Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 13
nell'impero; ma tolti in mezzo, furono rinviati, e malgrado la salvezza
promessa, assaliti e fatti a pezzi. Valentiniano stesso entrò sul
territorio degli Alemanni, e nel paese che ora è regno di Würtemberg li
ruppe sanguinosamente, e passò gran tempo sul Reno (366-70)
per inanimare i soldati alla fabbrica de' forti con cui muniva quella
linea. Da lui istigati, ottantamila Borgognoni si affacciarono a
quel fiume per danneggiare gli Alemanni; ma non vedendosi assecondati
dall'imperatore, diedero volta, trucidando quanti aveano prigionieri.
Avendo Valentiniano fabbricato forti di là del Danubio sulle terre dei
Quadi confederati, Gabinio re di questi venne in persona a querelarsene
(373); ma essendo stato vilmente trucidato, i suoi mandarono
a sperpero l'Illiria, e ruppero due legioni romane. Contro di loro
mosso in persona, Valentiniano ne dilapidò le terre, sicchè essi
spedirongli ambasciatori a Guns in Ungheria implorando pietà. Mentre
a questi Valentiniano parlava coll'escandescenza cui soleva talora
abbandonarsi, cadde morto (375 — 17 9bre), avendo vissuto
cinquantacinque anni, regnato dodici.
Graziano suo figlio sarebbe potuto succedergli; ma alcuni, ambiziosi
di governare sotto il nome d'un re bambino, acclamarono Valentiniano
II, partorito da Giustina, seconda moglie del defunto, perchè nato
nella porpora: e ne seguiva guerra civile se il prudente Graziano
non si fosse quetato all'elezione, consigliando la vedova imperatrice
a stabilirsi col figlio in Milano, mentr'egli assumeva il difficile
governo delle Gallie.
Ma ecco giungergli avviso che i Goti aveano invaso l'impero orientale,
onde s'allestì a difesa dello zio Valente; prima però che giungesse,
questo in fiera giornata ad Adrianopoli era stato vinto ed ucciso
(378 — 9 agosto). Con ciò Graziano trovavasi a diciannove
anni padrone del mondo: se non che davanti si vedea un milione di
Goti, insuperbiti d'aver ucciso quarantamila guerrieri, e acquistatone
l'armi e i cavalli in una battaglia tanto segnalata; alle spalle
gli si agitavano i Germani; all'un estremo del mondo fremevano i
Persi, gli Scoti all'altro, istrutti alla prova che potevasi vincer
Roma, incatenare od uccidere i suoi imperatori. Graziano, sentendosi
insufficiente a tanti urti, il pubblico bene preferì alla personale
ambizione, e fermò scegliersi a collega non un fanciullo nato per caso
nella reggia, ma un uomo pari alla gravezza dei tempi; e pose gli occhi
sopra un esule, un oltraggiato, che non ambiva nè sognava tampoco il
trono.
Teodosio conte spagnuolo avea condotto gl'imperiali a vincere Firmo,
principotto mauro di gran seguito, il quale avea sommosso l'Africa,
disgustata dalle vessazioni di Romano, governatore avido, crudele, e
insieme superbo a segno, che non volea mettersi in marcia se non con
quattromila camelli. Firmo, ridotto alle strette, dopo ostinata difesa
si strangolò; ma Teodosio rimostrò che le sollevazioni non si poteano
prevenire efficacemente se non reprimendo gli eccessi de' governatori,
e massime di Romano. Tale franchezza gli costò la vita.
Suo figlio, di nome anch'egli Teodosio, liberalmente educato, aveva
nella Bretagna represso le irruzioni de' Pitti e Scoti, e vinto
l'usurpatore Valentino, consegnandolo ai magistrati, ma esigendo
non l'obbligassero a nominare i complici, per non essere costretto
a punirli. Piombò poi sulle terre degli Alemanni, e assai ne prese,
che furono messi in colonia sul Po. Venuto famoso per questi ed altri
fatti, fu spedito duca della Mesia, la quale salvò dai Sarmati. Quando
suo padre fu decollato, egli, sentendosi invidiato dai cortigiani,
si ritirò in Ispagna, dispensando il tempo fra le cure di cittadino
e la tranquilla amministrazione d'un vasto patrimonio, lieto di tre
figliuoli, Arcadio, Onorio e Pulcheria.
Cincinnato della Roma decrepita, fu invitato da Graziano, prima a
combattere in difesa dell'impero, poi a parte del trono, quando compiva
i trentatre anni (370 — 19 genn.). L'imperatore non temeva
che alla vendetta domestica posponesse il pubblico vantaggio, e gli
sposò Galla sua sorella: il popolo ne ammirava la maschia bellezza, la
maestà temperata dalla grazia, e — Viene dalla patria stessa di Trajano
e d'Adriano; gli imiterà». A Teodosio furono assegnate le provincie già
imperiate da Valente, oltre la Dacia e la Macedonia; Graziano serbò le
Gallie, la Spagna, la Bretagna; mentre di nome obbedivano al fanciullo
Valentiniano II l'Illiria occidentale, l'Italia e l'Africa.
Graziano sospese le persecuzioni; protesse le lettere e le coltivò,
trovando agio di trattare la cetra colla mano avvezza alla spada, e di
cantare le imprese degli eroi; al poeta Ausonio suo maestro concesse
il consolato, e una toga quale gl'imperatori indossavano nel trionfo;
conservò perenne amicizia con sant'Ambrogio vescovo di Milano[119].
Ma morti coloro che lo avevano messo sul cammino diritto, lasciossi
forviare da indegni cortigiani, sicchè consumava il tempo tra le
caccie e in disputare coi vescovi, de' quali talvolta assecondava
l'intolleranza.
Nella Bretagna i soldati scontenti si levarono a sedizione; e Magno
Massimo, compatrioto e commilitone di Teodosio, non avendo ottenuto
grado pari alla sua ambizione, si fece gridare imperatore, e passò
nelle Gallie con trentamila soldati e centomila paesani; coraggioso
e degno d'impero se l'avesse cercato per vie migliori. Fissatosi a
Treveri, si procacciava ogni giorno nuovi partigiani, anche dei più
vicini di Graziano. Questi da Parigi fuggì verso l'Italia; ma presso
Lione tratto insidie, cadde ucciso a ventiquattr'anni [Sidenote: 383
— 23 agosto]. Massimo spedì a Teodosio giustificandosi del fatto; e
— Riconoscimi per collega, o mi sosterrò colle forze de' più floridi
paesi dell'impero». Necessità e desiderio di risparmiare una guerra
indussero Teodosio al patto; e i tre imperatori furono acclamati per
tutto l'orbe romano.
Pochi anni dopo (387), Massimo, non sapendo limitare la
sua ambizione, sotto finta di ausiliarj esibì un grosso di truppe, le
quali in sicurtà di pace passando le Alpi, assicurarongli l'entrata
nell'Italia. Valentiniano II, o dirò meglio Giustina che ne reggeva
la fanciullezza, fuggirono allora da Milano, ove Massimo entrava
trionfante: ma Teodosio sopragiunsegli con esercito agguerrito e
somma rapidità; talchè chiuso in Aquileja, fu da' suoi spogliato e
condotto all'imperatore (388 — agosto), che ne volle il capo
a vendetta di Graziano. Sbrigata così la guerra civile, e sveltene le
radici colla moderazione e col perdono, Teodosio salì al Campidoglio in
trionfo.
E ben n'avea diritto: i Goti aveva ripartiti in colonie per paesi
deserti, dove si convertivano al cristianesimo e alla civiltà;
i Persiani invocavano la sua amicizia; i sudditi gli mostravano
riconoscenza. Nella privata condotta abbastanza temperante, ai parenti
affezionato e rispettoso, allevò come proprj i nipoti; affabile al
conversare, variava tono a seconda delle persone, gli amici sceglieva
tra' migliori, e impieghi e premj dava a' più degni, non adombrandosi
del merito, nè dimenticando i benefizj. Fra le cure del vasto impero
trovava pure alcun respiro onde applicarsi alla lettura, e massime
alla storia, giudicando i fatti antichi, fremendo alle crudeltà di
Cinna, di Mario, di Silla, il passato facendo scuola dell'avvenire.
