Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 08
Alla morte di Settimio Severo tanto s'erano assodati i Cristiani,
che, mentre prima adunavansi in case private e di nascosto, poterono
eriger chiese, comprare terreni in Roma, pubblicamente far le elezioni.
Alessandro Severo gli ammise nella reggia come sacerdoti e come
filosofi, e a vescovi e dottori concesse le sue grazie: ma quando
Massimino succedutogli punì gli amici del predecessore, molti Cristiani
andarono avvolti nel castigo, poi altri in occasione di un tremuoto.
L'imperatore Filippo li favorì tanto, che si credette ne avesse
abbracciata la fede: ma sotto Decio, un fanatico poeta uscì in
pubblico, deplorando l'abbandonata religione; il vulgo chiese fosse
riparata col sangue degli empj; e i magistrati cercarono l'aura
popolare col concederlo. Anche la peste, che in quel tempo devastava
l'impero, aizzò la furia del popolo e la superstizione dei ministri ad
isfogarsi sopra queste innocenti vittime, che rendevano il ricambio col
profondere assistenza, preghiere, carità. Allora i principali vescovi
furono morti od esigliati; per sedici mesi impedito al clero di Roma
d'eleggere un successore all'ucciso papa Fabiano; i preti di questo
messi in carcere; sistemata la persecuzione per via di decreti.
Valeriano al fine del regno, per istigazione del prefetto Macriano,
egizio e dotto di magia, perseguitò nuovamente i Cristiani, tra i quali
caddero illustri vittime, e Stefano e Sisto II papi. Gallieno sospese
le persecuzioni; e quantunque alcune vittime cadessero sotto Aureliano,
la Chiesa potè assumere quell'aspetto di legalità che il tempo
conferisce.
È nella natura dell'uomo di lasciar illanguidire una credenza allorchè
non contrastata, ravvivarla quando combattuta. I Pagani guardavano
con indifferenza o spregio la loro religione; ma quando i Cristiani
si presentarono a mostrarne la falsità e l'indecenza, per reazione
vi si affezionarono; le dottrine o le pratiche che bastava conoscere
per disapprovarle, dichiararono non essere che vulgari aggiunte,
oppure simboli di arcana sapienza e di morale sublime. Si rinfrescò
pertanto la venerazione alle antiche favole; e il dispetto di vederle
malmenate dai nuovi settarj, insegnava mille arti di sostenerle.
Allora dunque rinnovati più pomposi che mai i sagrifizj, introdotti
di nuovi, proposte iniziazioni ed espiamenti, con cui supplire a ciò
che la Chiesa prometteva col battesimo e colla confessione; poi si
moltiplicarono miracoli, e profeti, e oracoli, e guarigioni ai sacrarj
di Esculapio e d'Igia; e tanto se n'esaltò il fanatismo del popolo, che
città e comuni a gara supplicavano gl'imperatori di adempire le antiche
leggi, cioè sterminare i Cristiani.
Galerio e Diocleziano, abboccatisi dopo la guerra persiana affine
di prendere un partito sopra un punto ormai divenuto capitale, da
un'accolta di pochi primarj vennero persuasi di toglier via una setta,
che formando uno Stato nello Stato, ne impacciava il movimento, e
poteva minacciarne l'esistenza. Ed era vero che il cristianesimo
cresciuto scomponeva l'unità così necessaria delle leggi e delle
credenze; e chi volesse rintegrarla, trovavasi obbligato a questa
scelta, o di rendere dominante la nuova religione, o di distruggerla.
Di far il primo non ebbe senno o volontà Diocleziano; tentò il secondo,
e professando voler abolire il nome cristiano, pubblicò la proscrizione
generale: — In tutte le provincie si demoliscano le chiese; pena il
capo a chi tenga conventicole segrete; si consegnino i libri santi
per essere bruciati in forma solenne; i beni ecclesiastici venduti
all'asta, o tratti al fisco, o donati a comunità e a cortigiani: quelli
che ricusino omaggio agli Dei di Roma, se ingenui rimangano esclusi
da onori e impieghi; se schiavi, dalla speranza di libertà; tutti
sottratti alla protezione della legge: i giudici accolgano qualunque
accusa contro i Cristiani, e nessun richiamo o discolpa».
Se non fosse attestato concordemente da tanti storici, appena si
potrebbe credere pubblicato da nazione civile un decreto di sì
tirannesca perversità, che avvolgeva tanta parte del mondo nella
persecuzione, sbrigliando le private violenze e le frodi coll'interdire
agii offesi di portarne querela, e l'uffizio del giudice riduceva non a
librare l'accusa colle prove, ma a scoprire, perseguitare, cruciare chi
fosse cristiano o un cristiano volesse salvare.
E la persecuzione di Diocleziano rimase famosissima[55], e la Chiesa
d'Italia vi diede larga messe: in Roma Genesio commediante, Pancrazio
di quattordici anni, Agnese di dodici, Sebastiano milanese, Marcello
sacerdote, Pietro esorcista; a Benevento Gennaro vescovo, ingloriato
dai Napoletani; a Bologna Agricola gentiluomo con Vitale suo schiavo;
in Milano Nazaro, Celso, Naborre, Felice, Gervaso, Protaso; in Aquileja
Canzio, Canziano e Canzianilla, di casa Anicia; — glorie nuove nel
paese ove la gloria fin allora s'era dedotta dall'uccidere, non
dal patire. Il diacono Cesario, venuto d'Africa a Terracina, vi fu
testimonio dell'empio rito, per cui a certe solennità sagrificavasi
un giovane ad Apollo gettandosi in mare; e levò la voce contro questo
suicidio, onde meritò il martirio. Vuolsi che la legione Tebea negasse
idoleggiare, e agli ordini imperiali rispondesse: — Noi siamo soldati
dell'imperatore; da lui riceviamo la paga, ma da Dio la vita. Dobbiamo
versar questa contro il nemico? sì il faremo: abbiam l'armi alla
mano, ma non opponiamo resistenza, e preferiamo morire incolpevoli che
uccidere gl'innocenti». Distinzione ignota ai soldati antichi, e per la
quale furono trucidati a San Maurizio del Vallese[56].
Gli editti di Diocleziano furono dai successori suoi modificati
secondo l'indole loro o le circostanze; chè ormai la quistione non
era più religiosa ma politica, e gl'imperatori ai Cristiani recavano
pace o guerra, per calpestare o alzar una fazione, già preponderante
nella fortuna dell'impero. Galerio, forse dalla malattia richiamato
a sentimenti migliori, in nome proprio e di Costantino e Licinio,
pubblicò un editto ove, asserendo «d'avere adoperato a ristabilire
l'antica disciplina romana, e fare che si ravvedessero i Cristiani,
i quali, presuntuosamente disprezzando la pratica dell'antichità,
abbandonarono la religione dei padri; e avendone molti fatti patire
e perire, vedendoli però ostinarsi a non rendere il culto debito
agli Dei», permette che professino liberamente le private opinioni, e
uniscansi nelle loro conventicole, purchè serbino rispetto alle leggi e
al governo stabilito.
L'opinione dianzi perseguitata, era ancor vilipesa, ma tollerata;
onde i confessori vennero schiusi dagli ergastoli e dalle miniere, gli
apostati tornavano a penitenza, i raminghi rivedevano le dolci case, e
nella pubblica professione della fede e del culto loro ricantavano il
Dio forte, il quale può dai sassi suscitare figliuoli d'Abramo.
