Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 06
avvocati, letterati; affidava i giudizj a guerrieri, digiuni delle
leggi: ma ulceri vergognose e schifosi insetti il consumarono, senza
che trovasse ristoro o nei medici che spesso mandava a morte, o nei
voti moltiplicati ad Apollo e ad Esculapio. Credendosi castigato dal
cielo per la persecuzione contro i Cristiani, la sospese con un editto
in nome suo, di Licinio e di Costantino, e poco stante morì (311).
Massimino volò dall'Oriente per occuparne le provincie, volò
Licinio a contrastarlo; poi scesero ad accordi, statuendo per confine
l'Ellesponto e il Bosforo di Tracia. Accordo di nemici, poichè le due
rive stettero irte d'armi, e Licinio cercò l'alleanza di Costantino,
Massimino quella di Massenzio, e guatavansi con terribile aspettazione
dei popoli.
Massenzio tiranneggiava l'Italia smungendola con pazze prodigalità;
dai senatori esigeva spontanei donativi in moltiplicate occasioni;
pel minimo sospetto sfogava il rancore contro di questi, mentre
colla seduzione o la violenza ne disonorava le mogli e le figliuole.
Costrinse il governatore della città a cedergli Sofronia sua sposa: ma
questa, cristiana e virtuosa, chiese tempo per addobbarsi; e orato, si
uccise. Lasciava che i soldati lo imitassero, saccheggiando, uccidendo,
lascivendo; talora ad alcuno concedeva la villa, ad altri la donna d'un
senatore; mentr'egli nel voluttuoso palazzo, gittando magìa e indagando
l'avvenire nelle viscere di femmine e di fanciulli, vantavasi d'esser
unico imperatore, gli altri sostener solo le sue veci. Il contrasto
dava spicco alla felicità delle provincie soggette a Costantino,
assicurate dai Barbari, e meno esauste dagli ingordi tributi.
Udendo questi che Massenzio radunava gagliardo esercito per torgli
l'impero col pretesto di vendicare il padre, lo prevenne e mosse verso
Italia, sollecitato dal popolo e dal senato a redimere l'antica regina
del mondo. Massenzio, fidando tutto ne' guerrieri, se gli era amicati;
tornò i pretoriani al pristino numero; pose in armi ottantamila
Italiani, aggiungendovi metà tanti Mori d'Africa, oltre i Siciliani,
talchè comandava censettantamila pedoni e diciottomila cavalli[22].
Costantino non armava in tutto che novantamila de' primi ed ottomila
degli altri; onde, distribuitine ove occorreva, provveduto alla
difesa del regno suo, non potè moverne che quarantamila, prodi però,
esercitati contro i robusti Germani, e condotti da capitano esperto ed
amato.
Il quale, mentre la sua flotta assaliva la Corsica, la Sardegna e i
porti d'Italia, valicò le alpi Cozie, e, prima che Massenzio il sapesse
partito dal Reno, pel Moncenisio calò a Susa. Presala di viva forza
(312), nelle pianure della Dora scontra un corpo italiano,
coperti uomini e cavalli di ferro, e li rompe; entra in Torino, poi
in Milano; ha Verona a discrezione, dopo sconfitto Pompejano che con
grand'arte la difendeva. Massenzio intanto si stordiva o lusingava,
finchè i suoi uffiziali furono spinti a mostrargli imminente la ruina.
Posto in piedi un terzo esercito, egli se ne mise a capo, vergognandosi
dei rimbrotti della moltitudine, e confortato dai Libri Sibillini che
avevano ambiguamente risposto: — In questo giorno perirà il nemico di
Roma». Incontratisi a nove miglia da Roma (_ad Saxa Rubra_), Massenzio
vide l'esercito suo tagliato a pezzi, e fuggendo precipitò dal ponte
Milvio nel Tevere: e Costantino, cinquantotto giorni dopo mosso da
Verona, ebbe compita la guerra.
Padrone di Roma, estirpò ogni seme e razza del tiranno, ma per quanto
la moltitudine gridasse, non consentì l'uccisione de' primarj amici
di quello; e sospesa la crudeltà quando più non era necessaria,
dimenticò il passato, diede il congedo ai pretoriani e ne disfece il
campo, impedì i delatori, sollevò gli oppressi da Massenzio, e in due
mesi, dicono i panegiristi, rimarginò le piaghe recate da sei anni di
tirannia. Al senato restituì lo splendore, e ne fu ripagato con ogni
modo d'onoranze; il primo posto fra gl'imperatori, arco di trionfo che
tuttora sussiste, dedicati a lui molti edifizj cominciati da Massenzio,
a non dire le feste che attirarono infinito concorso. Diede sua sorella
all'imperatore Licinio: mosso sopra i Franchi, devastò le loro terre, e
molti prigionieri gettò alle belve.
Quando Massimino Daza morì a Tarso, rimasero padroni Licinio delle
provincie orientali, delle occidentali Costantino. Poteasi prevedere
una scissura, che non tardò; e Costantino disfece l'emulo nella
Pannonia e nelle pianure di Tracia (314), indi gli concesse
pace. Ma avendo Costantino, nello sconfiggere i Sarmati e i Goti,
inseguiti questi ultimi fin sulle terre di Licinio, si rinnovarono
lamenti, che finirono in guerra aperta. Licinio fu novamente battuto
presso Adrianopoli, e la sua flotta nello stretto di Gallipoli, onde
chiese patti e gli ottenne. Avendo però Costantino saputo ch'esso
allestiva nuove armi (323 — 3 luglio), e chiedeva perfino
in ajuto i Barbari, lo prevenne e ruppe a segno, che non isperò
salvezza altrimenti che col gettarsegli ai piedi, rinunciando alla
porpora. Costantino l'accolse benigno, e lo inviò a Tessalonica con
ogni cortesia; poco poi mandò a strangolarlo. Così l'impero restava
unito nella robusta mano di Costantino, che, padrone del mondo, potè
trarre ad effetto i lunghi divisamenti, e dargli politica nuova; nuova
capitale, nuova religione.
LIBRO QUINTO
CAPITOLO XLVI.
Il Cristianesimo perseguitato, combattente, vincitore.
Allorchè Costantino movea verso l'Italia contro Massenzio, tutto
l'esercito vide, sopra del sole, uno splendore in forma di croce, dove
leggeasi, _Per questo segno vincerai_. Dappoi in sogno esso imperatore
fu avvertito che adottasse la croce per insegna; ond'egli fece farne
una col monogramma di Cristo ☧ e la attaccò al làbaro, cioè allo
stendardo imperiale, invece degli Dei che soleano portarsi innanzi alle
legioni. Dall'obbrobrio del Gólgota passa dunque la croce a guidare gli
eserciti; presto sfolgorerà in fronte ai re, aprendo una nuova civiltà;
ma traverso ai contrasti e ai patimenti, che sono indispensabili pel
trionfo del vero.
Gli apostoli e i primi loro discepoli, colla voce, coll'esempio,
col martirio, colla Grazia propagarono la redentrice morte in parti
remotissime; giovati umanamente dalla grande concentrazione del mondo
civile nell'Impero, per cui erano tolte le barriere delle nazionali
nimicizie, e rese universali le lingue greca e romana.
Come le antiche città voleano derivare le proprie origini da semidei,
così le Chiese aspirarono al vanto d'esser fondate da apostoli o dai
primi loro discepoli. Che san Paolo, allegando d'essere cittadino
romano, declinasse i giudizj provinciali, e si facesse condurre a Roma,
consta dagli Atti Apostolici. Un'antica fama vi porta anche san Pietro
(t. III, p. 194), il quale, secondo le tradizioni napoletane, venendo
da Antiochia approdò a Brindisi, quindi a Otranto; in Taranto lasciò
vescovo Amasiano; visitò Trani, Oria, Andria; per l'Adriatico navigò
a Siponto, indi pel Tirreno giunse a Napoli, e convertitala, vi pose
vescovo Aspreno; s'addentrò pure a Capua, facendone vescovo Prisco, e
Marco ad Atina, Epafrodito a Terracina, Fotino a Benevento, Simisio a
Sessa, così a Bari e altrove. Reggio vanta per primo pastore Stefano,
ricevuto dall'apostolo Paolo; e Pozzuoli Patroba, discepolo di questo.