Senza ostacolo e quasi senza lamenti avrebbe potuto occupare intera
l'autorità; pure ricollocò sul trono Valentiniano II, aggiungendogli
anche le provincie tolte a Massimo di là dell'Alpi.
In tempi ove l'impero sfasciavasi, nè un palmo di terra egli perdette,
costretto però aggravare le imposizioni, e amministrar con un rigore
molto simile a tirannia, unico puntello del cadente dominio. La
rivoltosa Antiochia avea minacciata d'estremo rigore; ma lo placarono
gli anacoreti e san Giovanni Grisostomo. Tessalonica però, che uccise
i primarj uffiziali di lui, fu condannata a sanguinoso sterminio.
Ambrogio, vescovo di Milano, ove l'imperatore si trovava, ne smarrì
d'orrore; gli scrisse ad esecrazione del fatto, esortando ne facesse
penitenza a calde lagrime, e avvertendolo non ardisse accostarsi
all'altare del Dio della misericordia colle mani stillanti del sangue
innocente. Teodosio a quei rimproveri risensò; e poichè non poteva più
riparare all'eccidio, si recò per penitenza nella basilica milanese. Ed
ecco Ambrogio farsegli innanzi sul vestibolo, dichiarando che, pubblico
essendo stato il delitto, pubblicamente doveva soddisfare alla divina
giustizia; nè lo volle ricevere alla comunione finchè non si sottomise
alla canonica penitenza. Spoglio delle insegne della suprema podestà,
comparve supplichevole in mezzo della chiesa, confessandosi in colpa:
col che dopo otto mesi ottenne indulgenza e d'essere ricomunicato; e
frutto ne fu un editto che ingiungeva di soprassedere sempre trenta
giorni alle comandate esecuzioni.
Di maggior memoria è degna quest'altra legge, viepiù opportuna
dopo profonde commozioni: — Se alcuno, dimentico della prudenza,
si fa lecito di straziare con trista e sconsiderata maldicenza il
nostro nome, e per orgoglio si rende detrattore sedizioso del tempo
presente, vietiamo gli s'infligga alcun castigo o maltrattamento. Se
l'offesa proviene da leggerezza, vuolsi disprezzarla; se da follia,
compatirla; se da perversità, perdonarla»[120]. Nè erano i detti
smentiti dalle opere, giacchè essendosi scoperta una congiura contro
di lui a Costantinopoli, e i rei condannati nel capo, Teodosio perdonò
a tutti, e non volle si cercassero i complici, soggiungendo, — Così
potessi rendere la vita ai morti»[121]. E un'altra volta un magistrato
insistendo che degli uffiziali della giustizia doveva essere principal
cura l'assicurare la vita del principe, — Sì (soggiunse egli), ma
vorrei prendeste anche maggior cura della mia reputazione».
Poichè le rivoluzioni durature non si compiono d'improvviso, i primi
imperatori cristiani aveano lasciato il culto antico sussistere allato
al nuovo; ancora i riti pagani si riguardavano, o almeno chiamavansi
nazionali; i pontefici sagrificavano in nome del genere umano; in mezzo
alla curia Giulia, dove accoglievasi il senato, sorgeva sull'ara la
statua della Vittoria, tolta ai Tarantini, e da Augusto ornata colle
spoglie dell'Egitto; e prima delle adunanze, i senatori vi ardevano
incenso, giurando fedeltà all'imperatore.
E in Italia non pochi nelle scuole difendevano le antiche credenze, e
nella società se ne chiarivano campioni. Nominerò fra questi Vettio
Agorio Pretestato, «capo della pietà pagana», nella cui biblioteca
Macrobio fa radunare gl'interlocutori de' suoi Saturnali, e prestargli
un rispetto vicino a venerazione. Mettevasi egli attorno gl'illustri
avanzi del paganesimo; fu deputato a Valentiniano I perchè sospendesse
le persecuzioni contro gli auguri; ed altamente onorato finchè visse,
ebbe dopo morte due statue dagl'imperatori, una dalle Vestali[122].
A lui diresse amichevoli lettere Aurelio Anicio Simmaco romano, che
dal retore Libanio avea succhiato la venerazione del paganesimo e la
speranza di rintegrarlo. Nato dal prefetto di Roma, salì pontefice,
questore, pretore, governò la Campania e i Bruzj, stette proconsole
in Africa, indi prefetto di Roma, da ultimo console (391); parteggiò
per Magno Massimo, vinto il quale, rifuggì in una chiesa di quei
Cristiani che aveva osteggiati, e papa Liberio gl'impetrò perdono;
aggregato ai pontefici, vi portò uno zelo vigoroso, lamentando che
troppi di essi col negligere i sacri doveri cercassero la grazia
degli imperanti. Mirabile accecamento! in mezzo a tanta mutazione,
egli favella delle patrie religioni come niuno le avesse revocate in
dubbio, e a Pretestato scrive: — Oh se m'accora che, dopo moltiplicati
sacrifizj, il funesto presagio manifestatosi a Spoleto non siasi ancora
pubblicamente espiato! Giove si mostrò favorevole appena alla quarta
mactazione, e neppure all'undecima ci fu possibile soddisfare alla
fortuna pubblica. Deh in qual paese siamo! Ora si tratta di raccorre
ad assemblea i colleghi nostri, e ti terrò informato se giunsero
a scoprire qualche rimedio divino»[123]. Con singolare contrizione
supplica egli i patrj numi che perdonino le neglette cerimonie[124];
esorta le Vestali a mantenere severa la disciplina; chiede la punizione
d'alcuna che avea leso il voto[125]; e s'adopera per sostenere la
politica importanza del paganesimo.
A questa unicamente dirigeano la mira i difensori del politeismo in
Occidente; a differenza dell'impero Orientale, che aveva in Atene
una scuola regolarmente piantata all'uopo di mantenere, per una
_catena d'oro_ d'iniziati, la fiducia nelle defunte immortalità e
nelle dottrine teurgiche associate al neoplatonismo. Solo i maestri
delle varie scuole di Roma, Milano, Bordeaux, Treveri, Tolosa,
Narbona diffondeano le favole degli autori pagani nel farne ammirar
le bellezze; e quando uno di essi, Eugenio, dall'accidente fu portato
al trono, diede mano all'idolatria, rialzò l'altare della Vittoria,
collocò la statua di Giove al varco delle alpi Giulie[126], e
drappellava l'effigie di Ercole innanzi a' suoi eserciti.
La costoro esistenza è prova che il cristianesimo trionfante si guardò
dalle persecuzioni, cui era soggiaciuto nascente. Il numero però
de' Cristiani era grandemente cresciuto, e illustri famiglie[127]
vi aggiungevano credito e potenza. La stessa scenica persecuzione
di Giuliano, comprimendo un istante la libera manifestazione del
culto, rintegrò l'elasticità; e il facile trionfo sopra la impotente
ricomparsa degli idoli di Grecia crebbe l'autorità dei vescovi, che,
quasi altrettanti capitani non solo per dilatare il cristianesimo, ma
per combattere il politeismo, a gran voce domandavano che la società
rompesse finalmente i legami che l'avvincevano all'idolatria.
