria, come già sua fidanzata, e con lei mezzo l'impero. — Le
donne romane non hanno diritto alla successione», gli fu risposto: e
la principessa venne maritata di nome ad un uomo oscuro, indi chiusa in
perpetuo carcere. Attila allora aduna un nuvolo di popoli germani e di
vassalli od alleati, stermina molte città della Gallia (450),
ed assedia Orleans.
Ezio, non illudendosi nè alle insidiose profferte d'Attila, nè agli
intrighi d'una parzialità che alla corte italiana favoriva la pace, per
timida apprensione della guerra, fatto eroe per volontà, come sempre
era stato per coraggio, avea raccolto le maggiori truppe che potesse, e
massime gli ajuti dei Visigoti e de' costoro alleati, congiuntisi per
respingere questi nuovi invasori d'un terreno, dov'essi cominciavano
a gustare la dolcezza di stabili domicilj. Un generale romano, purchè
riuscisse ad unire un esercito, poteva fare gran fondamento sulla
superiorità che la tattica gli dava sopra di gente ragunaticcia, ricca
soltanto di personale valore. Lo sentì Attila, il quale, ingombrato
più che soccorso dalla moltitudine raccozzata, conobbe la titubanza,
e levatosi d'attorno ad Orleans, e ripassata la Senna (451),
attese il nemico nelle pianure Catalauniche sulla Marna, opportune ai
volteggiamenti della cavalleria.
Ivi dunque s'accampava tutto il mondo asiatico, romano e germanico;
quelli cui sfuggiva, e quelli che afferravano il dominio della nuova
Europa. Con Roma schieravansi Visigoti, Leti, Armorici, Galli, Breuni,
Sassoni, Borgognoni, Sarmati, Alani, Franchi, Ripuarj; con Attila altri
Franchi ed altri Borgognoni, Boj, Eruli, Turingi, Gepidi, Ostrogoti:
fratelli separati da lunga stagione, qui si rincontravano per
trucidarsi. Nella battaglia, con poc'arte e assai furore travagliata,
cencinquantamila cadaveri copersero le rive della Marna, ma ai Romani
restò il vanto: e fu l'ultima gran vittoria che si riportasse in nome
degli antichi signori del mondo. Attila si ritirò dietro la trincea de'
suoi carri, e la notte cantava battendo le armi, a guisa di leone che
rugge nella caverna dove l'hanno ridotto i cacciatori. Preparatosi alla
difesa, accatastò le selle e le gualdrappe dei suoi cavalli, disposto a
bruciarvisi vivo perchè nessuno potesse vantare d'aver preso od ucciso
il sire di tante vittorie. Ivi aspetta un attacco; ma al silenzio della
campagna s'accorge che il nemico s'era ritirato per arte di Ezio, ed
anch'egli rivarca il Reno, e costeggiando il Danubio torna in Pannonia.
A primavera s'accinge a nuova invasione (452), e chiesta
ancora la mano di Onoria col patrimonio di essa, e ancora disdetto,
mettesi in marcia, valica le Alpi, e invade la pianura che l'Isonzo, il
Tagliamento, la Livenza, la Piave, il Musone, la Brenta, l'Adige, il
Sile avevano formata presso ai lenti loro sbocchi in mare. Era stata
popolata dai Veneti Paflagoni[290], i quali colla caccia e la pesca
viveano in quelle lagune, che offrivano breve tragitto fra Aquileja e
Ravenna: vestiti alla greca con tuniche a maniche, larghi calzoni, il
pileo in capo, e molto curandosi dei cavalli[291]. Il paese che con
nome generico chiamavasi le Venezie, fioriva per le città di Concordia,
Opitergio, Patavio, Altino, ridente di ville quanto il lido di
Baja[292], e principalmente Aquileja.
