Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 07

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— Onora sempre e dappertutto la divinità secondo le leggi e gli usi
aviti, e costringi gli altri a farlo. Quelli che introducono alcun
che di stranio nel culto, detesta e punisci, non solo per riguardo
agli Dei, ma perchè questi novatori trascinano molti cittadini ad
alterare i costumi, donde vengono congiure, intelligenze, associazioni
pericolose»[30]. Le assemblee erano vietate, anche quando tendessero
a pubblica utilità; e tanto più sedi scopo religioso. I giureconsulti
«custodi delle divine ed umane cose» pronunziavano doversi conservare
ad ogni costo il culto avito, e Ulpiano radunò tutte le leggi in
proposito[31]. Ben è vero che ai numi patrj e ai greci si erano
aggiunti ora l'Iside egizia, ora il Mitra persiano, poco importando al
politeismo che gli Dei fossero venti o cento, anzi alla costituzione
essendo consono l'adottare gli Dei stranieri, ed alla politica
l'assimilarsi i vinti coll'accettarne le credenze. Ma tutt'altrimenti
andava il caso con una religione che ogn'altra escludeva, che diceasi
universale, e destinata a fabbricare il suo tempio colle macerie delle
nemiche.
La tirannia fin allora aveva colpito gli uomini nel corpo, ne' beni,
nella vita, non s'era rivolta all'anima, al pensiero, mai non avendoli
incontrati sulla sua via. Era la prima volta che desse di cozzo in
una fede seria, profonda, pronta ad obbedire finchè le si chiedessero
gli averi e il sangue, ma risoluta a resistere quando n'andassero di
mezzo la credenza o il dovere: in quella gara di farsi vili al pie' di
vili regnanti, insegnano che l'uomo è soltanto di Dio[32]; quanto ai
dogmi ed all'esercizio di loro religione, non conoscono superiorità
terrena; adoprano sincerità e pazienza, non forza o scaltrezze, non
calare a transazioni, non guadagnar tempo; persuasi che tutte le cose
visibili sono un nulla a petto delle arcane, che l'unico bene consiste
nell'accettar la croce, l'unico male nel peccato, e che la follia
del Calvario trionferebbe dell'ostinazione d'Israele e della superbia
di Roma: gl'imperatori o i proconsoli vogliono forzarli? se deboli,
fuggono; se no, soffrono, non piegano: contro la barbarie raddoppiasi
la loro costanza, la quale diventa ad altri eccitamento, sicchè «il
sangue è semenza di Cristiani».
Pure cotesti settarj dal loro Cristo aveano imparato a rispettare la
potestà; sotto imperatori che disonoravano la natura, i loro dottori
gli esortavano alla docilità, non essendo ancora in tal numero che
bastassero a rappresentare un voto nazionale e mutare un reggimento.
San Vittore interrogato da un prefetto, risponde: — Nulla ho fatto
contro l'onore o gl'interessi dell'imperatore o della repubblica; non
ricusai di assumere la difesa ove il dovere me l'imponeva; ogni giorno
offro il sacrifizio per la salute di cesare e dell'impero; ogni giorno
in favore della repubblica immolo vittima spirituale al mio Dio».
Perocchè il cristianesimo, improntato della universalità, attributo
incomunicabile delle soluzioni divine, collocò la religione ben
disopra alla parte contingente e variabile della società, fermandola
nell'essenziale e permanente, sicchè l'uomo, in qualunque clima e
qualunque governo, possa operare il perfezionamento proprio e meritarsi
il cielo; sotto principi crudeli e scostumati non si ribella alla
società, da' cui peccati rifugge; non pretende sovvertirla, ma cerca
emendarla; combatte i vizj del secolo, ma senza staccarsi da esso.