Internamente però la Chiesa non avea mai cessato d'essere conturbata
dalla quistione sulla natura del divin Figliuolo; e vescovi gli uni
avversi agli altri, non paghi di lanciarsi riprovazioni ecclesiastiche,
studiavano nuocersi a vicenda ora nell'opinione de' fedeli, ora
nel favore dei potenti. Questi collocavano nelle sedi non il più
meritevole, ma quello che tenesse la loro credenza; e spesso il popolo
od eleggevasi un altro vescovo, o lasciando vuote le chiese, s'adunava
alla campagna; agli uffiziali che volessero mescolarsene facea
resistenza, e ne nascevano violenze, bandi, uccisioni.
Di nuove glorie intanto ammantavansi i padiglioni del militante
cristianesimo; e i santi Padri costituivano una letteratura, non
educata alle imitazioni, non a ritrarre una società che avea cessato
d'esistere, od una ideale che non era esistita mai, bensì il presente,
l'attualità, le idee sociali più avanzate, cioè le religiose.
Nei primi tempi del cristianesimo predomina il miracolo; e sebbene
campeggi la potenza dell'uomo nel soffrire, nel resistere, nel vincere,
quegli avvenimenti sono men tosto da descrivere che da venerare.
Semplici ed incolti erano la maggior parte de' primi discepoli, più
pratici che speculativi, più d'azione che di discorso; la dottrina,
perpetuata dalla tradizione orale e viva, concentravasi in poche
parole gravi e schiette; nascevano dispute? le terminava la voce d'un
discepolo che potea dire, — Ho veduto io stesso il verbo umanato»
oppure — L'ha veduto chi a me lo narrò»; e della verità era splendida
prova la rinnovazione dell'uomo interno, che si operava per via di
virtù dapprima ignote, pace, fraternità, eguaglianza, universale
beneficenza, costanza ai martirj, magnanimo perdono. Ma ben tosto i
dotti, loro malgrado, sono costretti ad accorgersi della presenza de'
novatori, e se non altro, a vituperarli: allora i Padri cominciano
a difendere i dogmi dai Gentili e dai filosofi, per mostrare come
le dottrine antiche siano inferiori e meno conformi alla ragione.
Non paghi di tenersi sulle difese, provano la verità della dottrina
cristiana con eccellenti ragioni, coi miracoli, colle profezie; e già
mettono fuori idee profonde e nuove sulla natura di Dio e su quella
dell'uomo; anzi colla logica e colla storia assaltano il paganesimo e
la filosofia, e a quegl'imperatori onnipossenti favellano con nobile ed
insolita libertà.
Qui ci si apre un nuovo prospetto dell'attività latina. Ne' primi
secoli le Chiese occidentali somigliarono a colonie delle orientali;
ordinamento, riti, libri, lingua liturgica erano greci: perocchè la
greca era la lingua internazionale dell'impero, siccome nel XV secolo
l'italiana ed oggi la francese; laonde con essa parlavano gli apostoli
e gli eresiarchi, la Bibbia leggeasi nella versione dei Settanta fatta
ad Alessandria, in greco si stesero le omelie di san Clemente, il
_Pastore_ di Ermia, le apologie di san Giustino, la confutazione delle
eresie di Ippolito, il quale, al par di Origéne, predicò a Roma in
greco. Non dicasi per questo che la religione cristiana appartenesse
alla letteratura de' Greci; chè se di questi tiene la forma, ebraico
essenzialmente erane il fondo, colla semplicità, coll'ispirazione,
colla rigidezza d'espressione e di sentimento.
Dopo gli apologisti di cui già parlammo (pag. 115), il primo scritto
teologico in latino fu l'_Ottavio_ di Minucio Felice. Ottavio
convertito e Cecilio ancora pagano, condottisi ad Ostia, dove
villeggiava Minucio celebre avvocato, passeggiavano sul lido; e
perchè, al vedere un idolo di Serapide, Cecilio si pose la mano alla
bocca baciandola, come praticavasi in segno d'adorazione, Ottavio
il disapprovò come d'ubbia indegna d'un par suo. Fermatisi poi
ad osservare fanciulli che faceano il rimbalzello mentre altri ne
prendevano diletto, Cecilio rimaneva pensieroso sopra le parole udite,
sicchè fu proposto di mettere fra loro la cosa in discussione. Tale
è il soggetto d'un dialogo di Minucio, che volta a volta rende sapore
de' platonici; Cecilio sostiene gli Dei, antica e generale credenza,
contro questa pazzia di gente nuova, deturpata di sozze infamie e
perseguitata; ma gli altri due sillogizzano così bene, che egli si dà
vinto e convertito.
L'africano Arnobio, a lungo sostenuto il paganesimo, si rese vinto alla
Chiesa, la quale gl'impose d'adoperare contro dell'idolatria la sua
artifiziosa parola. Come dunque dapprima aveva commentato gli autori
profani, così nei sette libri _contro i Gentili_ offrì una compiuta
oppugnazione delle antiche credenze, rivolgendosi agli addottrinati
ch'erano capaci di bilanciarle colle nuove; confuta coloro che
dicevano, — Dopo il cristianesimo è perito il mondo: il genere umano
diventa preda di ogni male»; e nel suo zelo di proselito, domanda la
distruzione non solo dei teatri, ma anche delle opere de' poeti.
Educò egli un altro potente campione del cristianesimo in Lattanzio
suo compaesano. Più d'immaginazione oratoria che di storica verità
egli fa prova nel trattatello _Della morte de' persecutori_; nelle
_Istituzioni divine_, pubblicate sul fine del regno di Costantino,
debolmente ribattè gli errori senza saperli schivare. Men notevole per
elevata eloquenza che per accurata espressione, è il più elegante fra
gli autori ecclesiastici latini, nè però merita il titolo di Cicerone
cristiano. Ben lontano dall'indignazione di Giulio Firmico, il quale
suggeriva di punire l'idolatria a rigor di legge, proclama essere la
religione la cosa più spontanea: — Via da noi il pensiero di vendicarci
de' nostri persecutori; a Dio se ne lasci la cura; il sangue de'
Cristiani ricadrà sul capo di chi lo versò».
San Cipriano, vescovo di Cartagine (248), colle moltissime
opere di soave e lucida abbondanza, contribuì forse meglio che
altri a separare i due ordini di fede e d'esame, di rivelazione e di
concepimento, la cui mescolanza produce o la schiavitù o il traviamento
dell'intelligenza, mentre la distinzione schiude allo spirito umano le
barriere dell'infinito, traendolo dal simbolo nella realtà.
San Girolamo (331-420), nato nobilmente a Stridone nella
Dalmazia, educato a Roma sotto Donato commentatore di Terenzio, e sotto
il retore Vittorino, contrasse la coltura e la corruzione di quella
grande città, finchè nauseato concentrò sopra il cristianesimo l'ardore
potente che prima dissipava nelle passioni. Gustò le maschie voluttà
della solitudine, abbellita, come egli dice, «dai fiori di Cristo,
lontano dall'affumicata prigione della città»: ma non restandone
soddisfatta la operosità sua, si condusse ad Antiochia, dove contro
voglia fu ordinato prete; indi a Costantinopoli, benchè quinquagenario,
si pose discepolo a Gregorio Nazianzeno nell'esegesi sacra, e mutò in
latino varie opere; poi a Roma papa Damaso l'adoprò a diversi negozj e
lavori letterarj.
Quivi legò amicizia con pie matrone, degne di storia. Melania, uscita
d'una di quelle case senatorie, alle quali, cessata ogni potenza
politica, erano rimaste opulentissime rendite, perduti il marito e due
figli, lasciò il terzo fanciullo per passare in Egitto a conoscere gli
anacoreti; sovvenne largamente ai fedeli perseguitati dagli Ariani,
accogliendoli nella fuga, e vestendosi da schiava per nutrirli e
consolarli nelle prigioni. Marcella, pur vedova, erasi raccolta in
villa a monastico rigore con Principia sua figliuola. Di pari virtù
rifulgevano Asella ed Albina, suora e madre di Marcella. Per maggiore
pietà e più generosi soccorsi a poveri ed infermi si segnalò Paola
d'antichissima famiglia[128], colle sue figliuole Eustochio e Blesilla.