Costantino doveva meritare il cognome di grande da chiunque sa far
merito a un principe di accettare le novità, mal fin allora combattute:
che se gli emuli suoi chiedevano il favor popolare col secondare i
Gentili, egli pensò appoggiarsi sui Cristiani, men numerosi ma pieni
di gioventù e della forza di chi viene a riformare, talchè poteasi
prevedere come nel loro movimento trascinerebbero l'inerzia pagana, e
resterebbero in piedi quando il gentilesimo andava a fasci.
Allora la santa letizia della libertà si diffuse in tutto l'impero;
dalle squallide catacombe sbucavano i sacerdoti a celebrare alla faccia
del mondo i riti della nuova alleanza; i vescovi solennizzavano memorie
di martiri, o dedicavano chiese; i letterati pubblicavano virtù fin
allora dissimulate; i fedeli, riconoscendosi fra loro, s'abbracciavano,
saldando la fratellanza colla cena della perpetua commemorazione.
Se non che al paganesimo rimanevano sostegno i sacerdoti,
l'aristocrazia, i corpi municipali che spesso aveano provocato
gl'imperatori alla persecuzione, i tanti magistrati e capitani. A Roma,
per memoria degli antichi auspizj e per lunga sequela di sacerdozj,
erano affezionate le persone di grado, e per consenso i liberti e
gli schiavi; essa veniva considerata come splendido centro della
religione; i riti, i giuochi, più che trastullo, v'erano l'occupazione
e il nutrimento del vulgo; d'ogni parte vi conveniva il fiore della
gioventù, che in quella sentina di tutte le superstizioni, come san
Girolamo la chiamava, bevea l'odio del nome cristiano ne' tempj, nei
teatri, nelle scuole. Era dunque assai che l'imperatore alla nuova
religione concedesse libertà pari all'antica, senza avventurarsi di
colpo ad un cambiamento che avrebbe sovvertito lo Stato[57]: onde
prepararvi gli animi, negligentò alcuni riti nazionali; non celebrò
i giuochi secolari nel 314; i Capitolini, cui avrebbe egli dovuto
presentarsi cinto dai pontefici e dal senato, a capo dell'esercito, non
impedì, ma volse in derisione[58].
Eppure doveano inorridire i Romani rugginosi nel vedere il successore
d'Augusto mettere a pari col pagano il culto pur dianzi proscritto;
esimere i sacerdoti di questo dalle funzioni municipali, come quei
del gentilesimo; proibire che la domenica si lavorasse, o che i
giudici e i corpi dello Stato s'occupassero di verun affare, salvo
che dell'emancipazione de' figli o degli schiavi. Ma Costantino non vi
facea mente: e allorchè si trovò senza colleghi nè emuli, proscrisse
i giuochi gladiatorj, le feste scandalose; chiuse tempj, tolse alle
Vestali e ai sacerdoti profani i privilegi, concedendoli invece al
clero e ai vescovi, alle cui sentenze diede forza quanto alle sue
medesime, sminuendo in tal modo l'autorità de' magistrati secolari;
largheggiò di beni e di denaro colle chiese[59]; sedeva ne' concilj,
disputava di teologia, metteva sugli edifizj pubblici la croce, alzava
il làbaro alla testa degli eserciti, e nel campo una cappella uffiziata
da Cristiani.
Ma non che indicesse guerra al paganesimo, conservava, come i suoi
predecessori, il titolo di sommo pontefice, e in tale qualità fece
decreti religiosi con titoli idolatrici; con immagini di numi si lasciò
scolpire sulle medaglie; poi quando morì, sagrifizj gli furono fatti
all'antica, ascrivendolo fra gli Dei. Tanto i Gentili erano lontani dal
credere ch'egli avesse soppiantato il culto nazionale, e dal prevedere
che non tarda il trionfo della verità, posta che sia a pari armi
coll'errore.
CAPITOLO XLVII.
Traslazione della sede imperiale a Costantinopoli. Costituzione del
Basso Impero.
Chi conosce quanta potenza sia inerente alla vista dei luoghi,
intenderà gli ostacoli che in Roma dovea trovar Costantino alla sua
deliberazione d'impiantare la nuova politica sopra una religione nuova.
Unico centro non aveva il politeismo, che, neppure col concedere a
tutti gli Dei l'ospitalità, caratteristica degl'istituti romani, giunse
mai all'unità: pure Roma, cominciando dal suo fondatore, racchiudeva
una serie di tradizioni gentilesche, colle quali andavano connesse
le sue vittorie, l'orgoglio de' suoi bei giorni; e sarebbesi detto
che Giove dalla rupe Capitolina minacciasse chiunque ne violava gli
altari, benchè fosse disposto a dividerne gli onori con qualsifosse dio
nuovo o rinnovato, da qualsifosse parte del mondo giungesse a Roma col
suo bagaglio di superstizioni. Fra le quali come poteva il buon seme
attecchire?
Ogni atto pubblico poi, giusta l'origine sacerdotale del governo
patrizio, era consacrato da cerimonie; e Costantino si stomacò de'
riti profani: popolo e patrizj si scandolezzarono o indispettirono di
vederlo vilipendere ciò che, non più per convinzione, ma per legalità
era sacro; ed egli, non che sbigottire, deliberò staccarsi da cotesta
genìa dirazzata e pretensiva. Il senato professava ancora che il
governo del mondo fosse privilegio d'una stirpe; laonde l'abbattere
le case senatorie, che parve il solo proposito comune a tutti gli
imperatori, venne ancor meno da frenesia di sangue che da gelosia
di dominio e da bisogno di rifornire l'erario colle pinguissime loro
fortune. Di tal passo rimase annichilata l'antica razza conquistatrice,
a segno che, sotto Gallieno, credeasi che delle famiglie patrizie
unica la Calfurnia sussistesse. Coll'accomunato diritto di cittadinanza
erasi surrogata una gente nuova; gl'imperatori da eunuchi e da liberti
sceglievano i confidenti ed i ministri, i quali costituivano nuove
famiglie, ricche e potenti: equavasi il diritto a vantaggio della plebe
e fin degli schiavi.
Ma anche scomparsi i discendenti degli Scipioni e degli Emilj,
la ricordanza d'altri tempi sopraviveva: il Romano, dovunque si
volgesse, incontrava d'altra natura memorie sull'Aventino, al Foro, in
Campidoglio, il sangue di Virginia, l'ombra de' Gracchi, il cipiglio
di Catone, il pugnale di Bruto; nel suo orgoglio arricciavasi dinanzi
a imperadori, stranieri alle gloriose sue rimembranze, impostigli
dall'esercito, e che stavano fuor di Roma gran tempo e fin tutta la
vita.
Sintanto che gli augusti risedevano nella metropoli, il popolo credeva
serbare ancora un residuo d'autorità quando sotto alle finestre del
palazzo o nel teatro, coll'applauso o col sibilo, approvava o disdiceva
un fatto, una legge; quando li vedeva accattare il suo favore con
largizioni, con giuochi. Ma le condiscendenze che gl'imperatori doveano
alla maestà del senato e alla famigliarità del popolo, repugnavano
ai nuovi ordinamenti, e a chi erasi abituato alla docile obbedienza
delle legioni e dei provinciali. Se ne emancipò Diocleziano piantando
altrove la residenza, e convertì la tenda militare in una corte di
despoto orientale, sopra l'elmo collocando il diadema: fra i sudditi e
l'imperante fu scavato l'abisso da che a questo più non accadea bisogno
di cattivarsi la plebe, nè venerare il senato, nè rispettare le patrie
costumanze, ma gli bastava abbagliare col fasto, imporre colla forza.
