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Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 14

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  popolo per esporgli che cosa credere, come adorare, come operare: la
  cognizione delle cose sacre, siccome tutto il resto, essendo privilegio
  di pochi, non mai accomunata alle plebi. D'altra parte, che sarebbesi
  potuto predicare nel tempio quando i dottori stessi non aveano
  dogmi comuni, e stavano perplessi sulla morale? L'eloquenza antica
  esercitavasi negl'interessi particolari d'un cittadino o d'una città;
  al più qualche filosofo disputava coi discepoli, ma intorno a dottrine
  speciali, sprovvedute di carattere pubblico e universale.
  Da che Cristo ebbe detto, — Andate e predicate a tutti», doveva alla
  congregazione dei fedeli essere esposta la verità universalmente
  accettata, e spiegarvisi i punti che rilievano alla salute di tutti.
  Dalla più tenera età il sacerdote assumeva il fanciullo, e col
  catechismo gl'insinuava le verità sublimi, mercè delle quali potrebbe
  anche la femminetta rispondere a ciò che ignoravano Aristotele e
  Platone. L'istruzione continuava quanto la vita, o confermando i
  credenti, o convertendo i traviati, o persuadendo gl'increduli. La
  predicazione sulle prime era avvalorata dal santo olezzo della virtù,
  dall'evidenza del miracolo; e parlando lo Spirito Santo per bocca degli
  apostoli, non era mestieri di persuasive d'umana sapienza[131]. Ma
  come la religione fu estesa e mescolata alla società, si munì anch'essa
  delle armi con cui l'errore la combatteva, e l'eloquenza fu trasportata
  dalla ringhiera al pulpito, dalla politica alla morale, dagl'interessi
  del mondo a quelli del cielo. La Chiesa, fatta trionfante, volle
  ornarsi dell'eloquenza, come si ornava di pompe e d'apparati, e supplì
  coll'arte del pulpito all'intepidita fede primitiva. Suo primo campo
  furono le lotte cogli Ariani; poi giganteggiò per opera di oratori, i
  quali, nel combattere l'orgoglio del sapere e l'indocilità del cuore,
  reggono a petto di quanto l'antichità vanta di più insigne, non che
  sorpassare di buon tratto i loro contemporanei.
  Con gagliardia affrontò Ariani e idolatri (340-97) in Occidente
  sant'Ambrogio, romano nato a Treveri. Come governatore della Liguria
  e dell'Emilia sedeva egli in Milano, dove la presenza dell'imperatrice
  Giustina facea prevalere gli Ariani a segno, che vi fu posto a vescovo
  il cappadoce Ausenzio di quella setta. Quando l'imperatrice ottenne
  dal figlio una legge, che a quelli concedeva piena libertà di
  assemblee, e guaj se i Cristiani li molestassero, il segretario
  Benevolo negò formolarla, e rinunziò piuttosto al grado; ma Ausenzio
  se ne incaricò. Allorchè questo vescovo morì, poteasi prevedere
  tumultuosa l'elezione del successore, che faceasi a voci di
  popolo; e il governatore Ambrogio si presentò ai comizj per tenerli
  in dovere. Ma appena entrato, le due divise d'accordo gridano: —
  Sii vescovo tu stesso», poichè il vescovo si eleggeva di qualunque
  condizione, nè tampoco esigendosi fosse cristiano; onde Ambrogio,
  tentato invano sottrarsi a quel peso colla fuga e col seder giudice
  in un caso di sangue, riconoscendo il volere di Dio a portentosi
  indizj, si lasciò battezzare, poi ordinar prete e vescovo; e ceduto
  ai poveri il suo denaro, alla Chiesa i terreni, al fratello Satiro
  l'amministrazione della propria casa, tutto si affisse al santo
  ministero.
