Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 21

l'inerzia e accarezzava l'imbecillità.
Eppure, se in alcun tempo mai, allora veramente era bisogno di principe
attuoso e guerresco; perocchè, non appena Teodosio chiuse gli occhi,
i Goti pensarono uscire dalla forzata tranquillità, e mettere a nuovi
guasti l'impero. Alarico, della principesca famiglia dei Baiti, la
più illustre fra' Goti dopo quella degli Amali, era stato formidabile
avversario di Teodosio, poi riconciliato seco ed eletto maestro delle
milizie. Morto questo, e tenendosi scarsamente rimunerato, stava di
mal cuore nelle terre assegnategli; forse inizzato da Rufino, devastò
la Tracia, la Macedonia, la Tessaglia; per le mal difese Termopile
entrò nella Grecia, fin allora intatta da scorrerie; e distrutti tempj
e città, sospesi i riti di Cerere Eleusina, dal mar Nero al golfo
Adriatico gli abitanti furono uccisi o spinti in ischiavitù.
Accorto più che non s'aspetterebbe da Barbaro, Alarico facea spargere
un oracolo, che lo diceva fatato a distrugger Roma e l'Impero. Ne lo
lusingava la scissura fra le due Corti, posto in mezzo alle quali,
poteva profittare degli errori d'entrambe. Ed error sommo commise
Arcadio cedendogli la provincia da lui devastata e, ch'è peggio, i
quattro grandi arsenali dell'Illiria. Ne conobbe l'importanza Alarico,
e per quattro anni li fece lavorare non ad altro che a stromenti da
guerra; sicchè, a spese e fatica delle provincie, i Barbari poterono al
naturale coraggio unire questo sussidio, sovente mancato. Ne cresceva
Alarico di credito e d'aderenti, i quali lo proclamarono re dei
Visigoti (382), e chiesero li traesse di servitù e li menasse
al trionfo.
Piantavasi in tal modo una terza potenza fra le due che divideano
l'orbe romano; e il nuovo re ora all'Oriente ora all'Occidente vendeva
i suoi servigi, calcolando con barbara sagacia contro di quale più
gli convenisse voltar le armi. Le provincie orientali sono state
corse dalle orde in ogni senso: Costantinopoli è situata in troppo
mirabile robustezza; l'Asia non è accessibile a chi non abbia flotte:
ma l'Italia, oh! essa può dirsi intatta ancora, essa opulenta, essa
indifesa.
Ed a quella bellezza, che formò sempre il vanto e il pericolo del
nostro paese, drizzò Alarico la voglia e i passi; e valicate le alpi
Giulie, consumò buon tempo attorno alle oppostegli difese e massime
ad Aquileja, mentre tale sgomento diffondevasi per la penisola, che
i ricchi già imbarcavano ogni avere per la Sicilia e per l'Africa. I
residui Pagani all'aspetto di queste sventure esclamavano, — Ecco segni
della collera dei numi abbandonati»; i Cristiani ripetevano, — Ecco
la punizione dei delitti con cui Roma salì tant'alto, e di quelli pei
quali ora declina»; e gli uni e gli altri cresceano il danno reale con
terrori superstiziosi.
Ad Onorio, sonnecchiante nel palazzo di Milano, le adulazioni non
lasciavano pur sospettare che altri potesse avventurarsi contro il
successore di tanti cesari; e baloccandosi nel dar beccare di propria
mano a una nidiata di polli, non aveva forse tampoco udito il nome
d'Alarico. Il nembo gli ruppe il sonno, non gl'infuse il coraggio; e
tentennando fra le paure, pensò ricovrarsi in alcuna remota parte della
Gallia. Ma Stilicone, prevedendo qual terrore getterebbe la fuga del
monarca, vi si oppose; pigliò l'assunto d'accozzare un esercito; e non
v'avendo truppe in Italia, che pur era capo d'un impero steso sulla
Gallia, la Spagna, l'Inghilterra, il Belgio, la costa d'Africa e mezza
Germania, mandò alle più lontane legioni che accorressero, lasciando
la mura Caledonia e le rive del Reno sguernite, od affidate a soli
Germani. Egli medesimo, non essendo di quelli per cui il patriotismo è
passione accecante ed esclusiva, non badava se il soccorso venisse da
Barbari o no; e imbarcatosi sul lago di Como nel cuore della vernata,
giunse nella Rezia, sedò i tumulti, e arrolò quanti nemici di Roma
vollero divenirne i difensori.