Alle provincie, avvezze a servire, non costava nulla il piegarsi
alla nuova politica, tanto più che ridondava tutta in loro vantaggio:
laonde Costantino stabilì rompere interamente col passato, mutando la
sede dell'impero in luogo che non avesse memorie da rinfacciare, riti
da adempiere, tombe da riverire. E scelse Bisanzio, che, sul limite
dell'Europa e dell'Asia, univa alla salubrità e all'incomparabile
bellezza l'opportunità di tener occhio sì agli irrompenti
Settentrionali, sì ai minacciosi Persiani. Rifabbricò dunque essa
città, intitolandola Costantinopoli (329), vi improvvisò
edifizj e vi trasferì la Corte[60]: la nuova capitale, per riverenza
all'antica, fu intitolata colonia e prima e prediletta figlia di Roma;
e a' suoi cittadini partecipato il diritto italico.
Ma il tempo ha un'irresistibile efficacia a fare divenir vere le cose e
repudiar le finzioni: e la nostra Roma, sebbene conservasse il primato
nominale, non fu più la metropoli del mondo; dietro all'imperatore
migrarono magistrati, cortigiani e la folla di coloro che voleano
vivere di largizioni, o vendere l'adulazione, o sfoggiar l'opulenza,
od esercitare le arti del lusso; tornarono verso Levante tanti capi
d'arte, che alla Grecia e all'Asia erano stati usurpati in dieci secoli
di vittorie.
Fu questa la terza trasformazione del potere di Roma; e qui noi ci
baderemo a dar conto dell'amministrazione civile e militare, cominciata
da Diocleziano, migliorata da Costantino, compita da' suoi successori,
e che durò per tutto quel che dicono Basso Impero.
Per tre secoli l'imperatore non era stato che comandante all'esercito,
nè l'autorità amministrativa esercitava altrimenti che arrogandosi
le varie magistrature con militare usurpazione. Augusto, fondato
il despotismo unicamente sulle armi e sulle finanze, avviava alla
monarchia collo spossare la democrazia: dal che derivò un potere
assoluto e precario, conturbato da frequenti rivoluzioni, causate non
più dalla plebe ma dalla soldatesca.
Alla sfrenatezza militare bisognava un rimedio, e lo applicò
Diocleziano coll'introdurre un'amministrazione che tutto facesse
dipendere da una volontà, da un impulso, da un sentimento; i poteri,
dianzi confusi e indeterminati, divenissero distinti e precisi; la
suddivisione di provincie, d'eserciti, di funzioni tenesse gli uni
subordinati agli altri, e tutti all'imperatore, causando il pericolo di
soverchio ingrandimento e di subitanee usurpazioni.
Scorgendo quale appoggio sia al trono l'aristocrazia, Costantino
all'antica ne surrogò una che non avesse diritti e memorie da tutelare,
ma dall'imperatore traesse e su lui riflettesse il proprio splendore.
Fu essa disposta in quattro ordini, i _chiarissimi_, i _rispettabili_,
gl'_illustri_, i _perfettissimi_, oltre i _nobilissimi_ membri della
famiglia imperiale. Titolo di Chiarissimi competeva ai senatori; a
quelli tra essi che sortivansi a governare una provincia, e a chi per
grado od uffizio si elevasse sopra gli altri, toccava del Rispettabile:
Illustri erano i consoli e patrizj, i prefetti al pretorio di Roma e
di Costantinopoli, i generali, i sette uffiziali del palazzo: dietro
a questi venivano i Perfettissimi. Mentre prima il Romano volgeva la
parola direttamente anche al capo dello Stato, allora più non parlò
che alla _sua maestà_; i magistrati primarj chiamava _serenità,
eccellenza, eminenza, gravità, sublime ed ammirabile grandezza,
illustre e magnifica altezza_; e l'usurpare un titolo indebito, anche
per ignoranza, dichiaravasi sacrilegio[61].
Le porzioni di sovranità, che tradizionalmente conservavano il popolo
e le magistrature curuli, cessarono, rimanendo unico padrone e signor
delle cose l'imperatore, unica fonte all'autorità de' magistrati[62].
Il senato, «consiglio sempiterno della repubblica dei popoli, delle
nazioni e dei re» (CICERONE), era soccombuto ai colpi replicati
degl'imperatori e alle proprie bassezze; e l'assemblea, che a Cinea
era sembrata un'accolta di re, allora spendeva lunghe adunanze in
recitare codardi vituperj agl'imperatori caduti, o codarde apoteosi
ai nuovi innalzati, e registrava ne' suoi atti quante volte fossero
stati ripetuti i viva e i riviva[63]. Se i primi imperatori offrivano
al senato in _lettere_ o _libelli_ od _orazioni_ il loro desiderio,
che dal consenso di esso acquistava forza di legge; i susseguenti
fecero di per sè _editti, rescritti, costituzioni_, le quali a
metà del III secolo aveano già vigor di legge; e i padri coscritti
trovaronsi ristretti a formolare in senatoconsulti le proposizioni
fatte dall'imperatore in materie legali, a riconoscere il nuovo
augusto, e morto decretargli altari o patibolo. Conservassero pure il
laticlavo, i calzari neri colla mezza luna d'argento, il posto distinto
agli spettacoli, la direzione d'alcune minuzie; ma ogni ingerenza
nel reggimento dell'impero, nella cura dell'erario, nel governo delle
provincie fu tolta loro da Diocleziano. Infine non furono più che un
consiglio municipale, di giurisdizione circoscritta quasi alle mura
della città, sicchè appena si trovava chi desiderasse appartenervi.
Per ciò, e per secondare lo spirito monarchico, quella dignità venne,
almeno in parte, ridotta ereditaria[64].
I consoli non più dal popolo e dal senato, ma erano eletti dal principe
per propria autorità[65]. Inaugurati erano là dove sedeva l'imperatore:
il primo gennajo, vestiti di porpora ricamata a seta ed oro, con ricche
gemme e col corteo dei primarj uffiziali di toga e di spada, preceduti
dai littori, andavano con gran maniere di letizia al fôro, ove
seduti sul tribunale d'avorio, esercitavano atto di giurisdizione col
manomettere uno schiavo; davano le feste che soleansi in Roma; i nomi
e le effigie loro su tavolette d'avorio si spargeano in dono al popolo,
alle città, alle provincie, ai magistrati. A ciò, e a dar nome all'anno
riducevasi l'uffizio dei consoli, vigliaccamente esultanti d'ottenere
un onore senza peso[66].
Il titolo di patrizio fu concesso a vita da Costantino ad alcuni
personaggi, appena inferiori ai consoli, e detti padri adottivi
dell'imperatore e della repubblica.
I prefetti al pretorio da Severo a Diocleziano erano primi ministri
dell'impero nell'amministrazione civile e militare: ma fiaccati, poi
tolti via i pretoriani, si trasformarono in magistrati civili. Erano
quattro, uno per l'Oriente, uno per l'Illirico, uno per le Gallie, uno
per l'Italia, al qual ultimo spettavano pure la Rezia fin al Danubio,
le isole del Mediterraneo, la provincia africana. Ammiano Marcellino,
storico di quel tempo, non esita a chiamarli imperatori di minor grado,
giacchè competeva ad essi l'amministrare le finanze e la giustizia,
il regolar la moneta, le strade, i granaj, il traffico e quanto
ha tratto alla pubblica prosperità; spiegare, estendere, talvolta
anche modificare gli editti generali; vigilare sui governanti delle
provincie, decidere supremamente delle cause di maggior rilievo.
Da essi rimanevano dissoggette Roma e Costantinopoli, dipendendo da un
prefetto ciascuna. Quel di Roma, istituzione d'Augusto, era assistito
da quindici uffiziali nel soprantendere alla sicurezza, abbondanza
e polizia della città, uno dei quali specialmente aveva in cura le
statue. Il prefetto trasse ben presto a sè le cause già attribuite ai
pretori; poi occupò nel senato il posto de' consoli, come presidente
ordinario; a lui si recavano gli appelli da cento miglia in giro; da
esso dipendeva l'autorità municipale.