Pertanto i Cristiani, ignorati o tollerati, erano cresciuti. I padroni
degli schiavi s'accorgeano d'un mutamento, non cominciato dalle
sublimi, ma dalle infime parti della società: alcuni sofisti tolsero
a sillogizzare sopra quelle credenze: i sacerdoti vedeano diradarsi
i tempj, sminuire le offerte. Allora, aperti gli occhi, si conobbe
che costoro, nati appena jeri, già empivano i fòri, i tribunali,
le legioni; senz'armi, senza difesa, negavano obbedienza ad ordini
così semplici, quali pareano il bruciare un grano d'incenso sull'ara
di un dio o d'un imperatore; e piuttosto accontentavansi di morire.
Alla romana legalità, che faceva delitto il contrariare un decreto
qualunque, come doveva movere sdegno questa inobbedienza! Gli statisti,
che sentivano non poter più Roma prosperare dacchè era spoglia di
morale ed abbandonata ai baccanali della forza, sapevano però che nel
cadavere d'un grande Stato le istituzioni antiche conservano una vita
galvanica, perchè e l'aristocrazia si ricorda qual fu, e l'esercito
è abituato ad una certa disciplina, e il popolo ad un'amministrazione
qual ella sia, e nel principe si concentrano la forza e l'opinione. Di
qui la tenacità alle forme vetuste, che è propria de' dominj deboli; di
qui l'odio dei politici contro il cristianesimo.
Sopragiungevano intanto sempre nuove traversie; peste, tremuoti, fame,
correrie di Barbari: e i Cristiani predicavano, — Sono avvisi del
cielo; Roma e il mondo, sommersi in un mare di vizj, meritano questi e
peggiori castighi». Fremeano i Gentili a tal voce, quasi desiderassero
o si compiacessero de' mali di cui adducevano la ragione: i politici
si confermavano nel crederli avversi allo Stato: i religiosi pensavano
che le costoro bestemmie irritassero gli Dei, i quali, destri un tempo
agl'incrementi di Roma, lasciavanla allora sfasciarsi. Adunque ne si
plachi la collera col sagrificare i loro nemici; il Cristiano, pel
solo suo nome, sia considerato «nemico de' numi, degl'imperatori, delle
leggi, de' costumi, di tutta la natura»[33].
Derivavano dunque dalla legalità romana le persecuzioni, che quella
civiltà ci presentano in un aspetto differente assai dal classico;
quistione politica più che religiosa, dove, poco curando la dottrina,
punivasi la disobbedienza; e dove gl'imperatori buoni, cioè ispirati
dall'antico genio romano, imperversarono più che non i malvagi, quali
Comodo od Elagabalo.
La Chiesa noverò le sue vittorie dal numero delle sue tribolazioni.
Sotto Nerone vedemmo la prima volta perseguitati i Cristiani, e non
pare fosse soltanto per dare una soddisfazione al popolo, nè che si
limitasse a Roma[34]. Domiziano, quando voleva rifabbricare il Giove
Capitolino, tassò gli Ebrei un tanto per testa; e i Cristiani, compresi
sotto quel nome, non volendo a verun patto contribuire per idolatrie,
ne nacque nuova persecuzione, in cui caddero Flavio Clemente, cugino
dell'imperatore e collega di lui nel consolato, colla moglie e la
nipote Domitilla. Il cristianesimo era già dunque arrivato ai limitari
della reggia.