A questa pose assedio Attila colle macchine fabbricategli da disertori,
e col dispendio di vite incalcolate. Gl'Italiani nel difenderla
mostrarono che l'antico valore non mancava in essi del tutto, qualora o
non li disgustasse la dotta oppressione, o non gl'impedisse la gelosia
degli imperatori. Dopo tre mesi di vani attacchi, Attila per disperato
levava già il campo, quando nel girare vede una cicogna che s'appresta
a fuggire coi pulcini suoi da una torre dove aveva posto nido. — La
città sta per cadere, se l'abbandonano fin animali così fidi», egli
dice; e con tale augurio ravvivato lo stanco coraggio de' suoi, li
mena con superstiziosa foga all'assalto. S'apre la breccia, ed Aquileja
ruina per più non risorgere. Altino, Concordia, Patavio vanno a strazio
uguale; e gli abitanti sbigottiti, dal continente cercano rifugio tra
le isolette della laguna, primo nocciolo della città e della repubblica
che dovea conservare il libero imperio più a lungo che Roma[293].
Internatosi allora fra terra, Attila mandò a pari guasto Vicenza,
Verona, Bergamo: Pavia e Milano si ricomprarono dal fuoco col cedere
tutte le ricchezze e colla pronta sommessione. Attila, entrando
nella reggia a Milano, e visto una pittura dove gl'imperatori erano
rappresentati sul trono in atto di calpestar re barbari, sorrise,
e vi fece istoriare i cesari, versanti sacca d'oro a' piedi di lui
vincitore.
Tutta Italia, alle incalzanti notizie di replicati disastri, giaceva
scarsa di consiglio, sprovvista di esercito, decimata d'abitanti. Ezio
solo tenevasi in piedi: ma gli alleati che lo aveano soccorso di là
dall'Alpi quando a quella dell'Impero andava congiunta la propria loro
salvezza, allora vedevano con indifferenza dirigersi quella furia sopra
l'Italia, come l'agricoltore quando il nembo, minaccioso a' suoi campi,
si sfoga sopra gli altrui. Anche l'impero Orientale non seppe che
promettere soccorsi; talchè a quel generale non restava che bezzicare
di fianco l'esercito d'Attila. Valentiniano stesso non ben s'affidava
nel suo generale, e tenendosi poco sicuro nel nascondiglio di Ravenna,
era fuggito a Roma; poi vedendo anche questa abbandonata di soccorso e
imperfetta di mura, meditava uscire d'Italia.
Nell'universale scoraggiamento, Leone papa ed Avieno romano consolare
presero il partito di condursi supplichevoli al Flagello di Dio, e in
nome della religione e delle antiche memorie implorare la salvezza di
Roma. Lo scontrarono vicino a Peschiera, e accolti con rispetto, il
pregarono a dar sosta, promettendogli immense somme qual dote d'Onoria.
Le leggende, che non poco s'esercitarono intorno a questo gran
frangente, ricordano diverse battaglie avvenute sotto le mura di
Roma, sì fiere che tutti i soldati perirono, eccetto i comandanti; ed
anche esalate le anime, i cadaveri continuavano a pugnare tre giorni
e tre notti come vivi[294]. Altri dissero che i santi Pietro e Paolo
comparissero dal cielo, proteggendo la città dove riposano le loro
ceneri, e minacciando Attila, il quale atterrito indietreggiò; miracolo
perpetuato in colori da Rafaello, in marmo dall'Algardi.
Anche senza miracolo, può credersi che il rispetto all'antica metropoli
del mondo gentile e alla nuova del cristianesimo rattenesse i Barbari:
recente era l'esempio d'Alarico, di cui restarono spezzati i trionfi
e la vita appena ebbe violato la gran città; i seguaci d'Attila,
impetuosi negli attacchi, non reggevano alle lunghe prove degli assedj:
erano decimati dalle malattie, con cui tante volte Italia punì i
suoi invasori; infine, quale allettamento potevano avere i palagi per
Attila, avvezzo a considerar libertà l'aria aperta, e prigione le case?