Queste dame sottometteansi al dominio dell'anima robusta di Girolamo, e
così Leta, Fabiola, altre coscienze profondamente convinte, che colle
virtù più austere protestavano contro le fiacchezze, e soccorrevano
generosamente alle miserie d'un secolo infelicissimo.
Saldo al vero, Girolamo insegnava che la saldezza della Chiesa dipende
dall'unità del pontefice, e se a questo non si dia un potere superiore
agli altri, v'avrà tanti scismi quanti vescovi. Umile in faccia a
Dio, altero in faccia agli uomini, flagella stizzosamente quanti
vizj incontra; nè risparmia gl'indegni ministri della religione,
smascherando certuni che, fattisi diaconi e sacerdoti per trattare più
liberamente colle donne, si piacevano in vesti eleganti, capelli ricci
e profumati, anelli alle dita, camminar in punta di piedi, traforarsi
nelle case, e sollecitare donativi e legati[129]. Punti da ciò, tolsero
a perseguitare il santo, denigrandone le amicizie spirituali; tanto che
egli, sebbene davanti ai magistrati si chiarisse innocente, abbandonò
Roma e tornò in Palestina, percorrendone passo passo i luoghi per
meglio comprendere le sacre scritture.
Paola suddetta, fissatasi con Girolamo a Betlemme, dove accorrevano
Cristiani d'ogni paese senza distinzione di grado o di ricchezza e
riguardando primo chi facevasi ultimo, presedette a un monastero di
donne; Girolamo ad uno d'uomini. Caloroso martire di se stesso, egli
scriveva sin mille righe il giorno: pure trovava tempo di spiegare la
Bibbia a' suoi anacoreti, dirozzare colle prime lettere i fanciulli, e
tornare di furto agli autori profani, delizia della sua gioventù.
Anche Melania, piantatasi a Gerusalemme, vi accolse per trent'anni
tutti coloro che affluivano a venerare i santi luoghi. Con lei erasi
stretto di spirituale amicizia Rufino prete d'Aquileja, ammiratore
d'Origene, teologo austero, ma traviato dal proprio orgoglio; talchè
Gerusalemme, popolata di questi fervidi proseliti e ingegnosi, divenne
il centro delle dottrine rigorose e razionali di Origene. Girolamo, che
dapprima lo avea levato a cielo, dappoi ne vide il pericolo, e cominciò
contro Rufino una polemica, disabbellita da ingiurie che ripescava in
Persio e Giovenale.
Le più importanti sue elucubrazioni sono di critica sacra. I Greci
aveano avuto fin dall'origine i libri sacri, stesi in parte dagli
apostoli in quella lingua, come la più diffusa: i Latini anch'essi
di buon'ora ne fecero una traduzione, per quanto faticoso riuscisse
il voltarli nella lingua del vulgo, da cui fu detta _la Vulgata_.
Incaricato da Damaso di togliere ad esame la versione italica dei
Vangeli, fedele ma da interpolamenti e variazioni alterata, Girolamo
il fece, e insieme corresse il Salterio, Giobbe ed altri libri che non
ci rimangono. Pensò poi a una nuova versione dell'antico Testamento,
non più sul testo dei Settanta, ma sull'originale; e per quindici
anni vi si ostinò, fedele al testo a segno da introdurre nella lingua
molti modi ebraici, valendosi pure delle versioni siriaca ed araba,
e delle greche: fatica stupenda per un uomo solo, ove dovette crear
quasi una lingua nuova, che si appropriò immagini e frasi orientali,
piegossi ad esprimere idee e cose opposte al suo carattere, eppure non
perdette maestà e gravità. Per tale opera le lingue d'Oriente vennero
ad influire, più tardi, sopra quelle dell'Europa; e la traduzione di
Girolamo, adottata dalla Chiesa invece dell'antica italica fatta sopra
i Settanta, diventò fondamento a quella che il concilio Tridentino
dichiarò autentica.
Accortosi per propria sperienza che alcune letture aduggiano i
fiori celesti sotto un rigoglio d'importuni pensieri, e smorzano
il gusto degli studj meglio confacenti a Cristiano, Girolamo nella
tarda età garriva coloro che, dopo abbandonata la sapienza del
secolo, si nauseavano della semplicità delle sacre scritture, e
tornavano ai poeti[130]. Eppure egli stesso gli amò sempre, tanto che
gliel'apponevano i suoi avversarj: nuovo indizio della battaglia, che
le due civiltà si portavano nella letteratura come in ogni altra cosa.
Del che un nuovo esempio abbiamo in Ponzio Meropio Paolino da Bordeaux
(353-431), che, dopo dignità primarie nella Spagna e nelle
Gallie, governò la Campania; e nominatissimo per parentadi non meno
che per dottrina, consentì alla chiamata di Dio, rinunziò al mondo,
e a Roma ricevette il battesimo. Di tale acquisto i Cristiani fecero
pubbliche gratulazioni, mentre i Pagani se ne rodevano; parenti e
amici incontrandolo voltavano largo da lui come da disertore; clienti,
liberti, schiavi consideravano rotto ogni vincolo con esso. Il poeta
Ausonio non lasciò via intentata per istornarlo dalla sua risoluzione,
tra le frivolezze letterarie d'allora non intendendo come la forza
della convinzione e l'autorità della coscienza potessero reggere contro
consigli e lamenti così poetici.
Paolino, a Firenze animatosi nei colloquj di sant'Ambrogio, si ritirò
nella solitudine presso Nola, ove colla moglie, ridotta a sorella,
visse sedici anni, istituendo una specie di Tebaide fra le delizie
della Campania: fabbricò una chiesa a san Felice con dipinte istorie
dell'antico Testamento, per guardar le quali i terrazzani dimenticavano
fin il desinare. Minacciano i Barbari? ei non li teme, assorto in una
pace che il mondo non può rapire. Ogn'anno, il giorno natalizio del suo
santo prediletto, compone un canto; e benchè gl'idolatri della forma
sentenziino ch'egli scrisse meglio da pagano che convertito, Ambrogio
trovava composti e soavi quei carmi, e Agostino ne lodava la _gemebonda
pietà_. Fatto vescovo, mantiene corrispondenza con Ambrogio, Girolamo,
Agostino, coll'Italia, coll'Asia, coll'Africa, ricambiando idee,
consigli, schiarimenti.
Trapassando altri Padri della Chiesa occidentale, nominerò Zenone
vescovo di Verona, che sbarbicò dalla sua chiesa i resti dell'idolatria
e dell'arianismo, e ci lasciò settantasette discorsi, eleganti
d'espressione, se non nuovi d'idee. Eusebio sardo pel primo introdusse
la vita regolare fra il clero di Vercelli ond'era vescovo; nel
concilio di Milano resistette all'imperatore, il quale cacciò fin la
mano alla spada contro di esso; mandato esule qua e là, stava nella
Tebaide allorchè lo richiamò l'editto di Giuliano; caldeggiò sempre
sant'Atanasio; fu spedito a rimettere in pace la chiesa d'Antiochia; al
che non essendo riuscito, tornò alla sua sede, ove chiuse santamente i
giorni. Ebbe amico Lucifero vescovo di Cagliari, uno dei più fervorosi
oppugnatori de' varj scismi, e che dall'esiglio mandò all'imperatore
uno scritto dettato con quella violenza che gli faceva ordinare a' suoi
di non aver comunicazione di sorta cogli eretici. Conformi opinioni
sosteneva l'amico suo diacono Ilario, pretendendo sino che gli Ariani,
per rientrare in grembo alla Chiesa, dovessero ribattezzarsi; il che lo
faceva da san Girolamo soprannomare il Deucalione del mondo.