Farebbero discepolo di Pietro san Paolino, che battezzò i Lucchesi.
A Milano vorrebbe dirsi piantata la croce dall'apostolo Barnaba:
nella Venezia da san Marco evangelista, il quale avendo convertito
ad Aquileja Ermàgora, in Roma lo presentò a Pietro, che destinollo
vescovo di questa città[23], di Trieste, di Concordia; come san Massimo
d'Emona, san Prosdocimo di Padova, Vicenza, Altino, Feltre, Este.
Pie tradizioni, che la critica non può tutte accettare, ma neppure
senza leggerezza repudiar tutte. Certo in Roma, trentatre anni
dopo Cristo morto, Nerone trovava Cristiani in quantità (_multitudo
ingens_); e non si poteano più reprimere che coll'inventare contro
di loro insane calunnie, quali l'incendio di Roma (t. III, p. 197). I
grandi e i dotti continuavano come Pilato a dire — Cos'è la verità?» ma
numerose classi, che la necessità del lavoro salvava dalla corruzione,
credendo quello che avevano creduto i loro padri, frequentavano i
tempj, e sentivano il bisogno della divinità che soccorre, che consola,
che rimunera. Fra gli schiavi, se molti riduceansi turpe strumento ai
vizj del padrone, altri, più remoti dal lezzo signorile, mantenevano la
moralità naturale. A costoro dunque come riusciva consolante l'udire
parlarsi d'un Dio, eguale per essi e pei loro tiranni; e che colla
pazienza poteano le dure fatiche, gl'iniqui strapazzi tramutare in
tesoro per un'altra vita, ove ad un giudizio incorruttibile sarebbero
chiamati non meno gli oppressori che gli oppressi!
Il più de' Cristiani cernivasi dunque tra costoro: ma ben presto Plinio
ne scontrava d'ogni età ed ordine; Tertulliano asseriva al proconsole:
— Se persisti a sterminare i Cristiani, puoi decimare la città, e fra'
colpevoli troverai molti del tuo grado, senatori, matrone, amici»;
l'editto dell'imperatore Valeriano suppone battezzati e senatori e
cavalieri romani e dame di grado.
Neppure ai popoli più abbandonati la Provvidenza non avea lasciato
mancare lumi per iscorgere la verità, e per almeno rispettare quel che
non aveano forza di seguire. L'orgoglio degradasse pure lo spirito, la
concupiscenza invilisse la carne, gli uomini si stordissero fra cure
e voluttà; non poteano spegnere la coscienza prepotente che porta a
cercare chi è Dio? chi l'uomo? quali relazioni fra questo e quello?
come il peccatore può rigenerarsi? che cosa s'incontrerà dopo morte?
A siffatte domande niuna risposta soddisfacente adduceano l'orgoglio
degli Stoici, la depravazione degli Epicurei, la grossolanità de'
Cinici, lo scetticismo degli Accademici; e soltanto dubbj o sottilità
esibivano a chi invocava il riposo della certezza.
Nè meglio appagava una religione, dove professavasi o un Dio
imperfetto, o la creatura perfetta; il che equivale a negare e la
creatura e Dio; e che, spoglia di dogmi, riusciva mancante d'efficacia
morale. Fra quei sacerdoti, se eccettuate alcuni fanatici egizj e siri,
chi mai avrebbe patito disagi non che tormenti pel suo Dio? chi voluto
girare predicandone il culto, più di quel che giovasse ad acquistare
credito e ricchezze? tenevano la loro dignità non altrimenti che un
impiego dello Stato; pronti, se il senato lo decretasse, a sostituire
Giove a Tina, Mitra ad Apollo, ed erigere altari al tiranno ed alla
meretrice.
Or ecco il cristianesimo, «dalle tenebre chiamando nell'ammirabile sua
luce», e rivelando Colui che è la chiave di tutti i secreti, la parola
di tutti gli enigmi, il compimento di tutta la legge, proclamava di
nuovo la fede perchè fondato sulla rivelazione, la speranza perchè
appoggiato a promesse divine, la carità perchè mostra tutti fratelli
e solidarj in quell'ordine universale, ove ogni cosa si armonizza al
fine supremo che a ciascuno impose Iddio, e a quel supremo bene che è
la manifestazione esterna delle perfezioni divine[24]. Gente non natavi
per accidente, ma entrata nel cristianesimo per intima persuasione e
dopo lunga lotta e duri sacrifizj e persuasa non darsi salute fuori di
esso, restava impegnata a conservarlo e diffonderlo coll'esaltamento
d'una profonda fiducia; scendere al vulgo, alle donne, ai fanciulli,
per illuminarne l'intelletto, dirigerne la condotta, comunicare a
tutti la cognizione più essenziale, quella de' proprj doveri; sicchè
i principj importanti all'ordine sociale diventano universale eredità
per via di catechismi, omelie, professioni di fede, cantici, preghiere:
forme diverse d'una fede sola, d'una sola speranza, adattate alla
comune capacità. Il padre convertito trae la famiglia ad una credenza,
fuor della quale sa che non si arriva a salvamento; il soldato predica
alla sua coorte, uno schiavo all'ergastolo e talora al padrone.
A quest'apostolato potea lungamente resistere la gentilesca
indifferenza? Roma avea provato ogni bene terreno, la potenza e la
gloria, poi la ricchezza e le voluttà; e non se ne trovava appagata.
De' suoi pensatori, alcuni deploravano ancora Farsaglia, ed oscillavano
tra un'avventata resistenza e il disperare della pubblica cosa; altri
in represso fermento aspettavano misteriosi avvenimenti predetti
dagli oracoli, e creduti come si suole in tempi e da uomini infelici
tra quell'avvicendare d'anarchia e despotismo, tra la brutalità degli
imperanti, la feroce licenza de' guerrieri, le rapine de' magistrati.
All'annunzio d'una religione, divina nella sua origine, semplice e vera
nell'insegnamento, pura e generosa nell'applicazione; a quella dottrina
semplice, chiara, umana e insieme sublime, l'intelletto s'apriva,
se ancora la volontà esitava; quand'anche la Grazia non trionfasse
delle abitudini e dell'interesse, il cristianesimo palesava virtù, a
cui non poteasi ricusare ammirazione; colla fratellanza procurava i
gaudj d'una vita interiore; coi purificati sentimenti sapeva occupare
le anime robuste, esercitare le immaginazioni attive, soddisfare ai
bisogni intellettuali e morali, repressi, non isradicati dal sofisma,
dalla tirannide, dalle sventure. Prova di questo bisogno di virtù si
è, che coloro i quali tentarono ringiovanirle, dovettero alle credenze
antiche mescere alcun che di puro ed elevato, che non traevano dalla
loro essenza, che mai non aveano avuto nella pratica; il grossolano
politeismo avvicinare al dogma d'un Dio solo, restringendo il culto
quasi unicamente a Giove, e facendo di Apollo un mediatore fra Dio e
gli uomini per mezzo degli oracoli, un salvatore dell'umanità, il quale
si fosse incarnato, vissuto servo in terra, sottoposto a patimenti per
espiazione.