Plinio Cecilio (t. III, p. 339), stando proconsole della Bitinia
e del Ponto, sentì contrasto fra il dovere d'eseguir la legge che
condannava i Cristiani, e la coscienza propria che glieli mostrava
incolpevoli; laonde interpellò l'imperatore Trajano come comportarsi,
e se fossero a punire indistintamente giovani e vecchi, se perdonare
a chi si pentiva. — Gl'interrogai (soggiunge) se fossero cristiani;
e quei che confessarono, escussi due o tre fiate con minaccia del
supplizio se perseveravano, gli ho condannati, giacchè meritano
castigo la disobbedienza e l'ostinazione. Alcuni denunziati negarono;
altri dissero aver cessato d'essere cristiani, ed affermavano che
tutto il loro errore o delitto consisteva nell'adunarsi un giorno
prefisso avanti l'alba e avvicendare inni a Cristo come fosse dio; si
obbligavano con giuramento di non commetter furto, adulterio od altro
misfatto, nè negare il deposito; poi raccoglievansi a mensa comune,
innocente. Credetti bene chiarir la verità col mettere alla tortura
due giovani schiave che diceansi addette ai ministerj di quel culto:
non vi ho scoperto che una superstizione trasmodata, laonde ho sospeso
tutto, aspettando tuoi ordini. Gran numero di persone d'ogni sesso e
grado sono e saranno comprese in tale accusa, poichè questo contagio
non ha soltanto infette le città, ma si è dilatato pei villaggi e le
campagne».
L'imperatore, rispondendo, collauda l'operato del suo ministro,
ma essere impossibile stabilir regola certa e generale in cause di
questa natura. — Non bisogna fare indagini; ma se accusati e convinti,
punirli; se l'imputato nega d'esser cristiano, gli si perdoni».
Strana rivelazione del contrasto fra la legalità e la giustizia!
Il proconsole, uomo onesto, non trova rei questi settarj se non del
nome, pure non domanda che siano salvati, sibbene con qual misura deva
castigarli; e li mette al tormento per iscoprirne delitti, di cui non
sono accusati. L'imperatore, un de' migliori, anch'egli tentenna fra il
proprio sentimento e la ferrea rigidezza delle leggi! E come! la legge
è tanto vaga che i prudenti stessi non sanno come interpretarla, e può
essere sospesa non solo dall'imperatore, ma fin dal proconsole: eppure
a' dubbj di questo l'imperatore non risponde se non che ha fatto bene.
Se sono colpevoli, perchè declinare l'indagine? perchè assolverli sulla
semplice negativa? Se innocenti, perchè punirli di confessare ciò che
non è colpa? Che legislazione è cotesta dove si castiga non un fatto,
ma un sentimento? Qual sanguinoso testimonio del niun conto che gli
antichi faceano della vita dei loro simili![35]
Che se tanto lasciavasi all'arbitrio de' tribunali, e sotto un Plinio
ed un Trajano, che doveva essere delle assemblee tumultuarie, quando
la plebe, nei giorni devoti agli Dei o fra la sanguinaria ebbrezza
dell'anfiteatro, chiamava a gran voci, — I Cristiani alle fiamme, alle
fiere?» Editti d'Adriano e d'Antonino vietarono di far fondamento
sulla semplice diceria per condannarli: ma che, se i rei medesimi
confessavano, anzi gloriavansi? Come doveva inviperire l'orgoglio
degli imperatori o de' loro ministri allorchè vedeano un fanciullo,
una donna, un oscuro cittadino confessare apertamente il delitto
apposto; e a lusinghe, a promesse, a minaccie resistendo, ricusare non
un delitto, ma l'atto il più semplice del culto nazionale, un granello
d'incenso al dio Giove o al dio Antinoo! Li straziavano allora colla
tortura, non per istrapparne la confessione del delitto, ma acciocchè
il negassero; oppure mettevano a lubriche prove la continenza dei
giovani e la castità delle vergini; e infelloniti dalla resistenza, gli
abbandonavano a' manigoldi e al vulgo, in cui la ferocia, innestata
dall'abitudine de' supplizj e de' giuochi circesi, veniva esasperata
dal fanatismo.