Onorio, assediato in Asti, già era a un punto di cedere, quando, gli
eserciti d'ogni parte sopravenendo, Stilicone strinse in mezzo i Goti;
côlto il tempo che celebravano la pasqua, gli assalì a Pollenza nella
Liguria (403), li ruppe, e delle spoglie loro arricchì i
suoi soldati. Alarico, dopo che invano adoprò il senno e il braccio a
reggere il campo, e vide prigioni sua moglie, le nuore, i figliuoli,
si ritirò con la cavalleria, e pensava rifarsi con un colpo ardito
varcando l'Appennino per isgominare la Toscana ed assalir Roma. Ma
i capi dei Goti, infedeli a un re vinto, o ineducati alla prova
dell'avversità, minacciarono abbandonarlo; tanto ch'egli dovette
porgere ascolto alle proposizioni fattegli d'abbandonare l'Italia,
purchè gli fossero restituiti i parenti presi e una pensione. Nella
ritirata avea disegno di sorprendere Verona; ma Stilicone, istruttone,
lo colse e sconfisse di modo, che gli fu grazia sottrarsi colla
fuga. Eppure quell'instancabile, rannodate le reliquie fra i monti,
mostrò ancora la fronte al nemico, che stimò fortuna il lasciarlo
uscir dall'Italia, troppo convinta di non aver più barriere contro
l'ingordigia de' Barbari.
Onorio solennizzò in Roma il trionfo (404), cui non avea
contribuito. Questa, che in cent'anni vedeva appena per la terza
volta un imperatore, andò lieta dei doni che fece alle chiese, della
riverenza insolita che mostrò al senato, e soprattutto dei giuochi
ch'esso le preparò nel circo: ma i sanguinosi spettacoli dei gladiatori
erano riprovati a gran voce dai sacerdoti cristiani; il poeta Prudenzio
in bei versi ne sconsigliava l'imperatore pupillo; il pio Telemaco uscì
a bella posta dal suo romitaggio, e discese nell'arena egli stesso per
impedirli: il popolo infuriato lo trucidò, ma col sangue del martire fu
scritto il trionfo dell'umanità.
L'adulazione ergeva ad Onorio un arco, ove leggevasi aver lui per
sempre distrutta la nazione dei Goti: ma la prudenza dava la mentita
col riparare e munire i castelli vicini a Roma e le mura di questa.
Eppure nè quivi nè in Milano sentendosi sicuro, l'imperatore andò a
rimpiattare la porpora in Ravenna, difesa dalla flotta, dalle paludi e
dalle fortezze.
E ben era tempo di munirsi, perocchè tutto il Settentrione agitavasi
e traboccava le sue piene verso l'Italia. Allettato dai trionfi e
dalle prede altrui, Radagaiso (Radegast), a capo d'un'accozzaglia,
alcuno dice di ducentomila Vandali, Svevi, Borgognoni, mosse dal
Baltico, e cresciuto per via da venturieri d'ogni nazione, si presentò
sul Danubio. Come difendere le lontane provincie quando il pericolo
stringeva l'Italia? Stilicone dunque richiamò di là le guarnigioni,
e con nuove leve, e col promettere libertà e denaro agli schiavi che
s'arrolassero, appena mise in piedi trenta o quarantamila guerrieri,
cui aggiunse molti Barbari ausiliarj: tanto era stata micidiale
l'ultima guerra, tanto aborrito il militare.