Ma per quanto s'industriasse a rifarsi dei dogmi cristiani, forse
che l'idolatria soccombente offriva la consolante dottrina della
remissione de' peccati? Rimorso dalla coscienza, uno potea attutirla
altrimenti che con olocausti, con farsi piovere sul capo il sangue
di vittime scannate, o con altre espiazioni, di cui sentiva la
superstiziosa vanità? Or che _buona novella_ l'udire che un Dio
aveva radunata in sè solo quell'ira ineffabile, e che ciascuno può
appropriarsi i meriti infiniti del sacrifizio della croce mediante
la fede nel divino Redentore? I fedeli di quelle legalità, dove
allo scellerato non serbavasi che il castigo, ben faceano colpa ai
Cristiani dell'accogliere i peccatori; ma i Cristiani rispondevano col
restituirli innovati dalla penitenza.
Di buon'ora i Cristiani si costituirono in società con capi e
regolamenti, entrate e spese (t. III, p. 202); legami volontarj e
morali, eppur tenaci, che davano prevalenza sopra le fiacche e disperse
aggregazioni religiose degli antichi, nelle quali ciò che in Etruria
si credeva, beffavasi in Sicilia, ed i sacerdoti de' varj delubri e de'
molteplici numi, non che fra loro indipendenti, erano gelosi e nemici.
Ne' Cristiani invece, uno lo spirito, una la morale, uno il culto:
devoti fin alla morte alla causa stessa; «nell'unità della fede e nella
cognizione del Figliuol di Dio»[25], credevano infallibile il concilio
de' loro sacerdoti, perchè lo Spirito Santo avea promesso d'esser con
loro; dipendevano da capi che avevano conversato coll'Uomo Dio, o con
chi gli era vissuto a' fianchi. Vedendo quell'intima comunanza, quel
legame fraterno, saldato dall'unità delle credenze e delle speranze,
i Gentili esclamavano, — Vedi com'e' si amano!» Ed a ragione, dice
Tertulliano, ne fan le meraviglie, essi che non sanno se non odiarsi.
I miracoli sono generalmente attestati, prodotti in apologie nelle
quali troppo importava non mentire; dai nemici stessi non negati, bensì
attribuiti a magia; tanto che anche il critico di buona fede s'arresta
prima di volgerli in riso. Si negano? più grande diventa il miracolo
di convertire il mondo, d'ispirare agli ignoranti la cognizione di
sì elevate dottrine, ai dotti la sommessione a tanti misteri, agli
scredenti la fede di cose incredibili; e tutto ciò a fronte di ostacoli
potentissimi.
E ostacolo dei più robusti era l'abitudine. Colle prime idee, colle
prime parole, il Gentile avea bevuto il politeismo; gli Dei erano
associati alle impressioni di sua gioventù; ne' bisogni s'era rivolto
ad essi, ricorso ai loro oracoli nel dubbio, sciolto ad essi il voto
dopo campato da malattia, da naufragj, dalle manie di Caligola o dalle
vendette di Sejano.
Le immagini della mitologia ridono di tale squisitezza, che, anche
perduta ogni fede e trascorsi tanti secoli, lusingano tuttora
le nostre immaginazioni. Che doveva essere allora, quando tutte
le arti v'attingeano? quando n'erano pieni i libri, con cui si
coltivava l'ingegno, s'incantavano gli ozj, si distraevano le
malinconie? Il Cristiano, che negli Dei protettori della musica,
della poesia, dell'eloquenza non riconosceva altro che demonj, era
ridotto a privarsene: perchè ad ogni piè sospinto trovava pericoli e
contaminazione, non dovea festeggiar i giorni di reciproci augurj o di
solenni commemorazioni; non sospendere lampade e rami di lauro alle
porte, nè coronarsi di fiori quando tutto il popolo s'inghirlandava;
anzi protestare ad ogni atto che inferisse idolatria. A nozze si
cantano Talassio ed Imene? alle esequie si fanno espiazioni? nei
banchetti si liba agli Dei ospitali? nelle case si riveriscono i Lari?
il Cristiano deve fuggire, mostrarne orrore. Da ciò continui disgusti;
e il convertito obbligato a lasciar le più care distrazioni, ridursi
alle abnegazioni, all'isolamento.
A impieghi e dignità era unica via il piacere al principe: e il
principe bruciava i Cristiani, e ne faceva fanali a' suoi orti. Per
rinfrancare il debole sentimento morale, eransi muniti di religiose
cerimonie tutti gli atti della pubblica vita. Quelli dunque che già
occupavano magistrature, come poteano prestare il giuramento? come
sacrificare? come intervenire nel senato che radunavasi in un tempio, e
le cui tornate cominciavano da libagioni alle divinità? come presedere
ai giuochi gentileschi?
E ai giuochi ripetemmo quanto traessero ingordi i Romani. Or bene,
il cristianesimo esecrava spettacoli ove per diletto si versava
sangue, e i nuovi convertiti venivano conosciuti all'allontanarsi dal
circo; ma ciò quanto costava! Alipio (ce lo racconta sant'Agostino)
convertito rinunziò agli spettacoli sanguinarj: pure un giorno i suoi
amici lo trassero al circo romano. Egli vi si tenne ad occhi chiusi
e immobile durante la lotta; quando improvviso il silenzio ansioso
degli spettatori è rotto da applausi feroci, perchè un gladiatore aveva
atterrato l'altro. Vinto dalla curiosità, Alipio schiude gli occhi, e
la vista di quel sangue gli ridesta la crudele voluttà; mal suo grado
s'affissa su quel corpo boccheggiante, e l'anima di lui s'inebbria
del furore del combattimento e degli omicidj dell'arena. «Più non era
l'uomo strascinatovi a forza, ma uno anch'esso della folla, commosso
del pari, del pari gridante, ebbro di gioja come essa, e impaziente
di ritornar a godere i furori del circo». Tanto l'abitudine prevaleva
sopra le migliori risoluzioni.
L'idolatria sfoggiava la solennità d'un pubblico culto, con feste
patrie e regie; il cristianesimo non esibiva che povera e semplice
austerità; quella, connessa a' primordj della storia nazionale,
deificava i fondatori e i legislatori del popolo; questo li sbalzava
dall'are per sostituirvi il figlio di un fabbro, uno morto sul
patibolo. Il vulgo stesso nel culto della patria vedeva quello della
sua gloria; talchè s'innestavano pietà e patriotismo.
E chi erano costoro che venivano a dar il crollo a credenze, antiche
quanto il mondo, diffuse quanto il genere umano? Non sapienti Greci,
non Pitagorici o Gimnosofisti, ma della genìa degli Ebrei, rinomata per
corriva e nata al servaggio, derisa per la singolarità de' costumi e
per le astinenze. Il loro fondatore non avea, come gli altri autori di
religioni, usato lo scettro o la spada, nè tampoco la cetra o la penna:
i suoi discepoli, levati dal remo o dal banco, erano una marmaglia
pezzente, che si raccoglieva attorno poveri schiavi, giovani inesperti
o vecchi mentecatti, per contar baje d'un Dio che si umana, d'uno che
crocifisso risorge; vietava di discutere le ragioni dell'adorare e del
credere; giudicava un male la sapienza del mondo, un bene la follia;
riponeva la sapienza (come Giuliano li rimproverava) nel ripetere
stupidamente, — Io credo».
Pertanto la religione di Cristo era dai Latini chiamata _insania,
amentia, dementia, stultitia, furiosa opinio, furoris incipientia_;
l'orgoglioso repugnava dall'accomunarsi con artigiani e schiavi; i
dotti trovavano ridicoli que' misteri, la cui sublimità non s'attinge
che mediante la Grazia; la povertà e i supplizj de' discepoli davano
argomento della debolezza del fondatore in una società che tutto
riponeva nell'esito, tutto conchiudeva con questo mondo. Esagerando poi
e falsando, dicevano che i Nazareni adorassero il sole, un agnello, una
forca, una testa di giumento: e il vulgo, sempre numerosissimo, rideva,
e li giudicava stolti ancor più che malvagi[26].