Talvolta governatori umani respingevano le accuse, o con sotterfugi
salvavano gl'imputati; talvolta li cacciavano solamente a confine:
ma altri li chiudevano negli ergastoli e nelle miniere, oppure
esercitavano su loro l'esacerbazione che permetteva la legge,
iniquissima perchè indeterminata. Alla prova soccombevano? riportavano
applausi dai Pagani, orrore e compassione dai Cristiani. Chi subisse
generoso i tormenti, restava in venerazione: i fedeli baciavano le
catene portate e le cicatrici rimaste; pei morti istituivano annue
commemorazioni; e il sangue e le ossa, raccolte studiosamente, venivano
poste sotto gli altari che servivano di mensa al viatico di quelli che
si professavano pronti ad imitarli, e che in impeto generoso ambivano
il martirio fin a denunziarsi da se stessi, a sturbare a bella posta
i riti idolatrici, a ricusare la clemenza, e negli anfiteatri provocar
l'ira delle fiere e de' manigoldi[36].
A malgrado degli scrupoli di Trajano, consta che sotto di esso molti
subirono il martirio. Clemente papa fu sbandito dalla sua sede.
Ignazio, vescovo d'Antiochia, fu da quell'imperatore mandato a Roma,
perchè vi fosse ucciso: sul viaggio dell'intrepido confessore di Cristo
accorreano vescovi, diaconi, fedeli; in Roma tanti mostravano interesse
per lui, ch'egli temeva riuscissero a camparlo dal martirio; ma come vi
si seppe destinato, coi fedeli pregò il Figliuol di Dio per le Chiese,
per la carità fra' Cristiani, per la cessazione delle persecuzioni:
esposto nell'anfiteatro alle fiere nelle feste Sigillarie, mentre i
Gentili applaudivano ai leoni che lo sbranavano, i fedeli pregavano per
esso, e ne davano avviso ai fratelli d'ogni paese, affinchè quel giorno
tenessero in perpetuo solenne.
Adriano, spinto al sangue da zelo per le superstizioni e la magìa,
e da odio per gli Ebrei, ordinò processure, nelle quali caddero i
papi Alessandro, Sisto e Telesforo. Fabbricata la villa di Tivoli,
cominciò magnifici sacrifizj per dedicarla: ma che? le vittime, gli
auspizj, gli augurj uscivano a vuoto o in sinistro. Interrogati con
più vigorose evocazioni, gli Dei risposero: — Come renderemmo oracoli,
se ogni giorno Sinforosa co' suoi sette figli ci oltraggia, invocando
il suo Dio?» L'imperatore ebbe a sè costei, che richiesta dell'esser
suo, rispose: — Mio marito Getulio, con Amanzio fratel suo, tribuni
militari, patirono per Gesù Cristo, ed anzichè immolare agli Dei,
lasciaronsi recidere il capo, acquistando infamia in terra e gloria
fra gli angeli». E intimandole l'imperatore, — Tu sagrificherai agli
Dei, o sarai a loro sagrificata», non esitò nella scelta, anelando
di ricongiungersi collo sposo. L'imperatore dunque la fece condurre
nel tempio d'Ercole, quivi schiaffeggiare, sospendere pei capelli, e
durando pur ferma, gettare nelle cascatelle, memori delle voluttuose
canzoni d'Orazio. I figliuoli ne imitarono la costanza.
Era Aglae una romana tanto ricca, che tre volte diede i pubblici
spettacoli; amministravano le sue entrate settantatre agenti, ai
quali soprantendeva Bonifazio, uomo ospitale e largo coi poveri,
ma licenzioso, e che con essa viveva in peccato. Avuto da Aglae
commissione di andare in Oriente, e recare reliquie di martiri, per
cui intercessione ottenere perdonanza, egli partì con dodici cavalli,
tre lettighe e molti profumi; e per via cominciò a pensare seriamente
ad un'opera assunta con leggerezza, e ad orare e far astinenza. Giunto
a Tarso, vide il martirio d'alcuni Cristiani, e preso dalla costoro
fermezza, li pregò che per lui pregassero; sicchè il governatore
fece esporre lui pure ad ogni peggior tormento, che egli comportò
pazientissimo in ammenda del passato. Aglae, avvertita del martirio
dell'amante, ne ricomprò il cadavere a molto prezzo, e ritornata allo
spirito, diede ogni aver suo ai poveri, e con poche donzelle si ritirò
dal mondo.