Pel governo civile l'impero fu distribuito in tredici diocesi, le
quali poi suddivideansi in centosedici provincie; tre governate da
proconsoli, trentasette da consolari, cinque da correttori, settantuna
da presidi.
Quanto è specialmente dell'Italia, i successori d'Augusto s'erano
avvisati che il miglior mezzo a consolidare la loro tirannide fosse
il mozzar man mano i diritti alla penisola, nido dell'antica libertà
municipale privilegiata. Comodo estese a tutto il mondo ciò che era
stato speciale di Roma, poi dell'Italia: pure la penisola era rimasta
esente dal tributo. Ma quando Diocleziano la concesse al collega
Massimiano, non essendo più alimentata dalle contribuzioni altrui,
dovette sottoporsi ai pesi medesimi delle provincie, e più mai non ne
fu alleviata.
Col fondere Osci, Sabelli, Latini nella nazionalità romana si era
dato forza e vitalità allo Stato: ma sette secoli vi vollero perchè
l'Italia divenisse nazione, e solo col sistema di Costantino quel nome
espresse un'unità politica, anzi più propriamente significò le contrade
superiori, l'antica Gallia Cisalpina, i paesi una volta abitati da
Veneti, Liguri, Insubri.
Dal prefetto di Roma dipendeano dieci provincie, chiamate suburbicarie:
Campania, Etruria ed Umbria, Piceno suburbicario, Sicilia, Apulia,
Calabria, Lucania e Bruzio, Sannio, Sardegna e Corsica, Valeria. Dal
suo vicario, la Liguria, l'Emilia, il Piceno annonario e la Venezia,
dette provincie d'Italia, cui furono poi unite l'Istria, le alpi Cozie,
le due Rezie. In appresso la prefettura d'Italia venne divisa in due
diocesi, d'Italia e d'Africa. Nella diocesi d'Italia, l'Emilia fra
il Po e l'Appennino, la Liguria, la Venezia, il Piceno, la Flaminia
tra Modena e Rimini col litorale dell'antica Umbria, la Campania,
l'Etruria, la Sicilia erano governate da un consolare; da correttori
l'Etruria, l'Apulia, la Calabria, la Lucania, il Bruzio; da presidi il
Sannio, la Valeria, le alpi Marittime, Pennine e Graje, le due Rezie,
la Sardegna, la Corsica.
Proconsoli, correttori, presidi, erano varj d'attribuzioni; tutti però
amministravano e la giustizia e le finanze in dipendenza dai prefetti,
e per quanto al principe piacesse; infliggevano pene fin capitali; il
mitigarle era serbato ai prefetti, come pure il condannare all'esiglio.
Ponevasi attenzione che nessuno fosse natìo del paese che governava,
nè vi contraesse parentele, o comprasse schiavi e terre, volendo con
ciò ovviare gli abusi e le corruzioni; pure Costantino medesimo, poi i
successivi imperatori non rifinano di querelarsi che tutto si venda da
essi o da' loro ministri[67].
Ciascuna provincia formava un corpo politico, rappresentato
dall'assemblea generale, che una volta l'anno o per occasioni
straordinarie, concedente il prefetto del pretorio, radunavasi nel
capoluogo, intervenendovi gli onorati, i curiali e possessori liberi.
Questa dieta provinciale potea far decreti, spedire messi al principe,
anche malgrado del vicario, del preside o del prefetto al pretorio[68].
Si trasformano dunque i magistrati all'antica in impiegati alla
moderna, gli uffiziali della patria in servitori del principe. Sotto
i re, essi magistrati rimanevano sottoposti al capo dello Stato:
nella repubblica, ciascuno aveva un'autorità sovrana entro la sfera
d'attività a lui competente, e poteva fare opposizione al collega o
ai funzionarj inferiori, sempre esposto ad una responsalità reale
e terribile: or eccoli connessi in un'assoluta gerarchia. Nella
repubblica, ed anche sotto i primi imperatori, le insegne della dignità
accompagnavano il magistrato soltanto in uffizio; fuor di quello,
console, pretore, imperatore non avevano altro corteggio o servitù
che i liberti, i clienti, gli schiavi proprj: ma cogli innovamenti
di Diocleziano, il palazzo, la tavola, lo sfarzo, il numeroso codazzo
posero immensurabile distanza fra il monarca ed i sudditi.
Già prima il titolo di _onorato_ distingueva chi avesse sostenuta
alcuna dignità nell'impero, o cui il principe avesse concesso trionfi
od onorificenze: al perdersi delle altre distinzioni, tutti ambirono
questa, e l'imperatore la largì a chiunque prestasse alcun servizio
alla sua persona; merito più rilevante che il giovare allo Stato.
Pertanto gli uffizj dapprima affidati a schiavi, il tagliare avanti, il
servire alla coppa, fin le _prestazioni sordide_, erano ambite da gran
signori, non tanto per gli stipendj, quanto per le esenzioni ond'erano
privilegiate; perocchè gli Onorati restavano ascritti al senato senza
subirne i pesi, e dopo servito dieci o quindici anni, andavano sciolti
da ogni vincolo che per nascita li legasse alla curia o ad alcuna
corporazione. Per _codicilli onorarj_ poi si concedevano talvolta i
titoli a persone che mai non avevano servito, nè tampoco veduto il
principe, tanto per godere l'esenzione, od almeno usar le insegne della
nominale dignità.
A fianco dell'imperatore stavano sette uffiziali, consiglieri privati,
e custodi della persona, della casa, del tesoro. Un eunuco, gran
ciambellano (_præfectus sacri cubiculi_), mai non distaccavasi dal
principe, fosse agli affari o alle ricreazioni, prestandogli i più
umili servigi, e avendo così mille occasioni d'insinuarsegli nelle
grazie e di regolarne i favori. Da quello dipendevano i Conti della
mensa e della guardaroba. Il maestro degli uffizj, ministro di Stato,
dirigeva gli affari pubblici, e nessun richiamo di suddito giungeva al
principe se non attraverso a quattro uffizj, uno dei quali riceveva
i memoriali, l'altro le lettere, il terzo le domande, il quarto la
corrispondenza varia. Davano spaccio agli esibiti cenquarantotto
segretarj, per lo più legali, e preseduti da quattro maestri.
Al maestro degli uffizj sottostavano alcune centinaja di messaggeri,
che, col favore delle buone strade e delle poste, dalla capitale
fin alle provincie estreme recavano gli editti, le vittorie
degl'imperatori, il nome de' consoli; e che acquistarono importanza
col riferire quanto raccogliessero sulle condizioni del paese e sui
portamenti de' magistrati e de' cittadini. Crebbero costoro fin a
diecimila, a proporzione della debolezza della corte o del timore di
ribellioni; e divennero gravosi al popolo pel modo con cui esigevano il
servizio delle poste, e perchè favorivano o perseguitavano (stile dei
delatori) chi sapeva o no tenerseli amici.
Divenuta imperiale la podestà, tolta l'aristocrazia delle famiglie,
accomunata la cittadinanza, cambiasi pure la procedura giudiziale:
non occorrono più magistrati patrizj che dicano il diritto; senatori,
cavalieri, plebe non lottano più per essere ammessi nella lista de'
giudici; non più le decurie sono annualmente elette nel fôro ed esposte
al pubblico: nè il cliente sceglie il magistrato, nè i cittadini
il giudice sopra la lista annuale. La giustizia emana dal trono:
il rettore di ciascuna provincia o il vicario suo; il prefetto del
pretorio in appello come rappresentante dell'imperatore; l'imperatore
che, mentre prima adunavansi in case private e di nascosto, poterono
eriger chiese, comprare terreni in Roma, pubblicamente far le elezioni.