Agognava prede? gli venivano offerte senza fatica.
Ripiegò dunque verso la sua città di legno; e tra via, alle tante mogli
che l'aveano fatto padre d'innumerevole prole, aggiunse la giovinetta
Ildegonda: ma nella gioja o nell'abuso delle nozze fu sorpreso dalla
morte (453). Il cadavere di lui venne esposto in mezzo alla
campagna fra due lunghe file di tende di seta; i suoi Unni si mozzarono
i capelli, sfregiaronsi il volto, e gli offersero esequie di sangue
umano. Chiuso in tre casse, una d'oro, una d'argento, una di ferro,
nottetempo lo sepellirono colle spoglie più scelte de' nemici e coi
cadaveri degli schiavi che aveano scavata la fossa, intorno alla quale
i nobili Unni menarono dissoluti e intemperanti banchetti funerali.
I molti figli di lui se ne disputarono gli ampj possessi; ma questi
già erano perduti al lentar della mano che unica valeva a tenerli
congiunti.
La costui corsa non recò all'Italia soltanto i passeggieri disastri
d'un'irruzione. Il paese veneto era la linea di congiunzione fra
l'impero Orientale e l'Occidentale: i Barbari vi si erano affollati
rompendola a volta a volta, ma senza stabilità, finchè la dominazione
astuta quanto violenta d'Attila non ebbe dissipato ogni prestigio della
superiorità romana. Distrutta Aquileja, la piazza d'arme più rilevante
e la piazza di commercio più considerevole nell'alta Italia, questa
si trovò aperta a chiunque venisse; e da quel punto la Venezia rimase
staccata dall'Impero.


CAPITOLO LVI.
Sulla caduta dell'Impero romano.

L'Impero potè dunque inneggiare e Giove e Cristo perchè trovavasi
un'altra volta salvato: ma il cancro ne rodeva gli organi vitali; e
dismessa l'obbedienza, indisciplinati gli eserciti, esausto l'erario,
un sentimento universale di stanchezza e di paura stringeva gli animi,
e facea guardare con isgomento il compirsi del XII secolo di Roma, che,
secondo i computi de' sacerdoti etruschi, reputavasi fatale alla durata
di essa.
Educati da fanciulli ad ammirare Roma gigante, in una letteratura tutta
piena della grandezza di lei, e sopra storie che, isolando la gloria
dal diritto, la idolatrano, ne esagerano le virtù, ne giustificano le
colpe, infondono idee false ed inumane della libertà, della gloria,
del diritto di conquista; condotti poi a meditare quella legislazione,
non solo ammirata ma seguita ancora in gran parte dopo tanti progressi
della ragione e della pratica; circondati da mirabili avanzi di quella
civiltà, e considerando come vanto patrio la magnificenza e i trionfi
di coloro che godiamo chiamare nostri avi; qual meraviglia se con
fatica deponiamo giudizj ricevuti senza discussione, e convertiti in
sentimenti? se ci riesce ingrato chi ci strappa quelle illusioni,
ed alle magnifiche frasi surroga i nudi fatti, allo splendore la
giustizia, alla gloria l'umanità?
Sulla caduta maestà latina faccia elegie chi, avvinto alle reminiscenze
di scuola, giudica col patriotismo di Tullio e di Catone. Un insigne
scrittore inglese, stomacato di vedere il convento d'Ara-cœli
sorgere a fianco al Campidoglio, e cantici di frati sonare là dove
un tempo decretavasi lo sterminio d'intere nazioni, fra sardonico ed
epigrammatico dipinse come declinasse Roma dal punto che fu inaugurata
la nuova fede. Ma chi si affezioni agli oppressi, ai vinti, al
popolo, sarà a stupire se giudichi diverso da chi ammira la violenza,
il trionfo, gli eroi? sarà a stupire se, chi della Via sacra e del
Campidoglio si occupa meno che della Suburra e delle catacombe, non
preconizza tanto la Roma d'Augusto quanto medita sul suo deperimento?