Cecilia romana, obbligata contro voglia al matrimonio, converte il
marito, il cognato e altri, ed è condannata a perdere gli occhi da un
governatore cui troppo erano piaciuti. Maria, schiava d'un Tertullo
senatore romano, sola della casa adorava Cristo, ed era tollerata
per la fedeltà e l'esatto servire. Sopragiunta la persecuzione di
Diocleziano, il padrone, per non essere costretto a denunziarla e
così perderla, la fa battere a verghe onde muti fede, e sepellire in
carcere, ma senza smoverla. Il giudice, informatone, la volle a sè, la
fece martorare tanto che il popolo incompassionito volle si cessassero
i tormenti. Il giudice la diede allora in custodia ad un soldato,
ed essa temendo per la sua onestà, fuggì tra i monti, ove finì poi
santamente[37].
Molte altre donne col santo eroismo assicuravano la libertà della
femmina, e ricompravano dall'obbrobriosa servitù il loro sesso,
elevandolo alla dignità della donna cristiana. Così la bellezza
domava la forza, la morte intimoriva i viventi, e la fede trionfava
dell'orgoglio.
Que' Romani che non voleano stordirsi sull'avvilimento della patria, si
compiacevano nel rimembrare gli Scevola, i Bruti, i Catoni, prodighi
delle grand'anime per una libertà, che sembrava più bella dacchè
perduta; e nel segreto vantavano i pochi che ancora gl'imitassero o
li contraffacessero resistendo ai cesari e affrontando la morte. Or
eccoti una setta che proclama la libertà; non la libertà che rinnega
l'ordine e che si acquista per sommosse, ma che rifiuta qualsivoglia
restrizione alla coscienza, e per la quale cotesti Galilei sanno, non
darsi la morte, ma intrepidi aspettarla[38]. Ma gli eroi, sublimando la
passione umana, operavano cose straordinarie per l'acquisto di gloria:
i santi, rinunziato ad ogni passione, senza calcolare le proprie forze,
inermi ma intrepidi affrontavano le potestà umane e le infernali, nulla
curando della lode, e la volontà propria rimettendo affatto a Dio.
Vero è che i Romani erano avvezzi a quotidiani supplizj, a conflitti di
gladiatori, a battaglie nella città o sui campi, a stoici suicidj: ma
coloro o lasciavano la vita costretti, o la gittavano come un carico
importabile, al più la deponevano con indifferenza, come cosa che
saziò. Ne' Cristiani, all'incontro, fanciulli «che non distinguono la
destra dalla sinistra», vecchi, donne, morivano non coll'orgogliosa
dignità delle scuole, ma con semplicità; non per erudizione di
dottrine morte, ma per le parole della vita; non per se stessi, ma pel
genere umano: fra supplizj squisiti non metteano lamento, gioivano,
perdonavano. «Il vulgo (dice Lattanzio) vedendo le persone lacerate
con varj tormenti, e mentre i carnefici si stancano, esse durare
nella pazienza, fa giudizio che non sia vanità questa perseveranza
dei morenti, e che senza Dio non potrebbero sopportarsi tanti spasimi.
Masnadieri, persone robustissime non reggono a pari torture, gemono,
urlano, soccombono al dolore, perchè vi manca l'ispirata pazienza. I
nostri, non che uomini, ma fanciulli e donnicciuole, tacendo vincono i
loro tormentatori, nè il fuoco stesso può strappar ad essi un gemito;
il sesso debole, la fragile età soffrono d'essere sbranati a membro
a membro, e non per necessità, giacchè potrebbero evitarlo, ma per
volontà, giacchè confidano in Dio»[39].