Alessandro Severo gli ammise nella reggia come sacerdoti e come
filosofi, e a vescovi e dottori concesse le sue grazie: ma quando
Massimino succedutogli punì gli amici del predecessore, molti Cristiani
andarono avvolti nel castigo, poi altri in occasione di un tremuoto.
L'imperatore Filippo li favorì tanto, che si credette ne avesse
abbracciata la fede: ma sotto Decio, un fanatico poeta uscì in
pubblico, deplorando l'abbandonata religione; il vulgo chiese fosse
riparata col sangue degli empj; e i magistrati cercarono l'aura
popolare col concederlo. Anche la peste, che in quel tempo devastava
l'impero, aizzò la furia del popolo e la superstizione dei ministri ad
isfogarsi sopra queste innocenti vittime, che rendevano il ricambio col
profondere assistenza, preghiere, carità. Allora i principali vescovi
furono morti od esigliati; per sedici mesi impedito al clero di Roma
d'eleggere un successore all'ucciso papa Fabiano; i preti di questo
messi in carcere; sistemata la persecuzione per via di decreti.
Valeriano al fine del regno, per istigazione del prefetto Macriano,
egizio e dotto di magia, perseguitò nuovamente i Cristiani, tra i quali
caddero illustri vittime, e Stefano e Sisto II papi. Gallieno sospese
le persecuzioni; e quantunque alcune vittime cadessero sotto Aureliano,
la Chiesa potè assumere quell'aspetto di legalità che il tempo
conferisce.
È nella natura dell'uomo di lasciar illanguidire una credenza allorchè
non contrastata, ravvivarla quando combattuta. I Pagani guardavano
con indifferenza o spregio la loro religione; ma quando i Cristiani
si presentarono a mostrarne la falsità e l'indecenza, per reazione
vi si affezionarono; le dottrine o le pratiche che bastava conoscere
per disapprovarle, dichiararono non essere che vulgari aggiunte,
oppure simboli di arcana sapienza e di morale sublime. Si rinfrescò
pertanto la venerazione alle antiche favole; e il dispetto di vederle
malmenate dai nuovi settarj, insegnava mille arti di sostenerle.
Allora dunque rinnovati più pomposi che mai i sagrifizj, introdotti
di nuovi, proposte iniziazioni ed espiamenti, con cui supplire a ciò
che la Chiesa prometteva col battesimo e colla confessione; poi si
moltiplicarono miracoli, e profeti, e oracoli, e guarigioni ai sacrarj
di Esculapio e d'Igia; e tanto se n'esaltò il fanatismo del popolo, che
città e comuni a gara supplicavano gl'imperatori di adempire le antiche
leggi, cioè sterminare i Cristiani.
Galerio e Diocleziano, abboccatisi dopo la guerra persiana affine
di prendere un partito sopra un punto ormai divenuto capitale, da
un'accolta di pochi primarj vennero persuasi di toglier via una setta,
che formando uno Stato nello Stato, ne impacciava il movimento, e
poteva minacciarne l'esistenza. Ed era vero che il cristianesimo
cresciuto scomponeva l'unità così necessaria delle leggi e delle
credenze; e chi volesse rintegrarla, trovavasi obbligato a questa
scelta, o di rendere dominante la nuova religione, o di distruggerla.
Di far il primo non ebbe senno o volontà Diocleziano; tentò il secondo,
e professando voler abolire il nome cristiano, pubblicò la proscrizione
generale: — In tutte le provincie si demoliscano le chiese; pena il
capo a chi tenga conventicole segrete; si consegnino i libri santi
per essere bruciati in forma solenne; i beni ecclesiastici venduti
all'asta, o tratti al fisco, o donati a comunità e a cortigiani: quelli
che ricusino omaggio agli Dei di Roma, se ingenui rimangano esclusi
da onori e impieghi; se schiavi, dalla speranza di libertà; tutti
sottratti alla protezione della legge: i giudici accolgano qualunque
accusa contro i Cristiani, e nessun richiamo o discolpa».
Se non fosse attestato concordemente da tanti storici, appena si
potrebbe credere pubblicato da nazione civile un decreto di sì
tirannesca perversità, che avvolgeva tanta parte del mondo nella
persecuzione, sbrigliando le private violenze e le frodi coll'interdire
agii offesi di portarne querela, e l'uffizio del giudice riduceva non a
librare l'accusa colle prove, ma a scoprire, perseguitare, cruciare chi
fosse cristiano o un cristiano volesse salvare.
E la persecuzione di Diocleziano rimase famosissima[55], e la Chiesa
d'Italia vi diede larga messe: in Roma Genesio commediante, Pancrazio
di quattordici anni, Agnese di dodici, Sebastiano milanese, Marcello
sacerdote, Pietro esorcista; a Benevento Gennaro vescovo, ingloriato
dai Napoletani; a Bologna Agricola gentiluomo con Vitale suo schiavo;
in Milano Nazaro, Celso, Naborre, Felice, Gervaso, Protaso; in Aquileja
Canzio, Canziano e Canzianilla, di casa Anicia; — glorie nuove nel
paese ove la gloria fin allora s'era dedotta dall'uccidere, non
dal patire. Il diacono Cesario, venuto d'Africa a Terracina, vi fu
testimonio dell'empio rito, per cui a certe solennità sagrificavasi
un giovane ad Apollo gettandosi in mare; e levò la voce contro questo
suicidio, onde meritò il martirio. Vuolsi che la legione Tebea negasse
idoleggiare, e agli ordini imperiali rispondesse: — Noi siamo soldati
dell'imperatore; da lui riceviamo la paga, ma da Dio la vita. Dobbiamo
versar questa contro il nemico? sì il faremo: abbiam l'armi alla
mano, ma non opponiamo resistenza, e preferiamo morire incolpevoli che
uccidere gl'innocenti». Distinzione ignota ai soldati antichi, e per la
quale furono trucidati a San Maurizio del Vallese[56].
Gli editti di Diocleziano furono dai successori suoi modificati
secondo l'indole loro o le circostanze; chè ormai la quistione non
era più religiosa ma politica, e gl'imperatori ai Cristiani recavano
pace o guerra, per calpestare o alzar una fazione, già preponderante
nella fortuna dell'impero. Galerio, forse dalla malattia richiamato
a sentimenti migliori, in nome proprio e di Costantino e Licinio,
pubblicò un editto ove, asserendo «d'avere adoperato a ristabilire
l'antica disciplina romana, e fare che si ravvedessero i Cristiani,
i quali, presuntuosamente disprezzando la pratica dell'antichità,
abbandonarono la religione dei padri; e avendone molti fatti patire
e perire, vedendoli però ostinarsi a non rendere il culto debito
agli Dei», permette che professino liberamente le private opinioni, e
uniscansi nelle loro conventicole, purchè serbino rispetto alle leggi e
al governo stabilito.
L'opinione dianzi perseguitata, era ancor vilipesa, ma tollerata;
onde i confessori vennero schiusi dagli ergastoli e dalle miniere, gli
apostati tornavano a penitenza, i raminghi rivedevano le dolci case, e
nella pubblica professione della fede e del culto loro ricantavano il
Dio forte, il quale può dai sassi suscitare figliuoli d'Abramo.
Costantino doveva meritare il cognome di grande da chiunque sa far
merito a un principe di accettare le novità, mal fin allora combattute:
che se gli emuli suoi chiedevano il favor popolare col secondare i
Gentili, egli pensò appoggiarsi sui Cristiani, men numerosi ma pieni
di gioventù e della forza di chi viene a riformare, talchè poteasi
prevedere come nel loro movimento trascinerebbero l'inerzia pagana, e
resterebbero in piedi quando il gentilesimo andava a fasci.