V'ha spettacolo più istruttivo che quello d'una società che si sfascia
mentre un'altra si forma? e quando mai la storia offrì maggiore
opportunità di considerarlo?
Un occhio umano e filosofico dovrà riconoscere che quella catastrofe,
di lunga mano preparata, ritardata forse da accidenti che parvero
accelerarla, tolse via una barriera ai progressi dell'umanità. D'altra
parte l'agonia di dieci secoli dell'impero d'Oriente basterebbe a
convincerci del come si sarebbe miseramente trascinata la sopravivenza
dell'Occidentale.
Per imputare della caduta di questo le sole invasioni dei Barbari,
bisognerebbe dimenticare come esse cominciassero fin dal tempo di Mario
e di Cesare, e che cinque secoli urtarono l'Impero senza scassinarlo,
fintantochè le corrosioni interne non ebber reso irreparabile un
crollo, di cui la grande migrazione fu occasione e nulla più.
Le società moderne, anche traverso a quell'inumano avanzo che dicesi
ragione di Stato, si fondano sull'amore; e più s'inciviliscono, più
procurano la pace, estendono l'eguaglianza a maggior numero d'uomini,
e infine a tutti. Le antiche in quella vece, non riconoscendo la
fratellanza originaria nè la solidarietà del genere umano, si nutrivano
d'odio, di guerra, dell'escludere ogn'altra gente dal piccolo numero
de' privilegiati; libere nell'interno, tiranne e nemiche di chiunque
non appartenesse alla loro aggregazione; il patriotismo era meno amor
de' suoi che odio de' non suoi; il che fu espresso nel proverbio romano
«L'uomo è un lupo per l'uomo»[295]. Di qui la necessità di tenersi
sempre in armi per difendersi o per offendere; di qui la cura dei
legislatori civili e religiosi nel conservare costumi e istituzioni che
la loro tenevano distinta da ogni altra gente.
Però conquiste, alleanze, federazioni dilatavano questa società,
col che scemavansi i nemici, e comunicavasi a maggior numero
quella giustizia naturale, che è diritto, ma che guardavasi come
privilegio. L'incivilimento e l'umanità ne vantaggiavano, ma ne
rimanevano sconficcate le società parziali; il patriotismo, svigorito
coll'allargarlo, riducevasi incapace di resistere ad altro popolo che
ne conservasse la primitiva inesorabilità.
Greci, Pelasgi, Etruschi, gli altri popoli circumabitanti al
Mediterraneo viveano in questo secondo stadio, allorchè Roma li colse
e domò; Roma patriotica e guerriera per eccellenza. All'impeto suo,
all'inflessibilità di que' patrizj, qual ostacolo poteva opporre
l'Europa? Le nazioni di questa si trovavano press'a poco al medesimo
livello di civiltà; date all'agricoltura, divise in popoletti secondo
i territorj, tra loro frequenti in guerre, delle quali la minutezza
impediva sino i vantaggi, soliti derivare da queste feconde malattie
dell'umanità; non aveano una metropoli che primeggiasse; gelose
dell'indipendenza, non s'univano se non a tempo per momentanei
interessi o per calcoli d'equilibrio politico. Ma anche dove
scarseggiavano i raffinamenti sociali, possedevasi la libertà; e mentre
nei grandi imperi asiatici l'individuo andava perduto o sagrificato
nelle convenienze dello Stato o nella volontà d'un arbitro, qui la
suddivisione produceva quelle lotte, in cui l'uomo svolge ed esercita
le proprie forze.
Ne profitta Roma, miscuglio anch'essa di genti diverse; e fra le
popolazioni italiote costretta a sostenersi colle armi, introduce
quel sistema che da tutte doveva distinguerla, l'assimilare
gradatamente al suo Comune i vinti, mediante la potenza del diritto.