Mai non s'era pensato dai Pagani ad accogliere in una chiesa il
promessa, assaliti e fatti a pezzi. Valentiniano stesso entrò sul
territorio degli Alemanni, e nel paese che ora è regno di Würtemberg li
ruppe sanguinosamente, e passò gran tempo sul Reno (366-70)
per inanimare i soldati alla fabbrica de' forti con cui muniva quella
linea. Da lui istigati, ottantamila Borgognoni si affacciarono a
quel fiume per danneggiare gli Alemanni; ma non vedendosi assecondati
dall'imperatore, diedero volta, trucidando quanti aveano prigionieri.
Avendo Valentiniano fabbricato forti di là del Danubio sulle terre dei
Quadi confederati, Gabinio re di questi venne in persona a querelarsene
(373); ma essendo stato vilmente trucidato, i suoi mandarono
a sperpero l'Illiria, e ruppero due legioni romane. Contro di loro
mosso in persona, Valentiniano ne dilapidò le terre, sicchè essi
spedirongli ambasciatori a Guns in Ungheria implorando pietà. Mentre
a questi Valentiniano parlava coll'escandescenza cui soleva talora
abbandonarsi, cadde morto (375 — 17 9bre), avendo vissuto
cinquantacinque anni, regnato dodici.
Graziano suo figlio sarebbe potuto succedergli; ma alcuni, ambiziosi
di governare sotto il nome d'un re bambino, acclamarono Valentiniano
II, partorito da Giustina, seconda moglie del defunto, perchè nato
nella porpora: e ne seguiva guerra civile se il prudente Graziano
non si fosse quetato all'elezione, consigliando la vedova imperatrice
a stabilirsi col figlio in Milano, mentr'egli assumeva il difficile
governo delle Gallie.
Ma ecco giungergli avviso che i Goti aveano invaso l'impero orientale,
onde s'allestì a difesa dello zio Valente; prima però che giungesse,
questo in fiera giornata ad Adrianopoli era stato vinto ed ucciso
(378 — 9 agosto). Con ciò Graziano trovavasi a diciannove
anni padrone del mondo: se non che davanti si vedea un milione di
Goti, insuperbiti d'aver ucciso quarantamila guerrieri, e acquistatone
l'armi e i cavalli in una battaglia tanto segnalata; alle spalle
gli si agitavano i Germani; all'un estremo del mondo fremevano i
Persi, gli Scoti all'altro, istrutti alla prova che potevasi vincer
Roma, incatenare od uccidere i suoi imperatori. Graziano, sentendosi
insufficiente a tanti urti, il pubblico bene preferì alla personale
ambizione, e fermò scegliersi a collega non un fanciullo nato per caso
nella reggia, ma un uomo pari alla gravezza dei tempi; e pose gli occhi
sopra un esule, un oltraggiato, che non ambiva nè sognava tampoco il
trono.
Teodosio conte spagnuolo avea condotto gl'imperiali a vincere Firmo,
principotto mauro di gran seguito, il quale avea sommosso l'Africa,
disgustata dalle vessazioni di Romano, governatore avido, crudele, e
insieme superbo a segno, che non volea mettersi in marcia se non con
quattromila camelli. Firmo, ridotto alle strette, dopo ostinata difesa
si strangolò; ma Teodosio rimostrò che le sollevazioni non si poteano
prevenire efficacemente se non reprimendo gli eccessi de' governatori,
e massime di Romano. Tale franchezza gli costò la vita.
Suo figlio, di nome anch'egli Teodosio, liberalmente educato, aveva
nella Bretagna represso le irruzioni de' Pitti e Scoti, e vinto
l'usurpatore Valentino, consegnandolo ai magistrati, ma esigendo
non l'obbligassero a nominare i complici, per non essere costretto
a punirli. Piombò poi sulle terre degli Alemanni, e assai ne prese,
che furono messi in colonia sul Po. Venuto famoso per questi ed altri
fatti, fu spedito duca della Mesia, la quale salvò dai Sarmati. Quando
suo padre fu decollato, egli, sentendosi invidiato dai cortigiani,
si ritirò in Ispagna, dispensando il tempo fra le cure di cittadino
e la tranquilla amministrazione d'un vasto patrimonio, lieto di tre
figliuoli, Arcadio, Onorio e Pulcheria.
Cincinnato della Roma decrepita, fu invitato da Graziano, prima a
combattere in difesa dell'impero, poi a parte del trono, quando compiva
i trentatre anni (370 — 19 genn.). L'imperatore non temeva
che alla vendetta domestica posponesse il pubblico vantaggio, e gli
sposò Galla sua sorella: il popolo ne ammirava la maschia bellezza, la
maestà temperata dalla grazia, e — Viene dalla patria stessa di Trajano
e d'Adriano; gli imiterà». A Teodosio furono assegnate le provincie già
imperiate da Valente, oltre la Dacia e la Macedonia; Graziano serbò le
Gallie, la Spagna, la Bretagna; mentre di nome obbedivano al fanciullo
Valentiniano II l'Illiria occidentale, l'Italia e l'Africa.
Graziano sospese le persecuzioni; protesse le lettere e le coltivò,
trovando agio di trattare la cetra colla mano avvezza alla spada, e di
cantare le imprese degli eroi; al poeta Ausonio suo maestro concesse
il consolato, e una toga quale gl'imperatori indossavano nel trionfo;
conservò perenne amicizia con sant'Ambrogio vescovo di Milano[119].
Ma morti coloro che lo avevano messo sul cammino diritto, lasciossi
forviare da indegni cortigiani, sicchè consumava il tempo tra le
caccie e in disputare coi vescovi, de' quali talvolta assecondava
l'intolleranza.
Nella Bretagna i soldati scontenti si levarono a sedizione; e Magno
Massimo, compatrioto e commilitone di Teodosio, non avendo ottenuto
grado pari alla sua ambizione, si fece gridare imperatore, e passò
nelle Gallie con trentamila soldati e centomila paesani; coraggioso
e degno d'impero se l'avesse cercato per vie migliori. Fissatosi a
Treveri, si procacciava ogni giorno nuovi partigiani, anche dei più
vicini di Graziano. Questi da Parigi fuggì verso l'Italia; ma presso
Lione tratto insidie, cadde ucciso a ventiquattr'anni [Sidenote: 383
— 23 agosto]. Massimo spedì a Teodosio giustificandosi del fatto; e
— Riconoscimi per collega, o mi sosterrò colle forze de' più floridi
paesi dell'impero». Necessità e desiderio di risparmiare una guerra
indussero Teodosio al patto; e i tre imperatori furono acclamati per
tutto l'orbe romano.
Pochi anni dopo (387), Massimo, non sapendo limitare la
sua ambizione, sotto finta di ausiliarj esibì un grosso di truppe, le
quali in sicurtà di pace passando le Alpi, assicurarongli l'entrata
nell'Italia. Valentiniano II, o dirò meglio Giustina che ne reggeva
la fanciullezza, fuggirono allora da Milano, ove Massimo entrava
trionfante: ma Teodosio sopragiunsegli con esercito agguerrito e
somma rapidità; talchè chiuso in Aquileja, fu da' suoi spogliato e
condotto all'imperatore (388 — agosto), che ne volle il capo
a vendetta di Graziano. Sbrigata così la guerra civile, e sveltene le
radici colla moderazione e col perdono, Teodosio salì al Campidoglio in
trionfo.
E ben n'avea diritto: i Goti aveva ripartiti in colonie per paesi
deserti, dove si convertivano al cristianesimo e alla civiltà;
i Persiani invocavano la sua amicizia; i sudditi gli mostravano
riconoscenza. Nella privata condotta abbastanza temperante, ai parenti
affezionato e rispettoso, allevò come proprj i nipoti; affabile al
conversare, variava tono a seconda delle persone, gli amici sceglieva
tra' migliori, e impieghi e premj dava a' più degni, non adombrandosi
del merito, nè dimenticando i benefizj. Fra le cure del vasto impero
trovava pure alcun respiro onde applicarsi alla lettura, e massime
alla storia, giudicando i fatti antichi, fremendo alle crudeltà di
Cinna, di Mario, di Silla, il passato facendo scuola dell'avvenire.