Allora la santa letizia della libertà si diffuse in tutto l'impero;
dalle squallide catacombe sbucavano i sacerdoti a celebrare alla faccia
del mondo i riti della nuova alleanza; i vescovi solennizzavano memorie
di martiri, o dedicavano chiese; i letterati pubblicavano virtù fin
allora dissimulate; i fedeli, riconoscendosi fra loro, s'abbracciavano,
saldando la fratellanza colla cena della perpetua commemorazione.
Se non che al paganesimo rimanevano sostegno i sacerdoti,
l'aristocrazia, i corpi municipali che spesso aveano provocato
gl'imperatori alla persecuzione, i tanti magistrati e capitani. A Roma,
per memoria degli antichi auspizj e per lunga sequela di sacerdozj,
erano affezionate le persone di grado, e per consenso i liberti e
gli schiavi; essa veniva considerata come splendido centro della
religione; i riti, i giuochi, più che trastullo, v'erano l'occupazione
e il nutrimento del vulgo; d'ogni parte vi conveniva il fiore della
gioventù, che in quella sentina di tutte le superstizioni, come san
Girolamo la chiamava, bevea l'odio del nome cristiano ne' tempj, nei
teatri, nelle scuole. Era dunque assai che l'imperatore alla nuova
religione concedesse libertà pari all'antica, senza avventurarsi di
colpo ad un cambiamento che avrebbe sovvertito lo Stato[57]: onde
prepararvi gli animi, negligentò alcuni riti nazionali; non celebrò
i giuochi secolari nel 314; i Capitolini, cui avrebbe egli dovuto
presentarsi cinto dai pontefici e dal senato, a capo dell'esercito, non
impedì, ma volse in derisione[58].
Eppure doveano inorridire i Romani rugginosi nel vedere il successore
d'Augusto mettere a pari col pagano il culto pur dianzi proscritto;
esimere i sacerdoti di questo dalle funzioni municipali, come quei
del gentilesimo; proibire che la domenica si lavorasse, o che i
giudici e i corpi dello Stato s'occupassero di verun affare, salvo
che dell'emancipazione de' figli o degli schiavi. Ma Costantino non vi
facea mente: e allorchè si trovò senza colleghi nè emuli, proscrisse
i giuochi gladiatorj, le feste scandalose; chiuse tempj, tolse alle
Vestali e ai sacerdoti profani i privilegi, concedendoli invece al
clero e ai vescovi, alle cui sentenze diede forza quanto alle sue
medesime, sminuendo in tal modo l'autorità de' magistrati secolari;
largheggiò di beni e di denaro colle chiese[59]; sedeva ne' concilj,
disputava di teologia, metteva sugli edifizj pubblici la croce, alzava
il làbaro alla testa degli eserciti, e nel campo una cappella uffiziata
da Cristiani.
Ma non che indicesse guerra al paganesimo, conservava, come i suoi
predecessori, il titolo di sommo pontefice, e in tale qualità fece
decreti religiosi con titoli idolatrici; con immagini di numi si lasciò
scolpire sulle medaglie; poi quando morì, sagrifizj gli furono fatti
all'antica, ascrivendolo fra gli Dei. Tanto i Gentili erano lontani dal
credere ch'egli avesse soppiantato il culto nazionale, e dal prevedere
che non tarda il trionfo della verità, posta che sia a pari armi
coll'errore.
CAPITOLO XLVII.
Traslazione della sede imperiale a Costantinopoli. Costituzione del
Basso Impero.
Chi conosce quanta potenza sia inerente alla vista dei luoghi,
intenderà gli ostacoli che in Roma dovea trovar Costantino alla sua
deliberazione d'impiantare la nuova politica sopra una religione nuova.
Unico centro non aveva il politeismo, che, neppure col concedere a
tutti gli Dei l'ospitalità, caratteristica degl'istituti romani, giunse
mai all'unità: pure Roma, cominciando dal suo fondatore, racchiudeva
una serie di tradizioni gentilesche, colle quali andavano connesse
le sue vittorie, l'orgoglio de' suoi bei giorni; e sarebbesi detto
che Giove dalla rupe Capitolina minacciasse chiunque ne violava gli
altari, benchè fosse disposto a dividerne gli onori con qualsifosse dio
nuovo o rinnovato, da qualsifosse parte del mondo giungesse a Roma col
suo bagaglio di superstizioni. Fra le quali come poteva il buon seme
attecchire?
Ogni atto pubblico poi, giusta l'origine sacerdotale del governo
patrizio, era consacrato da cerimonie; e Costantino si stomacò de'
riti profani: popolo e patrizj si scandolezzarono o indispettirono di
vederlo vilipendere ciò che, non più per convinzione, ma per legalità
era sacro; ed egli, non che sbigottire, deliberò staccarsi da cotesta
genìa dirazzata e pretensiva. Il senato professava ancora che il
governo del mondo fosse privilegio d'una stirpe; laonde l'abbattere
le case senatorie, che parve il solo proposito comune a tutti gli
imperatori, venne ancor meno da frenesia di sangue che da gelosia
di dominio e da bisogno di rifornire l'erario colle pinguissime loro
fortune. Di tal passo rimase annichilata l'antica razza conquistatrice,
a segno che, sotto Gallieno, credeasi che delle famiglie patrizie
unica la Calfurnia sussistesse. Coll'accomunato diritto di cittadinanza
erasi surrogata una gente nuova; gl'imperatori da eunuchi e da liberti
sceglievano i confidenti ed i ministri, i quali costituivano nuove
famiglie, ricche e potenti: equavasi il diritto a vantaggio della plebe
e fin degli schiavi.
Ma anche scomparsi i discendenti degli Scipioni e degli Emilj,
la ricordanza d'altri tempi sopraviveva: il Romano, dovunque si
volgesse, incontrava d'altra natura memorie sull'Aventino, al Foro, in
Campidoglio, il sangue di Virginia, l'ombra de' Gracchi, il cipiglio
di Catone, il pugnale di Bruto; nel suo orgoglio arricciavasi dinanzi
a imperadori, stranieri alle gloriose sue rimembranze, impostigli
dall'esercito, e che stavano fuor di Roma gran tempo e fin tutta la
vita.
Sintanto che gli augusti risedevano nella metropoli, il popolo credeva
serbare ancora un residuo d'autorità quando sotto alle finestre del
palazzo o nel teatro, coll'applauso o col sibilo, approvava o disdiceva
un fatto, una legge; quando li vedeva accattare il suo favore con
largizioni, con giuochi. Ma le condiscendenze che gl'imperatori doveano
alla maestà del senato e alla famigliarità del popolo, repugnavano
ai nuovi ordinamenti, e a chi erasi abituato alla docile obbedienza
delle legioni e dei provinciali. Se ne emancipò Diocleziano piantando
altrove la residenza, e convertì la tenda militare in una corte di
despoto orientale, sopra l'elmo collocando il diadema: fra i sudditi e
l'imperante fu scavato l'abisso da che a questo più non accadea bisogno
di cattivarsi la plebe, nè venerare il senato, nè rispettare le patrie
costumanze, ma gli bastava abbagliare col fasto, imporre colla forza.