Con uno dei tre corpi in cui erasi divisa quella moltitudine,
Radagaiso passò senza ostacolo la Pannonia, le Alpi, il Po; evitando
Stilicone accampato sul Ticino, dagli Appennini scese improvviso a
saccheggiare l'aperto paese, distruggendo gli avanzi delle già floride
città d'Etruria (405), assediò Firenze, e bucinavasi che il
feroce avesse giurato ridurre a un mucchio di rottami la regina del
mondo, e col sangue de' più illustri senatori propiziare i numi suoi.
I fedeli dell'antica religione nazionale, sperando quest'idolatro
ripristinerebbe gli Dei, e sulla ruina della patria trionferebbe la
loro fazione, invece di eccitare il popolo ad armarsi di coraggio, e
se non altro di disperazione, esclamavano: — Ecco, tutto perisce al
tempo de' Cristiani; come resistere ad un guerriero che ogni giorno
fa sagrifizj, mentre a noi sono vietati?» I Cristiani incoravano
l'assediata Firenze con miracoli e rivelazioni; ed uno asserì che
sant'Ambrogio eragli apparso in sogno, assicurandolo che per domani
la patria sarebbe redenta[253]. In fatti dinanzi a quella città
l'esercito di Stilicone raggiunse il barbaro; e coll'abilità medesima
onde aveva due volte vinto Alarico senz'avventurarsi all'incertezza
d'una battaglia la cui perdita sarebbe stata irreparabile, circonvallò
il nemico di robuste trincee, talchè di assediatore assediato sulle
aride balze di Fiesole, restò consunto dalla fame. Radagaiso, costretto
ad arrendersi, ebbe tronca la testa; e i suoi furono venduti schiavi
in tanto numero, che se ne aveva una partita per una moneta d'oro;
il clima poi e il vitto cangiato li sterminò. Ad altre grosse frotte
aquartieratesi fra le Alpi Stilicone agevolò la ritirata; andassero
pure a manomettere le provincie, tanto solo che rimanesse salva
l'Italia.
Alla quale ormai riducevasi l'immenso impero d'Occidente; perocchè
la Gallia era occupata da Franchi, Burgundi, Alemanni; la Bretagna,
sgombra di legioni; effimeri imperatori s'ergeano a disputare il lacero
manto d'Augusto, fra cui basti nominare Costantino, che chiaritosi
imperator delle Gallie (407), ottenne da Onorio il titolo
di collega. Poi sovrastava Alarico, dalla sventura non abbattuto ma
istruito; e non che i Barbari perdessero confidenza nel valore e nella
prudenza di esso, a lui facevano capo quante bande scorrazzavano dal
Reno all'Eusino. Stilicone cercò dunque gratificarselo per averlo
fautore nel non mai deposto disegno di sottomettere l'Oriente: e
Alarico, affacciatosi alle frontiere d'Italia, esibì difenderla, purchè
gli fossero accordate alcune domande, e a' suoi una delle provincie
occidentali restate deserte.
Nella crescente fiacchezza d'Onorio e del suo governo, Stilicone
s'era industriato di tornare qualche polso al senato, e far che si
recasse in mano gli affari pubblici; ma non avea trovato che retori,
istruiti nelle forme dell'antica repubblica e nulla più, e vogliosi
di pompeggiare in parole sonanti, come al tempo che i loro padri
intimavano a Pirro, — Esci dall'Italia, e poi tratteremo». Allora
dunque che Stilicone propose le domande del re goto, i senatori
gridarono essere indegno della romana maestà il comprare incerta e
vergognosa pace da un Barbaro: ma il generale, non badando a ciò che
ricordavano i libri, ma a ciò che esigeva la vigliaccheria della corte
di Ravenna, attutì l'intempestivo patriotismo imponendo consentissero
ad Alarico quattromila libbre d'oro, perchè assicurasse i confini
d'Italia. Lampadio senatore esclamò, — Questa non è una pace, ma patto
di servitù»; e dalle conseguenze di tale franchezza nol campò che
l'asilo d'una chiesa[254]: ma incorati da tale protesta, i senatori
si ostinano sul niego, mettendo un'opposizione affatto insolita al
generale onnipotente.