  Dalla Bibbia e dai Padri, letture a lui nuove, tal frutto colse, che
  divenne il primo dei santi Padri in Occidente; e se cede in genio a
  Gregorio Magno, a Basilio, a Giovan Grisostomo, li supera in pratica
  attività, sublimandosi negli atti più che negli scritti. La vita sua,
  delineataci eloquentemente da Paolino suo segretario, era assorta nelle
  cure più diverse; giudicare cento affari a lui portati dai fedeli,
  curare spedali, attendere ai poveri, accogliere tutti con affabilità,
  e fra ciò meditare e comporre: forniva di vescovi chiese che mai non ne
  aveano avuti; visitava ed incorava gli altri, e talvolta li raccoglieva
  a concilj; interponevasi a favore de' rei di Stato; vendeva gli ori
  del tempio per riscattare prigionieri dai Goti. Missioni importanti
  erano a lui affidate come a pratico: da Valentiniano morendo gli furono
  raccomandati i suoi figliuoli: dissuase Magno Massimo dall'entrare
  in Italia: ucciso Graziano, andò ad impetrarne il cadavere, e con
  franchezza intimava a Teodosio la verità, e gl'insegnava le distinzioni
  fra il sacerdozio e l'impero, talchè quegli diceva, — Solo Ambrogio
  conosco, il quale di vescovo porti degnamente il nome». Intanto egli
  rappresentava con dignità ed amore il tribunato che in nome di Cristo
  aveano assunto i vescovi dopo caduto quello in nome della legge,
  colla parola e colle opere offrendosi sostegno al popolo, invocando
  la giustizia o l'indulgenza de' principi, interponendo a favore de'
  tapini e de' soffrenti le dottrine della povertà, dell'eguaglianza, del
  riscatto umano, operato col sangue d'una vittima celeste.
  Quanta pratica avesse coi classici lo palesano le opere sue; sebbene
  scriva balzellante e scorretto, senza padronanza di frasi, e con vane
  sottigliezze e giocherelli, qualora non sia animato dal sentimento
  del dovere o del pericolo[132]. Nella più estesa e curiosa fra le sue
  opere, sui _Doveri degli ecclesiastici_, passa in rassegna quelli
  di tutti gli uomini, e scioglie quistioni di pratica filosofia.
  Nell'_Esamerone_, commentando le sei giornate del mondo creato,
  molto si giova di Origene. I suoi elogi della virginità producevano
  tale effetto, che padri e mariti lamentavansi perchè troppe donne
  dedicassero a Dio la loro continenza.
  L'imperatore Graziano avea decretato che ciascuno potesse onorar la
  divinità nelle adunanze al modo che più credesse opportuno; ma Ambrogio
  seppe persuaderlo a ferire di colpo estremo l'osservanza antica. In
  conseguenza ordinò di toglier via dal senato di Roma la statua della
  Vittoria; poi chiamò al fisco tutti i beni con cui mantenevansi
  i tempj, i pontefici, i sacrifizj; annullò i privilegi politici e
  civili delle Vestali, e vietò ai sacerdoti d'accettare legati se non
  di beni mobili[133]. Spaventati i nobili romani, i capi del senato,
  e quelli che si ostinavano a chiamarsi «la parte migliore dell'uman
  genere»[134], spedirono a Graziano perchè sospendesse questi decreti;
  e per fare maggior colpo, gli recarono la veste di sommo pontefice,
  religiosamente custodita, e che a lui dovea rammentare la lunga serie
  de' predecessori che se ne fregiarono come simbolo del potere supremo
  in terra e d'onori divini dopo morte. Graziano non si arrese a quelle
  dimostrazioni, e proferì, — Tale ornamento disdicesi a cristiano»;
  onde la religione antica rimase senza sommo pontefice, e il sacerdozio
  spogliato dei beni che lo facevano ambire anche dopo ch'era privato
  degli onori e de' privilegi.
  Nè diverso esito sortì l'ambasceria mandata a Valentiniano II acciocchè
  ripristinasse l'altare della Vittoria; e le suppliche di Simmaco e di
  Libanio a tale intento sono l'ultimo grido del paganesimo, che sentesi
  trafitto nel cuore. Lo sdegno di questi esalò non soltanto in segreti
  mormorii, ma in voci aperte; nè forse restarono estranj alla sommossa,
  nella quale Graziano perdette la vita. Ma soccombettero definitivamente
  allorchè ebbe la porpora Teodosio, che il titolo di Grande dovette
  principalmente all'avere terminata con coraggio e convincimento la
  prolungata contesa fra le due religioni.