L'antica società facea dunque il suo dovere, e il suo la nuova; i
Cristiani subiscono la pena di morte, ma la dichiarano iniqua; si
crederebbero contaminati pur dalla vista d'un supplizio, e interdicono
il sacerdozio a chi uccise od esercitò diritto di sangue[40];
sublimando per tal guisa il carattere dell'uomo, non più soltanto
quand'è ravvolto nella toga senatoria o nel mantello filosofico, o
decorato dell'anello equestre, ma anche povero, ignorante, nudo, perfin
colpevole; è uomo, e basta. Questa tacita ma costante resistenza rivelò
la vigoria del cristianesimo.
Ai propagatori del vero più che le persecuzioni e la morte pesano
la calunnia o la noncuranza; e queste porsero nuovo esercizio alla
pazienza de' primi Cristiani. Giovenale descrisse uno dei loro supplizj
coll'indifferenza d'un franco pensatore al cospetto di fanatici[41];
Tacito confuse questa _setta odiosa_ colle tante che infestavano Roma,
cloaca di tutte le immondezze[42]; Plinio giuniore non può crederli
rei, eppure li punisce; Plinio maggiore, Plutarco, Quintiliano nè
tampoco li nominano; nè la lunga storia di Dione Cassio, nè quasi la
più ampia _Storia Augusta_; il satirico Luciano ne fa assurde celie; i
dotti gli accusano di predicare a donne, fanciulli, schiavi, evitando
di scontrarsi con pensatori.
Ma intanto la parola, soffocata o derisa, echeggiava da mille parti;
e già penetrava nelle scuole, sostenuta con eloquenti scritture
e incalzanti argomentazioni; nè più fu lecito alle persone colte
ignorarla quando veniva a provocar l'esame e chiedere giustizia. Alcuni
autori vi attingevano verità dapprima ignote, sicchè qualcosa di più
puro ed elevato inserivano in libri di fondo pagano. Singolarmente
in Seneca, fra tante debolezze e vanità, s'incontrano rudimenti di
precetti e persino frasi, che accertano avesse cognizione de' libri
cristiani, anzi alcuno disse amicizia con san Paolo[43]. Il suo non
è più il Dio cieco ed impotente degli Stoici, ma uno incorporeo,
indipendente, che è sua propria necessità, e che prima di far il
mondo lo pensò[44]; abita in cuor dell'uomo virtuoso[45], vuol essere
amato[46] perchè ci ama; noi siamo socj e membri suoi[47]: la maestà
degli Dei è nulla senza la loro bontà: la Provvidenza governa il mondo,
non da madre cieca, ma da padre prudente, laonde obbedire a Dio è
libertà[48]: supremo bene è il possedere un'anima retta e una lucida
intelligenza. Romano, egli seppe compassionar l'uomo esposto alle belve
e agli stocchi dell'anfiteatro. — Voi dite, egli commise un delitto e
merita morte. Sia; ma voi, qual delitto avete voi commesso per meritare
d'essere spettatori del suo supplizio?»[49] Proclamò che «il divino
spirito appartiene allo schiavo come al patrizio; schiavo, liberto,
cavaliere, son parole inventate dalla vanità o dal dispregio; la virtù
non esclude veruno; ognuno è nobile perchè discende da Dio. Non li
chiamare schiavi, ma uomini, ma commensali, ma men nobili amici, ma
consorti di schiavitù, giacchè la fortuna ha su noi i medesimi diritti
come su loro. Quel che tu dici schiavo, viene dal ceppo stesso che
tu. Consultalo, ammettilo a' tuoi colloquj, a' tuoi pasti; non voler
essergli formidabile, e ti basti quel che basta a Dio, rispetto e
amore»[50].
Per verità le azioni sue furono poco cristiane, ma certo egli
migliorò sul fine di sua vita: le lettere a Lucilio tengono più
del serio; nella sesta accenna ad un cambiamento avvenuto in lui,
ad una trasfigurazione; gli manda libri dove ha segnato i passi
più degni d'approvazione e ammirazione. Pure nelle lettere stesse
colloca il saggio più in alto che Dio, esalta il suicidio, dubita
dell'immortalità, e affatto da gentile fu la sua morte; onde
possiam conchiudere con Erasmo: — Se si legga come pagano, scrisse
cristianamente; se come cristiano, scrisse gentilesco».