Ad essi davano sostegno le legioni, indispettite dal vedersi posposte a
Barbari. Onorio medesimo era stato insusurrato contro del suo tutore,
come volesse tenerlo perpetuo pupillo, se non anche mutarne la corona
sul capo del proprio figlio Eucherio; onde, diretto da Olimpio, pretese
esercitare in fatto il dominio che teneva di puro nome, e fare mal
arrivato il ministro. Si presenta dunque al campo di Pavia, composto
di truppe romane ostili al Barbaro, e ad un segnale fa trucidare tutti
gli amici di questo, altri illustri con essi, e saccheggiare le case. I
condottieri, la cui fortuna intrecciavasi a quella di lui, ad una voce
chiesero a Stilicone li menasse a sterminare questi imbelli Romani.
Se gli ascoltava, l'esito avrebbe potuto giustificarlo; ma egli o
fiaccamente tentennò, o generosamente preferì la propria alla pubblica
ruina, sicchè i federati l'abbandonarono dispettosi; un di loro assaltò
la sua tenda, e trucidò gli Unni che vi stavano di guardia; Stilicone,
rifuggito agli altari in Ravenna, ne fu tratto con perfidia; e
decretato a morte, la subì con dignità e coraggio (408).
Al traditore, al parricida fu allora gridato d'ogni parte da coloro
stessi che dianzi incensavano il ministro guerriero; e chi s'affrettava
a rivelarne gli amici, chi a nascondersi. Olimpio, orditor primo
della trama contro il suo benefattore, esagerava ad Onorio il pericolo
sfuggito, e l'inaspriva contro la memoria del salvatore dell'impero;
Eucherio, figlio di questo, svelto alla chiesa, fu trucidato;
Termanzia, succeduta alla sorella Maria[255] nel freddo talamo di
Onorio, fu repudiata intatta; e la fermezza con cui gli amici di
Stilicone sostennero torture e morte, lasciò che i servigi di lui
rimanessero certi, incerta la colpa. Fu imputato d'intelligenza coi
Barbari, egli il solo che li seppe vincere sempre in ventitre anni che
diresse gli eserciti; d'avviare al trono Eucherio, egli che il lasciò
fino ai vent'anni umile tribuno dei notari; di meditare il rialzamento
del paganesimo, egli che educò il figlio nella religione cristiana,
e che era esoso ai Gentili per avere arso i Libri Sibillini[256] e
perchè sua moglie avea tolto un monile a Vesta, quelli oracolo, questa
salvaguardia di Roma.
Al rompere della diga, il torrente traripò; ed Onorio stesso pareva
compiacersi d'abbattere se alcun ostacolo restava, congedando i più
prodi perchè idolatri od ariani, e sostituendo uffiziali vilipesi dai
nemici, esosi all'esercito. I Barbari, che servivano come ausiliarj,
dal vendicare Stilicone non si rattenevano se non per riguardo alle
famiglie e alle ricchezze che aveano depositate nelle città forti
d'Italia: or bene, Onorio ordinò che que' preziosi ostaggi fossero
tutti il medesimo giorno scannati, e rapitine i beni. Tolto ogni
freno all'ira e alla disperazione, trentamila federati disertarono
ad Alarico, che esultò di veder la Corte operare così a suo disegno;
e la caduta di Stilicone riverito e paventato, le paghe interrotte,
l'istigazione degli offesi lo resero ardito d'intimare all'impero
soddisfazione o guerra. Lasciossi poi mitigare: ma i Romani,
interpretando la moderazione per paura, nè accettarono i patti, nè
s'allestirono d'armi (409); sicchè Alarico, rotta l'amistà
e la fede, si mosse, e dall'alto delle alpi Giulie mostrò a' suoi
le delizie del clima italiano, le superbe città, i soavi frutteti,
le spoglie di trecento trionfi accumulate in Roma, e la facilità di
rapirgliele. Aquileja, Altino, Concordia, Cremona soccombono a quel
forte; nuovi federati s'aggiungono ogni dì alla sua bandiera, che
sventola in faccia a Ravenna; spaventata la quale, egli costeggia
l'Adriatico, poi, per la via Flaminia, di città in città senza
contrasto pianta le tende sotto l'antica signora del mondo. Un eremita
tenta sedarne la furia, ed Alarico risponde: — Non posso fermarmi;
Iddio mi spinge avanti».