  Narrasi che, venuto a Roma, e ricevuto da un bell'incontro di dame
  e senatori, Teodosio proponesse a discutere qual fosse la religione
  da seguitarsi, e che l'idolatria vi soccombette. Il fatto non ha
  sembianza di vero: certo per legge generale egli vietò che «alcuno si
  contaminasse co' sagrifizj, immolasse vittime, difendesse simulacri
  fatti a man d'uomo»; i magistrati non entrassero ne' tempj; confisca
  per qualunque atto d'idolatria, e morte a chi immolasse; il giorno
  del Signore fu dichiarato sacro, proibendo in esso i giuochi e
  gli spettacoli, e riformando il calendario giuridico a norma delle
  prescrizioni cristiane[135]. Eppure le leggi di Teodosio convincono
  che non erano cessati i riti antichi; imperocchè egli decretò che,
  chi dal cristianesimo ritornasse all'idolatria, rimanesse incapace
  di disporre de' suoi beni per testamento; dappoi estese questo
  statuto ai catecumeni, e dichiarò infami gli apòstati[136]. I concilj
  ripeterono queste leggi, e gli scrittori ecclesiastici inveivano contro
  le cerimonie gentilesche, conservate massimamente nelle feste, nei
  saturnali e nei giuochi. Tempj e delubri furono però chiusi allora dai
  magistrati, e spesso demoliti dalla pietà: i senatori, come cantava
  Prudenzio, bellissimi splendori del mondo, deposero le insegne del
  vecchio sacerdozio per rivestire la candida toga del catecumeno[137].
  Restava a domare l'eresia; e Teodosio, caduto in grave malattia,
  decretò essere volontà sua che tutti aderissero alla religione
  insegnata da san Pietro ai Romani, quale allora si professava dal
  pontefice Damaso e da Pietro vescovo d'Alessandria; ai seguaci di essa
  dava autorità d'assumere il titolo di Cristiani Cattolici; i dissidenti
  infamava col nome d'eretici, minacciandoli anche di castighi[138].
  Rimossi i vescovi e cherici ostinati, senza tumulto nè sangue si
  stabilì la fede ortodossa; e il terzo[139] concilio ecumenico, adunato
  in Costantinopoli, confermò nell'interezza sua il simbolo Niceno,
  dichiarandolo più distesamente in alcuna parte, onde combattere
  posteriori eresie.
  Ciò in Oriente; ma fra noi l'arianismo erasi ricoverato sotto il manto
  di Giustina madre di Valentiniano II, la quale, arrogando all'imperiale
  autorità anche l'ispezione sopra il culto, pretendeva che sant'Ambrogio
  cedesse agli Ariani una delle chiese di Milano. L'indegna proposizione
  con fermezza egli respinse; e Giustina, chiamando ribellione
  l'opporsi ai voleri imperiali, si ostinò d'ottenere a forza l'intento.
  Cominciò a gravare i mercanti d'una tassa di ducento libbre d'oro, e
  imprigionare molti che non vollero o non potevano pagarla. Mandò ad
  Ambrogio l'ordine di uscire dalla città, ma egli protestò non poter
  abbandonare il gregge da Dio affidatogli: minacciollo di morte, ed
  egli mostrò nulla desidererebbe meglio del martirio. Deliberata poi di
  pubblicamente solennizzare a modo suo la pasqua, citò Ambrogio al suo
  consiglio; ma per ispontaneo affetto essendogli corso dietro a turba il
  suo gregge fino al palazzo, i ministri imperiali dovettero supplicare
  il prelato a disperdere e calmare l'estuante moltitudine, promettendo
  non sarebbe violata la religione.