Senza ostacolo e quasi senza lamenti avrebbe potuto occupare intera
l'autorità; pure ricollocò sul trono Valentiniano II, aggiungendogli
anche le provincie tolte a Massimo di là dell'Alpi.
In tempi ove l'impero sfasciavasi, nè un palmo di terra egli perdette,
costretto però aggravare le imposizioni, e amministrar con un rigore
molto simile a tirannia, unico puntello del cadente dominio. La
rivoltosa Antiochia avea minacciata d'estremo rigore; ma lo placarono
gli anacoreti e san Giovanni Grisostomo. Tessalonica però, che uccise
i primarj uffiziali di lui, fu condannata a sanguinoso sterminio.
Ambrogio, vescovo di Milano, ove l'imperatore si trovava, ne smarrì
d'orrore; gli scrisse ad esecrazione del fatto, esortando ne facesse
penitenza a calde lagrime, e avvertendolo non ardisse accostarsi
all'altare del Dio della misericordia colle mani stillanti del sangue
innocente. Teodosio a quei rimproveri risensò; e poichè non poteva più
riparare all'eccidio, si recò per penitenza nella basilica milanese. Ed
ecco Ambrogio farsegli innanzi sul vestibolo, dichiarando che, pubblico
essendo stato il delitto, pubblicamente doveva soddisfare alla divina
giustizia; nè lo volle ricevere alla comunione finchè non si sottomise
alla canonica penitenza. Spoglio delle insegne della suprema podestà,
comparve supplichevole in mezzo della chiesa, confessandosi in colpa:
col che dopo otto mesi ottenne indulgenza e d'essere ricomunicato; e
frutto ne fu un editto che ingiungeva di soprassedere sempre trenta
giorni alle comandate esecuzioni.
Di maggior memoria è degna quest'altra legge, viepiù opportuna
dopo profonde commozioni: — Se alcuno, dimentico della prudenza,
si fa lecito di straziare con trista e sconsiderata maldicenza il
nostro nome, e per orgoglio si rende detrattore sedizioso del tempo
presente, vietiamo gli s'infligga alcun castigo o maltrattamento. Se
l'offesa proviene da leggerezza, vuolsi disprezzarla; se da follia,
compatirla; se da perversità, perdonarla»[120]. Nè erano i detti
smentiti dalle opere, giacchè essendosi scoperta una congiura contro
di lui a Costantinopoli, e i rei condannati nel capo, Teodosio perdonò
a tutti, e non volle si cercassero i complici, soggiungendo, — Così
potessi rendere la vita ai morti»[121]. E un'altra volta un magistrato
insistendo che degli uffiziali della giustizia doveva essere principal
cura l'assicurare la vita del principe, — Sì (soggiunse egli), ma
vorrei prendeste anche maggior cura della mia reputazione».
Poichè le rivoluzioni durature non si compiono d'improvviso, i primi
imperatori cristiani aveano lasciato il culto antico sussistere allato
al nuovo; ancora i riti pagani si riguardavano, o almeno chiamavansi
nazionali; i pontefici sagrificavano in nome del genere umano; in mezzo
alla curia Giulia, dove accoglievasi il senato, sorgeva sull'ara la
statua della Vittoria, tolta ai Tarantini, e da Augusto ornata colle
spoglie dell'Egitto; e prima delle adunanze, i senatori vi ardevano
incenso, giurando fedeltà all'imperatore.
E in Italia non pochi nelle scuole difendevano le antiche credenze, e
nella società se ne chiarivano campioni. Nominerò fra questi Vettio
Agorio Pretestato, «capo della pietà pagana», nella cui biblioteca
Macrobio fa radunare gl'interlocutori de' suoi Saturnali, e prestargli
un rispetto vicino a venerazione. Mettevasi egli attorno gl'illustri
avanzi del paganesimo; fu deputato a Valentiniano I perchè sospendesse
le persecuzioni contro gli auguri; ed altamente onorato finchè visse,
ebbe dopo morte due statue dagl'imperatori, una dalle Vestali[122].
A lui diresse amichevoli lettere Aurelio Anicio Simmaco romano, che
dal retore Libanio avea succhiato la venerazione del paganesimo e la
speranza di rintegrarlo. Nato dal prefetto di Roma, salì pontefice,
questore, pretore, governò la Campania e i Bruzj, stette proconsole
in Africa, indi prefetto di Roma, da ultimo console (391); parteggiò
per Magno Massimo, vinto il quale, rifuggì in una chiesa di quei
Cristiani che aveva osteggiati, e papa Liberio gl'impetrò perdono;
aggregato ai pontefici, vi portò uno zelo vigoroso, lamentando che
troppi di essi col negligere i sacri doveri cercassero la grazia
degli imperanti. Mirabile accecamento! in mezzo a tanta mutazione,
egli favella delle patrie religioni come niuno le avesse revocate in
dubbio, e a Pretestato scrive: — Oh se m'accora che, dopo moltiplicati
sacrifizj, il funesto presagio manifestatosi a Spoleto non siasi ancora
pubblicamente espiato! Giove si mostrò favorevole appena alla quarta
mactazione, e neppure all'undecima ci fu possibile soddisfare alla
fortuna pubblica. Deh in qual paese siamo! Ora si tratta di raccorre
ad assemblea i colleghi nostri, e ti terrò informato se giunsero
a scoprire qualche rimedio divino»[123]. Con singolare contrizione
supplica egli i patrj numi che perdonino le neglette cerimonie[124];
esorta le Vestali a mantenere severa la disciplina; chiede la punizione
d'alcuna che avea leso il voto[125]; e s'adopera per sostenere la
politica importanza del paganesimo.
A questa unicamente dirigeano la mira i difensori del politeismo in
Occidente; a differenza dell'impero Orientale, che aveva in Atene
una scuola regolarmente piantata all'uopo di mantenere, per una
_catena d'oro_ d'iniziati, la fiducia nelle defunte immortalità e
nelle dottrine teurgiche associate al neoplatonismo. Solo i maestri
delle varie scuole di Roma, Milano, Bordeaux, Treveri, Tolosa,
Narbona diffondeano le favole degli autori pagani nel farne ammirar
le bellezze; e quando uno di essi, Eugenio, dall'accidente fu portato
al trono, diede mano all'idolatria, rialzò l'altare della Vittoria,
collocò la statua di Giove al varco delle alpi Giulie[126], e
drappellava l'effigie di Ercole innanzi a' suoi eserciti.
La costoro esistenza è prova che il cristianesimo trionfante si guardò
dalle persecuzioni, cui era soggiaciuto nascente. Il numero però
de' Cristiani era grandemente cresciuto, e illustri famiglie[127]
vi aggiungevano credito e potenza. La stessa scenica persecuzione
di Giuliano, comprimendo un istante la libera manifestazione del
culto, rintegrò l'elasticità; e il facile trionfo sopra la impotente
ricomparsa degli idoli di Grecia crebbe l'autorità dei vescovi, che,
quasi altrettanti capitani non solo per dilatare il cristianesimo, ma
per combattere il politeismo, a gran voce domandavano che la società
rompesse finalmente i legami che l'avvincevano all'idolatria.
Internamente però la Chiesa non avea mai cessato d'essere conturbata
dalla quistione sulla natura del divin Figliuolo; e vescovi gli uni
avversi agli altri, non paghi di lanciarsi riprovazioni ecclesiastiche,
studiavano nuocersi a vicenda ora nell'opinione de' fedeli, ora
nel favore dei potenti. Questi collocavano nelle sedi non il più
meritevole, ma quello che tenesse la loro credenza; e spesso il popolo
od eleggevasi un altro vescovo, o lasciando vuote le chiese, s'adunava
alla campagna; agli uffiziali che volessero mescolarsene facea
resistenza, e ne nascevano violenze, bandi, uccisioni.