Più non era il tempo che, contro di Annibale e di Pirro, il popolo
romano si alzava quasi una persona sola, e dall'infimo plebeo fin al
consolare e al dittatore tutti correvano a vittoria o morte. L'Impero
avea perduto le migliori sue provincie; le altre rimanevano sì deserte,
che doveasi ripopolarle con sciami di Barbari. L'Italia specialmente,
per le ragioni altrove discorse e massime per le colonie militari,
andavasi disabitando fin dal tempo dei primi imperatori.
Esauste da piaceri eccessivi od infami le sorgenti della vita, i
ricchi per voluttà, i poveri per necessità, aborrivano dal matrimonio;
sicchè Costantino grandi privilegi attribuiva a chi pur un figliuolo
avesse. Non volendo svilirsi nel commercio e nell'industria, i ricchi
investivano i loro capitali in terreni, che vennero a ridursi tutti
nelle mani di giganteschi possessori, massime dopo che Trajano pose
per condizione dell'aspirare a dignità l'avere almeno i tre quarti
del patrimonio in Italia. Sparì dunque la classe vitale de' minuti
proprietarj, e alla popolazione agricola sottentrarono gli schiavi:
ma fin questa infelice genìa minoravasi, e perchè gl'imperatori non
conducevano tutti i prigionieri in Italia dacchè essa non era più
riguardata come capo dell'impero, e perchè, meglio delle robuste
braccia da aratro e da marra, si cercavano molti servi, che a centinaja
seguissero per via i padroni e le dame[257].
I piani d'Italia, dalla maschia loro feracità erano convertiti in
molli giardini e inutili parchi; il grano aspettavasi dall'Africa e
dall'Egitto, sicchè qualvolta o le flotte nemiche o i tiranni o le
procelle intercettassero il tragitto, Italia affamava. Diviso poi
l'Impero, essa non solo cessò di ricevere i tributi del mondo, ma ebbe
accomunate le tasse degli altri paesi, e divenne simile a colui che,
avvezzo a scialare in casa di grandi, si trovi repente senz'appoggio,
povero, inerte, male abituato.
Più volte qui gittò la peste, fierissima sotto a Tito, fin ad uccidere
in Roma diecimila persone in un giorno; poi riportata d'Oriente
dall'esercito di Lucio Vero[258]; di nuovo sotto Comodo, e spesso nel
secolo seguente. Tre guerre civili s'erano combattute alla gagliarda
nell'Italia settentrionale al tempo dei Trenta Tiranni, tre sotto
Massenzio, tre sotto i figli di Costantino, due alla morte di Graziano
e di Valentiniano II: e i Barbari, facendosi beffa della barriera
dell'Alpi, venivano a rapire schiavi ed armenti, lasciando un incolto
deserto.
Procuravano gl'imperatori risanguarlo o colle colonie militari, o
trasferendovi gente; Aureliano distribuì prigionieri, che nel paese
fra l'Etruria e le alpi Marittime piantassero vigne da far gratitudine
alla romana plebe[259]; il vecchio Valentiniano spedì sul Po gli
Alemanni presi al Reno[260]; Graziano, Taifali ed Ostrogoti su quel
di Modena, Reggio e Parma: ma fin questo inadeguato ristoro mancò
quando altrove che all'Italia gl'imperatori mandarono i prigionieri di
Germania e di Persia, e quando, cessate le esenzioni, nulla allettava i
veterani forestieri a piantarsi in colonia di qua dalle Alpi. Pertanto
sant'Ambrogio scrive a Faustino: — Partendo da Bologna, tu lasci alle
spalle Claterna, essa Bologna, Modena, Reggio; hai a destra Brescello,
di fronte Piacenza, di cui non altro che il nome rimembra l'antica
celebrità; a sinistra mettono compassione gl'incolti Appennini; e
considerando le borgate un tempo animatissime di popolo, ti si stringe
il cuore nell'osservare i cadaveri di tante città mezzo diroccate, e la
morte di tante contrade per sempre distrutte»[261].