  Bugiarde promesse! Nella solenne mestizia della settimana santa,
  uffiziali di palazzo si recano dapprima alla basilica Porziana, poi
  alla nuova[140], per disporre ogni cosa a ricevervi l'imperatore e sua
  madre. Il popolo torna allora sui tumulti, sicchè gran pena durarono le
  guardie a difendere le chiese; e un sacerdote ariano versava in grave
  pericolo, se non fosse ricorso per difesa ad Ambrogio stesso. Questi
  negava d'esser obbligato a cedere il tempio, attesochè le cose divine
  non vanno soggette all'imperatore, il quale si trova nella Chiesa,
  non sopra la Chiesa; e dalla cattedra di verità mostrava come sia
  lecito resistere all'ingiustizia, non però con armi, non colla forza;
  pregava Dio a non permettere si versasse sangue per la sua Chiesa; e
  congregati nelle due basiliche i fedeli, gl'intratteneva, or cantando,
  ora predicando, e ripeteva — La tirannide del sacerdote è la sua
  debolezza».
  Fu allora che Ambrogio, per animare e distrarre il popolo, introdusse
  il cantare a vicenda in due cori, cioè le antifone, ancora inusate nel
  nostro Occidente. Prima d'allora certamente cantavasi dai fedeli, ma
  forse con una semplicità tutta di pratica; e probabilmente nelle chiese
  derivate dagli Ebrei seguivasi il modo che questi aveano tenuto nel
  recitare i salmi, mentre in Grecia vi si applicavano le melopee della
  lira. Da questa melopea greca prese le mosse Ambrogio, sia togliendone
  i nômi o le arie popolari, sia riducendo in _octacordi_, o serie di
  otto suoni (le ottave), i tetracordi o serie di quattro suoni di cui
  componeansi i modi greci[141]. Scrisse pure inni di nobile commovente
  semplicità, alcuni dei quali si cantano tuttora[142]. Con santa
  compiacenza egli rimembrava la melodia d'uomini e donne, di vergini
  e fanciulli, sonante come il fragore delle onde, e dalla quale anche
  sant'Agostino restava commosso fino alle lagrime[143].
  La fermezza d'Ambrogio vinse l'ostinazione dell'imperatrice, che
  dischiuse le carceri, tolse le guardie; e Valentiniano, sentendo
  la potenza di quell'inerme, diceva a' suoi uffiziali: — Se Ambrogio
  l'ordinasse, voi mi consegnereste a lui colle mani legate».
  Ma poco di poi gli fu elevato incontro un dottore degli Ariani, e
  pubblicato un editto che permetteva a questi di tenere loro assemblee,
  minacciando di morte i Cattolici se le turbassero. Ambrogio tornò alle
  armi sue, la predica, le antifone; e dì e notte la chiesa fu occupata
  dai fedeli. Tale consenso distolse i principi dall'usare violenza;
  e il concilio d'Aquileja, tenuto poco dopo il Costantinopolitano, e
  dove Ambrogio sostenne la parte principale, chiarì la fede de' vescovi
  d'Occidente, che poterono asserire non esistere più Ariani fino
  all'Oceano.
  Ambrogio durò ventidue anni al laborioso ministero, finchè di
  cinquantasette a Dio piacque chiamarlo al premio. Si pretende che,
  per ricompensare lo zelo adoperato contro gli Ariani da lui e da san
  Valeriano, il pontefice erigesse le sedi di Milano e d'Aquileja in
  metropoli, dignità fin allora ignota in Occidente. La prima estese la
  giurisdizione sui vescovadi da Po fin dentro la Rezia; l'altra su quei
  della Dalmazia, della Pannonia, del Norico, e poc'a poco della Venezia:
  e l'un metropolita consacrava l'altro, risparmiando il difficile
  viaggio a Roma.