Ma anche malvagi li credeva. Costretti com'erano a tenere le assemblee
in secreto, i Cristiani davano appiglio alle accuse, solite apporsi a
tutto ciò che è arcano; e nel più sinistro senso venivano intesi i riti
loro. Le sobrie agapi sono inverecondo stravizzo: nei silenzj delle
catacombe violentano il pudore e la natura: un fanciullo coperto di
farina è presentato al neofito, il quale lo trafigge senza sapere che
si faccia, se ne raccoglie il sangue in calici che passano da un labbro
all'altro, e se ne mangiano le carni. Ritraggonsi dalle magistrature
per non dovere far omaggio agli Dei? li sentenziano d'infingardi: sono
stregonerie i miracoli; malefizio la loro costanza nei supplizj: anzi
sono atei perchè non hanno sagrifizj, non tempj[27].
Eppure cotesti ribaldi qual morale insegnano? la più pura ed austera:
povertà ad un mondo idolatrante le ricchezze; umiltà al secolo della
superbia; castità in mezzo alle ostentate lascivie; abnegazione tra
il filosofico egoismo. Invece di quell'assenza d'ogni dogma, così
comoda all'accidia umana, che permetteva tutte le contraddizioni
all'intelligenza, tutti i vaneggiamenti all'anima, tutte le
superstizioni ai cuori, tutti gli eccessi alle passioni, intimavasi
un dogma preciso, assoluto, universale, che richiedeva l'intensità
dell'intelletto, la sommessione del raziocinio, l'obbedienza del cuore;
al panteismo filosofico o al popolare l'idea della spiritualità di Dio
e dell'individualità dell'uomo; agli Epicurei la fede nella Provvidenza
e nelle retribuzioni postume; agl'increduli e agli indifferenti la
necessità del culto; agli egoisti la solidarietà del genere umano; ai
gaudenti le austerità e l'umiliazione; allo schiavo di ritenere le
sue catene, sebbene al padrone intimi ch'egli è eguale al servo; al
povero di non esigere i soccorsi, sebbene al ricco imponga di dare
volontariamente. La gente, che da tanti mali erasi rifuggita nelle
voluttà, senza tampoco sospettare che queste offendessero divinità
tuffate nello stesso brago, vedevasi allora non solo interdetti gli
atti, ma riprovato il desiderio; riprovata la fornicazione anche
colle libere, anche colle schiave; riprovata la vendetta, che prima
era dovere e religione; riprovato il fasto, e detti beati coloro che
soffrono, beati gli umili di spirito; esclusi dalla gloria i molli, gli
adulteri, i pederasti. Questa guerra alle passioni, questo freno agli
istinti naturali, quanti non dovea stornare dal cristianesimo?
Mercanti e artieri assai vivevano del somministrar vittime,
dell'allestire giuochi e simulacri: sacerdoti, auguri, re sacrificuli,
incantatori, astrologi recavansi in odio chi guastava lor arte,
e facevano prova di sostenerla col ravvivare il fervore pel culto
antico, l'attenzione degli oracoli, la scaltrezza dei prodigi. Così
invalse una quantità di maghi e prestigiatori, tra cui famosi Simone
samaritano in patria e Apollonio di Tiane a Roma. Quegli offerse a
san Pietro del denaro se gli partecipasse la facoltà di conferire
lo Spirito Santo; donde fu nominata la simonia, cioè il vendere le
cose sacre; prima eresia che comparve, ultima che sparirà. Vogliono
capitasse egli a Roma regnante Claudio, e co' suoi prestigi talmente
s'illustrasse, da meritare una statua nell'isola del Tevere[28]; ma
avendo voluto librarsi a volo, si ruppe la persona. Anche Apollonio
venne a Roma imperando Nerone, il quale, sebben nemico ai filosofi,
gli permise di rimanere, e d'alloggiar ne' tempj, secondo soleva; poi
a Vespasiano diede consigli sul ben governare l'impero. Accusato da un
Greco a Domiziano, tornò a Roma a giustificarsi, ma il giorno medesimo
fu visto a Pozzuoli e ad Efeso; e trovandosi in quest'ultima città al
momento che Domiziano cadeva trafitto a Roma, sospese di parlare, e
stato alquanto assorto, agli uditori meravigliati, disse: — Il tiranno
è morto». Nerva succeduto imperatore, e che già eragli amico, l'invitò;
ma egli scusossene, e mandogli de' pareri; indi sparve, nè più fu
veduto vivo o morto.
Persone devote al nome di costui e a quel di Pitagora, a cui egli
s'appoggiava, professavano che un'infinità di genj occupassero il
vuoto fra l'uomo e Dio, partecipi in vario grado alla natura di esso; e
poter l'uomo contrarre patti con quelli per via di cerimonie, digiuni,
purificazioni. Il popolo li temeva e pagava, i grandi vi credevano; non
Caracalla soltanto, ma fin Marc'Aurelio ne aveva sempre agli orecchi;
e la malignità li confondeva coi Cristiani, e i miracoli de' santi coi
costoro prestigi.
La più grave imputazione però ai Cristiani, vorrei dire la più romana,
era d'odiare il genere umano, il che significava odiare l'impero[29].
Le istituzioni di Roma traevano lor forza dallo spirito di famiglia,
sopra il quale era sorta la gran città, e dalla conseguente venerazione
per gli antenati. Or ecco il cristianesimo, che, per guadagnare gli
spiriti volgendosi principalmente alla gioventù, la sottraeva ad
una generazione frivola, logora, ignara del vero bene, nimicava il
padre ai figli, il fratello al fratello; donde eseredati figliuoli,
repudiate mogli, puniti schiavi, scassinata l'autorità domestica.
Non che opporre agli antichi nuove glorie, nuove virtù, proferivansi
dannati eternamente gli uomini più cari e venerati, i conquistatori ed
i sapienti, i Cesari e i Ciceroni; chiamati demonj gli Dei, pel cui
auspicio era ingrandito il Campidoglio. Mentre Roma intitolava eroi
quelli che aveano sterminato maggiori popoli, grandezza il rapire a
molti l'indipendenza, principal fonte di potere e di gloria la guerra,
unico scopo di questa la conquista; ecco predicarsi la pace, la
fratellanza, la giustizia, condannarsi cioè tutta la politica antica e
nuova di Roma; dall'angustie d'una patria terrena sollevati gli animi
ad una invisibile, della quale erano cittadini gli uomini tutti, anche
il vinto, anche il barbaro, anche lo schiavo.
La religione de' Latini era essenzialmente nazionale, e incarnata colla
repubblica; Roma, città santa, inorgoglivasi di derivare dagli Dei;
a sette cose sacre annetteasi la conservazione dell'impero (t. I, p.
153-4); nei maggiori frangenti consultavansi i Libri Sibillini; senza
auspicj non si tenevano assemblee, senza feciali non s'indiceva la
guerra o saldava la pace, senza sacrifizj non s'inaugurava imperatore
o console; a comuni solennità si congregavano le federazioni; e
le teorie, portando l'annuo omaggio della lontana colonia alla
madrepatria, teneano stretto il nodo fra questa e quella. Intaccare
pertanto la religione era intaccare lo Stato, era un dichiararsi nemici
del genere umano.
Augusto, fondando l'impero, trovò la necessità di rinnobilire le
svilite idee religiose, e «ristorare i tempj e le crollanti immagini
degli Dei» (ORAZIO); e in testimonio dell'alleanza fra lo statuto
e la religione, unì il sommo pontificato alla potenza imperiale, e
collocò nel senato l'altare della Vittoria. Allora fu imposto silenzio
alle voci che nella Roma repubblicana sbraveggiavano gli Dei e la
vita futura; si moltiplicarono sacrifizj, iscrizioni votive, delubri.