Alle provincie, avvezze a servire, non costava nulla il piegarsi
alla nuova politica, tanto più che ridondava tutta in loro vantaggio:
laonde Costantino stabilì rompere interamente col passato, mutando la
sede dell'impero in luogo che non avesse memorie da rinfacciare, riti
da adempiere, tombe da riverire. E scelse Bisanzio, che, sul limite
dell'Europa e dell'Asia, univa alla salubrità e all'incomparabile
bellezza l'opportunità di tener occhio sì agli irrompenti
Settentrionali, sì ai minacciosi Persiani. Rifabbricò dunque essa
città, intitolandola Costantinopoli (329), vi improvvisò
edifizj e vi trasferì la Corte[60]: la nuova capitale, per riverenza
all'antica, fu intitolata colonia e prima e prediletta figlia di Roma;
e a' suoi cittadini partecipato il diritto italico.
Ma il tempo ha un'irresistibile efficacia a fare divenir vere le cose e
repudiar le finzioni: e la nostra Roma, sebbene conservasse il primato
nominale, non fu più la metropoli del mondo; dietro all'imperatore
migrarono magistrati, cortigiani e la folla di coloro che voleano
vivere di largizioni, o vendere l'adulazione, o sfoggiar l'opulenza,
od esercitare le arti del lusso; tornarono verso Levante tanti capi
d'arte, che alla Grecia e all'Asia erano stati usurpati in dieci secoli
di vittorie.
Fu questa la terza trasformazione del potere di Roma; e qui noi ci
baderemo a dar conto dell'amministrazione civile e militare, cominciata
da Diocleziano, migliorata da Costantino, compita da' suoi successori,
e che durò per tutto quel che dicono Basso Impero.
Per tre secoli l'imperatore non era stato che comandante all'esercito,
nè l'autorità amministrativa esercitava altrimenti che arrogandosi
le varie magistrature con militare usurpazione. Augusto, fondato
il despotismo unicamente sulle armi e sulle finanze, avviava alla
monarchia collo spossare la democrazia: dal che derivò un potere
assoluto e precario, conturbato da frequenti rivoluzioni, causate non
più dalla plebe ma dalla soldatesca.
Alla sfrenatezza militare bisognava un rimedio, e lo applicò
Diocleziano coll'introdurre un'amministrazione che tutto facesse
dipendere da una volontà, da un impulso, da un sentimento; i poteri,
dianzi confusi e indeterminati, divenissero distinti e precisi; la
suddivisione di provincie, d'eserciti, di funzioni tenesse gli uni
subordinati agli altri, e tutti all'imperatore, causando il pericolo di
soverchio ingrandimento e di subitanee usurpazioni.
Scorgendo quale appoggio sia al trono l'aristocrazia, Costantino
all'antica ne surrogò una che non avesse diritti e memorie da tutelare,
ma dall'imperatore traesse e su lui riflettesse il proprio splendore.
Fu essa disposta in quattro ordini, i _chiarissimi_, i _rispettabili_,
gl'_illustri_, i _perfettissimi_, oltre i _nobilissimi_ membri della
famiglia imperiale. Titolo di Chiarissimi competeva ai senatori; a
quelli tra essi che sortivansi a governare una provincia, e a chi per
grado od uffizio si elevasse sopra gli altri, toccava del Rispettabile:
Illustri erano i consoli e patrizj, i prefetti al pretorio di Roma e
di Costantinopoli, i generali, i sette uffiziali del palazzo: dietro
a questi venivano i Perfettissimi. Mentre prima il Romano volgeva la
parola direttamente anche al capo dello Stato, allora più non parlò
che alla _sua maestà_; i magistrati primarj chiamava _serenità,
eccellenza, eminenza, gravità, sublime ed ammirabile grandezza,
illustre e magnifica altezza_; e l'usurpare un titolo indebito, anche
per ignoranza, dichiaravasi sacrilegio[61].
Le porzioni di sovranità, che tradizionalmente conservavano il popolo
e le magistrature curuli, cessarono, rimanendo unico padrone e signor
delle cose l'imperatore, unica fonte all'autorità de' magistrati[62].
Il senato, «consiglio sempiterno della repubblica dei popoli, delle
nazioni e dei re» (CICERONE), era soccombuto ai colpi replicati
degl'imperatori e alle proprie bassezze; e l'assemblea, che a Cinea
era sembrata un'accolta di re, allora spendeva lunghe adunanze in
recitare codardi vituperj agl'imperatori caduti, o codarde apoteosi
ai nuovi innalzati, e registrava ne' suoi atti quante volte fossero
stati ripetuti i viva e i riviva[63]. Se i primi imperatori offrivano
al senato in _lettere_ o _libelli_ od _orazioni_ il loro desiderio,
che dal consenso di esso acquistava forza di legge; i susseguenti
fecero di per sè _editti, rescritti, costituzioni_, le quali a
metà del III secolo aveano già vigor di legge; e i padri coscritti
trovaronsi ristretti a formolare in senatoconsulti le proposizioni
fatte dall'imperatore in materie legali, a riconoscere il nuovo
augusto, e morto decretargli altari o patibolo. Conservassero pure il
laticlavo, i calzari neri colla mezza luna d'argento, il posto distinto
agli spettacoli, la direzione d'alcune minuzie; ma ogni ingerenza
nel reggimento dell'impero, nella cura dell'erario, nel governo delle
provincie fu tolta loro da Diocleziano. Infine non furono più che un
consiglio municipale, di giurisdizione circoscritta quasi alle mura
della città, sicchè appena si trovava chi desiderasse appartenervi.
Per ciò, e per secondare lo spirito monarchico, quella dignità venne,
almeno in parte, ridotta ereditaria[64].
I consoli non più dal popolo e dal senato, ma erano eletti dal principe
per propria autorità[65]. Inaugurati erano là dove sedeva l'imperatore:
il primo gennajo, vestiti di porpora ricamata a seta ed oro, con ricche
gemme e col corteo dei primarj uffiziali di toga e di spada, preceduti
dai littori, andavano con gran maniere di letizia al fôro, ove
seduti sul tribunale d'avorio, esercitavano atto di giurisdizione col
manomettere uno schiavo; davano le feste che soleansi in Roma; i nomi
e le effigie loro su tavolette d'avorio si spargeano in dono al popolo,
alle città, alle provincie, ai magistrati. A ciò, e a dar nome all'anno
riducevasi l'uffizio dei consoli, vigliaccamente esultanti d'ottenere
un onore senza peso[66].
Il titolo di patrizio fu concesso a vita da Costantino ad alcuni
personaggi, appena inferiori ai consoli, e detti padri adottivi
dell'imperatore e della repubblica.
I prefetti al pretorio da Severo a Diocleziano erano primi ministri
dell'impero nell'amministrazione civile e militare: ma fiaccati, poi
tolti via i pretoriani, si trasformarono in magistrati civili. Erano
quattro, uno per l'Oriente, uno per l'Illirico, uno per le Gallie, uno
per l'Italia, al qual ultimo spettavano pure la Rezia fin al Danubio,
le isole del Mediterraneo, la provincia africana. Ammiano Marcellino,
storico di quel tempo, non esita a chiamarli imperatori di minor grado,
giacchè competeva ad essi l'amministrare le finanze e la giustizia,
il regolar la moneta, le strade, i granaj, il traffico e quanto
ha tratto alla pubblica prosperità; spiegare, estendere, talvolta
anche modificare gli editti generali; vigilare sui governanti delle
provincie, decidere supremamente delle cause di maggior rilievo.
Da essi rimanevano dissoggette Roma e Costantinopoli, dipendendo da un
prefetto ciascuna. Quel di Roma, istituzione d'Augusto, era assistito
da quindici uffiziali nel soprantendere alla sicurezza, abbondanza
e polizia della città, uno dei quali specialmente aveva in cura le
statue. Il prefetto trasse ben presto a sè le cause già attribuite ai
pretori; poi occupò nel senato il posto de' consoli, come presidente
ordinario; a lui si recavano gli appelli da cento miglia in giro; da
esso dipendeva l'autorità municipale.