  Contemporaneamente san Filastro combatteva gli Ariani, stese un
  _Catalogo delle eresie_, e fatto vescovo di Brescia «città rozza, ma
  avida di dottrina»[144], resistette a Valentiniano e Giustina insieme
  con Benivolo, magistrato, il quale, piuttosto che cedere alle blandizie
  dell'imperatore, si ritirò a vivere oscuro in riva al Benàco. A questo
  Benivolo sono diretti alcuni sermoni di san Gaudenzio, che peregrinato
  a Gerusalemme, in Antiochia conobbe san Giovanni Grisostomo, poi
  succedette a Filastro nel vescovado di Brescia, ove colle reliquie
  portate d'Oriente consacrò una chiesa col titolo di Concilio de' Santi.
  Vigilio dal vicino Trento scorreva la valle dell'Adige e il Veronese,
  predicando, battezzando, ergendo chiese, abbattendo idoli: perocchè
  nelle vallate alpine conservavasi il culto di Saturno, e nella trentina
  di Non (Anaunia) circuivansi processionalmente i campi, litando a
  quel dio; al che non avendo voluto uniformarsi Sisinio, Martirio,
  Alessandro, furono martirizzati: anche i valligiani di Rondera, ligi
  all'adorazione di quell'idolo, lapidarono Vigilio[145].
  Sì grandiosi uffizj incombevano ai Padri in quella Chiesa, che di
  perseguitata diveniva dominatrice; ma sebbene greci e latini difendano
  le stesse verità, e in tutti si senta la convinzione che lotta,
  l'entusiasmo che eleva, la carità che santifica, traggono carattere
  particolare dalla natura del paese, secondo che vivono in Oriente
  o in Occidente. In Roma non erano mai prosperate la metafisica e la
  filosofia sublime, per difetto in parte della lingua; mentre il sano
  intelletto e lo spirito pratico vi campeggiarono nello svolgere ed
  ordinare la legislazione. Pertanto gli apologisti latini non offrono
  grande apparenza d'ingegno, conservano alcun che dell'alterezza
  romana, rigidi, ostinati di non calare ad accordi coll'avversario,
  nè tampoco valersi d'altre armi che le proprie; onde sdegnano gli
  ornamenti dell'eloquenza, gli artifizj della logica, le reminiscenze
  della letteratura ostile. La Grecia, ancora fiorente di lettere quando
  il cristianesimo apparve, gli oppose più clamorosa lotta, armata di
  cavilli, di seduzioni, di disprezzo; ma quando convertita gli esibì
  difensori, questi conservarono le costumanze e i difetti delle scuole
  dond'erano usciti, e comparivano in campo come Davide, accinti della
  spada rapita al gigante.
  Il nemico stesso che combattevano era differente. Roma, per cui sono
  identici la religione e lo Stato, non sa apporre al cristianesimo
  condanna peggiore che dichiararlo nemico del genere umano, cioè
  dell'Impero; il genio suo legale decreta, uccide, non discute; e gli
  apologisti, opponendo rigore a rigore, s'accontentano spiegare il
  dogma ed appellarsi alla lettera scritta. I Greci, perdute le avite
  istituzioni, naturali alla disputa e alle sottigliezze, retori e
  sofisti ingordi di quistioni nuove, guardano i Cristiani come novatori
  pazzi o pericolosi, che ripudiando la tradizione, precipitano la
  coscienza umana nell'incertezza. Mentre dunque i magistrati a Roma
  uccidevano, i dotti di Grecia esaminavano, discutevano, sicchè gli
  apologisti erano obbligati scendere a minuzie, accettare l'objezione
  arguta, snodare il sottile paradosso, il sillogismo capzioso; e
  sentendo tutta la potenza della libera parola, invocavano solo che la
  forza non intervenisse nella discussione della verità.
  Gli uni e gli altri aprono la nuova società, posati tuttavia sul
  terreno dell'antica; convincono l'uomo che, senza quel lume del lume,
  egli ignora le verità più necessarie alla sua condotta, più care al
  suo cuore, più dolci alle sue speranze; e invocano la libertà delle
  coscienze, non più per il solo senato, nè per una città od una gente,
  ma per l'universo. Vinti che ebbero i nemici esterni, dovettero lottare
  contro le discordie intestine, cioè coloro che, al modo del serpente
  antico, adopravano la parola di Dio per diffondere l'errore, o per
  restringere a concetti particolari le verità generalissime che la
  Chiesa annunziava.