Mecenate, consigliando Augusto sul modo di governare, gli aveva detto:
leggi: ma ulceri vergognose e schifosi insetti il consumarono, senza
che trovasse ristoro o nei medici che spesso mandava a morte, o nei
voti moltiplicati ad Apollo e ad Esculapio. Credendosi castigato dal
cielo per la persecuzione contro i Cristiani, la sospese con un editto
in nome suo, di Licinio e di Costantino, e poco stante morì (311).
Massimino volò dall'Oriente per occuparne le provincie, volò
Licinio a contrastarlo; poi scesero ad accordi, statuendo per confine
l'Ellesponto e il Bosforo di Tracia. Accordo di nemici, poichè le due
rive stettero irte d'armi, e Licinio cercò l'alleanza di Costantino,
Massimino quella di Massenzio, e guatavansi con terribile aspettazione
dei popoli.
Massenzio tiranneggiava l'Italia smungendola con pazze prodigalità;
dai senatori esigeva spontanei donativi in moltiplicate occasioni;
pel minimo sospetto sfogava il rancore contro di questi, mentre
colla seduzione o la violenza ne disonorava le mogli e le figliuole.
Costrinse il governatore della città a cedergli Sofronia sua sposa: ma
questa, cristiana e virtuosa, chiese tempo per addobbarsi; e orato, si
uccise. Lasciava che i soldati lo imitassero, saccheggiando, uccidendo,
lascivendo; talora ad alcuno concedeva la villa, ad altri la donna d'un
senatore; mentr'egli nel voluttuoso palazzo, gittando magìa e indagando
l'avvenire nelle viscere di femmine e di fanciulli, vantavasi d'esser
unico imperatore, gli altri sostener solo le sue veci. Il contrasto
dava spicco alla felicità delle provincie soggette a Costantino,
assicurate dai Barbari, e meno esauste dagli ingordi tributi.
Udendo questi che Massenzio radunava gagliardo esercito per torgli
l'impero col pretesto di vendicare il padre, lo prevenne e mosse verso
Italia, sollecitato dal popolo e dal senato a redimere l'antica regina
del mondo. Massenzio, fidando tutto ne' guerrieri, se gli era amicati;
tornò i pretoriani al pristino numero; pose in armi ottantamila
Italiani, aggiungendovi metà tanti Mori d'Africa, oltre i Siciliani,
talchè comandava censettantamila pedoni e diciottomila cavalli[22].
Costantino non armava in tutto che novantamila de' primi ed ottomila
degli altri; onde, distribuitine ove occorreva, provveduto alla
difesa del regno suo, non potè moverne che quarantamila, prodi però,
esercitati contro i robusti Germani, e condotti da capitano esperto ed
amato.
Il quale, mentre la sua flotta assaliva la Corsica, la Sardegna e i
porti d'Italia, valicò le alpi Cozie, e, prima che Massenzio il sapesse
partito dal Reno, pel Moncenisio calò a Susa. Presala di viva forza
(312), nelle pianure della Dora scontra un corpo italiano,
coperti uomini e cavalli di ferro, e li rompe; entra in Torino, poi
in Milano; ha Verona a discrezione, dopo sconfitto Pompejano che con
grand'arte la difendeva. Massenzio intanto si stordiva o lusingava,
finchè i suoi uffiziali furono spinti a mostrargli imminente la ruina.
Posto in piedi un terzo esercito, egli se ne mise a capo, vergognandosi
dei rimbrotti della moltitudine, e confortato dai Libri Sibillini che
avevano ambiguamente risposto: — In questo giorno perirà il nemico di
Roma». Incontratisi a nove miglia da Roma (_ad Saxa Rubra_), Massenzio
vide l'esercito suo tagliato a pezzi, e fuggendo precipitò dal ponte
Milvio nel Tevere: e Costantino, cinquantotto giorni dopo mosso da
Verona, ebbe compita la guerra.
Padrone di Roma, estirpò ogni seme e razza del tiranno, ma per quanto
la moltitudine gridasse, non consentì l'uccisione de' primarj amici
di quello; e sospesa la crudeltà quando più non era necessaria,
dimenticò il passato, diede il congedo ai pretoriani e ne disfece il
campo, impedì i delatori, sollevò gli oppressi da Massenzio, e in due
mesi, dicono i panegiristi, rimarginò le piaghe recate da sei anni di
tirannia. Al senato restituì lo splendore, e ne fu ripagato con ogni
modo d'onoranze; il primo posto fra gl'imperatori, arco di trionfo che
tuttora sussiste, dedicati a lui molti edifizj cominciati da Massenzio,
a non dire le feste che attirarono infinito concorso. Diede sua sorella
all'imperatore Licinio: mosso sopra i Franchi, devastò le loro terre, e
molti prigionieri gettò alle belve.
Quando Massimino Daza morì a Tarso, rimasero padroni Licinio delle
provincie orientali, delle occidentali Costantino. Poteasi prevedere
una scissura, che non tardò; e Costantino disfece l'emulo nella
Pannonia e nelle pianure di Tracia (314), indi gli concesse
pace. Ma avendo Costantino, nello sconfiggere i Sarmati e i Goti,
inseguiti questi ultimi fin sulle terre di Licinio, si rinnovarono
lamenti, che finirono in guerra aperta. Licinio fu novamente battuto
presso Adrianopoli, e la sua flotta nello stretto di Gallipoli, onde
chiese patti e gli ottenne. Avendo però Costantino saputo ch'esso
allestiva nuove armi (323 — 3 luglio), e chiedeva perfino
in ajuto i Barbari, lo prevenne e ruppe a segno, che non isperò
salvezza altrimenti che col gettarsegli ai piedi, rinunciando alla
porpora. Costantino l'accolse benigno, e lo inviò a Tessalonica con
ogni cortesia; poco poi mandò a strangolarlo. Così l'impero restava
unito nella robusta mano di Costantino, che, padrone del mondo, potè
trarre ad effetto i lunghi divisamenti, e dargli politica nuova; nuova
capitale, nuova religione.
LIBRO QUINTO
CAPITOLO XLVI.
Il Cristianesimo perseguitato, combattente, vincitore.
Allorchè Costantino movea verso l'Italia contro Massenzio, tutto
l'esercito vide, sopra del sole, uno splendore in forma di croce, dove
leggeasi, _Per questo segno vincerai_. Dappoi in sogno esso imperatore
fu avvertito che adottasse la croce per insegna; ond'egli fece farne
una col monogramma di Cristo ☧ e la attaccò al làbaro, cioè allo
stendardo imperiale, invece degli Dei che soleano portarsi innanzi alle
legioni. Dall'obbrobrio del Gólgota passa dunque la croce a guidare gli
eserciti; presto sfolgorerà in fronte ai re, aprendo una nuova civiltà;
ma traverso ai contrasti e ai patimenti, che sono indispensabili pel
trionfo del vero.
Gli apostoli e i primi loro discepoli, colla voce, coll'esempio,
col martirio, colla Grazia propagarono la redentrice morte in parti
remotissime; giovati umanamente dalla grande concentrazione del mondo
civile nell'Impero, per cui erano tolte le barriere delle nazionali
nimicizie, e rese universali le lingue greca e romana.
Come le antiche città voleano derivare le proprie origini da semidei,
così le Chiese aspirarono al vanto d'esser fondate da apostoli o dai
primi loro discepoli. Che san Paolo, allegando d'essere cittadino
romano, declinasse i giudizj provinciali, e si facesse condurre a Roma,
consta dagli Atti Apostolici. Un'antica fama vi porta anche san Pietro
(t. III, p. 194), il quale, secondo le tradizioni napoletane, venendo
da Antiochia approdò a Brindisi, quindi a Otranto; in Taranto lasciò
vescovo Amasiano; visitò Trani, Oria, Andria; per l'Adriatico navigò
a Siponto, indi pel Tirreno giunse a Napoli, e convertitala, vi pose
vescovo Aspreno; s'addentrò pure a Capua, facendone vescovo Prisco, e
Marco ad Atina, Epafrodito a Terracina, Fotino a Benevento, Simisio a
Sessa, così a Bari e altrove. Reggio vanta per primo pastore Stefano,
ricevuto dall'apostolo Paolo; e Pozzuoli Patroba, discepolo di questo.