Ma la sapienza, che in lui e in altri moralisti s'incontra a frammenti
e tra contraddizioni, veniva insegnata nella sua pienezza dai santi
Padri, e col carattere dell'universalità. Quella manifestazione di
Dio rendeva inescusabile il paganesimo[51]; quella fede indomita a
terrori e lusinghe, quelle virtù più che umane infondeano nel mondo
uno spirito nuovo; sicchè la Chiesa, poc'anzi appena sperante, si
estende trionfatrice, e s'accinge a riformare la società con nuovo
sistema di credenze e di morale. Chè, sebbene il cristianesimo non
tendesse a cambiar le relazioni e la condizione esterna dell'uomo,
dichiarasse anzi non voler portare la mano all'edifizio della società,
e rispettasse le grandi ingiustizie d'allora, la tirannide, la
schiavitù, la guerra, pure sin da' primordj si mostrò fruttuosissimo
al civile progresso. Non cambiando la società, bensì il modo
d'apprezzarla; non togliendo i patimenti, ma trasformandoli in meriti;
non mirando a riformare il popolo per mezzo dei governi, ma questi per
mezzo di quello, migliorava la morale e gl'intelletti, incivilimento
importantissimo giacchè intimamente connesso col civile. Ove dominavano
l'anarchia, l'empietà, la dissolutezza, l'egoismo, eccolo sostituire
un gerarchico ordinamento, la fede, la santità, l'amor generoso ed
universale. Il potere, anche mentre restringe e comprime la spirituale
società, ne prova il virtuoso ascendente: i giureconsulti, meditando
sulla lettera tenace delle leggi, sentonsi da un'aura diversa lor
malgrado ispirati: nella costituzione, ove tutto possono l'esercito
e l'imperatore, appare un esempio delle due supreme garanzie della
libertà, l'elezione e il dibattimento: si sciolgono gli uomini dalle
leggi umane arbitrarie, per sottometterli alla legge razionale e
divina[52].
Tali benefizj non furono allora intesi dai forti nè dai savj; e quelli,
indispettiti e meravigliati del trovar gente che, contro il volere
imperiale, sostenesse l'indipendenza delle proprie convinzioni, tolsero
a perseguitarla, dapprima per antipatia, senz'ira, senza timore, fin
senza fanatismo, per secondare il gusto che il popolo prendeva ai
supplizj; poi per un deliberato proposito di sterminarla.
Sotto gli Antonini, che erano la stessa bontà, come dice il dabben
Muratori; che erano i migliori de' principi e i migliori degli uomini,
come dice il retorico Gibbon, non mancarono martiri. Pare che del
loro tempo venisse a Roma Luciano, nativo di Samosata in Asia, il
quale per l'universale ironia ben fu paragonato a Voltaire. Ricco di
cognizioni, potente di stile, arguto di riso, fece una trista pittura
de' costumi romani, poi volse in beffa tutto quanto si credeva e
venerava, il potere come il sapere, le religioni come la filosofia;
gli Dei perseguita con frizzi che doveano sconficcarli non meno dei
ragionamenti, e attesta che nè gl'intelletti serj nè gli arguti più
non vi prestavano fede o rispetto; e se ancora se ne frequentavano gli
altari, più non era se non per convenienza sociale.
Marc'Aurelio fra tante virtù non ebbe quella di resistere ai filosofi
che l'accannivano contro i Cristiani; e come rei di attentare alla
religione dello Stato, e nutrire spiriti avversi alla pubblica cosa,
li perseguitò o lasciolli perseguitare, finchè, dicono, il riferito
miracolo della legione fulminante sospese le stragi. Risparmiata sotto
Comodo e i successivi, si dilatò la credenza nostra. Se n'adombrò
Settimio Severo sul finire del regno, e confondendoli cogl'irrequieti
Ebrei, promulgò un editto contro i nuovi proseliti, ma che facilmente
si estendeva anche agli altri, e massime a quelli che andavano a
convertire: onde la persecuzione cominciata in Egitto, si propagò pel
resto dell'impero.