  Nelle scuole vengono a fronte l'antico Oriente, l'antico Occidente
  e il cristianesimo, il quale, estendendosi su tutti gli uomini e
  tutti gl'interessi, era naturale che trovasse molte ed interessate
  contraddizioni. I Neoplatonici vogliono elevarsi a Dio non mediante la
  fede, ma mediante la dottrina. Sêtte giudaizzanti, sêtte giudaiche,
  sêtte orientali assenzienti od avverse agli Ebrei, sêtte cristiane
  propense o nemiche all'ascetismo, docili o reluttanti all'asiatica
  teosofia, cominciano la più splendida gara d'ingegno che il mondo
  avesse mai veduta, fra la teologia antica e la nuova, fra la mitologia
  poetica e la religione morale, fra la vetustà che tramonta e il nuovo
  tempo che s'apre. Onde alla dottrina evangelica incontrò come a tutte
  le novità; prima tacciata di sogno e di follia, dappoi se ne confessa
  la sublimità, ma appuntandola di plagio, quasi ogni sua verità fosse
  dedotta dall'Egitto, dall'India, dall'Accademia; infine se ne adottano
  i concetti, mentre tuttavia si persiste ad oppugnarla. Ma su quella
  bilancia ha perduto ogni peso la spada; e l'autorità dei cesari,
  nell'apogeo della sua forza, non entra per nulla a determinare la
  credenza; tanto efficace sonò la parola che distingueva i diritti della
  spada da quelli del pensiero.
  Fra le eresie fu clamorosissima quella di Nestorio, il quale negava
  l'incarnazione di Dio, distinguendo in Cristo la persona divina
  dall'umana, e ripudiando perciò la divina maternità di Maria:
  condannata nel concilio di Efeso (431), quarto ecumenico,
  venne per ricolpo a dare estensione al culto della Vergine, il quale
  contribuì non poco a svellere i resti del paganesimo, convertendo
  alla Madre dell'amore e alla donna dei dolori i tempj pagani. Non più
  sulla natura di Dio ma su quella dell'uomo sofisticarono i Pelagiani,
  cercando perchè tanti mali si patiscano sotto un Dio buono, come
  la prescienza divina si combini coll'umana libertà, e la Grazia
  coll'attività morale dell'uomo. I Manichei lo spiegavano in modo
  vulgare, supponendo un Dio buono e un malvagio; e da quella provincia
  romana dell'Africa, dove si svolsero le più vigorose intelligenze
  cristiane, dove si elaborarono i principj fondamentali della cristiana
  filosofia, sorse il più vigoroso combattitore, sant'Agostino, del quale
  parleremo fra poco. Eutichiani, Monofisiti, Monoteliti, colle varie
  gradazioni di loro eresie concernenti la natura o la volontà di Dio e
  del suo Verbo, agitarono piuttosto l'Oriente.
  Perocchè la divisione ch'erasi fatta nell'Impero, estendevasi pure alle
  chiese, e cominciata dalla fabbricazione di Costantinopoli, dura fino
  ad oggi, avendo ciascuna, anche prima di scindere la essenziale unità,
  conservato un'impronta e una pendenza particolare; speculativo il genio
  bisantino, pratico il genio romano. Allorchè la Chiesa greca si radunò
  nel concilio di Nicea, fu per chiarire la relazione delle tre persone
  divine, e settanta opinioni agitavano il clero abissino sopra l'unione
  delle due nature in Cristo: la latina non ebbe trattati dogmatici prima
  di Agostino, nè prima di Gregorio Magno alcun metafisico sedette sul
  trono papale. In Oriente si disputa sulla essenza della natura divina,
  mentre quasi ignote vi sono le quistioni sulla libertà umana e sulla
  Grazia: al contrario, da noi si ragiona sopra gli atti umani.