La Gallia Cisalpina, più discosta dalla corruttela, avea serbato lena
più a lungo; ma quando si piantarono altre corti in Ravenna e Milano,
le auliche splendidezze introdussero immoralità, le largizioni ozio,
le cariche brogli; e la gente, affollandosi a quelle per vivere di
donativi, svogliavasi dal lavoro dei campi, dalla tediosa onestà delle
famiglie, dalla schietta rozzezza de' villaggi.
Quanto al mezzodì dell'Italia, basti dire che nel 395 una legge
d'Onorio sgravò del tributo cinquecentoventottomila e quarantadue
jugeri di terreno inseminato nel paese a cui l'ubertà guadagnò il
nome di _Terra di lavoro_[262]. Per quei deserti erravano a baldanza
orde devastatrici. Già soleano molestar le vie ne' tempi antichi;
ripullularono durante le guerre civili, peggio dappoi: un Balla,
entrante il III secolo, con seicento masnadieri infestava l'Italia
inferiore, e due anni penò Settimio Severo a sterminarlo[263]. Tanto
poi crebbe il male, che Valentiniano I venne nella determinazione di
disarmare l'Italia come le provincie, sicchè nessuno portasse armi
senza sua espressa licenza; nessuno, eccetto le persone di qualità,
comparisse a cavallo nel Piceno, nella Flaminia, nell'Apulia, nella
Calabria, ne' Bruzj, nella Lucania, nel Sannio, indi neppure nelle
circostanze di Roma[264]: provvedimento estremo, che attesta la
gravezza del male, e che toglieva alla quieta popolazione il modo
di schermirsi da coloro che sfidavano la legge. E perchè di pastori
principalmente formavansi queste bande, Onorio decretò che, chi
consegnasse figli da allevare a pastori, s'avrebbe come confesso
d'intelligenza co' masnadieri[265]. Alla strada e al bosco molti
erano spinti dall'ingorda tirannide degli esattori fiscali, che, sotto
pretesto di vecchi debiti, taglieggiavano il paese, e molestavano con
estorsioni, prigionie, supplizj.
Potevano i cittadini amare una patria, che più non recava nè grandezza
nè dignità nè sicurezza nè giustizia? Ristretta la pubblica vita nel
gabinetto dell'imperatore, ai sapienti, agli statisti più non rimane
che coltivare il diritto civile, ed esercitare la retorica e la
giurisperizia nei minuti interessi privati. Proscrizioni dittatorie,
guerra civile e supplizj imperiali tolsero di mezzo la nobiltà antica:
la nuova, che non ha tradizioni a custodire, privilegi a tutelare,
affollasi attorno al principe onde esercitare una parte delle costui
tirannidi, e godere in fretta d'una preda che fra breve sarà rapita.
Dispensati dal servizio militare per gelosia, esclusi dai dibattimenti
pubblici per costituzione, considerando come turpe l'industria,
popolo e ricchi poltriscono nell'inerzia, ovvero esalano la turbolenta
energia ne' parteggiamenti del circo o nelle esorbitanze del lusso.
Ciascuno si fa parte da se medesimo, e con mercenaria avidità specula
sulle pubbliche sciagure per ottenere gradi, piaceri, potenza, e,
stromento dell'una e degli altri, il denaro, procacciato con spergiuri,
corruzione, falsi testimonj, ladronecci. V'ha chi serba sentimento del
nobile e del giusto? geme sulle sventure, e vedendole irreparabili,
abbandona la società ai ribaldi e agli ambiziosi, e armato di
disprezzo, o si ricinge di virtù austere ma senza viscere, o si
stordisce fra godimenti sensuali, e con riti superstiziosi interroga un
destino che teme e che non può declinare.