Farebbero discepolo di Pietro san Paolino, che battezzò i Lucchesi.
A Milano vorrebbe dirsi piantata la croce dall'apostolo Barnaba:
nella Venezia da san Marco evangelista, il quale avendo convertito
ad Aquileja Ermàgora, in Roma lo presentò a Pietro, che destinollo
vescovo di questa città[23], di Trieste, di Concordia; come san Massimo
d'Emona, san Prosdocimo di Padova, Vicenza, Altino, Feltre, Este.
Pie tradizioni, che la critica non può tutte accettare, ma neppure
senza leggerezza repudiar tutte. Certo in Roma, trentatre anni
dopo Cristo morto, Nerone trovava Cristiani in quantità (_multitudo
ingens_); e non si poteano più reprimere che coll'inventare contro
di loro insane calunnie, quali l'incendio di Roma (t. III, p. 197). I
grandi e i dotti continuavano come Pilato a dire — Cos'è la verità?» ma
numerose classi, che la necessità del lavoro salvava dalla corruzione,
credendo quello che avevano creduto i loro padri, frequentavano i
tempj, e sentivano il bisogno della divinità che soccorre, che consola,
che rimunera. Fra gli schiavi, se molti riduceansi turpe strumento ai
vizj del padrone, altri, più remoti dal lezzo signorile, mantenevano la
moralità naturale. A costoro dunque come riusciva consolante l'udire
parlarsi d'un Dio, eguale per essi e pei loro tiranni; e che colla
pazienza poteano le dure fatiche, gl'iniqui strapazzi tramutare in
tesoro per un'altra vita, ove ad un giudizio incorruttibile sarebbero
chiamati non meno gli oppressori che gli oppressi!
Il più de' Cristiani cernivasi dunque tra costoro: ma ben presto Plinio
ne scontrava d'ogni età ed ordine; Tertulliano asseriva al proconsole:
— Se persisti a sterminare i Cristiani, puoi decimare la città, e fra'
colpevoli troverai molti del tuo grado, senatori, matrone, amici»;
l'editto dell'imperatore Valeriano suppone battezzati e senatori e
cavalieri romani e dame di grado.
Neppure ai popoli più abbandonati la Provvidenza non avea lasciato
mancare lumi per iscorgere la verità, e per almeno rispettare quel che
non aveano forza di seguire. L'orgoglio degradasse pure lo spirito, la
concupiscenza invilisse la carne, gli uomini si stordissero fra cure
e voluttà; non poteano spegnere la coscienza prepotente che porta a
cercare chi è Dio? chi l'uomo? quali relazioni fra questo e quello?
come il peccatore può rigenerarsi? che cosa s'incontrerà dopo morte?
A siffatte domande niuna risposta soddisfacente adduceano l'orgoglio
degli Stoici, la depravazione degli Epicurei, la grossolanità de'
Cinici, lo scetticismo degli Accademici; e soltanto dubbj o sottilità
esibivano a chi invocava il riposo della certezza.
Nè meglio appagava una religione, dove professavasi o un Dio
imperfetto, o la creatura perfetta; il che equivale a negare e la
creatura e Dio; e che, spoglia di dogmi, riusciva mancante d'efficacia
morale. Fra quei sacerdoti, se eccettuate alcuni fanatici egizj e siri,
chi mai avrebbe patito disagi non che tormenti pel suo Dio? chi voluto
girare predicandone il culto, più di quel che giovasse ad acquistare
credito e ricchezze? tenevano la loro dignità non altrimenti che un
impiego dello Stato; pronti, se il senato lo decretasse, a sostituire
Giove a Tina, Mitra ad Apollo, ed erigere altari al tiranno ed alla
meretrice.
Or ecco il cristianesimo, «dalle tenebre chiamando nell'ammirabile sua
luce», e rivelando Colui che è la chiave di tutti i secreti, la parola
di tutti gli enigmi, il compimento di tutta la legge, proclamava di
nuovo la fede perchè fondato sulla rivelazione, la speranza perchè
appoggiato a promesse divine, la carità perchè mostra tutti fratelli
e solidarj in quell'ordine universale, ove ogni cosa si armonizza al
fine supremo che a ciascuno impose Iddio, e a quel supremo bene che è
la manifestazione esterna delle perfezioni divine[24]. Gente non natavi
per accidente, ma entrata nel cristianesimo per intima persuasione e
dopo lunga lotta e duri sacrifizj e persuasa non darsi salute fuori di
esso, restava impegnata a conservarlo e diffonderlo coll'esaltamento
d'una profonda fiducia; scendere al vulgo, alle donne, ai fanciulli,
per illuminarne l'intelletto, dirigerne la condotta, comunicare a
tutti la cognizione più essenziale, quella de' proprj doveri; sicchè
i principj importanti all'ordine sociale diventano universale eredità
per via di catechismi, omelie, professioni di fede, cantici, preghiere:
forme diverse d'una fede sola, d'una sola speranza, adattate alla
comune capacità. Il padre convertito trae la famiglia ad una credenza,
fuor della quale sa che non si arriva a salvamento; il soldato predica
alla sua coorte, uno schiavo all'ergastolo e talora al padrone.
A quest'apostolato potea lungamente resistere la gentilesca
indifferenza? Roma avea provato ogni bene terreno, la potenza e la
gloria, poi la ricchezza e le voluttà; e non se ne trovava appagata.
De' suoi pensatori, alcuni deploravano ancora Farsaglia, ed oscillavano
tra un'avventata resistenza e il disperare della pubblica cosa; altri
in represso fermento aspettavano misteriosi avvenimenti predetti
dagli oracoli, e creduti come si suole in tempi e da uomini infelici
tra quell'avvicendare d'anarchia e despotismo, tra la brutalità degli
imperanti, la feroce licenza de' guerrieri, le rapine de' magistrati.
All'annunzio d'una religione, divina nella sua origine, semplice e vera
nell'insegnamento, pura e generosa nell'applicazione; a quella dottrina
semplice, chiara, umana e insieme sublime, l'intelletto s'apriva,
se ancora la volontà esitava; quand'anche la Grazia non trionfasse
delle abitudini e dell'interesse, il cristianesimo palesava virtù, a
cui non poteasi ricusare ammirazione; colla fratellanza procurava i
gaudj d'una vita interiore; coi purificati sentimenti sapeva occupare
le anime robuste, esercitare le immaginazioni attive, soddisfare ai
bisogni intellettuali e morali, repressi, non isradicati dal sofisma,
dalla tirannide, dalle sventure. Prova di questo bisogno di virtù si
è, che coloro i quali tentarono ringiovanirle, dovettero alle credenze
antiche mescere alcun che di puro ed elevato, che non traevano dalla
loro essenza, che mai non aveano avuto nella pratica; il grossolano
politeismo avvicinare al dogma d'un Dio solo, restringendo il culto
quasi unicamente a Giove, e facendo di Apollo un mediatore fra Dio e
gli uomini per mezzo degli oracoli, un salvatore dell'umanità, il quale
si fosse incarnato, vissuto servo in terra, sottoposto a patimenti per
espiazione.
Ma per quanto s'industriasse a rifarsi dei dogmi cristiani, forse
che l'idolatria soccombente offriva la consolante dottrina della
remissione de' peccati? Rimorso dalla coscienza, uno potea attutirla
altrimenti che con olocausti, con farsi piovere sul capo il sangue
di vittime scannate, o con altre espiazioni, di cui sentiva la
superstiziosa vanità? Or che _buona novella_ l'udire che un Dio
aveva radunata in sè solo quell'ira ineffabile, e che ciascuno può
appropriarsi i meriti infiniti del sacrifizio della croce mediante
la fede nel divino Redentore? I fedeli di quelle legalità, dove
allo scellerato non serbavasi che il castigo, ben faceano colpa ai
Cristiani dell'accogliere i peccatori; ma i Cristiani rispondevano col
restituirli innovati dalla penitenza.