Pel governo civile l'impero fu distribuito in tredici diocesi, le
quali poi suddivideansi in centosedici provincie; tre governate da
proconsoli, trentasette da consolari, cinque da correttori, settantuna
da presidi.
Quanto è specialmente dell'Italia, i successori d'Augusto s'erano
avvisati che il miglior mezzo a consolidare la loro tirannide fosse
il mozzar man mano i diritti alla penisola, nido dell'antica libertà
municipale privilegiata. Comodo estese a tutto il mondo ciò che era
stato speciale di Roma, poi dell'Italia: pure la penisola era rimasta
esente dal tributo. Ma quando Diocleziano la concesse al collega
Massimiano, non essendo più alimentata dalle contribuzioni altrui,
dovette sottoporsi ai pesi medesimi delle provincie, e più mai non ne
fu alleviata.
Col fondere Osci, Sabelli, Latini nella nazionalità romana si era
dato forza e vitalità allo Stato: ma sette secoli vi vollero perchè
l'Italia divenisse nazione, e solo col sistema di Costantino quel nome
espresse un'unità politica, anzi più propriamente significò le contrade
superiori, l'antica Gallia Cisalpina, i paesi una volta abitati da
Veneti, Liguri, Insubri.
Dal prefetto di Roma dipendeano dieci provincie, chiamate suburbicarie:
Campania, Etruria ed Umbria, Piceno suburbicario, Sicilia, Apulia,
Calabria, Lucania e Bruzio, Sannio, Sardegna e Corsica, Valeria. Dal
suo vicario, la Liguria, l'Emilia, il Piceno annonario e la Venezia,
dette provincie d'Italia, cui furono poi unite l'Istria, le alpi Cozie,
le due Rezie. In appresso la prefettura d'Italia venne divisa in due
diocesi, d'Italia e d'Africa. Nella diocesi d'Italia, l'Emilia fra
il Po e l'Appennino, la Liguria, la Venezia, il Piceno, la Flaminia
tra Modena e Rimini col litorale dell'antica Umbria, la Campania,
l'Etruria, la Sicilia erano governate da un consolare; da correttori
l'Etruria, l'Apulia, la Calabria, la Lucania, il Bruzio; da presidi il
Sannio, la Valeria, le alpi Marittime, Pennine e Graje, le due Rezie,
la Sardegna, la Corsica.
Proconsoli, correttori, presidi, erano varj d'attribuzioni; tutti però
amministravano e la giustizia e le finanze in dipendenza dai prefetti,
e per quanto al principe piacesse; infliggevano pene fin capitali; il
mitigarle era serbato ai prefetti, come pure il condannare all'esiglio.
Ponevasi attenzione che nessuno fosse natìo del paese che governava,
nè vi contraesse parentele, o comprasse schiavi e terre, volendo con
ciò ovviare gli abusi e le corruzioni; pure Costantino medesimo, poi i
successivi imperatori non rifinano di querelarsi che tutto si venda da
essi o da' loro ministri[67].
Ciascuna provincia formava un corpo politico, rappresentato
dall'assemblea generale, che una volta l'anno o per occasioni
straordinarie, concedente il prefetto del pretorio, radunavasi nel
capoluogo, intervenendovi gli onorati, i curiali e possessori liberi.
Questa dieta provinciale potea far decreti, spedire messi al principe,
anche malgrado del vicario, del preside o del prefetto al pretorio[68].
Si trasformano dunque i magistrati all'antica in impiegati alla
moderna, gli uffiziali della patria in servitori del principe. Sotto
i re, essi magistrati rimanevano sottoposti al capo dello Stato:
nella repubblica, ciascuno aveva un'autorità sovrana entro la sfera
d'attività a lui competente, e poteva fare opposizione al collega o
ai funzionarj inferiori, sempre esposto ad una responsalità reale
e terribile: or eccoli connessi in un'assoluta gerarchia. Nella
repubblica, ed anche sotto i primi imperatori, le insegne della dignità
accompagnavano il magistrato soltanto in uffizio; fuor di quello,
console, pretore, imperatore non avevano altro corteggio o servitù
che i liberti, i clienti, gli schiavi proprj: ma cogli innovamenti
di Diocleziano, il palazzo, la tavola, lo sfarzo, il numeroso codazzo
posero immensurabile distanza fra il monarca ed i sudditi.
Già prima il titolo di _onorato_ distingueva chi avesse sostenuta
alcuna dignità nell'impero, o cui il principe avesse concesso trionfi
od onorificenze: al perdersi delle altre distinzioni, tutti ambirono
questa, e l'imperatore la largì a chiunque prestasse alcun servizio
alla sua persona; merito più rilevante che il giovare allo Stato.
Pertanto gli uffizj dapprima affidati a schiavi, il tagliare avanti, il
servire alla coppa, fin le _prestazioni sordide_, erano ambite da gran
signori, non tanto per gli stipendj, quanto per le esenzioni ond'erano
privilegiate; perocchè gli Onorati restavano ascritti al senato senza
subirne i pesi, e dopo servito dieci o quindici anni, andavano sciolti
da ogni vincolo che per nascita li legasse alla curia o ad alcuna
corporazione. Per _codicilli onorarj_ poi si concedevano talvolta i
titoli a persone che mai non avevano servito, nè tampoco veduto il
principe, tanto per godere l'esenzione, od almeno usar le insegne della
nominale dignità.
A fianco dell'imperatore stavano sette uffiziali, consiglieri privati,
e custodi della persona, della casa, del tesoro. Un eunuco, gran
ciambellano (_præfectus sacri cubiculi_), mai non distaccavasi dal
principe, fosse agli affari o alle ricreazioni, prestandogli i più
umili servigi, e avendo così mille occasioni d'insinuarsegli nelle
grazie e di regolarne i favori. Da quello dipendevano i Conti della
mensa e della guardaroba. Il maestro degli uffizj, ministro di Stato,
dirigeva gli affari pubblici, e nessun richiamo di suddito giungeva al
principe se non attraverso a quattro uffizj, uno dei quali riceveva
i memoriali, l'altro le lettere, il terzo le domande, il quarto la
corrispondenza varia. Davano spaccio agli esibiti cenquarantotto
segretarj, per lo più legali, e preseduti da quattro maestri.
Al maestro degli uffizj sottostavano alcune centinaja di messaggeri,
che, col favore delle buone strade e delle poste, dalla capitale
fin alle provincie estreme recavano gli editti, le vittorie
degl'imperatori, il nome de' consoli; e che acquistarono importanza
col riferire quanto raccogliessero sulle condizioni del paese e sui
portamenti de' magistrati e de' cittadini. Crebbero costoro fin a
diecimila, a proporzione della debolezza della corte o del timore di
ribellioni; e divennero gravosi al popolo pel modo con cui esigevano il
servizio delle poste, e perchè favorivano o perseguitavano (stile dei
delatori) chi sapeva o no tenerseli amici.
Divenuta imperiale la podestà, tolta l'aristocrazia delle famiglie,
accomunata la cittadinanza, cambiasi pure la procedura giudiziale:
non occorrono più magistrati patrizj che dicano il diritto; senatori,
cavalieri, plebe non lottano più per essere ammessi nella lista de'
giudici; non più le decurie sono annualmente elette nel fôro ed esposte
al pubblico: nè il cliente sceglie il magistrato, nè i cittadini
il giudice sopra la lista annuale. La giustizia emana dal trono:
il rettore di ciascuna provincia o il vicario suo; il prefetto del
pretorio in appello come rappresentante dell'imperatore; l'imperatore
- Parts
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