La classe media, più morale perchè operosa, era perduta, l'Impero
riducendosi a ricchi sfondolati e a pezzenti, e tra loro l'abisso.
Decurioni e senatori, a forza di eredità e di usurpamenti, succedendo
ad infinite famiglie cadute serve o mendiche, aveano occupato provincie
intere, e facendosi centro ciascuno d'un piccolo mondo, trascuravano
tutto il resto. Se ad un de' siffatti il Goto occupasse i campi della
Tracia, gliene sopravanzano immensi nella Spagna; se il Borgognone gli
ardesse il ricolto nella Gallia, continuavano a fruttargli gli oliveti
della Siria. Di qui l'imprevidenza meravigliosa di gente esultante
sopra il sepolcro; di qui i prepotenti abusi, giacchè, qual magistrato
poteva intimare obbedienza al possessore d'intere provincie?
In queste la nobiltà imperiale, cui spettavano le elevate magistrature,
somigliava a quella di Roma, e diffondeva lontano la corruttela della
metropoli; la nobiltà paesana, investita degli onori municipali,
foggiavasi su quegli esempj. Fatti tutti cittadini romani, crebbe il
numero degli ozianti, cui il tesoro dovea nutrire, del quale così
aumentavano i bisogni quanto sminuivano le entrate; e ben tosto le
campagne e le città lasciaronsi vuote per andar a godere e brogliare
in Roma. Quivi bisognava alimentarli; e perciò, invece del grano,
distribuivansi pane e carne e vesti già fatte e denaro, tutto a spese
del restante impero.
Nelle grandi città s'annida una mescolata d'artigiani e di liberti,
viventi sullo scarso traffico lasciato a loro dal monopolio imperiale,
e col porgere alimenti al lusso e alle voluttà de' signori; del resto
arrogante e vilipesa, conculcata e sommovitrice, minacciosa e tremante.
Nè s'agita essa, come al tempo de' Coriolani, pei diritti proprj o
per gl'interessi della patria; ma per domandare pane e giuochi, per
sostenere prezzolata le cabale d'eunuchi e favoriti, che in pochi anni
trarricchiscono vendendo le grazie del monarca. Ignorante e conculcata,
paurosa di perdere quel che non possiede, avida d'un avvenire che nè
conosce nè spera, esulta non della propria libertà, ma dello strazio
de' suoi antichi oppressori; gode allorchè può crescere le sofferenze,
e chiedere sieno dati i Cristiani ai leoni, o gettati nel Tevere i
tiranni che jeri adorava. L'unica volta che i Romani mostrarono qualche
vigore, fu nel respingere la legge Papia Poppea, che reprimeva il
libertinaggio.
Così non più affetto pei deboli, non più subordinazione verso i
potenti, non zelo per l'ordine sociale, non dignità di carattere,
non venerazione per la divinità; una dotta corruttela, sfruttata
d'immaginativa e fiacca di ragione, che più non sa se non commentare
le opere antiche, rimenar dispute incancrenite, simile ai vecchi
che ridicono il passato quando perdettero il senso del presente.
Rimescolavano questa decrepita società le dottrine teurgiche,
tardo alimento a credenze illanguidite, sicchè il meraviglioso e
l'incredibile divenivano ordine e realtà.
E una tal Roma si vorrebbe che noi compiangessimo? Ne' tempi nostri,
se ci stomaca la corruttela de' ricchi e de' saccenti, ci volgiamo
alle classi operose. Queste in Roma trovavansi sistemate a modo di
maestranze fin dall'antica costituzione; ma non che servire alla tutela
reciproca, offrirono destro all'avidità del fisco, che esigeva da tutti
insieme quel che dai singoli non avrebbe ottenuto. E talmente erano
gravate, che non comprenderemmo come durassero, se non sapessimo che
gl'imperatori poteano costringer uno ad entrarvi; che entrati, non
se n'usciva più, e se uno se n'allontanasse, v'era ricondotto come
disertore.