Di nuove glorie intanto ammantavansi i padiglioni del militante
cristianesimo; e i santi Padri costituivano una letteratura, non
educata alle imitazioni, non a ritrarre una società che avea cessato
d'esistere, od una ideale che non era esistita mai, bensì il presente,
l'attualità, le idee sociali più avanzate, cioè le religiose.
Nei primi tempi del cristianesimo predomina il miracolo; e sebbene
campeggi la potenza dell'uomo nel soffrire, nel resistere, nel vincere,
quegli avvenimenti sono men tosto da descrivere che da venerare.
Semplici ed incolti erano la maggior parte de' primi discepoli, più
pratici che speculativi, più d'azione che di discorso; la dottrina,
perpetuata dalla tradizione orale e viva, concentravasi in poche
parole gravi e schiette; nascevano dispute? le terminava la voce d'un
discepolo che potea dire, — Ho veduto io stesso il verbo umanato»
oppure — L'ha veduto chi a me lo narrò»; e della verità era splendida
prova la rinnovazione dell'uomo interno, che si operava per via di
virtù dapprima ignote, pace, fraternità, eguaglianza, universale
beneficenza, costanza ai martirj, magnanimo perdono. Ma ben tosto i
dotti, loro malgrado, sono costretti ad accorgersi della presenza de'
novatori, e se non altro, a vituperarli: allora i Padri cominciano
a difendere i dogmi dai Gentili e dai filosofi, per mostrare come
le dottrine antiche siano inferiori e meno conformi alla ragione.
Non paghi di tenersi sulle difese, provano la verità della dottrina
cristiana con eccellenti ragioni, coi miracoli, colle profezie; e già
mettono fuori idee profonde e nuove sulla natura di Dio e su quella
dell'uomo; anzi colla logica e colla storia assaltano il paganesimo e
la filosofia, e a quegl'imperatori onnipossenti favellano con nobile ed
insolita libertà.
Qui ci si apre un nuovo prospetto dell'attività latina. Ne' primi
secoli le Chiese occidentali somigliarono a colonie delle orientali;
ordinamento, riti, libri, lingua liturgica erano greci: perocchè la
greca era la lingua internazionale dell'impero, siccome nel XV secolo
l'italiana ed oggi la francese; laonde con essa parlavano gli apostoli
e gli eresiarchi, la Bibbia leggeasi nella versione dei Settanta fatta
ad Alessandria, in greco si stesero le omelie di san Clemente, il
_Pastore_ di Ermia, le apologie di san Giustino, la confutazione delle
eresie di Ippolito, il quale, al par di Origéne, predicò a Roma in
greco. Non dicasi per questo che la religione cristiana appartenesse
alla letteratura de' Greci; chè se di questi tiene la forma, ebraico
essenzialmente erane il fondo, colla semplicità, coll'ispirazione,
colla rigidezza d'espressione e di sentimento.
Dopo gli apologisti di cui già parlammo (pag. 115), il primo scritto
teologico in latino fu l'_Ottavio_ di Minucio Felice. Ottavio
convertito e Cecilio ancora pagano, condottisi ad Ostia, dove
villeggiava Minucio celebre avvocato, passeggiavano sul lido; e
perchè, al vedere un idolo di Serapide, Cecilio si pose la mano alla
bocca baciandola, come praticavasi in segno d'adorazione, Ottavio
il disapprovò come d'ubbia indegna d'un par suo. Fermatisi poi
ad osservare fanciulli che faceano il rimbalzello mentre altri ne
prendevano diletto, Cecilio rimaneva pensieroso sopra le parole udite,
sicchè fu proposto di mettere fra loro la cosa in discussione. Tale
è il soggetto d'un dialogo di Minucio, che volta a volta rende sapore
de' platonici; Cecilio sostiene gli Dei, antica e generale credenza,
contro questa pazzia di gente nuova, deturpata di sozze infamie e
perseguitata; ma gli altri due sillogizzano così bene, che egli si dà
vinto e convertito.
L'africano Arnobio, a lungo sostenuto il paganesimo, si rese vinto alla
Chiesa, la quale gl'impose d'adoperare contro dell'idolatria la sua
artifiziosa parola. Come dunque dapprima aveva commentato gli autori
profani, così nei sette libri _contro i Gentili_ offrì una compiuta
oppugnazione delle antiche credenze, rivolgendosi agli addottrinati
ch'erano capaci di bilanciarle colle nuove; confuta coloro che
dicevano, — Dopo il cristianesimo è perito il mondo: il genere umano
diventa preda di ogni male»; e nel suo zelo di proselito, domanda la
distruzione non solo dei teatri, ma anche delle opere de' poeti.
Educò egli un altro potente campione del cristianesimo in Lattanzio
suo compaesano. Più d'immaginazione oratoria che di storica verità
egli fa prova nel trattatello _Della morte de' persecutori_; nelle
_Istituzioni divine_, pubblicate sul fine del regno di Costantino,
debolmente ribattè gli errori senza saperli schivare. Men notevole per
elevata eloquenza che per accurata espressione, è il più elegante fra
gli autori ecclesiastici latini, nè però merita il titolo di Cicerone
cristiano. Ben lontano dall'indignazione di Giulio Firmico, il quale
suggeriva di punire l'idolatria a rigor di legge, proclama essere la
religione la cosa più spontanea: — Via da noi il pensiero di vendicarci
de' nostri persecutori; a Dio se ne lasci la cura; il sangue de'
Cristiani ricadrà sul capo di chi lo versò».
San Cipriano, vescovo di Cartagine (248), colle moltissime
opere di soave e lucida abbondanza, contribuì forse meglio che
altri a separare i due ordini di fede e d'esame, di rivelazione e di
concepimento, la cui mescolanza produce o la schiavitù o il traviamento
dell'intelligenza, mentre la distinzione schiude allo spirito umano le
barriere dell'infinito, traendolo dal simbolo nella realtà.
San Girolamo (331-420), nato nobilmente a Stridone nella
Dalmazia, educato a Roma sotto Donato commentatore di Terenzio, e sotto
il retore Vittorino, contrasse la coltura e la corruzione di quella
grande città, finchè nauseato concentrò sopra il cristianesimo l'ardore
potente che prima dissipava nelle passioni. Gustò le maschie voluttà
della solitudine, abbellita, come egli dice, «dai fiori di Cristo,
lontano dall'affumicata prigione della città»: ma non restandone
soddisfatta la operosità sua, si condusse ad Antiochia, dove contro
voglia fu ordinato prete; indi a Costantinopoli, benchè quinquagenario,
si pose discepolo a Gregorio Nazianzeno nell'esegesi sacra, e mutò in
latino varie opere; poi a Roma papa Damaso l'adoprò a diversi negozj e
lavori letterarj.
Quivi legò amicizia con pie matrone, degne di storia. Melania, uscita
d'una di quelle case senatorie, alle quali, cessata ogni potenza
politica, erano rimaste opulentissime rendite, perduti il marito e due
figli, lasciò il terzo fanciullo per passare in Egitto a conoscere gli
anacoreti; sovvenne largamente ai fedeli perseguitati dagli Ariani,
accogliendoli nella fuga, e vestendosi da schiava per nutrirli e
consolarli nelle prigioni. Marcella, pur vedova, erasi raccolta in
villa a monastico rigore con Principia sua figliuola. Di pari virtù
rifulgevano Asella ed Albina, suora e madre di Marcella. Per maggiore
pietà e più generosi soccorsi a poveri ed infermi si segnalò Paola
d'antichissima famiglia[128], colle sue figliuole Eustochio e Blesilla.