  I rigori della vita monastica erano cominciati in Oriente; e i
  deserti della Siria e della Tebaide si popolarono d'anacoreti, che
  nella solitudine attendevano ad operare la salute delle proprie
  anime, staccati dalle cose terrene, come Antonio[146], Pacomio,
  Ilarione. Non tardarono i monaci a propagarsi nel nostro paese, forse
  allorchè sant'Atanasio scorreva l'Italia per combattere l'arianismo:
  ma ben presto si raccolsero in compagnie, sotto regole dettate da
  sant'Agostino, poi da san Benedetto; e furono piuttosto missionarj
  di Barbari, dissodatori di terreni, assistenti di infermi; nè le Alpi
  e gli Appennini videro strazj e macerazioni quali i torrenti petrosi
  dell'Egitto e le bollenti arene della Libia; e invece di quegli stiliti
  che colà passavano l'intera vita su di una colonna, da noi si vide
  l'attività efficace di sant'Ambrogio, di Leon Magno.
  La Chiesa greca restò corrotta dalla propria immobilità, non
  progredendo in mezzo a tanto sapere, non raffinando l'arte in
  mezzo a tanto cerimoniale, anzi vedendo sorgere gli Iconoclasti,
  poi retrocedendo collo scisma. Nella latina invece il buon senso
  filosofico e pratico si piegò al progresso, si modificò a seconda
  dei tempi e nello svolgersi dell'attività; man mano che la società
  secolare diveniva impotente, l'ecclesiastica vi si surrogava; i riti
  pagani come i tempj conservava, trasformandoli e traendoli a superiore
  intelligenza; le terre cambiavano i nomi per assumer quello d'un santo.
  La differenza fra le due Chiese fu rivelata maggiormente
  dall'ordinamento esterno. L'impero Occidentale sfasciavasi quando
  appunto ingrandivano i pontefici; e in questi si concentrava
  l'autorità, che lasciavansi cadere di mano i magistrati civili.
  Avrebbero essi dovuto allegare l'incompetenza, per non esporsi al
  rimprovero d'usurpazione, dato molti secoli dopo da una filosofia non
  solo estranea a quei pericoli, ma incapace o risoluta a non intenderli?
  doveano lasciare che la società andasse a fascio, anzichè togliere a
  dirigerla, come ognuno deve fare ne' frangenti?
  Il patriarca di Costantinopoli scapitava per la presenza
  dell'imperatore; nè era meglio che una delle ruote d'un sistema civile,
  regolare, protetto dalla gerarchia e dall'esercito. In Italia invece
  vedremo ben presto gl'imperatori fuggire da Roma, sicchè il papa,
  dolente sì, ma non vergognoso delle pubbliche sventure, mantenevasi
  colla fronte alta, come scevro dalle colpe imperiali; quando ogn'altra
  autorità perdea vigore, egli solo rimaneva cogli attributi di un'altra
  sovranità, reale e permanente; e le istituzioni politiche dell'impero,
  l'energia delle genti occidentali, il pericolo valeano ad assodarlo,
  mentre a lui si volgeano i Barbari, ch'egli doveva convertire,
  illuminare, incivilire, governare.
  Il bisogno di difesa e d'azione facea stringere fra sè i monaci,
  milizia poderosissima de' pontefici. Il celibato staccò l'ordine
  sacerdotale dal laico, e dagli interessi e affetti terreni; sicchè
  il prete si considerò superiore al laico, e perciò esigeva rispetto
  e sommessione, come marchio di santità adducendo le astinenze e la
  dottrina. Perfino la lingua comune e la pace universale, che parvero
  sin oggi utopie benevole, vennero dalla società cristiana attuate per
  quanto è possibile col parlar latino e coi concilj.
  Così, mediante il cristianesimo, dentro periva il despotismo, cioè il
  potere separato dal dovere, l'autorità che crede aver sopra gli uomini
  ogni diritto, fin quello negatogli dalla legge naturale e divina; fuori
  periva la nazionalità esclusiva, tutto dirigendo all'affratellamento.