È ingagliardita assai un'opinione quando la parte che può opprimerla a
forza, sentesi tratta a combatterla con argomenti. Trasferita che fu
la quistione nel campo della parola, i Cristiani poterono accettare
quella battaglia, per la quale, più che per pacifiche comunicazioni,
si propaga la verità. Adunque, mentre i martiri col sangue, altri
coll'ingegno difesero la verità in una serie di apologie, dirette
le più agl'imperatori onde distorli dalla persecuzione coll'esporre
la morale e i dogmi cristiani. Le più rinomate sono quelle che san
Giustino samaritano indirizzò ad Antonino e Lucio Vero, al senato e al
popolo romano, poi a Marc'Aurelio, lagnandosi che, dove si tolleravano
tante assurde religioni, soli i Cristiani venissero perseguitati, essi
tanto meglio costumati che i Gentili, e che con orribili torture si
estorcessero confessioni di colpe bugiarde.
Tertulliano cartaginese, il più eloquente padre in lingua latina,
commentando l'accennata lettera di Trajano a Plinio[53], mostrava
quale ingiustizia fosse il punirli pel solo nome, togliere ad essi la
difesa e gli avvocati che a nessun reo si negano, nè appurare i delitti
confessati, la qualità, il tempo, il modo, i complici. All'illegalità
delle processure aggiunge la sconvenienza di castigare tante persone,
e — Che farete delle migliaja d'uomini, di donne, d'ogni età e
condizione, che presentano le braccia alle vostre catene? di quanti
roghi, di quante spade non avrete bisogno? Ci si accusa di mangiar
fanciulli. Come! bensì in Africa durò l'uso d'immolarne a Saturno, fin
quando Tiberio non fece crocifiggere i sagrificatori agli alberi che
ombreggiavano il tempio. Ma se l'uso pubblicamente è cessato, praticasi
ancora in segreto: uomini si scannano a Mercurio dai Galli; sangue
umano versasi in Roma stessa per onore di Giove; mentre noi Cristiani
ci asteniamo perfino dal gustare qualunque sangue[54]. Ci calunniano
di lesa maestà: ma sebbene i Cristiani non manifestino la devozione
con giuramenti e bagordi, pregano il Dio vero acciocchè all'imperatore
conceda lunga vita, regno riposato, sicurezza nei palazzi, valor nelle
truppe, fedeltà nel senato, probità nel popolo, pace in tutto il mondo.
Coloro che più profondono di tali testimonianze agl'imperatori, gli
sono i meno fedeli e meglio disposti alla ribellione: al contrario i
Cristiani perseguitati obbediscono; e quand'anche il popolo previene
gli ordini supremi per ucciderli, e viola perfino i cadaveri, essi
non pensano alla vendetta... Dilaga il Tevere? non dilaga il Nilo?
difettasi d'acqua? trema la terra? gittasi una carestia, una peste?
tosto si esclama, _I Cristiani ai leoni._ Simili sventure non venivano
esse anche prima di Cristo? e sono effetti dello sdegno di Dio contro
gli uomini colpevoli e ingrati. Intanto, quando il seccore fa temere
di sterilità, voi sacrificate a Giove, frequentando i bagni, le
osterie, i postriboli; noi cerchiamo placare il Cielo colla continenza,
colla frugalità, con digiuni, col coprirci di sacco e di cenere; e
ottenuta misericordia, ne diamo onore a Dio. Ma queste sciagure non ci
scompongono, nè in questo mondo altro desiderio abbiamo che di partirne
il più presto possibile».
Così la Chiesa dogmatizzava e disputava, soffriva e protestava;
venerava i martiri, ma facea sentir le ragioni ai popoli ed agli
imperatori.
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