Di buon'ora i Cristiani si costituirono in società con capi e
regolamenti, entrate e spese (t. III, p. 202); legami volontarj e
morali, eppur tenaci, che davano prevalenza sopra le fiacche e disperse
aggregazioni religiose degli antichi, nelle quali ciò che in Etruria
si credeva, beffavasi in Sicilia, ed i sacerdoti de' varj delubri e de'
molteplici numi, non che fra loro indipendenti, erano gelosi e nemici.
Ne' Cristiani invece, uno lo spirito, una la morale, uno il culto:
devoti fin alla morte alla causa stessa; «nell'unità della fede e nella
cognizione del Figliuol di Dio»[25], credevano infallibile il concilio
de' loro sacerdoti, perchè lo Spirito Santo avea promesso d'esser con
loro; dipendevano da capi che avevano conversato coll'Uomo Dio, o con
chi gli era vissuto a' fianchi. Vedendo quell'intima comunanza, quel
legame fraterno, saldato dall'unità delle credenze e delle speranze,
i Gentili esclamavano, — Vedi com'e' si amano!» Ed a ragione, dice
Tertulliano, ne fan le meraviglie, essi che non sanno se non odiarsi.
I miracoli sono generalmente attestati, prodotti in apologie nelle
quali troppo importava non mentire; dai nemici stessi non negati, bensì
attribuiti a magia; tanto che anche il critico di buona fede s'arresta
prima di volgerli in riso. Si negano? più grande diventa il miracolo
di convertire il mondo, d'ispirare agli ignoranti la cognizione di
sì elevate dottrine, ai dotti la sommessione a tanti misteri, agli
scredenti la fede di cose incredibili; e tutto ciò a fronte di ostacoli
potentissimi.
E ostacolo dei più robusti era l'abitudine. Colle prime idee, colle
prime parole, il Gentile avea bevuto il politeismo; gli Dei erano
associati alle impressioni di sua gioventù; ne' bisogni s'era rivolto
ad essi, ricorso ai loro oracoli nel dubbio, sciolto ad essi il voto
dopo campato da malattia, da naufragj, dalle manie di Caligola o dalle
vendette di Sejano.
Le immagini della mitologia ridono di tale squisitezza, che, anche
perduta ogni fede e trascorsi tanti secoli, lusingano tuttora
le nostre immaginazioni. Che doveva essere allora, quando tutte
le arti v'attingeano? quando n'erano pieni i libri, con cui si
coltivava l'ingegno, s'incantavano gli ozj, si distraevano le
malinconie? Il Cristiano, che negli Dei protettori della musica,
della poesia, dell'eloquenza non riconosceva altro che demonj, era
ridotto a privarsene: perchè ad ogni piè sospinto trovava pericoli e
contaminazione, non dovea festeggiar i giorni di reciproci augurj o di
solenni commemorazioni; non sospendere lampade e rami di lauro alle
porte, nè coronarsi di fiori quando tutto il popolo s'inghirlandava;
anzi protestare ad ogni atto che inferisse idolatria. A nozze si
cantano Talassio ed Imene? alle esequie si fanno espiazioni? nei
banchetti si liba agli Dei ospitali? nelle case si riveriscono i Lari?
il Cristiano deve fuggire, mostrarne orrore. Da ciò continui disgusti;
e il convertito obbligato a lasciar le più care distrazioni, ridursi
alle abnegazioni, all'isolamento.
A impieghi e dignità era unica via il piacere al principe: e il
principe bruciava i Cristiani, e ne faceva fanali a' suoi orti. Per
rinfrancare il debole sentimento morale, eransi muniti di religiose
cerimonie tutti gli atti della pubblica vita. Quelli dunque che già
occupavano magistrature, come poteano prestare il giuramento? come
sacrificare? come intervenire nel senato che radunavasi in un tempio, e
le cui tornate cominciavano da libagioni alle divinità? come presedere
ai giuochi gentileschi?
E ai giuochi ripetemmo quanto traessero ingordi i Romani. Or bene,
il cristianesimo esecrava spettacoli ove per diletto si versava
sangue, e i nuovi convertiti venivano conosciuti all'allontanarsi dal
circo; ma ciò quanto costava! Alipio (ce lo racconta sant'Agostino)
convertito rinunziò agli spettacoli sanguinarj: pure un giorno i suoi
amici lo trassero al circo romano. Egli vi si tenne ad occhi chiusi
e immobile durante la lotta; quando improvviso il silenzio ansioso
degli spettatori è rotto da applausi feroci, perchè un gladiatore aveva
atterrato l'altro. Vinto dalla curiosità, Alipio schiude gli occhi, e
la vista di quel sangue gli ridesta la crudele voluttà; mal suo grado
s'affissa su quel corpo boccheggiante, e l'anima di lui s'inebbria
del furore del combattimento e degli omicidj dell'arena. «Più non era
l'uomo strascinatovi a forza, ma uno anch'esso della folla, commosso
del pari, del pari gridante, ebbro di gioja come essa, e impaziente
di ritornar a godere i furori del circo». Tanto l'abitudine prevaleva
sopra le migliori risoluzioni.
L'idolatria sfoggiava la solennità d'un pubblico culto, con feste
patrie e regie; il cristianesimo non esibiva che povera e semplice
austerità; quella, connessa a' primordj della storia nazionale,
deificava i fondatori e i legislatori del popolo; questo li sbalzava
dall'are per sostituirvi il figlio di un fabbro, uno morto sul
patibolo. Il vulgo stesso nel culto della patria vedeva quello della
sua gloria; talchè s'innestavano pietà e patriotismo.
E chi erano costoro che venivano a dar il crollo a credenze, antiche
quanto il mondo, diffuse quanto il genere umano? Non sapienti Greci,
non Pitagorici o Gimnosofisti, ma della genìa degli Ebrei, rinomata per
corriva e nata al servaggio, derisa per la singolarità de' costumi e
per le astinenze. Il loro fondatore non avea, come gli altri autori di
religioni, usato lo scettro o la spada, nè tampoco la cetra o la penna:
i suoi discepoli, levati dal remo o dal banco, erano una marmaglia
pezzente, che si raccoglieva attorno poveri schiavi, giovani inesperti
o vecchi mentecatti, per contar baje d'un Dio che si umana, d'uno che
crocifisso risorge; vietava di discutere le ragioni dell'adorare e del
credere; giudicava un male la sapienza del mondo, un bene la follia;
riponeva la sapienza (come Giuliano li rimproverava) nel ripetere
stupidamente, — Io credo».
Pertanto la religione di Cristo era dai Latini chiamata _insania,
amentia, dementia, stultitia, furiosa opinio, furoris incipientia_;
l'orgoglioso repugnava dall'accomunarsi con artigiani e schiavi; i
dotti trovavano ridicoli que' misteri, la cui sublimità non s'attinge
che mediante la Grazia; la povertà e i supplizj de' discepoli davano
argomento della debolezza del fondatore in una società che tutto
riponeva nell'esito, tutto conchiudeva con questo mondo. Esagerando poi
e falsando, dicevano che i Nazareni adorassero il sole, un agnello, una
forca, una testa di giumento: e il vulgo, sempre numerosissimo, rideva,
e li giudicava stolti ancor più che malvagi[26].