Queste dame sottometteansi al dominio dell'anima robusta di Girolamo, e
così Leta, Fabiola, altre coscienze profondamente convinte, che colle
virtù più austere protestavano contro le fiacchezze, e soccorrevano
generosamente alle miserie d'un secolo infelicissimo.
Saldo al vero, Girolamo insegnava che la saldezza della Chiesa dipende
dall'unità del pontefice, e se a questo non si dia un potere superiore
agli altri, v'avrà tanti scismi quanti vescovi. Umile in faccia a
Dio, altero in faccia agli uomini, flagella stizzosamente quanti
vizj incontra; nè risparmia gl'indegni ministri della religione,
smascherando certuni che, fattisi diaconi e sacerdoti per trattare più
liberamente colle donne, si piacevano in vesti eleganti, capelli ricci
e profumati, anelli alle dita, camminar in punta di piedi, traforarsi
nelle case, e sollecitare donativi e legati[129]. Punti da ciò, tolsero
a perseguitare il santo, denigrandone le amicizie spirituali; tanto che
egli, sebbene davanti ai magistrati si chiarisse innocente, abbandonò
Roma e tornò in Palestina, percorrendone passo passo i luoghi per
meglio comprendere le sacre scritture.
Paola suddetta, fissatasi con Girolamo a Betlemme, dove accorrevano
Cristiani d'ogni paese senza distinzione di grado o di ricchezza e
riguardando primo chi facevasi ultimo, presedette a un monastero di
donne; Girolamo ad uno d'uomini. Caloroso martire di se stesso, egli
scriveva sin mille righe il giorno: pure trovava tempo di spiegare la
Bibbia a' suoi anacoreti, dirozzare colle prime lettere i fanciulli, e
tornare di furto agli autori profani, delizia della sua gioventù.
Anche Melania, piantatasi a Gerusalemme, vi accolse per trent'anni
tutti coloro che affluivano a venerare i santi luoghi. Con lei erasi
stretto di spirituale amicizia Rufino prete d'Aquileja, ammiratore
d'Origene, teologo austero, ma traviato dal proprio orgoglio; talchè
Gerusalemme, popolata di questi fervidi proseliti e ingegnosi, divenne
il centro delle dottrine rigorose e razionali di Origene. Girolamo, che
dapprima lo avea levato a cielo, dappoi ne vide il pericolo, e cominciò
contro Rufino una polemica, disabbellita da ingiurie che ripescava in
Persio e Giovenale.
Le più importanti sue elucubrazioni sono di critica sacra. I Greci
aveano avuto fin dall'origine i libri sacri, stesi in parte dagli
apostoli in quella lingua, come la più diffusa: i Latini anch'essi
di buon'ora ne fecero una traduzione, per quanto faticoso riuscisse
il voltarli nella lingua del vulgo, da cui fu detta _la Vulgata_.
Incaricato da Damaso di togliere ad esame la versione italica dei
Vangeli, fedele ma da interpolamenti e variazioni alterata, Girolamo
il fece, e insieme corresse il Salterio, Giobbe ed altri libri che non
ci rimangono. Pensò poi a una nuova versione dell'antico Testamento,
non più sul testo dei Settanta, ma sull'originale; e per quindici
anni vi si ostinò, fedele al testo a segno da introdurre nella lingua
molti modi ebraici, valendosi pure delle versioni siriaca ed araba,
e delle greche: fatica stupenda per un uomo solo, ove dovette crear
quasi una lingua nuova, che si appropriò immagini e frasi orientali,
piegossi ad esprimere idee e cose opposte al suo carattere, eppure non
perdette maestà e gravità. Per tale opera le lingue d'Oriente vennero
ad influire, più tardi, sopra quelle dell'Europa; e la traduzione di
Girolamo, adottata dalla Chiesa invece dell'antica italica fatta sopra
i Settanta, diventò fondamento a quella che il concilio Tridentino
dichiarò autentica.
Accortosi per propria sperienza che alcune letture aduggiano i
fiori celesti sotto un rigoglio d'importuni pensieri, e smorzano
il gusto degli studj meglio confacenti a Cristiano, Girolamo nella
tarda età garriva coloro che, dopo abbandonata la sapienza del
secolo, si nauseavano della semplicità delle sacre scritture, e
tornavano ai poeti[130]. Eppure egli stesso gli amò sempre, tanto che
gliel'apponevano i suoi avversarj: nuovo indizio della battaglia, che
le due civiltà si portavano nella letteratura come in ogni altra cosa.
Del che un nuovo esempio abbiamo in Ponzio Meropio Paolino da Bordeaux
(353-431), che, dopo dignità primarie nella Spagna e nelle
Gallie, governò la Campania; e nominatissimo per parentadi non meno
che per dottrina, consentì alla chiamata di Dio, rinunziò al mondo,
e a Roma ricevette il battesimo. Di tale acquisto i Cristiani fecero
pubbliche gratulazioni, mentre i Pagani se ne rodevano; parenti e
amici incontrandolo voltavano largo da lui come da disertore; clienti,
liberti, schiavi consideravano rotto ogni vincolo con esso. Il poeta
Ausonio non lasciò via intentata per istornarlo dalla sua risoluzione,
tra le frivolezze letterarie d'allora non intendendo come la forza
della convinzione e l'autorità della coscienza potessero reggere contro
consigli e lamenti così poetici.
Paolino, a Firenze animatosi nei colloquj di sant'Ambrogio, si ritirò
nella solitudine presso Nola, ove colla moglie, ridotta a sorella,
visse sedici anni, istituendo una specie di Tebaide fra le delizie
della Campania: fabbricò una chiesa a san Felice con dipinte istorie
dell'antico Testamento, per guardar le quali i terrazzani dimenticavano
fin il desinare. Minacciano i Barbari? ei non li teme, assorto in una
pace che il mondo non può rapire. Ogn'anno, il giorno natalizio del suo
santo prediletto, compone un canto; e benchè gl'idolatri della forma
sentenziino ch'egli scrisse meglio da pagano che convertito, Ambrogio
trovava composti e soavi quei carmi, e Agostino ne lodava la _gemebonda
pietà_. Fatto vescovo, mantiene corrispondenza con Ambrogio, Girolamo,
Agostino, coll'Italia, coll'Asia, coll'Africa, ricambiando idee,
consigli, schiarimenti.
Trapassando altri Padri della Chiesa occidentale, nominerò Zenone
vescovo di Verona, che sbarbicò dalla sua chiesa i resti dell'idolatria
e dell'arianismo, e ci lasciò settantasette discorsi, eleganti
d'espressione, se non nuovi d'idee. Eusebio sardo pel primo introdusse
la vita regolare fra il clero di Vercelli ond'era vescovo; nel
concilio di Milano resistette all'imperatore, il quale cacciò fin la
mano alla spada contro di esso; mandato esule qua e là, stava nella
Tebaide allorchè lo richiamò l'editto di Giuliano; caldeggiò sempre
sant'Atanasio; fu spedito a rimettere in pace la chiesa d'Antiochia; al
che non essendo riuscito, tornò alla sua sede, ove chiuse santamente i
giorni. Ebbe amico Lucifero vescovo di Cagliari, uno dei più fervorosi
oppugnatori de' varj scismi, e che dall'esiglio mandò all'imperatore
uno scritto dettato con quella violenza che gli faceva ordinare a' suoi
di non aver comunicazione di sorta cogli eretici. Conformi opinioni
sosteneva l'amico suo diacono Ilario, pretendendo sino che gli Ariani,
per rientrare in grembo alla Chiesa, dovessero ribattezzarsi; il che lo
faceva da san Girolamo soprannomare il Deucalione del mondo.
Mai non s'era pensato dai Pagani ad accogliere in una chiesa il
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