I campagnuoli, tanta oggi e sì vital parte, erano o coloni liberi o
schiavi, distinti piuttosto di nome che di fatto, e poco superiori
alle bestie che ne ajutavano le fatiche. Non che ispirare a costoro
sentimenti di patria, o educarne il coraggio, erano tenuti inermi
e ignoranti, che mai non potessero rivoltare contro dei tiranni le
braccia od il pensiero: i lontani padroni gli affidavano a qualche
schiavo o liberto favorito, che esercitava la superbia dispotica e
crudele del servo che comanda. Al colono non restava modo legale di
recare i lamenti al padrone o contro di esso; aggravato di canone
sempre crescente, s'indebitava; quando l'oppressione giungesse al
colmo, fuggiva, abbandonando casa, campi, famiglia per mettersi a
servizio d'un altro, col quale ricominciare l'inevitabile vicenda, se
pure il primitivo signore nol ridomandasse colle sommarie processure
statuite dalla legge.
Se v'è cosa che compensi la libertà, a migliore partito si
trovavano i coltivatori schiavi, cui almeno il padrone pasceva per
conservare queste macchine animate. Però le fatiche e la durezza de'
sovrantendenti li consumavano, e più non essendone empito il vuoto
dalle cessate vittorie, bisognava comprarli dai Barbari vincitori, o
fra quelli che per castigo erano privati della libertà. Insofferenti
dell'oppressione in cui non erano nati, costoro erano tenuti quieti
soltanto dalla sferza e dalle catene; al primo bel destro fuggivano
a vivere vagabondi; o intendendosi fra loro, trucidavano i padroni,
e gittatisi alla foresta, viveano in armi. Non potendo dai Romani
aspettare che castigo, blandivano i Barbari, ne imparavano la favella,
ne divenivano anche guide, esultando agli strazj del popolo, da' cui
ceppi si erano riscossi[266]; ovvero dai loro covili piombando sui
coloni rimasti, ne esacerbavano le miserie. Il proprietario assalito
o minacciato, se fosse qualche opulento senatore, poteva invocare la
pubblica forza: il minuto possidente trovavasi esposto irreparabilmente
all'attacco, vietandogli le leggi l'uso delle armi. Che gli rimaneva
dunque? vendere il camperello al dovizioso vicino, o lasciarlo sodo, se
pure il fisco non glielo staggisse in pagamento de' gravosi contributi;
e sottrattosi all'infelicità del possedere, rifuggire a Roma.
Chi s'accostava a questa città, vedeva per tutto magnificenza, codardia
e morte; campagne trascurate e parchi voluttuosi; solitudine e stormi
di schiavi; poi ville splendidissime, e vie eterne fiancheggiate
di monumenti, le quali fin dal Clyde e dall'Eufrate mettevano capo
al Foro, pieno di storia più che non interi regni. Alle trentasette
porte schiuse nella cerchia di Roma, che girava quindici miglia (t.
III, p. 424), rispondevano altrettanti suburbj, simili a città, e che
prolungavansi fino al mare, ai Sabini e per entro al Lazio antico e
all'Etruria. Là entro stivavasi una popolazione affluente da tutto il
mondo, ridotta a un terzo dalle recenti sciagure, e dopo che con Roma,
oltre Costantinopoli, gareggiavano Cartagine, Treveri, la florida
Milano e la paludosa Ravenna. Là trovavi distinti Cappadoci, Sciti,
Ebrei; là quella mescolata d'ogni razza e credenza, senza condizione
nè patria nè nome, che è la zavorra di tutte le metropoli. La plebe
più non guadagna a vendere il voto o a testimoniare il falso; non
v'è più un Clodio, un Catilina che l'assoldi per tumultuare; non