Ma anche malvagi li credeva. Costretti com'erano a tenere le assemblee
in secreto, i Cristiani davano appiglio alle accuse, solite apporsi a
tutto ciò che è arcano; e nel più sinistro senso venivano intesi i riti
loro. Le sobrie agapi sono inverecondo stravizzo: nei silenzj delle
catacombe violentano il pudore e la natura: un fanciullo coperto di
farina è presentato al neofito, il quale lo trafigge senza sapere che
si faccia, se ne raccoglie il sangue in calici che passano da un labbro
all'altro, e se ne mangiano le carni. Ritraggonsi dalle magistrature
per non dovere far omaggio agli Dei? li sentenziano d'infingardi: sono
stregonerie i miracoli; malefizio la loro costanza nei supplizj: anzi
sono atei perchè non hanno sagrifizj, non tempj[27].
Eppure cotesti ribaldi qual morale insegnano? la più pura ed austera:
povertà ad un mondo idolatrante le ricchezze; umiltà al secolo della
superbia; castità in mezzo alle ostentate lascivie; abnegazione tra
il filosofico egoismo. Invece di quell'assenza d'ogni dogma, così
comoda all'accidia umana, che permetteva tutte le contraddizioni
all'intelligenza, tutti i vaneggiamenti all'anima, tutte le
superstizioni ai cuori, tutti gli eccessi alle passioni, intimavasi
un dogma preciso, assoluto, universale, che richiedeva l'intensità
dell'intelletto, la sommessione del raziocinio, l'obbedienza del cuore;
al panteismo filosofico o al popolare l'idea della spiritualità di Dio
e dell'individualità dell'uomo; agli Epicurei la fede nella Provvidenza
e nelle retribuzioni postume; agl'increduli e agli indifferenti la
necessità del culto; agli egoisti la solidarietà del genere umano; ai
gaudenti le austerità e l'umiliazione; allo schiavo di ritenere le
sue catene, sebbene al padrone intimi ch'egli è eguale al servo; al
povero di non esigere i soccorsi, sebbene al ricco imponga di dare
volontariamente. La gente, che da tanti mali erasi rifuggita nelle
voluttà, senza tampoco sospettare che queste offendessero divinità
tuffate nello stesso brago, vedevasi allora non solo interdetti gli
atti, ma riprovato il desiderio; riprovata la fornicazione anche
colle libere, anche colle schiave; riprovata la vendetta, che prima
era dovere e religione; riprovato il fasto, e detti beati coloro che
soffrono, beati gli umili di spirito; esclusi dalla gloria i molli, gli
adulteri, i pederasti. Questa guerra alle passioni, questo freno agli
istinti naturali, quanti non dovea stornare dal cristianesimo?
Mercanti e artieri assai vivevano del somministrar vittime,
dell'allestire giuochi e simulacri: sacerdoti, auguri, re sacrificuli,
incantatori, astrologi recavansi in odio chi guastava lor arte,
e facevano prova di sostenerla col ravvivare il fervore pel culto
antico, l'attenzione degli oracoli, la scaltrezza dei prodigi. Così
invalse una quantità di maghi e prestigiatori, tra cui famosi Simone
samaritano in patria e Apollonio di Tiane a Roma. Quegli offerse a
san Pietro del denaro se gli partecipasse la facoltà di conferire
lo Spirito Santo; donde fu nominata la simonia, cioè il vendere le
cose sacre; prima eresia che comparve, ultima che sparirà. Vogliono
capitasse egli a Roma regnante Claudio, e co' suoi prestigi talmente
s'illustrasse, da meritare una statua nell'isola del Tevere[28]; ma
avendo voluto librarsi a volo, si ruppe la persona. Anche Apollonio
venne a Roma imperando Nerone, il quale, sebben nemico ai filosofi,
gli permise di rimanere, e d'alloggiar ne' tempj, secondo soleva; poi
a Vespasiano diede consigli sul ben governare l'impero. Accusato da un
Greco a Domiziano, tornò a Roma a giustificarsi, ma il giorno medesimo
fu visto a Pozzuoli e ad Efeso; e trovandosi in quest'ultima città al
momento che Domiziano cadeva trafitto a Roma, sospese di parlare, e
stato alquanto assorto, agli uditori meravigliati, disse: — Il tiranno
è morto». Nerva succeduto imperatore, e che già eragli amico, l'invitò;
ma egli scusossene, e mandogli de' pareri; indi sparve, nè più fu
veduto vivo o morto.
Persone devote al nome di costui e a quel di Pitagora, a cui egli
s'appoggiava, professavano che un'infinità di genj occupassero il
vuoto fra l'uomo e Dio, partecipi in vario grado alla natura di esso; e
poter l'uomo contrarre patti con quelli per via di cerimonie, digiuni,
purificazioni. Il popolo li temeva e pagava, i grandi vi credevano; non
Caracalla soltanto, ma fin Marc'Aurelio ne aveva sempre agli orecchi;
e la malignità li confondeva coi Cristiani, e i miracoli de' santi coi
costoro prestigi.
La più grave imputazione però ai Cristiani, vorrei dire la più romana,
era d'odiare il genere umano, il che significava odiare l'impero[29].
Le istituzioni di Roma traevano lor forza dallo spirito di famiglia,
sopra il quale era sorta la gran città, e dalla conseguente venerazione
per gli antenati. Or ecco il cristianesimo, che, per guadagnare gli
spiriti volgendosi principalmente alla gioventù, la sottraeva ad
una generazione frivola, logora, ignara del vero bene, nimicava il
padre ai figli, il fratello al fratello; donde eseredati figliuoli,
repudiate mogli, puniti schiavi, scassinata l'autorità domestica.
Non che opporre agli antichi nuove glorie, nuove virtù, proferivansi
dannati eternamente gli uomini più cari e venerati, i conquistatori ed
i sapienti, i Cesari e i Ciceroni; chiamati demonj gli Dei, pel cui
auspicio era ingrandito il Campidoglio. Mentre Roma intitolava eroi
quelli che aveano sterminato maggiori popoli, grandezza il rapire a
molti l'indipendenza, principal fonte di potere e di gloria la guerra,
unico scopo di questa la conquista; ecco predicarsi la pace, la
fratellanza, la giustizia, condannarsi cioè tutta la politica antica e
nuova di Roma; dall'angustie d'una patria terrena sollevati gli animi
ad una invisibile, della quale erano cittadini gli uomini tutti, anche
il vinto, anche il barbaro, anche lo schiavo.
La religione de' Latini era essenzialmente nazionale, e incarnata colla
repubblica; Roma, città santa, inorgoglivasi di derivare dagli Dei;
a sette cose sacre annetteasi la conservazione dell'impero (t. I, p.
153-4); nei maggiori frangenti consultavansi i Libri Sibillini; senza
auspicj non si tenevano assemblee, senza feciali non s'indiceva la
guerra o saldava la pace, senza sacrifizj non s'inaugurava imperatore
o console; a comuni solennità si congregavano le federazioni; e
le teorie, portando l'annuo omaggio della lontana colonia alla
madrepatria, teneano stretto il nodo fra questa e quella. Intaccare
pertanto la religione era intaccare lo Stato, era un dichiararsi nemici
del genere umano.
Augusto, fondando l'impero, trovò la necessità di rinnobilire le
svilite idee religiose, e «ristorare i tempj e le crollanti immagini
degli Dei» (ORAZIO); e in testimonio dell'alleanza fra lo statuto
e la religione, unì il sommo pontificato alla potenza imperiale, e
collocò nel senato l'altare della Vittoria. Allora fu imposto silenzio
alle voci che nella Roma repubblicana sbraveggiavano gli Dei e la
vita futura; si moltiplicarono sacrifizj, iscrizioni votive, delubri.
Mecenate, consigliando Augusto sul modo di governare, gli aveva detto:
- Parts
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 01
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 02
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 03
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 04
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 05
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 06
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 07
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 08
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 09
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 10
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 11
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 12
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 13
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 14
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 15
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 16
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 17
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 18
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 19
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 20
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 21
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 22
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 23
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 24
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 25
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 26
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 27
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 28
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 29
- Storia degli Italiani, vol. 04 (di 15) - 30