  Nè però la Chiesa aboliva l'individualità degli uomini o de' popoli,
  anzi la nobilitava; solo alla nazionale esclusività contrapponeva
  il concetto d'universalità, dovendosi rispetto anche ai minimi, non
  perchè greci o romani od ebrei, ma perchè uomini e cristiani, perchè
  non fattura capricciosa di varj numi, ma libera creazione del Padre
  nostro[147]. Le verità, tramandate parte in iscritto, parte a voce,
  riceveano non solo spiegazione ma autenticità dalla Chiesa, che n'è
  la depositaria e la garante, e ogniqualvolta ne vede intaccata una, la
  chiarisce e svolge viemeglio; e poichè non c'è verità astratta che non
  operi sulla morale, stabilendo quelle purifica questa.
  Tale fu il còmpito de' santi Padri. Malgrado che le condizioni della
  società d'allora e i sopravenuti infortunj tardassero i frutti, pure
  non v'è per avventura miglioramento alcuno de' tempi più civili, che
  almeno in germe non si trovi in essi. Succeduti agli apostoli ed ai
  martiri per propugnare col sapere e colla parola le credenze nuove,
  sorte col popolo e fra il popolo rampollate, essi rompono il perpetuo
  circolo dell'imitazione fra cui era incantata la profana letteratura,
  e formano il secolo d'oro della cristiana: e noi potemmo studiarvi
  molte particolarità della storia de' popoli, e il lento ma incessante
  maturarsi della più vasta rivoluzione, e gli ostacoli attraversatile
  dalla scienza appoggiata sulle antiche osservanze, sinchè fu chiamata a
  sostenere con reintegrato vigore le nuove.
  Le dispute che essi agitarono, oggi sono dimenticate: ma essi
  combatterono perchè noi, vulgo senza diritti nè forza nè divinità,
  potessimo cessare d'essere schiavi negli ergastoli, o pasto ai leoni
  per divertimento del popolo re, e le nostre anime trastullo ai sofismi
  dei filosofi, alla prepotenza dei dominatori, alla lascivia de' ricchi;
  combatterono, perchè noi plebe potessimo sentire l'eguaglianza nostra e
  proclamarla in diritto, sinchè il tempo non la consacri nel fatto.
  
  
  CAPITOLO LI.
  La coltura pagana digrada, si amplia la cristiana.
  
  Quella dei santi Padri era letteratura vitale, nuova, dell'avvenire;
  ma la scolastica, di forme ricalcate sui modelli classici, neppur un
  grande scrittore produsse dopo Costantino. Dall'Africa fu chiamato
  a Roma e a Milano sant'Agostino per insegnare eloquenza; dalle
  Gallie un retore per tessere il panegirico a Teodosio; le vennero
  d'Egitto Macrobio e il migliore poeta Claudiano, da Siria il retore
  migliore Icherio, d'Antiochia il migliore storico Ammiano Marcellino;
  e ricordiamoci che in gran carezza di viveri, essendo rinviati i
  forestieri da Roma, i pochi letterati dovettero andarsene, conservando
  invece tremila ballerine, altrettante cantatrici, e loro maestri e cori
  e turba seguace.
  Scuole però non mancavano, e san Girolamo vi si esercitava fanciullo
  a declamare, e con finti litigi addestravasi ai veri; nei tribunali,
  udiva eloquenti oratori disputare fino a svillaneggiarsi e
  mordersi[148]. Valentiniano e Graziano istituirono scuole di retorica
  e grammatica greca e latina nella metropoli di ciascuna provincia; e
  coloro che venivano a studio in Roma, dovevano portare dalla patria
  attestazioni dell'esser loro, poi arrivando notificare dove abitassero,
  a che studj intendessero, non bazzicare male compagnie e spettacoli,
  se no cacciati a verghe[149]. I maestri di grammatica non insegnavano
  meramente gli elementi della lingua, sibbene tutte le scienze
  filologiche[150]: che in conto maggiore fossero quei di retorica,
  appare dal doppio delle razioni a loro assegnate[151]: passavano di
  città in città al fiuto de' migliori stipendj, trafficando di versi,
  complimenti, panegirici, dispute, senza curarsi dell'impero che cadeva
  
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